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Perché Erwin Schrödinger torna all’antica Grecia
di Antonio Sparzani
Nel 1996 la Cambridge University Press pubblica per la prima volta, riuniti in un unico volume, due scritti di Erwin Schrödinger (Vienna 1887-1961), Nature and the Greeks, pubblicato la prima volta nel 1954 e l’altro, Science and Humanism, pubblicato già nel 1951. Io comprai questa edizione della CUP una ventina di anni fa, la trovai estremamente interessante e, di recente, mi sono chiesto se esiste in italiano. Dopo varie ricerche, che in un primo tempo sembravano dire che il secondo dei due scritti era stato già bellamente tradotto, ma il primo no – tanto che pensavo di proporne la traduzione a qualche editore – mi accorsi invece che c’era stato un (per me) oscuro editore triestino, Beit Edizioni, che l’aveva tradotto, mettendo però come titolo Scienza e Umanesimo e quasi come sottotitolo La natura e i Greci. Contattai l’editore, il dr. Piero Budinich, che era anche il traduttore e mi confermò che il libro è ormai introvabile, cosa che avevo già scoperto indagando qua e là, ma aggiunse anche che stava chiudendo la casa editrice. Però mi mandò molto cortesemente il pdf del volume (dal quale traggo le citazioni che seguono), nel quale la mia pignoleria voleva controllare la cura editoriale, note e via dicendo, e scoprii così che oltre all’introduzione originale del fisico Roger Penrose, ne aveva aggiunta una anche Carlo Rovelli, che ormai pubblica molto in Italia.
Tutto questo per dire che non mi propongo di recensire un libro ormai irreperibile, ma di spiegare le ragioni addotte da Schrödinger per tornare a indagare il pensiero della Grecia classica. A questa spiegazione è infatti dedicato il primo capitolo del libro, letteralmente “Le ragioni per tornare al pensiero antico”. Schrödinger scrive direttamente in inglese (che gli aveva insegnato da piccolo la sua britannica nonna materna) e si tratta del testo di alcune conferenze che tenne nel 1948, prima a Dublino e poi a Londra (Shearman lectures).
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Non votare
di Coordinamenta femminista e lesbica
<Hanno detto – non prendertela… Hanno detto – stai calma… Hanno detto – smettila di parlare… Hanno detto – stai zitta… Hanno detto – stai seduta… Hanno detto – abbassa la testa… Hanno detto – continua a piangere, lascia scorrere le lacrime… Come dovresti reagire? Dovresti alzarti ora dovresti stare in piedi tenere le spalle dritte tenere alta la testa… dovresti parlare dire cosa pensi dirlo forte urlare! Dovresti urlare così forte da farli correre a nascondersi. Diranno – “Sei una svergognata!” Quando lo senti, ridi… Diranno – “Hai un carattere dissoluto!” Quando lo senti, ridi più forte… Diranno – “Sei corrotta!” E tu ridi, ridi ancora più forte… Sentendoti ridere, grideranno, “Sei una puttana!” Quando dicono così, tu mettiti le mani sui fianchi, stai ferma e dì, “Sì, sì, sono una puttana!” Resteranno scioccati. Ti fisseranno increduli. Aspetteranno che tu dica di più, molto di più… Gli uomini fra loro arrossiranno e suderanno. Le donne tra loro sogneranno di essere una puttana come te. > TASLIMA NASRIN < Vai ragazza!>
Che il neoliberismo sia una vera e propria ideologia e che le sue linee di tendenza siano molto chiare ce lo dice, se mai ce ne fosse bisogno, la parabola politicoeconomica che l’Italia ha percorso in tutti questi anni.
Il PD è stato il motore trainante delle scelte che hanno portato alla privatizzazione di importanti strutture pubbliche, alla svendita di interi settori produttivi alle multinazionali, alla aziendalizzazione della sanità, della scuola e degli altri servizi sociali, alla trasformazione del mercato del lavoro, nel senso di una precarizzazione selvaggia, alla distruzione dei ceti medi e delle piccole strutture economiche, alla elaborazione di una vera e propria ideologia della “sicurezza” e “legalità”, apparato teorico giustificativo di una serie di stravolgimenti dello stesso diritto borghese, primo fra tutti la creazione di quelle infami istituzioni totali chiamate oggi Cpr e del principio della detenzione amministrativa e delle sanzioni amministrative. Riforme che hanno avuto un forte impatto sul tessuto sociale e culturale del Paese, determinando alcuni spostamenti del comune sentire, progressivamente sempre più assuefatto all’utilizzo di strumenti di controllo generalizzato, capillare, diffuso e parossistico di ogni azione personale e collettiva.
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Energia: dieci verità per fermare la catastrofe
di Leonardo Mazzei
Breve riassunto
Poiché ci è venuto fuori un pezzo un po’ lungo, iniziamo con un riassunto sintetico di quel che abbiamo scritto. In particolare, sulle conclusioni a cui siamo giunti.
Primo. La questione energetica, dunque quella del caro bollette, è oggi centrale. E lo sarà per un periodo non breve.
