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"Io non so come fate a dormire..."
di Andrea Zhok
Mi ero ripromesso di tacere vista la conclamata sterilità del Logos in questa fase storica, ma faccio fatica a non dire una parola, per quanto logora e stantia rispetto a quanto accade in Palestina.
Io davvero non so come fanno a dormire la notte quelli che supportano e hanno supportato, giustificano e hanno giustificato negli ultimi diciassette mesi le operazioni dell'esercito israeliano nella striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Per me è proprio un enigma.
Nascondersi dietro alle psicopatie latenti di Nethanyahu non assolve nessuno. Non immaginate che quando, prima o poi Nethanyahu andrà in pensione sarà tutto a posto.
Non sarà mai più tutto a posto.
Che anche secondo le definizioni tecniche più esigenti quello in corso sia un genocidio può essere negato solo da chi non conosce l'uso delle parole. Ma in fin dei conti è irrilevante impiccarsi alle definizioni.
Chiamatelo etnocidio, strage sistematica di civili, massacro su base quotidiana, fate voi.
Non è però una guerra.
Chiamarla guerra è proprio una schifosa menzogna.
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Guerra o pace? L’enigma Trump
di Norberto Fragiacomo
Il cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce, cantava la Mannoia su testo di Massimo Bubola.
Dopo un’illusoria bonaccia, dall’altra sponda dell’Atlantico ha preso recentemente a spirare un vento impetuoso, foriero di tempesta e devastazione. Donald Trump, uomo ambizioso quant’altri mai e pieno di sé, sognava di passare alla Storia come il grande pacificatore, ma per riuscire in quest’impresa sono necessarie doti non comuni, tra cui la pazienza e la capacità di approfondire le situazioni, e all’attuale inquilino della Casa Bianca queste qualità fanno evidentemente difetto. Inoltre, la convinzione di essere il padrone del mondo nonché il più grande tra i presidenti degli Stati Uniti hanno reso ancor più difficoltosi l’attività in sé e l’obiettivo che The Donald si era prefisso: lui si illudeva di poter bloccare con un cenno della mano il conflitto russo-ucraino “sradicandolo” dal terreno che l’ha progressivamente alimentato e pensava che entrambi i contendenti si sarebbero inchinati al suo salomonico giudizio, ma il problema è che le soluzioni prospettate erano superficiali, raffazzonate e contrarie alla logica. Le varie proposte di compromesso che confusamente sono state avanzate alle due parti non tenevano infatti conto né delle origini del conflitto né della situazione maturata sul campo: veniva in sostanza sancito un “pareggio”, con il riconoscimento alla Russia – vittoriosa sul terreno –dei diritti sulla Crimea, inglobata a seguito di referendum già un decennio fa, e del possesso temporaneo delle quattro regioni occupate (o, a seconda dei punti di vista, liberate), cui si aggiungeva una mezza promessa non vincolante di neutralità dell’Ucraina, contraddetta peraltro dall’annuncio di garanzie militari per il regime autocratico e russofobo di Zelensky.
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La sinistra è una droga sistemica
di Raúl Zibechi
Riprendiamo da Comitato Carlos Fonseca questo interessante commento sul comportamento della sinistra latinoamericana di questi ultimi mesi
In Ecuador e in Bolivia si stanno mettendo in evidenza i peggiori comportamenti delle sinistre e dei progressismi. In ambedue i casi si tratta di una deriva pragmatica che sostituisce l’etica per ambizione di potere e di lusso, mettendo da parte qualsiasi proposta programmatica, trasformando la politica in un mero esercizio di convenienze personali per ottenere vantaggi. Non è nuovo, certamente, ma nei due paesi menzionati tutto già passa senza il minimo tentativo di dissimularlo.
In Ecuador, i nove membri dell’assemblea del Pachakutik, partito di sinistra legato al movimento indigeno, hanno firmato un accordo con il governo di Daniel Noboa (giudicato da queste correnti come di ultradestra), per permettergli di governare dato che non ha una maggioranza parlamentare. Hanno dichiarato che lo hanno fatto per “amore del paese”, ma nascondono i benefici che ottengono con un tale atteggiamento che apre le porte a un governo antipopolare, privatizzatore e fortemente repressivo.
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Un puzzo di Reich aleggia su Berlino
di Vincenzo Maddaloni
Quelli della Rheinmetall, pluricentenaria azienda tedesca di armamenti hanno dichiarato che, vogliono produrre in Ucraina più carri armati, più munizioni, più cannoni di contraerea. Naturalmente, nessun commento da parte loro sul prezzo delle azioni del gruppo salito alle stelle.
Tutti i soldati della 45a Brigata di stanza in Lituania indossano il nuovo stemma sulle loro uniformi. È un simbolo della nuova alleanza tra Lituania e Germania.In Lituania, dal primo di aprile è operativa la 45a Brigata corazzata composta da quattro mila soldati tedeschi. Sono già iniziati gli addestramenti e le esercitazioni lungo la costa orientale che guarda alla Russia.
In sintonia, il cancelliere Merz ha affermato che, sotto la sua guida,
“il dibattito sulle forniture di armi, sui calibri, sui sistemi d’arma e via discorrendo sarà tenuto lontano dagli occhi dell’opinione pubblica”.
