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Ebrei o sionisti? Decidete!
di Algamica
La manifestazione del 5 ottobre a Roma è stata grande nonostante la campagna terroristica fatta dalla stampa, in modo martellante quella dei fogliacci di destra.
In quella manifestazione esponevamo un cartello: «Ebrei o sionisti? Decidete »! Un cartello che ha incuriosito perfino la nota giornalista Giovanna Botteri che ha voluto intervistarci, alla quale abbiamo esposto il suo significato e alla domanda: «ma allora non credete nella possibilità di due popoli due Stati»? abbiamo risposto che: «è l’insieme dell’Occidente che non ha mai voluto uno Stato per i palestinesi ed ha sempre sostenuto lo Stato di Israele e la sua azione criminale per 80 anni nei confronti dei palestinesi fino al genocidio che sta praticando in questo periodo».
Ora nonostante, ripetiamo, la campagna terroristica e il divieto della questura e del governo, ispirati dalla Sinagoga di Roma, fin da subito che era stata indetta la manifestazione, la manifestazione c’è stata, nonostante che per entrare in piazza fosse necessario essere identificati. Dunque il significato è impressionante: una volontà di esprimere a tutti i costi una condanna radicale dell’Occidente e dello Stato sionista di Israele e il sostegno alla resistenza palestinese.
Si diceva: «ma manifestare il 5 ottobre, a ridosso del 7 ottobre, ha un significato politico: vuol dire festeggiare l’azione “terroristica” compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023». Ovviamente chi ragiona in questo modo intende rimuovere in toto 80 anni di torture operate dallo Stato sionista di Israele nei confronti del popolo palestinese. A noi non interessa fare comparazione, perché se dovessimo mettere su due piatti di una bilancia ottant’anni di soprusi e il 7 ottobre 2023 non c’è alcun dubbio di dove penderebbe la bilancia.
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I Lincei e l’INVALSI: 10 domande scomode
di Redazione ROARS
Un interessante convegno linceo, dal titolo “Problemi sulla valutazione” a scuola, si svolgerà alla presenza dell’INVALSI. Ecco le nostre 10 domande: non abbiamo resistito, sperando che qualche Linceo voglia farle al posto nostro.
L’Accademia Nazionale dei Lincei è un’istituzione di rilevanza storica e culturale, considerata “la più illustre nella storia fra le moderne accademie d’Italia e d’Europa”. Sul sito dell’Accademia se ne può ripercorrere la storia: i lincei, dal nome del felino dallo sguardo acuto, simbolo della compagnia di studiosi – Federico Cesi, Galileo Galilei, Quintino Sella, Giovanbattista della Porta, per citare i più illustri – coltivarono e promossero fin dal ‘600 una rinnovata visione delle scienze, fondata sull’indagine libera e sperimentale, opposta a qualsiasi vincolo di tradizione e autorità.
L’Accademia di oggi promuove e organizza un Convegno nazionale dal titolo “Problemi sulla valutazione scolastica” (qui il programma). Ottima idea, pensiamo. Di “Problemi sulla valutazione scolastica” ce ne vengono in mente parecchi. Sfogliamo il programma. Tra diversi nomi, più o meno noti, ritroviamo alcune vecchie conoscenze.
Primo tra tutti: il presidente INVALSI, Roberto Ricci, che racconterà in apertura le sfide della scuola del futuro, viste attraverso i dati dei test INVALSI.
-il professor Matteo Viale, linguista, che tra le sue attività istituzionali annovera quella di esperto e consulente INVALSI, con cui condividemmo un interessante scambio di informazioni su chi e come vengono corretti i test computerizzati (vedi qui)
-il professor Giorgio Bolondi, matematico, storico esperto e collaboratore, in diverse tipologie di ben remunerati incarichi, dello stesso istituto INVALSI.
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Cheng Enfu. “Dialettica dell’economia cinese”
di * * * e Vladimiro Giacché
Cheng Enfu, tra i maggiori esponenti del marxismo cinese e internazionale, promotore e animatore, con riviste e forum internazionali, della più importante comunità marxista mondiale, raccoglie diversi saggi scritti negli ultimi decenni, nei quali la Cina ha compiuto – non in rottura ma in continuità dialettica con il trentennio di costruzione delle basi del socialismo dopo la conquista del potere politico (1949-1978) – uno straordinario percorso di sviluppo economico che per durata (pochi decenni) e popolazione coinvolta (oltre 1,4 miliardi di persone) non ha eguali in tutta la storia mondiale.
Preceduto da un importante saggio su Dieci punti di vista sul marxismo, questo corposo libro si snoda attraverso 7 capitoli a loro volta suddivisi in diverse sezioni: 1. Il moderno sistema economico della Cina; 2. L’economia cinese nel quadro di una Nuova Normalità; 3. I cinque nuovi concetti di sviluppo della Cina; 4. La riforma del sistema di distribuzione cinese; 5. Riforma del rapporto tra mercato e governo in Cina; 6. L’apertura graduale del mercato finanziario interno in Cina; 7. L’apertura dell’economia cinese.
Ognuna delle rilevantissime questioni inerenti l’“economia socialista di mercato” cinese viene affrontata, con approccio critico-dialettico, con analisi concreta della situazione concreta, “cogliendo la verità dai fatti”, combinando sempre rilevazione empirica e analisi teorica, senza cedimenti ad affermazioni propagandistiche o autocelebrative.
I lavori di Cheng e della sua scuola prendono le mosse dalla realtà, esaminano i caratteri di fondo e le ragioni del successo complessivo della “via cinese”, denunciano altresì limiti e rischi di alcune tendenze, proponendo correttivi, o cambiamenti di rotta.
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Il panico morale di fronte alle critiche a Israele
di Donatella della Porta
Nel pamphlet “Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica” Donatella della Porta analizza come artisti, attivisti e intellettuali solidali con la Palestina – ebrei compresi – siano stati presi di mira e accusati di antisemitismo, in particolare in Germania, per le loro posizioni critiche di Israele.