Secondo. Le misure del governo italiano, come quelle dell’Ue, sono del tutto inadeguate ad affrontare l’emergenza che loro stessi hanno creato.
Terzo. Nell’esplosione dei prezzi il ruolo della speculazione è importante, ma essa non avrebbe mai raggiunto questi livelli se non fossimo di fatto in guerra contro la Russia.
Quarto. Le politiche anti-russe ci stanno portando verso una carenza strutturale, e di lungo periodo, del gas. Al di là dei picchi attuali, l’aumento dei prezzi che si profila per il futuro è comunque insostenibile per l’economia italiana.
Quinto. Per venire fuori dall’attuale disastro bisogna innanzitutto revocare le sanzioni, portando l’Italia fuori dalla guerra e ristabilendo normali relazioni politiche e commerciali con Mosca.
Sesto. Si potrà porre fine alla speculazione solo con l’uscita da tutti i mercati borsistici dell’energia, quelli internazionali e quelli nazionali. Questi ultimi andranno semplicemente chiusi.
Settimo. E’ necessario nazionalizzare il sistema energetico, a partire da Eni ed Enel. Alla nuova Enel il compito di produrre e distribuire l’energia elettrica per l’intero Paese. All’Eni quello di garantire tutti gli approvvigionamenti con contratti di lungo periodo con i vari fornitori. Allo Stato il ruolo di programmazione e di fissazione di prezzi stabili amministrati.
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Gran Bretagna: gli scioperi contro l'inflazione non si fermano
di Paul Demarty
Dal giugno scorso la Gran Bretagna è scossa da un’ondata di scioperi che vedono come protagonisti i settori strategici della classe lavoratrice. Il principale bersaglio è l’impennata dell’inflazione e il muro contro muro opposto dal governo conservatore alle richieste dei sindacati. A luglio – anche a causa della sua incapacità di frenare il movimento rivendicativo – il premier Boris Johnson ha dovuto dimettersi, senza per questo che gli scioperi si siano arrestati. Anzi, proprio in questi giorni in cui un altro esponente dei Tory si appresta a installarsi a Downing street, la dinamica della lotta di classe continua la sua traiettoria ascendente coinvolgendo strati sempre più larghi di lavoratori.
In un contesto in cui il caro-vita erode il potere d’acquisto anche nel nostro paese – mentre la burocrazia CGIL riesce a rispondere solo sul piano verbale – è importante che l’esperienza del movimento operaio britannico venga discussa dai lavoratori italiani.
In quest’ottica, pubblichiamo la traduzione di un’analisi delle lotte in corso in Gran Bretagna, uscita la settimana scorsa sul sito dell’estrema sinistra britannica, Weekly Worker. Il pezzo è particolarmente interessante poiché non si limita all’elenco degli scioperi, ma li inserisce nel quadro della crisi politica che coinvolge il Regno Unito, mentre fornisce un giudizio critico sulle campagne di sostegno alla lotta contro il carovita portate avanti dalla sinistra del partito laburista vicina a Corbyn. Si tratta di campagne “liquide” rivolte a un pubblico generico, quindi strutturalmente incapaci di radicarsi nel movimento operaio (figuriamoci di proporre una direzione); un modus operandi che in Italia conosciamo bene.
* * * *
A nessun lettore di Weekly Worker può essere sfuggita l’enorme ondata di lotte industriali degli ultimi mesi. Si tratta di un fenomeno senza precedenti da quando chi scrive milita nella sinistra (ovvero dalla metà degli anni duemila).
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Karl Marx: umanismo e materialismo
di Caterina Genna (Università di Palermo)
Ad inizio del XXI secolo, consolidatasi la crisi delle ideologie, la memoria storica induce a ripensare alle opere di alcuni autori, che hanno caratterizzato il pensiero occidentale contemporaneo. Tra gli autori che di tanto in tanto tornano di moda, oppure sono ricordati con nostalgica memoria, trova posto Karl Marx, troppo spesso legato alle vicende storiche del XX secolo, dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 al processo di destalinizzazione avviato in URSS con lo svolgimento del XX congresso del PCUS nel 1956; nonché dall’esplosione del movimento giovanile del 1968 alla caduta del muro di Berlino nel 1989. L’autore de Il capitale, nel corso della seconda metà del XX secolo, è stato oggetto di studio e di continue reinterpretazioni alla luce della riscoperta o della pubblicazione postuma di non poche opere giovanili1. Sempre nel corso della seconda metà del XX secolo, è stato oggetto di facili entusiasmi, sia in Europa orientale che in Europa occidentale; con la riscoperta di alcuni scritti giovanili, per un verso (in Europa occidentale), è stato osannato per avere posto al centro della sua produzione il cosiddetto problema della persona umana nell’ampio contesto della Sinistra hegeliana2; per un altro verso (in Europa orientale), è stato assunto a simbolo di un sistema politico che riteneva di potere cambiare il mondo3. Venuto meno il sistema politico del socialismo reale, l’opera di Karl Marx costituisce a pieno titolo una delle componenti più interessanti della storia della cultura contemporanea, se si presta la dovuta attenzione, oltre che agli scritti del Marx giovane, a quelli del Marx giovanissimo solitamente trascurati. Se ci si sofferma sui contenuti delle opere dedicate all’economia politica, si può riscontrare che il problema della persona umana continua a costituire il tema centrale del materialismo storico e dialettico, già posto ed elaborato nelle opere giovanili sul piano antropologico e sociologico.