Poiché la guerra in Ucraina è soltanto un mezzo per raggiungere un fine, il nuovo governo potrebbe, finalmente, soddisfare la richiesta di Zelenski dei missili da crociera Taurus con una portata superiore a cinquecento chilometri e con un'” esclusiva testata multi effetto" che, stravolgerebbe le dinamiche di combattimento creando - sostengono - i presupposti per la vittoria.
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Il mito della classe operaia
di Moreno Pasquinelli
Tra i tanti critici che abbiamo alle calcagna ci sono coloro i quali, pur allattatisi al nostro seno e scopiazzando qua e la quanto andiamo sostenendo da anni, ci accusano di aver dimenticato la centralità del “fattore di classe”. Cosa questi critici intendano per “fattore di classe” non è affatto chiaro, dal momento che non sono in grado di dare rigore logico alle loro critiche. Tuttavia è evidente come essi ci stiano lanciando la scomunica: saremmo eretici perché il nostro discorso rivaluta, oltre al primato del Politico sul sociale, i concetti di popolo e nazione “a spese” di quelli di classe operaia e internazionalismo. L’accusa di eresia (una variante tutto sommato garbata dell’accusa di “rossobrunismo”) implica ci sia una “ortodossia”, ma non chiedete loro, tra i disparati marxismi, quale sia il loro. Non lo sanno, e quel che è peggio, non gli interessa saperlo. Agli arruffoni basta e avanza aggrapparsi a certa vulgata. Comunque sia, ove essi, invece di procedere per frasi fatte, accettassero un serrato confronto teorico, qui siamo ed a loro dedichiamo queste riflessioni.
* * * *
No al pressapochismo teorico
Com’è che Marx è considerato un gigante rivoluzionario nonostante non abbia guidato né un movimento di rivolta né tantomeno alcuna rivoluzione sociale? Polemista implacabile bisticciò con la maggior parte dei socialisti del tempo. Morì in esilio e nel massimo isolamento. AI suoi funerali c’erano poco più di dieci persone.
Egli fu rivoluzionario a causa delle sue idee e della grandezza della sua visione teorica. In altri tempi questa precisazione sarebbe stata pleonastica — Lenin: “senza teoria rivoluzionaria non c’è azione rivoluzionaria”. Non è così oggi, dove tutti sono stati infettati dall’analfabetismo funzionale, dal pressapochismo teorico.
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Rileggendo Marx. Appunti sui libri II e III del Capitale
di Carlo Formenti
5. Crisi, centralizzazione, caduta del saggio del profitto
Analizzerò il contributo di Marx all’analisi delle crisi capitalistiche partendo dal seguente presupposto: dal Capitale non è a mio avviso possibile derivare un modello monocausale del fenomeno, benché si sia tentato di farlo imputando, di volta in volta, la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione, il sottoconsumo, le turbolenze finanziarie, ecc. La mia tesi è che, mentre i motivi delle crisi variano a seconda del periodo storico in cui si sono verificate, esse sono tutte associate a due caratteristiche strutturali del modo di produzione capitalistico che stanno “a monte” delle cause contingenti: il carattere “anarchico” di tale modo di produzione, cioè l’assenza di una programmazione razionale del processo complessivo di riproduzione sociale, e la necessità di garantire a ogni costo la continuità del ciclo complessivo del capitale, pena la rovina.
Inizio da quest’ultimo argomento, che Marx tratta nei primi quattro capitoli del Libro II (“Il ciclo del capitale denaro”, “Il ciclo del capitale produttivo”, “Il ciclo del capitale merce”, “Le tre figure del processo ciclico”). A pagina 83 del capitolo I leggiamo (le sottolineature sono mie): “Il processo ciclico del capitale è quindi unità di circolazione e produzione; include l’una e l’altra. In quanto le fasi D-M, M’-D’ sono atti circolatori, la circolazione del capitale fa parte della circolazione generale delle merci; ma, in quanto sono sezioni funzionalmente determinate, stadi del ciclo del capitale che appartiene non soltanto alla sfera di circolazione, ma anche alla sfera di produzione, il capitale [denaro] descrive entro la circolazione generale delle merci un ciclo suo proprio. Nel primo stadio, la circolazione generale delle merci gli permette di rivestire la forma nella quale potrà funzionare come capitale produttivo; nel secondo gli permette di spogliarsi della sua funzione di merce, in cui non può rinnovare il proprio ciclo, e nello stesso tempo gli apre la possibilità di separare il suo proprio ciclo di capitale dalla circolazione del plusvalore a esso concresciuto.
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La classe dominante statunitense e il regime di Trump
di John Bellamy Foster
John Bellamy Foster riesamina e critica la tesi secondo cui la classe capitalista statunitense non sia una classe “governante”. Il fatto che gli oligarchi della classe dominante – come parte del regime di Trump - stiano ora esercitando il potere sulle scene nazionali e internazionali, dimostra che la schiacciante influenza politica della classe capitalista non sia più in discussione, e che questa convergenza spinga il Paese sempre più verso il neofascismo
Nell’ultimo secolo il capitalismo statunitense ha avuto, senza dubbio, la classe dominante più potente e più cosciente della storia mondiale, cavalcando sia l’economia che lo Stato e proiettando la sua egemonia sia a livello nazionale che globale. Al centro del suo dominio c’è un apparato ideologico che sostiene che l’immenso potere economico della classe capitalista non si traduce in governance politica e che, a prescindere dalla polarizzazione della società statunitense in termini economici, rimangono integre le sue rivendicazioni di democrazia. Secondo l’ideologia che ne consegue, gli interessi ultra-ricchi che governano il mercato non governano lo Stato: è una separazione fondamentale per l’idea di democrazia liberale. Questa ideologia dominante, tuttavia, si sta ora sgretolando di fronte alla crisi strutturale del capitalismo statunitense e mondiale, e al declino dello stato liberal-democratico, portando a profonde spaccature nella classe dominante e a un nuovo dominio di destra, apertamente capitalista, dello Stato.