Al Festival del Cinema di Berlino 2024 (la Berlinale) il premio per il miglior film documentario è stato assegnato a “No Other Land”, opera congiunta del regista palestinese Basel Adra e del giornalista israeliano Yuval Abraham, che esamina l’impegno comune di un cittadino palestinese e un cittadino israeliano a portare alla luce le violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele nella Cisgiordania occupata. Durante la cerimonia di conferimento del premio, l’artista palestinese ha condannato i massacri in corso in Palestina e ha chiesto alla Germania di interrompere la fornitura di armi al governo israeliano (cosa che Paesi come Spagna, Irlanda e Portogallo si erano già impegnati a fare); l’artista israeliano ha denunciato la situazione di apartheid nel suo Paese e ha chiesto la fine dell’occupazione.
Quasi immediatamente politici e giornalisti tedeschi li hanno accusati di antisemitismo, hanno minacciato di togliere i finanziamenti al festival e hanno invitato il ministro verde della Cultura, Claudia Roth, a dimettersi dopo che il quotidiano Bild l’aveva accusata di aver applaudito i discorsi degli artisti. Dopo aver affermato che le dichiarazioni al gala erano “scioccamente unilaterali e caratterizzate da un profondo odio verso Israele”, il suo ufficio stampa ha affermato che la ministra aveva applaudito l’artista israeliano ma non il suo coautore palestinese. In seguito alla reazione scandalizzata alle loro dichiarazioni, entrambi gli artisti hanno ricevuto minacce di morte. Come ha dichiarato Abraham al Guardian, “stare sul suolo tedesco come figlio di sopravvissuti all’Olocausto e chiedere un cessate il fuoco – e poi essere etichettato come antisemita non è solo oltraggioso, ma sta anche mettendo letteralmente in pericolo vite ebree… Non so cosa la Germania stia cercando di fare con noi”, ha aggiunto. “Se questo è il modo in cui la Germania affronta il senso di colpa per l’Olocausto, lo sta svuotando di ogni significato”. Prima dell’inizio dell’evento, alcuni artisti si erano già ritirati dal festival, denunciando quella che consideravano una nuova ondata di maccartismo.
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Il ritorno dell’estrema destra nell’Europa (neo)liberale
di Giovanni Guerra
Il successo dei "populisti" non è la causa, ma l’effetto, della crisi della democrazia. E dato che all'orizzonte l’unico keynesismo che si profila è quello in campo militare coniugato al rigore fiscale, è prevedibile un ulteriore rafforzamento dell'estrema destra
Stimolato da alcune considerazioni del suo maestro Hegel, Karl Marx, nell’incipit del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, osservava che la «storia si present[a]» sempre «due volte», «la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». L’adagio del filosofo di Treviri descrive alla perfezione il ritorno dell’estrema destra in Europa a distanza di un secolo, lustro più, lustro meno, dalla sua prima ascesa con Mussolini (1922) ed Hitler (1933), ma anche Horty (1920), Salazar (1932), Franco (1939) e Pétain (1939), che hanno fatto precipitare il continente nel ventennio più buio della sua storia recente.
La resistibile ascesa dei populisti in Europa
Quelli erano “dittatori”, quelli di oggi sono (chiamati) “populisti”, ma non per questo sono meno pericolosi. Sollecitati da questa ricorrenza storica, e stanchi di veder versare altre lacrime di coccodrillo da parte di chi pensa che il successo dell’estrema destra sia la causa, e non l’effetto, della crisi della democrazia nel continente, sembra doveroso provare a riflettere sulle responsabilità gravanti sulle classi dirigenti liberali europee (Zielonka), nella convinzione che molte siano le colpe loro imputabili nell’aver favorito, oggi come allora, tale resistibile exploit. Non solo, forte è l’impressione che, proprio come in passato, tra l’estrema destra e l’«estremo centro» (Ali) (neo)liberale si registrino numerose convergenze, a partire, neanche a dirlo, dalla comune avversione per il socialismo (Dardot – Guéguen – Laval – Sauvêtre): a ben vedere, la prima non costituisce una “rottura” rispetto al secondo, quanto piuttosto una “inflessione” sciovinistica e politicamente illiberale di una medesima cultura basata sulla protezione del liberismo economico e dei processi di accumulazione capitalistica (Wilkinson).
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La grande rimozione
Il comunismo nel Novecento? Una sconfitta, non un fallimento
di Mauro Casadio
Ieri la prima giornata di lavori del Forum “Elogio del comunismo del Novecento”. Oggi si prosegue la mattina con la seconda e terza sessione, poi interruzione per partecipare alla protesta contro il divieto di manifestazione. I lavori riprenderanno domenica mattina con la quarta sessione.
Pubblichiamo il testo dell’introduzione ai lavori del Forum di Mauro Casadio della Rete dei comunisti
In questo nuovo cambio epocale si stanno determinando le condizioni per affrontare in modo più oggettivo la grande rimozione politica fatta, in buona e mala fede, sul movimento di classe e comunista del ‘900; necessità che si impone non solo in termini storici ma anche per le prospettive di una, ora di nuovo, necessaria trasformazione sociale. Come RdC già dagli anni ’90 sentivamo questa esigenza tanto da produrre alcune pubblicazioni, titolate “Il bambino e l’acqua sporca”, per indagare più a fondo quelle esperienze cercando, appunto, di salvare il “bambino”.
Ci fermammo, però, in quella ricerca ed elaborazione sia per nostri limiti soggettivi sia perché, nel contesto dell’affermazione globale del neoliberismo, rischiavamo di oscillare tra suggestioni ipercritiche e continuismo dogmatico vista l’impossibilità di avere verifiche certe nella realtà. Ciò non esclude che avessimo già una idea di ciò che era avvenuto e si era prodotto nelle esperienze comuniste dell’est e dell’ovest dell’Europa in particolare, luogo dal quale era partito il moto rivoluzionario mondiale del Novecento.
Se per la soggettività gli esami non finiscono mai, sul piano dell’oggettività la situazione attuale viene ora in nostro aiuto in quanto la crisi di egemonia dell’imperialismo euroatlantico ci fornisce più strumenti per concepire una nuova possibilità di cambiamento di sistema.
Certo se il capitalismo non fosse ricaduto ancora una volta nelle sue intime contraddizioni di fondo parlare del movimento comunista del ‘900 sarebbe possibile farlo solo in termini di ricerca storica, utilissima ma non di nostra diretta competenza.
La fine della “fine della storia”
Invece la fine della “Fine della Storia” ci permette di tracciare una linea rossa dalla rivoluzione Bolscevica del ’17 utile a interpretare gli andamenti del conflitto di classe internazionale, ma soprattutto definire il ruolo avuto da essa nel processo di emancipazione generale di tutta l’umanità.