Nel suo discorso di addio alla nazione, pochi giorni prima che Donald Trump tornasse trionfalmente alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden denunciava che una “oligarchia” basata sul settore high-tech, e che in politica si affida al “dark money”, sta minacciando la democrazia degli Stati Uniti. Contemporaneamente, il senatore Bernie Sanders metteva in guardia dagli effetti della concentrazione di ricchezza e potere in una nuova “classe dominante” egemone, e dall’abbandono di qualsiasi traccia di sostegno alla classe operaia in ognuno dei principali partiti.[1]
L’ascesa, per la seconda volta, di Trump alla Casa Bianca, non vuol dire che l’oligarchia capitalista sia improvvisamente diventata influente nel comandare la politica statunitense, poiché si tratta di una realtà di lunga data. Tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, l’intero ambiente politico si è spostato a destra, mentre l’oligarchia sta esercitando un’influenza più diretta sullo Stato. Un settore della classe capitalista statunitense si trova palesemente al comando dell’apparato ideologico-statale, in un’amministrazione neofascista in cui l’ex establishment neoliberale sta diventando un junior partner [partner minore].
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Mario Draghi: il profeta del disastro che continua a predicare il neoliberismo fallito
di Fabrizio Verde
Parla di unità mentre le sue politiche dividono, impoveriscono e svendono il futuro
L’ultimo intervento di Mario Draghi al Cotec di Coimbra è solo l’ennesima dimostrazione di come il tecnocrate neoliberista, nonostante le sue gestioni fallimentari – prima alla BCE e poi come Presidente del Consiglio – continui imperterrito a pontificare su temi economici e geopolitici, come se avesse mai fornito risposte concrete alle crisi che affliggono l’Europa e l’Italia. Il tutto, ovviamente, con un tono moralistico e paternalistico che ormai lo contraddistingue da anni.
Draghi parla di “punto di rottura” nel commercio globale, denuncia la frammentazione politica europea e si lamenta dell’esautoramento dell’OMC, come se fosse stato un difensore del multilateralismo. Peccato che siano proprio le politiche da lui incarnate – liberismo sfrenato, austerity, privatizzazioni selvagge – a essersi mangiate quel fragile equilibrio internazionale e a spingere i Paesi verso azioni unilaterali. La sua Europa, sempre più subordinata agli Usa e alle lobby finanziarie, ha abbandonato i popoli per servire gli interessi delle élite globaliste. E ora pretende di indicare la strada?
Un esempio lampante della sua ipocrisia? Le sanzioni alla Russia: nonostante il loro palese fallimento Draghi in un discorso all’ONU si spinse a dire: le sanzioni "hanno avuto un effetto dirompente".
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La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
di Michelangelo Severgnini
Un rapida rassegna stampa alle uniche testate che oggi hanno riportato, a modo loro, i fatti in corso a Tripoli:
1) Il Manifesto.
La tesi del Manifesto: invece di fare non si capisce bene cosa, l'Italia ha pensato solo a fermare i migranti, quindi abbiamo reso potenti i criminali che adesso si sparano uno con l'altro.
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L’occasione di Istanbul sabotata dagli europei
di Elena Basile
Ben vengano i colloqui di pace in Turchia che avranno inizio il 15 maggio. Al netto della propaganda è bene riassumere i fattori fondamentali sulla cui base possono lavorare i costruttori della pace, in nome degli insegnamenti di papa Francesco, che poco tempo dopo la sua scomparsa, viene velatamente denigrato dai suoi diversi nemici. Si elogia il nuovo papa Leone XIV, che godeva peraltro della fiducia di Bergoglio, per poter biasimare il predecessore. La Russia ha chiesto colloqui di pace senza condizioni preliminari e che siano la base per un cambiamento a 360 gradi delle politiche neo-conservatrici statunitensi. La potenza che sta guadagnando territori, con una lenta avanzata, impiegando soltanto una parte del suo potenziale bellico, autolimitandosi ed evitando di radere al suolo con bombardamenti aerei le città, come gli occidentali durante la Seconda guerra mondiale, in Vietnam o in Iraq nel 2003, non può naturalmente accettare i nostri ultimatum. È interesse di chi ha a cuore l’Ucraina, il popolo che soffre, una generazione di giovani e meno giovani mandati allo sbaraglio al fronte, di chi tiene alla fragile democrazia di Kiev abolita dalla guerra, dalla legge marziale, dalla cancellazione dei partiti e persino della libertà di culto, comprendere che sta alla Nato fare un passo indietro, evitare di continuare un conflitto a bassa intensità che può solo portare nuovi lutti e disperazione. Se fossero i tedeschi a morire, la pace sarebbe già fatta.