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Perché la guerra?
La congiuntura economico-politico-militare
di Maurizio Lazzarato
Pubblichiamo il primo di una serie di articoli scritti per noi da Maurizio Lazzarato, volti a fare il punto sulla «guerra civile mondiale» in corso. Nella prima parte, l’autore si sofferma sul «centro che non tiene», come direbbe il poeta, ovvero sulla crisi negli Usa, cuore del potere capitalistico contemporaneo. Le crisi e le guerra che stanno distruggendo il mondo sono figlie proprio delle strategie di potere del paese a stelle e strisce.
Ricordiamo che su questi temi Maurizio Lazzarato ha scritto un libro recentemente edito da DeriveApprodi, Guerra civile mondiale?
* * * *
Il fallimento economico e politico degli USA
Un doppio, contraddittorio e complementare, processo politico ed economico è in corso: lo Stato e la politica (statunitense) affermano con forza la loro sovranità attraverso la guerra (anche civile) e il genocidio. Mentre, allo stesso tempo, mostrano la loro completa subordinazione al nuovo volto che il potere economico ha assunto dopo la drammatica crisi finanziaria del 2008, promuovendo un’inedita finanziarizzazione, altrettanto illusoria e pericolosa, come quella che ha prodotto la crisi dei mutui sub prime. La causa del disastro che ci ha portato alla guerra è diventata una nuova medicina per uscire dalla crisi: una situazione che non può essere che foriera di altre catastrofi e di altre guerre. Un’analisi di quanto sta accadendo negli Stati Uniti, il cuore del potere capitalistico, è fondamentale poiché è proprio dal suo seno, dalla sua economia e dalla sue strategia di potere, che sono partite tutte le crisi e tutte le guerre che hanno sconvolto e, tutt’ora, devastano il mondo.
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A un anno dall’attacco di Hamas, Israele spinge il Medio Oriente verso l’abisso
di Roberto Iannuzzi
L’assassinio di Nasrallah e l’offensiva israeliana in Libano potrebbero innescare una spaventosa destabilizzazione regionale. I missili iraniani su Israele ne costituiscono solo la prima avvisaglia
Il 27 settembre 2024 ha segnato uno spartiacque nella storia mediorientale. L’uccisione di Hassan Nasrallah (guida storica e carismatica di Hezbollah) a seguito di un violentissimo bombardamento israeliano ha scosso gli equilibri regionali con conseguenze difficili da prevedere.
In questo sanguinoso episodio sono rimasti uccisi anche centinaia di civili – un bilancio preciso è reso difficile dall’impossibilità di recuperare corpi letteralmente polverizzati dalla potenza delle esplosioni.
A quasi un anno da quel fatidico 7 ottobre che vide l’attacco di Hamas ad avamposti militari e insediamenti israeliani, l’eliminazione di Nasrallah ha segnato un’ulteriore escalation in un conflitto che ha ormai assunto una dimensione regionale.
Nel quadro dell’irrisolto e dimenticato conflitto israelo-palestinese, e della durissima occupazione militare israeliana, l’inaspettata azione di Hamas del 7 ottobre (la cui dinamica rimane tuttora avvolta da misteri e interrogativi) fu all’origine della devastante reazione militare di Tel Aviv che ha portato alla totale distruzione di Gaza provocando oltre 41.000 morti.
Perfino una catastrofe di queste dimensioni era stata però trasformata in routine dalla copertura parziale e insufficiente dei media occidentali, e declassata a quarta o quinta notizia sui telegiornali (quando viene citata).
Ora vi è il rischio che anche la portata dell’operazione israeliana che segna il definitivo coinvolgimento del Libano nel conflitto venga sottovalutata in Occidente. L’uccisione di Nasrallah, in particolare, e la decapitazione della leadership di Hezbollah, è ciò che ha portato i missili di Teheran nei cieli israeliani.
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L’Europa di Draghi e l’economia di guerra
di Alessandro Scassellati
Nel suo rapporto l'ex Presidente del Consiglio non propone una maggiore cooperazione a livello internazionale e un dialogo con le potenze emergenti, ma asseconda la deriva verso un mondo dominato da poli energeticamente e tecnologicamente autosufficienti, armati fino ai denti e disposti a entrare in guerra per risolvere eventuali controversie
Mentre l’Unione europea si è spostata a destra sia in Parlamento sia nella composizione della Commissione1 e si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania e altri paesi cosiddetti “frugali”) che esclude solo le spese per le armi dal computo nel calcolo del deficit2, da mesi gli alti funzionari dell’Ue fanno dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro”, ha affermato qualche settimana fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica” e a sostenere che “dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”, spendendo 500 miliardi di euro nel prossimo decennio, lavorare per costruire un esercito europeo e avere come priorità principale “prosperità e competitività”.
Non a caso, circa un anno fa, von der Leyen aveva affidato a due dei maggiori esponenti della tecnocrazia europea, campioni della visione del mondo neoliberista, Mario Draghi ed Enrico Letta, la redazione/supervisione di due rapporti complementari che avrebbero dovuto delineare, da un lato, una strategia per il futuro della competitività europea (vedi qui e qui) e, dall’altro, una strategia per il futuro del mercato unico europeo (vedi qui). Il Rapporto Draghi incorpora le analisi e raccomandazioni del Rapporto Letta, per cui nell’analisi che segue ci concentriamo sulla strategia messa a punto da Draghi e presentata ufficialmente il 9 settembre scorso.