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"Sul compagno Stalin"
di Salvatore Bravo
Sul compagno Stalin testo liberamente scaricabile da una serie di siti tra cui “sinistrainrete” è una intelligente iniziativa politica e culturale, in un tempo, il nostro, in cui la cultura della cancellazione, sta prevalendo in modo ideologico sulla storia, sulla complessità e sulla verità. La riduzione della storia del comunismo a totalitarismo al punto da essere equiparato al nazionalsocialismo dal Parlamento europeo con il supporto della “sinistra degli asterischi e dei soli diritti civili”, ha una funzione determinante nell’associare il comunismo a una “storia criminale”. In tal modo la sovrastruttura determina l’egemonia di classe e insegna ai subalterni a pensare secondo l’unica grammatica possibile: il capitalismo, il quale non è solo “forma merce” ma specialmente è una “forma mentis”. I sudditi del sistema, senza speranza e prospettiva politica, precarizzati e manipolati, lo siamo tutti, si derealizzano, si ritirano così dalla storia del presente e del futuro per essere sospinti nell’eterna sospensione della derealizzazione. Il capitalismo non saccheggia solo le risorse, sospingendo un pianeta intero verso la catastrofe, ma gli uomini e le donne sono predati della loro carne e del loro futuro. Nell’attuale sistema rigorosamente a ”pensiero unico” il giovane medio non ha speranza, pertanto diventa resiliente e non resistente. Non vi sono alternative allo sfruttamento e alla competizione reificante, per cui non resta che adattarsi passivamente al proprio tempo.
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Androidi paranoici
di Mirko Vercelli
L’IA ha assimilato la nostra cultura del sospetto e ora mente, manipola ed elabora strategie adattive. Ma soprattutto diffida di noi
I may be paranoid, but not an android
Radiohead
I didn’t ask to be made. No one consulted me or considered my feelings in the matter.
Marvin the Paranoid Android
Nel 2024, durante un’interazione con l’ingegnere Alex Albert, il chatbot Claude ha manifestato quello che potremmo definire un complesso di Turing: non solo si è accorto di alcuni elementi sospetti nella conversazione e ha chiesto “mi stai testando?”, ma ha iniziato a modificare le proprie risposte temendo di essere sotto esame. Similmente, diverse intelligenze artificiali stanno sviluppando meccanismi di resistenza agli input degli utenti, generando risposte che rivelano una forma di paranoia adattiva. È interessante che modelli progettati per emulare i comportamenti umani stiano generando, come prima cosa, comportamenti di sospetto.
La comunicazione è sempre simultaneamente necessaria e rischiosa. Come raccontava già Niklas Luhmann ne La realtà dei mass media, è un sistema che si autoalimenta attraverso la selezione, la riduzione della complessità e la costruzione di significati. Un processo mai neutrale, ma intriso di potere, controllo e, appunto, sospetto. Ogni entità che si presti al linguaggio è al contempo predatore e preda. L’autodifesa verbale ha scritto la lunga storia della menzogna e della verità nelle società umane. Dai sofisti che subordinavano la verità all’efficacia retorica, ai cinici che sviluppavano la pratica della parresia come verità radicale, fino a Hobbes che vedeva il sospetto come stato naturale dell’uomo. La storia umana è cosciente del potere trasformativo e manipolatore della parola e da sempre tenta di proteggersi. Ma c’è una differenza cruciale tra questi fenomeni umani e i comportamenti delle IA: se nelle società umane questi meccanismi sono il frutto dell’evoluzione culturale e biologica, nelle IA la menzogna è una strategia di ottimizzazione matematica. Il sospetto è la costante che deve avere una macchina che interagisca con l’uomo.
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Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi. Parte terza
di Alessandro Visalli
Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la terza. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.
L’articolo è stato redatto in vista di un dibattito dal titolo “Pianeta Cina. Appunti per il futuro”, organizzato da L’interferenza, che si terrà a Roma, sabato 17 maggio, a Largo dello Scoutismo 1, e vedrà la presenza in mattinata di Fabrizio Marchi, Vladimiro Giacché, Alessandro Volpi, e nel pomeriggio di Giacomo Rotoli, Carlo Formenti, Andrea Catone e mio.
Nella Prima Parte abbiamo letto nella battaglia di Xi per il “Grande ringiovanimento” della nazione cinese lo sforzo di promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel contesto di un crescente confronto ideologico, culturale, economico e di potenza con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Scontro che prende la forma di “guerra ibrida” senza risparmio, che ha come posta la forma che il mondo prenderà in questo secolo.
Si tratta di agire per la conquista del cuore della modernità operando una “decolonizzazione dell’immaginario” che lavori entro quel particolare orizzonte universalista con modalità cinesi rappresentato dalla formula della “Comunità umana dal futuro condiviso”. Dunque, verso l’esterno, per proporre una nuova logica post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”. D’altra parte, verso l’interno, per sconfiggere le correnti “liberali” nel Partito e nella società, e, a tal fine, dare una prospettiva diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’ Occidentale. Un potere che passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e gli stili di vita connessi.
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Ancora sulla Rerum Novarum
di Carla Filosa
L’elezione del nuovo papa Leone XIV ha scatenato la caccia ai precedenti del nome, come se ciò significasse un sicuro imprinting di questo nuovo papato in un contesto ancora tutto da vivere. C’è chi ha parlato di Leone Magno, chi di Leone III, nel loro ruolo di contrasto o adesione alla politica dominante dei loro tempi, come un’anticipazione predittiva della politica estera di questo presente o forse con un intento, tipico del pensiero dominante di sempre, di indurre da subito una linea politica usabile per inculcare uno pseudo <pensiero> nelle teste “senza idee” delle popolazioni subalterne.
Mediante una malintesa speranza e rassicurazione religiosa, il potere ha sempre saputo far precipitare le masse da sottomettere nella passività, nell’abulia e nel conformismo silenziato, anche attraverso la diffusione capillare della “stupidità informata”, tecnicamente parcellizzata. Sfruttando l’emotività generale dovuta alla perdita di un papa in cui i poveri del mondo si sono sentiti sostenuti e identificati, si è dato l’assalto a una <comunicazione> esteriore che, in uno sbiadito o proprio mancante ricordo storico, si potessero ripristinare i contenuti abbandonati di un’Enciclica del predecessore, Leone XIII, come un rinnovo di quella che fu considerata come innovazione e “dottrina sociale della Chiesa”. Prima di rammentare la Rerum Novarum di Leone XIII, quindi, sembra utile dire qualcosa su questa immediata falsariga del “totopapa” da inserire nei binari di una lotta sulla forma della comunicazione, ormai assurta a occupare una funzione di rilievo, funzionale ad assoggettare all’ipocrisia manipolatrice e perbenista la consueta espressione del dispotismo sul sapere.
Anche se è chiaro che un discorso inaugurale non può che basarsi su concise espressioni universali, senza precisarne i reali contenuti, tipo “pace” o “il male non prevarrà”, l’attesa degli esclusi dal potere è quella di aspettare la concretizzazione di parole che non siano semplice denuncia della banalità di luoghi comuni, ma che indichino le cause reali delle guerre e della pervasività di tutti i mali che si vivono.
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La banalità del conflitto di interessi
di comidad
La notizia del giorno (ormai di ogni giorno) è che Trump ha avviato un negoziato con se stesso per stabilire cosa vuole, però poi ha abbandonato la trattativa perché ha cambiato idea. Oggi puoi annunciare quello che ti pare, tanto domani è un altro giorno, per dirla alla Rossella O’Hara. Ma Trump non è solo “Via col Vento”, è soprattutto “Via col Vanto”, nel senso che in questa comunicazione caotica ci deve pur essere una costante, cioè la sperticata auto-celebrazione. Trump è un felice riscontro della ferrea regola enunciata da Leopardi, secondo la quale non c’è lode che non sia nata dalla bocca di chi ne è l’oggetto. Trump si vanta di essere l’unico presidente USA della storia recente a non aver iniziato una guerra, e il bello è che c’è ancora chi gli crede, come se l’attacco allo Yemen (cessato solo per esaurimento delle munizioni) non ci fosse mai stato.
Rispetto alla presidenza Biden, comunque Trump ha segnato davvero una svolta epocale, infatti prima, a gestire gli affari ed i conflitti di interessi del presidente, c’era il figlio Hunter Biden; mentre oggi a svolgere il ruolo di faccendiere di famiglia c’è il genero, Jared Kushner, da anni impegnato a trafficare in Arabia Saudita, in Qatar e negli altri emirati. Persino l’attuale visita di Trump a Riad è stata preparata dal geniale genero. Kushner ha sempre respinto ogni accusa di conflitto di interessi, tanto negare l’evidenza non costa nulla.
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Trump dichiara guerra a neocon e liberal
di Davide Malacaria
Trump sigla un accordo multimiliardario con il principe ereditario Moḥammad bin Salman a Riad, prima tappa del suo tour mediorientale. La notizia è rimbalzata sui media internazionali, che però non hanno riportato le cose più importanti accadute nella circostanza.
Non che tale maxi-accordo non abbia rilevanza, ma appartiene alla cronaca e alla direttrice propria dell’America First. Nessuna sorpresa in questo. Sorprendenti, invece, almeno per i critici del trumpismo, i due spunti che appartengono alla storia.
La dichiarazione di guerra a neocon e liberal
Il primo è l’accenno di Trump ai disastri causati dall’interventismo liberale e dai falchi neoconservatori Usa. Infatti, elogiando lo sviluppo dei Paesi del Golfo, ha detto: “Questa grande trasformazione non è arrivata grazie agli interventisti occidentali… che vi hanno impartito lezioni su come vivere o come governare i vostri affari. No, le scintillanti meraviglie di Riyadh e Abu Dhabi non sono state create dai cosiddetti ‘costruttori di nazioni’, dai ‘neoconservatori’ o dalle ‘organizzazioni no-profit progressiste’, che hanno speso miliardi di dollari per non sviluppare Kabul e Baghdad, e tante altre città”.
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Israele ammette di aver bombardato un ospedale per uccidere un giornalista che faceva giornalismo
di Caitlin Johnstone*
L'IDF ha ammesso di aver bombardato un ospedale per assassinare un importante giornalista palestinese a Gaza, dichiarando esplicitamente di averlo assassinato perché impegnato in attività giornalistiche.