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Elezioni USA, una guerra interna al capitalismo finanziario
di Alessandro Volpi
Alle presidenziali USA la sfida tra Harris-Walz e Trump-Vance andrebbe più adeguatamente definita come uno scontro tra il capitalismo finanziario delle "Big Three" e quello che ne vuole indebolire il monopolio. Senza scomodare la contrapposizione “Sinistra” - “Destra”
In seguito all’annuncio del ritiro di Biden dalla corsa presidenziale è emerso, con sempre maggiore chiarezza, uno scontro in corso all’interno del capitalismo finanziario statunitense. Provo a sintetizzarlo e forse anche a semplificarlo. Dopo la scelta di Vance come vicepresidente, dopo le prese di posizione di Musk, sta infoltendosi la schiera dei sostenitori – e finanziatori – di Trump. Si tratta di soggetti riconducibili a un capitalismo che prova ad arginare lo strapotere delle Big Three, cioè dei superfondi ,Vanguard, Black Rock e State Street, ormai decisamente legati ai democratici. Sia Biden sia Kamala Harris hanno avuto e hanno nel loro staff figure chiave che provengono da Black Rock. Un personaggio come Jamie Dimon, il CEO di JP. Morgan, la banca dei superfondi, blandito da Trump, è stato a lungo in procinto di essere candidato per i democratici. Il presidente della Fed, con il sostegno di Yellen, ha accompagnato le strategie degli stessi superfondi, comprando a piene mani i loro Etf [Exchange Traded Funds, fondi d’investimento quotati in borsa che seguono la performance di un in-dice: ndr].
La cordata dei trumpiani contro gli oligopoli finanziari targati “democrats”
Contro questa simbiosi ha preso corpo, come accennato, una cordata di figure che vuole utilizzare il potere politico della presidenza Trump per combattere o limitare proprio lo strapotere delle Big Three. In tale sequenza compaiono alcuni grandi fondi hedge, come quello di John Paulson, preoccupati per la progressiva emarginazione da un “mercato” normalizzato dai superfondi, alcuni petrolieri non legati direttamente ai colossi dell’energia in mano alle Big Three, come Timothy Dunn e Harold Hamm di Continental Resources, ma figurano anche miliardari di lunga tradizione come i Mellon, infastiditi dallo strapotere di Fink, e personaggi alla Bernie Marcus, il fondatore di Home Depot, un colosso da 500 mila occupati, ostile al modello fabless delle big tech che vede affacciarsi nella sua creatura, ceduta proprio a Vanguard, Black Rock e State Street.
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Cos’è la scienza?
Luca Busca intervista Carlo Rovelli
Non ha ormai più bisogno di presentazioni il professor Carlo Rovelli, assurto all’Olimpo della fisica teorica con la teoria della “gravità quantistica a loop”. Oltre agli articoli scientifici che gli hanno dato lustro in ambito accademico, il fisico ha scritto libri di divulgazione in grado di spiegare i complessi meccanismi della meccanica quantistica, e non solo, anche a chi è privo delle conoscenze necessarie.
Questa sua grande capacità esplicativa ha fatto sì che la rivista Foreign Policy lo inserisse tra i 100 «Global Thinkers» più influenti nel 2019. La sua vena “poetica” gli ha fatto valicare spesso le alte vette della scienza portandogli in dote innumerevoli premi letterari. Tra questi spiccano il Premio Galileo per la divulgazione scientifica vinto nel 2015 con il libro “La realtà non è come ci appare” e l’ultimo, nel 2024, il Premio Lewis Thomas per la “scrittura creativa”, istituto nel ‘93 dal Consiglio della Fondazione David Rockefeller.
* * * *
L.B. Una sfida quasi impossibile anche per te: in poche parole, cos’è la scienza?
C.R. La scienza…? Direi che è una cosa che fanno gli esseri umani, per cercare di capire meglio il mondo in cui sono. È una attività cresciuta lentamente, nei secoli, imparando una serie di metodi utili, come per esempio rimettere spesso in discussione le cose che crediamo di sapere, discutere, mettere le idee alla prova dei fatti, e altri.
L.B. Che rapporto hai con la fantascienza, ovviamente non mi riferisco a improbabili supereroi ma a scrittori come l’ultimo George Orwell, Isaac Asimov, Philip K. Dick, Ray Bradbury e J.B. Ballard?
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La teoria del valore di Marx: collasso, IA e Petro
di Michael Roberts
Un sito, Marxism and Collapse (M&C) ha condotto un "dialogo" con un modello di Intelligenza Artificiale chiamato Genesis Zero (GZ) il quale include «un'espansione e una confutazione» della teoria del valore di Marx. La voce umana (M&C) pone delle domande e spinge il modello di intelligenza artificiale (GZ) a discutere le inadeguatezze della teoria del valore di Marx, e a raggiungere una nuova e migliore teoria. Il sito web Marxism and Collapse può essere trovato qui, e qui si trova la loro "dichiarazione di programmatica". Mentre, le parti principali della discussione sulla Teoria del Valore di Marx, Genesis Zero - Gustavo Petro, si trovano qui
M&C sostiene che nell'analisi di Marx c'è una debolezza fondamentale secondo cui, in una merce, la cosa riguarda il duplice carattere del valore d'uso e del valore di scambio. L'addestratore umano di M&C fornisce delle domande guida in modo da far sì che GZ, di conseguenza, risponda che nella teoria di Marx c'è davvero una debolezza: vale a dire, che essa lascia fuori la natura in quanto fonte di valore. Quindi, GZ concorda sul fatto che abbiamo bisogno di modificare la teoria del valore di Marx, trasformandola in una teoria "generale" del valore che incorpori in sé il valore della "natura". Questo dibattito è stato distribuito principalmente in America Latina e in Spagna (ad esempio, nel giornale colombiano Desde Abajo), e ciò sebbene le precedenti versioni inglesi siano state ampiamente distribuite anche in diversi paesi di lingua inglese. Anche il presidente colombiano Gustavo Petro è entrato in questo dialogo, cosa che ha suscitato un notevole interesse. Petro non è solo il presidente della Colombia, ma è anche molto interessato alla teoria marxista, in relazione alla crisi ambientale e ai danni generati dal capitalismo a livello globale e in Colombia. Ed egli è desideroso di trovare un modo per poter applicare la legge del valore alla misurazione del danno ecologico e ambientale recato alla natura che viene causato dal capitale. Dal dialogo, si conclude che bisogna modificare la legge del valore di Marx in modo che essa incorpori la natura, la quale secondo lui è assente nella teoria del valore di Marx. Petro ha utilizzato le idee espresse in questo dialogo in diverse presentazioni orali.Prendiamo in considerazione l'idea che la teoria del valore di Marx sia inadeguata, incompleta e persino falsa poiché non considera la natura come fonte di creazione del valore. Però, ritengo invece che questa idea sia superflua, e che essa serva solo a indebolire la teoria del valore di Marx in quella che è la sua penetrante e convincente critica del capitalismo.