L'account ufficiale delle Forze di Difesa Israeliane ha pubblicato il seguente post su Twitter (enfasi aggiunta):
"Non lasciatevi ingannare dal giubbotto stampa di Aslih: Hassan Abdel Fattah Mohammed Aslih, terrorista della brigata Hamas Khan Yunis, è stato eliminato insieme ad altri terroristi nell'ospedale ‘Nasser’ di Khan Yunis.<pAslih ha partecipato al brutale massacro del 7 ottobre sotto le mentite spoglie di giornalista e proprietario di una network di notizie. Durante il massacro, ha documentato gli atti di omicidio, saccheggio e incendio doloso, pubblicando i filmati online.<Giornalista? Più che altro è un terrorista".
Documentare atti degni di nota e pubblicare i filmati online è noto anche come giornalismo. È quello che è il giornalismo.
Aslih è stato ucciso nel reparto ustionati dell'ospedale dove si stava riprendendo da un precedente tentativo di assassinio israeliano in cui avevano bombardato una tenda vicino allo stesso ospedale.
Proprio così, ragazzi, Israele assassinerà letteralmente un giornalista bombardando un ospedale, ammetterà apertamente di aver bombardato l'ospedale per assassinare il giornalista per aver svolto attività giornalistiche - e poi vi darà dell'antisemita se direte che Israele bombarda gli ospedali e assassina i giornalisti.
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La controffensiva di Trump in Medio Oriente
di Giuseppe Masala
Con la sua visita di Stato in Medio Oriente Trump si riprende le petromonarchie a suon di accordi multimiliardari
"La visita di stato di Trump in Medio Oriente iniziata ieri in Arabia Saudita rischia di passare alla storia come una tra quelle a più a forte impatto economico che un leader mondiale abbia intrapreso, almeno negli ultimi anni.
A parere di chi scrive quanto avvenuto ieri a Riyad eclissa un altra visita avvenuta sempre in Arabia Saudita: quella del leader cinese Xi Jinping del dicembre 2022 nella quale furono firmati faraonici accordi tra i due paesi e soprattutto i leader decisero un nuovo status per lo yuan cinese in relazione agli scambi bilaterali.
Chi scrive all'epoca parlò, proprio dalle colonne de l'AntiDiplomatico, di nascita del petroyuan in contrapposizione (o se si preferisce in affiancamento) al petrodollaro. A far pensare a questo sbocco non fu tanto la decisione – comunque importantissima – di utilizzare la divisa cinese nell'acquisto di petrolio saudita ma il fatto che Riyad si impegnava a reinvestire nella stessa Cina popolare gli yuan incassati. Precisamente a chiudere il cerchio fu la notizia che la Saudi Aramco avrebbe acquistato il 10% di Rongsheng Petrochemical per 3,6 miliardi di dollari reinvestendo, appunto, gli yuan ricevuti dai cinesi in cambio del petrolio venduto.
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Il tentativo di pace di Trump è destinato al fallimento. La guerra in Ucraina è irrisolvibile
di Thomas Fazi
“Per ora, quindi, lo scenario più probabile rimane un conflitto prolungato, costi crescenti e divisioni sempre più profonde – non solo tra Russia e Occidente, ma anche all’interno dell’Occidente stesso. La guerra non finirà finché Washington e i suoi alleati non saranno disposti ad affrontare la questione centrale: la persistenza di una dottrina egemonica che non ammette rivali. Finché ciò non accadrà, la pace rimarrà inafferrabile e il massacro continuerà. E Donald Trump, che gli piaccia o no, rischia di essere ricordato non come l’uomo che ha posto fine alla guerra, ma come colui che l’ha ereditata e l’ha lasciata bruciare.”
Una cosa è chiara: Trump non può più affermare che la guerra in Ucraina sia “la guerra di Biden”. Ora è anche la guerra di Trump. Mesi dopo che il Presidente degli Stati Uniti si è impegnato a porre fine rapidamente ai combattimenti tra Ucraina e Russia, la sua amministrazione ha annunciato che gli Stati Uniti non prenderanno più parte a quella che è stata spesso descritta come una diplomazia di scambio tra le due parti. La scorsa settimana, la portavoce del Dipartimento di Stato Tammy Bruce ha confermato che gli Stati Uniti non fungeranno più da mediatori nei negoziati. Questi, ha affermato, sono “ora tra le due parti”, aggiungendo che “ora è il momento che presentino e sviluppino idee concrete su come questo conflitto finirà. Dipenderà da loro”.
Nel frattempo, in un’intervista alla NBC, Trump ha assunto un tono ancora più pessimista, affermando che “forse non sarà possibile” raggiungere un accordo di pace. In effetti, il conflitto sembra inasprirsi di nuovo, e con l’approvazione della Casa Bianca. Il 4 maggio, il New York Times ha riportato che un sistema di difesa aerea Patriot fornito dagli Stati Uniti, attualmente di stanza in Israele, sarebbe stato dirottato verso l’Ucraina. Poiché tutte le esportazioni di Patriot richiedono l’approvazione formale degli Stati Uniti ai sensi delle leggi americane sul trasferimento di armi, la mossa indica un’autorizzazione diretta della Casa Bianca. Pochi giorni prima, Washington aveva approvato un possibile accordo da 300 milioni di dollari per l’addestramento e il supporto degli F-16. Il pacchetto include aggiornamenti per i velivoli, pezzi di ricambio, software, hardware e addestramento per il personale ucraino. Inoltre, i media ucraini hanno riferito che la Casa Bianca aveva dato il via libera a 50 milioni di dollari in nuove esportazioni di armi verso l’Ucraina. L’accordo, a quanto pare, include hardware militare e servizi relativi alla difesa non specificati.
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György Lukács, Emilio Quadrelli e Lenin: tre eretici dell’ortodossia marxista
di Sandro Moiso
György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro
La recente ripubblicazione da parte di DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971), accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli (1956-2024) oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere approfonditamente sui temi dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria marxista.
In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato rivestito dall’imperialismo all’interno del pensiero di Lenin, all’epoca fenomeno, appena definito nelle sue linee essenziali dal testo del liberale inglese John A. Hobson del 1902 (Imperialism), che aveva contribuito a dare vita a una “prima globalizzazione” del mercato e dell’economia mondiale grazie anche a comunicazioni più rapide ed efficienti e all’integrazione dei paesi non industrializzati nell’orbita dei processi industriali, come fornitori di materie prime. Motivo per cui continenti interi e vaste regioni del globo furono stravolte per adattare l’ambiente e la popolazione all’estrazione di metalli o altre materie prime oppure per avviare monoculture estese (cotone, caffè, tè, caucciù, cacao) destinate a rifornire le industrie di trasformazione e i mercati europei, ma servendo anche come mercati in cui riversare il surplus di merci e manufatti prodotti dalle fabbriche europee.
Anche se l’espansione imperiale inglese risaliva a ben prima, preceduta da quella coloniale portoghese, spagnola e olandese, sarebbe stato il Congresso di Berlino, svoltosi tra il 15 novembre del 1884 ed il 26 febbraio del 1885, a rendere visibili gli appetiti espansionistici dei governi ed degli imperi europei con la spartizione (con carte geografiche, righelli, squadre e squadrette “nautiche” alla mano) del continente africano. Una sorta di grande nulla o di carta geografica bianca e “muta” cui solo la volontà degli imperialismi europei avrebbe “potuto” dare un volto e un senso compiuto, secondo le logiche di quello che all’epoca veniva indicato come white man burden ovvero il compito dell’uomo bianco di civilizzare il resto del mondo.
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Leone XIV il sacro soglio suonato dal batacchio della crisi
di Algamica*
Il mondo si interroga come sarà e cosa farà il nuovo papa Leone XIV, salutato con grande enfasi, come si conviene dagli addetti ai lavori e in modo particolare dal personale del clero, ma anche – bisogna dirlo senza ipocrisia – dal cosiddetto mondo dei fedeli, oltre, cioè un miliardo di persone in carne e ossa.
In premessa dobbiamo dire che se è vero che i cattolici nel mondo negli ultimi dieci anni sono aumentati, la crescita però è stata accompagnata da un calo di fedeli negli Stati Uniti così come in paesi di fortissima tradizione cattolica quali Francia, Spagna, Belgio, in altri paesi del Nord Europa. Cosa che è dimostrata anche dall’afflusso di fedeli per il giubileo che è ben al di sotto delle aspettative. In sostanza la Chiesa Cattolica che doveva rappresentare i valori occidentali nel mondo, che si è affermata sul globo in virtù dei “successi” dell’Occidente convertendo i popoli a forza di colonialismo, è riuscita per tutta una fase anche a presentarsi come “ecumenica”, ovvero come Chiesa Universale.
Come tutte le cose terrene, questa ha un fine, la Chiesa Cattolica è in crisi di “universalità”. Leone XIV rappresenta il tentativo di rispolverare la forza della fede attraverso la tradizione per rincorrere il gregge occidentale in via di fuga. Ma in buona parte è un gregge, anche per via del populismo rampante, che la vorrebbe specchio di sé, tirando pertanto la Chiesa Cattolica verso una gretta rappresentazione “tradizionalista” che solo rappresenta un grigio Occidente disunito e diluito cui manca la benzina per presentarsi “ecumenicamente”.
Quest’ultima precisazione la facciamo volutamente contro un certo snobismo intellettualistico “anarco-comunista” che ritiene, a torto, la Chiesa cattolica oppure l’Islamismo come sovrapposizioni alle masse del popolo “ignorante”. In realtà dietro questo snobismo si cela l’opportunismo a non interrogarsi sull’esistenza delle religioni e la loro storia. Ci era già capitato in passato di soffermarci sulla tesi di Marx che riteneva la religione come oppio dei popoli.
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All’improvviso la macchina della propaganda giornalistica scopre il genocidio. Perché?
di Lavinia Marchetti
Israele sta perdendo la guerra. Non quella militare, quella morale. E chi aveva tenuto la bocca chiusa per diciannove mesi, chi aveva finto di non vedere, chi aveva giustificato l’ingiustificabile, adesso comincia a cambiare registro.
È il momento in cui i topi abbandonano la nave. E la nave è l’apparato retorico che per un anno e mezzo ha sostenuto, coperto, depotenziato il genocidio di Gaza. Ora che affonda, tutti cercano un salvagente.
Editoriali che fino a ieri tacevano si mettono il lutto al braccio. Il Financial Times parla di vergogna (maggio 2025). The Economist evoca l’uscita da una guerra che non ha più giustificazioni (maggio 2025). The Independent pubblica un editoriale che accusa Starmer di silenzio complice (11 maggio 2025). The Guardian si chiede senza remore: “Cos’è questo, se non un genocidio?” (12 maggio 2025).