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La Meloni riceve Larry Fink (BlackRock) a Roma e gli svende l’Italia
di OttolinaTV
Nei giorni in cui l’Iran e l’asse della resistenza mandavano un messaggio chiaro e forte all’imperialismo di tutto il mondo, anche l’Italia – e, in particolare, con il suo eroico presidente del consiglio Giorgia Meloni – non ha voluto essere da meno: da poco rientrata da New York dopo aver ritirato l’infame premio di miglior atlantista dell’anno, Giorgia la collaborazionista ha infatti ricevuto a palazzo Chigi Larry Fink, il presidente e amministratore delegato di BlackRock. Il messaggio è stato chiaro: oligarchi di tutto il mondo, unitevi! E fate dell’Italia quello che volete. Nel corso del colloquio, la madre cristiana e Fink hanno infatti discusso dei possibili investimenti del fondo finanziario americano nell’ambito dello sviluppo di data center e nelle infrastrutture energetiche di supporto; e il presidente dell’amministrazione coloniale ha inoltre prospettato al fondo di investimento americano l’opportunità di investire in Autostrade e in altri settori di natura strategica. Ma i due punti principali dell’incontro sono stati la possibilità di creare strumenti finanziari specifici da parte di BlackRock nell’ambito del famoso Piano Mattei e la definizione di prestiti obbligazionari per la ricostruzione dell’Ucraina, concepiti da BlackRock e garantiti politicamente dall’Italia; Blackrock che, ricordiamolo, gestisce un patrimonio di 10 mila miliardi di dollari (il valore del PIL di Germania e Giappone messi insieme) ed è tra i primi azionisti di gran parte delle grandi aziende occidentali, Italia inclusa. Negli ultimi giorni, Giuliano vi aveva raccontato della scalata di UniCredit a Commerzbank proprio grazie alla collaborazione del fondo di investimento e del suo ingresso con una quota del 3% in Leonardo, la principale industria degli armamenti italiana; in fatto di infrastrutture, strategiche o quasi, è bene ricordare che un altro grosso attore statunitense, il fondo KKR, ha recentemente comprato la rete fissa di Telecom Italia per 22 miliardi di euro.
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Il mito antifascista degli Arditi del Popolo e del settarismo «bordighista»
Considerazioni in/attuali
di F. B.
«Ogni volta che al posto di "proletariato" leggo "popolo", mi domando quale brutto tiro si stia preparando ai danni del proletariato.»
(G. D.)
La «leggenda» degli Arditi del Popolo nasce all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, allorché – dopo che per quasi cinquant’anni quell’esperienza di opposizione armata al fascismo in ascesa era caduta nell’oblio – un fiorire di studi ad opera di giovani storici «militanti» la riportò improvvisamente in auge. Questo rinnovato interesse per una vicenda lontana e ormai da tempo dimenticata, come sempre accade, non fu casuale: esso rispondeva, infatti, all’esigenza di dotare la pratica dell’«antifascismo militante» delle formazioni della sinistra extraparlamentare di un proprio mito fondativo, da affiancare a quello ormai sbiadito e sin troppo «istituzionale» della Resistenza. L’antifascismo militante era nato per contrastare il neo-squadrismo di fascisti vecchi e nuovi, che lo stato democratico utilizzava come manovalanza cui delegare il «lavoro sporco» nella repressione delle lotte operaie e studentesche, oltre che nel quadro della cosiddetta strategia della tensione. Ma i suoi riferimenti storici, nonché l’appellativo stesso di «antifascismo», rivelano come la sua funzione, sul piano tanto pratico che ideologico, andasse oltre il terreno della semplice «difesa proletaria», e si collocasse su un piano politico ben preciso: quello della difesa della democrazia (democrazia che peraltro in quegli anni, in Italia, non fu mai seriamente in pericolo). Inoltre, esso assolse a una funzione di polizia interna al movimento, volgendosi soprattutto contro le sue correnti più radicali (i cui aderenti erano invariabilmente bollati come «provocatori fascisti» e spesso oggetto di aggressioni fisiche da parte dei «servizi d’ordine» gauchiste). Ciò non stupisce se si pensa che, seppure con sfumature diverse, la matrice di pressoché tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare era più o meno apertamente marxista-leninista.
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La strategia iraniana e il futuro del Medio Oriente
per "Egemonia" Alessandro Bianchi intervista Alberto Bradanini
"La strategia iraniana, dunque, sembra aver scelto la pazienza e il tempo lungo della storia. Israele è oggi un paese in seria difficoltà, diviso e in profonda crisi, un’economia in sofferenza (due declassamenti in poche settimane da parte di Moody’s), 5-600.000 israeliani usciti dal paese (molti non torneranno più) e altri lo faranno alla luce degli sviluppi."
La reazione dell'Iran ai crimini di Israele si è manifestata con 200 missili nella sera di martedì 1 ottobre. Decine hanno colpito obiettivi israeliani con Teheran che ha dato al mondo una dimostrazione pratica di come sia in grado di aggirare i sistemi di difesa israeliana e di come possa infliggere danni enormi alle infrastrutture civili e militari del regime di Tel Aviv. Si è trattata di una risposta moderata, mirata e in pieno rispetto della normativa di ritorsione nell'ambito del diritto internazionale. Con il regime di Israele che ha minacciato risposte sul territorio iraniano e con il tentativo di invasione in corso in Libano, i rischi di una ulteriore escalation nella regione sono enormi.
Nella "guerra mondiale a pezzetti" che stiamo vivendo, ogni teatro è strettamente interconnesso e il riscaldarsi di uno determina l'acuirsi di tensioni e apertura di altri. Per questo sono molti gli interrogativi che si manifestano oggi, nei drammatici tempi che viviamo, e abbiamo cercato risposte in una guida sicura per i lettori di "Egemonia": l'ex ambasciatore italiano a Teheran Alberto Bradanini.
Buona lettura.
* * * *
Ambasciatore dopo l'assassinio dello storico leader di Hezbollah Nasrallah, la possibile operazione di terra da parte di Israele in Libano e il lancio di razzi dell'Iran di martedì primo ottobre, come sono cambiati gli scenari nella regione?
È chiaro come il sole che l’escalation cui punta Israele attraverso massacri, aggressioni, omicidi mirati, bombardamenti da terra e dall’aria senza alcuna differenza tra militari e civili è un agire lontano anni luce dalla civiltà etica e giuridica del XXI secolo, che viola la Carta delle Nazioni Unite e i valori esistenziali di ogni essere umano.
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Nuovo brutalismo e guerra robotica
di Stefano Isola
Testo dell’Intervento di Stefano Isola alle Tre giornate contro le tecno-scienze, sesto incontro internazionale, Luglio 2024 ad Acqui Terme organizzate da Resistenze al nanomondo e pubblicato sul giornale L’Urlo della Terra, n.12, Luglio 2024
Nei territori palestinesi si consumano stragi quotidiane di donne e bambini sterminati da bombe teleguidate, di persone che muoiono di fame e che non hanno dove rifugiarsi e dove potersi curare le spaventose ferite, e tutto questo procede accompagnato da un irreale balletto di distinguo e accorate perorazioni contro tutte le aggressioni e tutti gli estremismi. Altri massacri, tra quelli che costellano la storia moderna, presentano efferatezze e numeri paragonabili, e sono stati talvolta colpevolmente ignorati per molto tempo a livello internazionale, ma sono stati tutti comunque raccontati a posteriori attraverso reportage di osservatori, giornalisti e storici. L’attuale genocidio perpetrato a Gaza dall’IDF si caratterizza come una delle peggiori voragini umanitarie della storia anche per il fatto di essere trasmesso in diretta audiovisiva, ovunque, orizzontalmente, e di essere perciò osservabile da chiunque voglia informarsi, e, nonostante questo, non solo non viene fatto quasi nulla per fermarlo, ma si continua a inviare armi micidiali per la sua perpetuazione. Per altro, il governo statunitense rifornisce ininterrottamente Israele di armi e risorse per perseguire il suo assedio criminale degli oltre due milioni di palestinesi di Gaza, assicura allo Stato dell’apartheid una copertura diplomatica presso le Nazioni Unite e distorce od oscura sistematicamente la condotta barbara dell’IDF. A causa di tutto ciò si dovrebbe parlare più propriamente di genocidio israelo-statunitense. Analoga e corrispondente situazione nella parallela guerra per procura che la NATO sta combattendo contro la Federazione Russa tramite il sacrificio dell’Ucraina, dove decine e decine di migliaia di giovani ucraini, e anche russi, hanno già perso la vita in una delirante prova di forza cinicamente spinta e finanziata ad oltranza da potenze esterne.
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“State tranquilli…”, disse la rana mentre bolliva
di Dante Barontini
La frittata è fatta. Ora tutti i protagonisti, spalleggiati dai loro alleati, rimuginano sulle prossime mosse e lanciano bellicose minacce perché “gli altri” si fermino. E’ una danza tra soggetti che hanno bisogno di mostrarsi fortissimi, ma che sanno bene cosa rischiano. Eppure la logica di guerra, da sempre, spinge ad andare un passo oltre quel che si vorrebbe e potrebbe fare…
Stavamo camminando sul bordo del baratro da almeno tre anni, ma gli opinion maker dell’establishment – tutti o quasi, senza grandi distinzioni – ci dicevano ogni giorno di non preoccuparci. “Il nemico” c’è, è cattivissimo e crudele, ma in fondo “noi” (l’Occidente collettivo) siamo troppo forti e gli facciamo paura. Ergo, la sua faccia feroce è solo un bluff da andare a vedere, come a poker. Non c’è un vero pericolo se “agiamo subito”, perché se si aspetta troppo quel nemico può diventare molto più forte.
Non ci vuole una grande perspicacia per riconoscere in questo filo di “ragionamento” la narrazione di un guitto come Zelenskij o di un genocida come Netanyahu. Lo schema è identico, il “suggeritore” anche: l’imperialismo degli Stati Uniti.
Facile anche riconoscere nel “ragionamento” il riflesso narrativo di una condizione reale: l’Occidente neoliberista è in declino, sia sul piano economico (i suoi tassi di crescita sono ormai surclassati da oltre 20 anni, se non di più) che su quello “valoriale” (il doppio standard sistematico ha reso una barzelletta la pretesa di ergersi a “faro di civiltà”). La sua superiorità tecnologica è azzoppata, e sempre più spesso deve ricorrere alle sanzioni o dazi (o peggio, come ha mostrato per anni la vicenda Huawei) per proteggere i propri marchi dalla concorrenza. E neanche questo basta più (vedi la crisi dell’auto).
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La frattura ecologica nell’Antropocene
F. Querido, M. O. Pinassi e M. Löwy intervistano John Bellamy Foster
In un'intervista rilasciata alla rivista brasiliana Margem Esquerda, John Bellamy Foster condivide con Fabio Querido, Maria Orlanda Pinassi e Michael Löwy, le esperienze formative che hanno contribuito al suo lavoro di giovane attivista e, successivamente, di autorevole studioso del marxismo ecologico. L'intervista si conclude con un messaggio alla sinistra ecologica in Brasile e altrove: «Quali che siano le soluzioni alla crisi planetaria attuale, esse devono, in termini storico-materialistici, sorgere a partire da formazioni sociali concrete, sulla base delle quali avverranno le nuove trasformazioni rivoluzionarie».
* * * *
Fabio Querido, Maria Orlanda Pinassi e Michael Löwy: Per iniziare, raccontaci un po' della tua infanzia e giovinezza. Sei nato a Seattle, giusto?
John Bellamy Foster: Sì, sono nato a Seattle, stato di Washington. Quando avevo un anno, la mia famiglia si trasferì a Raymond, Washington, una città dove si lavorava il legname, dove mio padre faceva l'insegnante. A Raymond c'era una fabbrica di scandole di cedro rosso occidentale, di proprietà della Weyerhaeuser Company, che emetteva acido plicatico - responsabile dell'asma - nella polvere della pianta. Ho sofferto di asma cronica, insieme alle mie due sorelle. Quando avevo cinque anni ci siamo trasferiti a Ficrest, Washington, un sobborgo fuori Tacoma. All'epoca Tacoma era una delle città più inquinate degli Stati Uniti, a causa di una fonderia che rilasciava emissioni tossiche, e delle cartiere. Quando avevo sei anni, mia sorella minore, di tre anni, ebbe un grave attacco d’asma e fu portata d’urgenza in ospedale dove morì la notte stessa. Un paio di settimane dopo, anch'io ho avuto un grave attacco d’asma e sono stato portato d’urgenza in ospedale e ho rischiato di morire.