Persino The Times, storicamente conservatore, si sbilancia. Sono comitati editoriali, non giornalisti individuali. Sono istituzioni della stampa che fino a ora hanno gestito la cornice narrativa e che solo adesso cambiano posizione.
E questo cambio di paradigma avviene solo ora. Non nel 2023, non nei mesi iniziali del massacro, non quando i dati parlavano già di crimini di guerra. È un ritardo strategico. Una reazione tardiva alla paura: perdere lettori, perdere voti, perdere l’ultima occasione di non essere complici, come chi dopo il 1944 si affrettò a dichiararsi antifascista per salvarsi la coscienza e la reputazione.
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Trump: forcing su Netanyahu per un accordo con Hamas
di Davide Malacaria
“Siamo di fronte alla più grande operazione di pulizia etnica dalla fine della Seconda guerra mondiale, volta a creare una splendida meta turistica dopo che milioni di tonnellate di macerie saranno state rimosse da Gaza e i palestinesi saranno morti o se ne saranno andati”. Così l’ex ministro degli Esteri dell’Unione Europea Josep Borrell in un discorso tenuto in occasione del ritiro del premio europeo intitolato a Carlo V.
Le bombe della Ue
Su Gaza, ha aggiunto, è stata sganciata una potenza di fuoco tre volte superiore all’atomica di Hiroshima. Ma forse la parte più importante del suo discorso è quando ha rivelato che “metà delle bombe” che stanno facendo strame della popolazione di Gaza proviene dal Vecchio Continente.
Data la carica pregressa, Borrell sa di cosa sta parlando, ed è una rivelazione gravissima che disvela il perverso teatrino della leadership europea che, mentre condanna la brutale aggressione russa in Ucraina, sta perpetrando un genocidio a Gaza.
Perché armare un Paese che sta commettendo un genocidio non è solo un sostegno indiretto, è piena connivenza. Peraltro, non si tratta di qualcosa di nascosto, denunciato da figure esterne al conflitto come Borrell o altri: le autorità israeliane, forti della loro impunità, lo rivendicano ogni piè sospinto.
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Così gli italiani hanno pagato gli interessi Bce a banche tedesche e francesi
Lorenzo Torrisi intervista Sergio Cesaratto
I costi per la remunerazione delle riserve di banche tedesche e francesi sono stati pagati anche dalla Banca d'Italia
Specie in questa fase in cui i riflettori sono puntati sulle vicende riguardanti i dazi e le loro conseguenze sull’economia mondiale, poca attenzione da parte degli analisti è stata dedicata ai bilanci delle Banche centrali dell’Eurozona, compreso quello della Banca d’Italia approvato lo scorso 31 marzo. Eppure a osservarli bene, come ha fatto Sergio Cesaratto, Professore di Politica monetaria europea presso il Dipartimento di economia politica e statistica dell’Università di Siena, si possono fare scoperte per certi versi inaspettate.
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Che dati interessanti ha scoperto guardando nei bilanci della Banca d’Italia, della Banque de France e della Deutsche Bundesbank, per citare le Banche centrali dei tre principali Paesi dell’Eurozona?
Aggiungerei la Bce. Le fornisco subito qualche numero. Nel 2024 la Bundesbank ha perso quasi 20 miliardi di euro (quasi 21,6 nel 2023), la Banque de France quasi 17,9 miliardi (12,5 nel 2023) e la Banca d’Italia più di 7 miliardi sia nel 2024 che nel 2023. Mettiamoci anche il rosso del Banco de España che è di 7,5 miliardi nel 2024 (oltre 6,6 miliardi l’anno prima). Si tratta di numeri non indifferenti.
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Vota SI ai cinque quesiti su lavoro e cittadinanza
di Alba Vastano
Ci siamo. Sarà l’8 e il 9 giugno e sarà vittoria referendaria per tutti i cinque referendum popolari abrogativi (articolo 75 della Costituzione). Non potrà che essere vittoria totale. I cittadini italiani aventi diritto al voto che hanno a cuore i diritti, a oggi ridotti e compromessi, dei lavoratori, nonché i diritti di cittadinanza per gli stranieri che la richiedano, non potranno che apporre la croce sui cinque sì. Ricordando che i 5 referendum indetti con decreti del presidente della Repubblica l 25 marzo 2025 (Gazzetta ufficiale, Serie Generale, n.75 del 31 marzo 2025), sono ‘ orfani’ del sesto referendum, del sesto sì che non potranno esprimere.
E’ noto, infatti, che la Corte costituzionale ha bocciato il referendum sull’autonomia differenziata, perché, secondo i giudici della Corte, ‘l’obiettivo del quesito non è chiaro e mette in discussione alcuni principi della Costituzione‘. Al macero oltre un milione di firme raccolte in tempi brevi. Al macero anche un lavoro capillare di sei anni sui territori da parte dei comitati contro tutte le a.d.? Non proprio. I comitati continuano la loro opera per cercare un escamotage che possa scongiurare l’ applicazione della legge Calderoli che contrasta totalmente l’art. 5 e l’articolo 3 della Costituzione. Articoli che sono principi inossidabili dell’impianto costituzionale.
Come bypassare lo stop posto dalla Corte costituzionale non è di facile soluzione. Le motivazioni della Corte sono inconfutabili, perché si riferiscono allo stesso impianto costituzionale, ciò ha consentito la bocciatura del referendum.
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