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La sottile linea rossa tra celodurismo e guerra aperta
di Enrico Tomaselli
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’attacco iraniano di ieri non apre una fase di guerra aperta tra Teheran e Tel Aviv. Nonostante tutto, siamo ancora nella fase della deterrenza – o, se si preferisce, del celodurismo.
Indiscutibilmente, e non poteva essere altrimenti, la rappresaglia iraniana è stata su una scala ben maggiore rispetto a quella dello scorso aprile, e aveva chiaramente lo scopo – ancora una volta – di inviare un messaggio a Israele e agli USA; messaggio sia sulla determinazione iraniana a non farsi intimidire, sia sulla propria capacità di risposta militare.
Con l’attacco di ieri, assai spettacolare, l’Iran ha quindi spostato un po’ l’asticella. Non c’è stato il largo preavviso della volta precedente, non c’è stato uso di droni (molto più lenti), la quantità di missili (quasi tutti balistici) è stata significativamente maggiore.
Altri elementi degni di nota dell’operazione sono stati: l’attacco più massiccio ad almeno 4 aeroporti (Tel Nof, Nevatim, Hatzerim, Lod), che rappresentano l’infrastruttura necessaria per l’aviazione – cioè lo strumento con cui maggiormente si manifesta la supremazia militare israeliana; la scelta di bersagli esclusivamente militari (l’occidente è risucchiato nel proprio ombelico, ma il resto del mondo vede la differenza con quanto fa Israele a Gaza e in Libano); la correlazione diretta tra bersagli e causale (aeroporto Nevatim, sede del Mossad e dell’unità 8200). E, ancora una volta, l’aver utilizzato solo una parte, e non la più avanzata, del proprio arsenale.
Al tempo stesso, non può sfuggire il fatto che ben tre degli obiettivi più rilevanti (Nevatim, Mossad, 8200) siano stati evacuati qualche ora prima, il che – al di là di una certa prevedibilità, e delle capacità d’intelligence – fa sospettare che qualcosa sia stato fatto volutamente filtrare, per ridurre al minimo il numero delle vittime.
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Ucraina, Libano, Cina: l’incredibile fenomeno editoriale che racconta la sconfitta dell’Occidente
di OttolinaTV
“Perché l’Occidente non accetta la propria sconfitta?”; eh, già: perché? A porsi la domanda nella prefazione della sua ultima fatica, La sconfitta dell’Occidente, è Emmanuel Todd, uno degli intellettuali francesi più originali e controversi degli ultimi decenni; celebre per aver previsto l’implosione dell’universo sovietico nel suo Il crollo finale del 1976 – come, d’altronde, di essersi completamente illuso sul crollo dell’impero USA e la rinascita europea nel suo Dopo l’Impero del 2003 – Todd ha l’innegabile pregio di porsi le domande fondamentali e di avere il coraggio di proporre delle risposte che, anche quando non sono del tutto condivisibili, danno un contributo fondamentale al dibattito. E lo fa da vero ottoliner: “La pace alle condizioni imposte dai russi” scrive infatti Todd “significherebbe una caduta di prestigio per gli Stati Uniti, il che significherebbe la fine dell’era americana nel mondo, il declino del dollaro, e quindi della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta”, un lusso che gli USA, oggettivamente, non si possono concedere; secondo Todd, infatti, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 “Gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo” e da allora “l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan”. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la finanza USA via paradisi fiscali, tutti rigorosamente sotto giurisdizione statunitense o, al limite, britannica. Ecco, così, che “La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dal controllo dei propri vassalli”: “dal punto di vista statunitense quindi, la guerra deve continuare non per salvare la democrazia ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente”.
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Il «ritorno del rimosso». Dalla guerra imperialista al conflitto nucleare?
di Gianmarco Pisa
Una riflessione sulle dinamiche del mondo contemporaneo, i recenti sviluppi dello scenario internazionale, le contraddizioni aperte e le sfide poste ai movimenti di lotta contro l’imperialismo, contro la guerra imperialista, e per la pace
Le coordinate dell’imperialismo
Se, riprendendo la celebre espressione di Jean Jaurès, “il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta”, e cioè la guerra è fattore intrinseco del modo di produzione capitalistico e naturale conseguenza della logica dell’accumulazione, della massimizzazione del profitto e dell’esasperazione della competizione su scala planetaria, che sono le fondamenta della logica e della struttura del capitalismo stesso, allora è a maggior ragione vero che l’imperialismo, in quanto «fase suprema del capitalismo», è sinonimo non solo di primato del capitale finanziario, ma anche, nuovamente, di guerra. Cosa significa, in tal senso, «fase suprema», è presto detto, tenendo a mente la fondamentale lezione di Lenin: l’imperialismo non è la fase “più avanzata” o “più evoluta”, quanto piuttosto la fase “terminale”, estrema e radicale, del modo di produzione capitalistico, nella sua evoluzione storica e sociale, giunto alla fase attuale del proprio sviluppo.
Ci allontaneremmo dal nucleo della riflessione se ci dilungassimo nella letteratura dedicata all’imperialismo e ai diversi modi di configurare la categoria stessa di imperialismo: seguendo ancora la traccia (teorica e politica) indicata da Lenin (1917), e quindi l’esigenza di una lettura e di un’interpretazione della categoria che siano, al tempo stesso, teoricamente solide (capaci di intercettare la sostanza del modo di produzione nella fase contemporanea del suo sviluppo storico) e politicamente efficaci (adeguate a fornire non solo categorie di interpretazione ma anche strumenti di lotta), vale la pena soffermarsi sui ben noti cinque “contrassegni”, vale a dire sulla caratterizzazione dell’imperialismo e su una possibile proiezione nell’attualità.
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Podemos, ascesa e fallimento
di Raúl Rojas-Andrés, Samuele Mazzolini, Jacopo Custodi
Il populismo di sinistra di Podemos è rimasto vittima della sua cultura elitaria. I leader della formazione viola sono riusciti a suscitare ammirazione intellettuale, ma non identificazione politica, e questo ha favorito il cortocircuito della sua operazione populista
Quest’anno ricorre un decennio dalla nascita di Podemos, il partito che è emerso sull’onda del movimento 15M e ha sfidato l’austerità nelle piazze delle principali città spagnole. Nei primi giorni, tutto sembrava possibile. Ben presto si è trovato in testa ai sondaggi nazionali con oltre il 20% di consensi, prevedendo di superare il Partito Socialista (PSOE) terremotando il sistema dei partiti che resisteva in Spagna dalla transizione alla democrazia alla fine degli anni Settanta.
Ma da allora molto è cambiato. Oggi, la rappresentanza di Podemos nel Parlamento spagnolo è scesa a soli quattro deputati. Al suo apice, ne aveva settantuno. Alle elezioni di giugno per il Parlamento europeo, Podemos e la sua costola, Sumar, hanno corso separatamente e hanno ottenuto rispettivamente solo il 3,3% e il 4,7%.
Podemos ha fatto irruzione sulla scena adottando una strategia populista ispirata alla sinistra latinoamericana e al lavoro del teorico politico argentino Ernesto Laclau. Si è discostato dalle logiche, dai discorsi e dai simboli tradizionali della sinistra spagnola. Invece di inquadrarsi in opposizione alla destra, ha cercato di fare appello al “popolo” in opposizione alla “casta”. Ma la sua strategia si trovò ben presto divisa in due fazioni opposte.
La prima, guidata da Pablo Iglesias e nota come “pablismo”, sosteneva un ritorno a un’identità apertamente di sinistra. La seconda, quella guidata da Íñigo Errejón, riuniva coloro che volevano mantenere la tabella di marcia populista: costruire ampie maggioranze attorno a un discorso volutamente ambiguo, abbastanza ampio da includere settori diversi e non politicizzati della popolazione. L’“Errejonismo” ha finito per lasciare il partito dando vita a un proprio gruppo, Más País, che ora fa parte di Sumar.
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Jean Luc Nancy e il non finito della democrazia
di Alessandro Simoncini
La democrazia neoliberale di cui oggi sperimentiamo l’ormai lunga crisi, non è mai stata la democrazia trionfante e compiuta che si sarebbe dovuta affermare sulla spinta della vittoria epocale del mercato. Dopo quella che in modo hegelianamente perverso Francis Fukuyama definì la fine della storia, la sconfitta del “socialismo reale” e di ogni comunismo inteso come possibile alternativa politica, economica e sociale, non ha portato a una felice fine della democrazia[1]. Al contrario – sopravvissuta come uno zombie alla “fine della fine della storia” – più che realizzare una democrazia senza fine, almeno a partire dalla crisi degli anni ’70 la democrazia neoliberale ha covato a lungo in seno tutte le contraddizioni che rischiano oggi di condurre a una fine della democrazia di segno del tutto opposto a quella gaudente ed espansiva auspicata da Fukuyama[2]. Di tutto ciò era pienamente consapevole Jean-Luc Nancy, quando nel 2019 scriveva: “trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro i conti con i sogni sull’estensione mondiale della democrazia non tornano”[3]. A fare i conti con quei sogni, del resto, Nancy ha dedicato una parte significativa sua riflessione politica e testi molto rilevanti. Le pagine che seguono prendono in esame solo una piccola parte dell’una e degli altri.
- Critica dello spettacolo e della democrazia “gestionale”
Già alla metà degli anni ’90, nel suo Essere singolare plurale, un libro che non trattava ancora direttamente il tema della democrazia, Nancy sosteneva che le società democratiche capitalistiche realmente esistenti erano svuotate di ogni “«sociazione», di ogni «mettersi in società», per non parlare – aggiungeva senza nostalgie –, delle «comunità» e delle «fratellanze» con cui si forgiavano un tempo le scene primordiali”[4].
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Laboratorio Palestina
di Nico Maccentelli
Antony Loewenstein: Laboratorio Palestina, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00
Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo
Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi la formula è in perfetta malafede. Se l’hasbara, ossia quella rete ben organizzata dal sionismo per screditare e buttare fango su tali realtà solidali con il popolo palestinese e che è ramificata in ogni partito istituzionale, in ogni redazione mediatica, insomma ovunque viene prodotta informazione e politica, è così potente una ragione c’è.
E qui passiamo alla seconda premessa: la ragione sta nel fatto che senza Israele, l’Occidente collettivo, ossia quella parte di mondo dominata dall’unipolarismo atlantista a dominanza USA, avrebbe seri problemi di tenuta davanti all’avanzare di quell’altra parte di mondo che si sta affermando sul piano economico e geopolitico e con i conflitti in corso anche sul piano militare. La questione palestinese non è qualcosa di a sé stante ma è parte di quella guerra mondiale a pezzi, per parafrasare il papa, che rischia ogni giorno di più di diventare mondiale e nucleare. Per questa ragione, al di là degli appelli pelosi e ipocriti di tale Occidente a una tregua in Palestina e in Libano, la potenza militare di questo cane da guardia che non conosce limiti e regole, serve eccome.
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L’arretratezza del rapporto Draghi sulla competitività europea
di Andrea Fumagalli
Qualche giorno fa, la commissione Europea ha reso pubblico il rapporto Draghi sul “Futuro della competitività europea”. Tale rapporto era stato commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente.
Il rapporto consta di due parti – parte A e parte B – e contiene 170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sottoproposte di vario tipo.
La prima parte è un’analisi riguardante la strategia di competitività per l’UE che vede condensate in circa 60 pagine i punti chiave del rapporto Draghi.
La seconda parte approfondisce in 328 pagine i vari punti individuando dieci principali settori di intervento (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) e cinque policy orizzontali, rispettivamente accelerazione dell’innovazione, riduzione del gap delle competenze, sostegno agli investimenti, ripresa della competitività e rafforzamento della governance. Nella parte B sono contenute le proposte dettagliate corredate da grafici, dati e tabelle che spiegano in particolare i costi della sovranità nazionale e le potenzialità della sovranità europea.
Diverse sono state le reazioni politiche in Italia. Mentre partiti come il Partito Democratico, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione e Italia Viva hanno ampiamente concordato – anche se con sfumature diverse – che le proposte di Draghi sono un passo nella giusta direzione, la Lega, da un lato, il Movimento Cinque Stelle e Alleanza Versi Sinistra, dall’altro, con motivazioni antitetiche, hanno manifestato forti perplessità critiche.
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