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Interrogarsi sulla natura del sistema politico-economico cinese
di Bollettino Culturale
Rémy Herrera, economista e ricercatore al Centro di Economia della Sorbona (CNRS), e Zhiming Long, economista e professore all’Università Tshinghua di Pechino, sono autori di un testo molto interessante sul socialismo con caratteristiche cinesi: “La Cina è capitalista?”.
Questo libro, pubblicato in Italia da Marx21, affronta questioni contemporanee cruciali, come la rinascita della Cina come una delle principali potenze del sistema internazionale, le cause della sua rinascita e dove si sta dirigendo. È un libro olistico e una lettura consigliata a chiunque sia interessato a questi problemi. La principale questione sollevata dagli autori, che mette in discussione le teorie prevalenti in questo ambito, è che, nel contesto della crescita economica cinese, non va trascurato il ruolo della Cina maoista nel periodo 1949-1978. Gli autori sono innovativi nel modo in cui rompono con le correnti dominanti e nelle informazioni che aggiungono, avendo creato serie temporali di grafici per giustificare le proprie tesi.
Va ricordato che per quanto riguarda i dati statistici sulla Cina popolare non c’è nessun consenso o dato ufficiale sul periodo storico analizzato.
Il lavoro si articola in tre capitoli: in un primo capitolo, intitolato “Caratteristiche generali, elementi storici e confronti internazionali”, gli autori intendono familiarizzare i lettori con alcuni dati, informazioni e contestualizzazioni riguardanti la Cina contemporanea. In quanto tali, menzionano il fatto che la Cina è un paese geograficamente esteso, che ospita la più grande popolazione del mondo.
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Montagne di debiti in movimento
di Tomasz Konicz
Il prodigioso mondo dei mercati obbligazionari - attualmente molto più eccitante di quanto vorrebbero molti quadri dell'economia statale e finanziaria
Tediosi, monotoni, mortalmente noiosi:così sono di solito i mercati dei titoli obbligazionari dei centri del sistema mondiale. Quando il capitale necessita di essere parcheggiato in maniera sicura, quando i fondi pensione hanno bisogno di garantire una rendita sicura, per quanto bassa, quando le compagnie di assicurazione desiderano depositare il loro denaro, ecco che allora i soldi cominciano a fluire in direzione dei titoli di Stato statunitensi o tedeschi, i quali vengono considerati come la base stabile del sistema finanziario mondiale, la spina dorsale della finanziarizzazione neoliberista del capitalismo in questi ultimi decenni. Per poter quantificare tutto questo cemento sul cui è stato costruito il castello di carte della finanza neoliberista degli ultimi decenni, l'unità di misura appropriata, è il trilione [in italiano, mille miliardi!]: alla fine del 2020, con un volume di oltre 22mila miliardi di dollari, il mercato delle obbligazioni sovrane degli Stati Uniti aveva il volume più grande al mondo, seguito dalla Cina (20mila milioni di dollari) e dal Giappone (12mila milioni di dollari) [*1]. A livello globale, nel periodo in questione sono stati scambiati 128,3mila miliardi di dollari di obbligazioni, di cui il 68% era costituito dal debito del settore pubblico, e il 32% da debito societario.
Di solito è più emozionante stare a guardare l'erba crescere, piuttosto che osservare i mercati dei titoli del Tesoro statunitense. Normalmente. Il fatto che la sfera finanziaria sia al centro di quella che è - a dir poco - una crisi insolita che sta erodendo le sue stesse basi, possiamo misurarlo proprio dal movimento dei mercati obbligazionari negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, come in un giro sulle montagne russe che fa saltare i nervi sia ai grandi che ai piccoli investitori.
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La dittatura della finanza e il mercato del gas
di Andrea Fumagalli
Prefazione
Il 12 e 13 settembre 2008, nel pieno del crollo finanziario dei subprime negli Usa, due giorni prima del fallimento della Lehmann Brother (15 settembre 2008), a Bologna si svolgeva un convegno organizzato da UniNomade sui mercati finanziari e la crisi dei mercati globali. Gli atti di quel convegno (e molto di più) verranno pubblicati l’anno successivo da Ombre Corte a cura di Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra con il titolo Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici[1]. All’interno di quella raccolta di saggi, compariva un testo di Stefano Lucarelli: “Il biopotere della finanza”. All’epoca, tale titolo ci pareva più che mai azzeccato per descrivere il dominio delle oligarchie finanziare nel definire le traiettorie di accumulazione del nuovo capitalismo delle piattaforme, che da lì a poco sarebbe emerso dalle ceneri di quella crisi.
Oggi a quasi 15 anni da quegli eventi, possiamo dire di aver sottovalutato il problema. Certo, la nostra analisi si era rivelata più che corretta nel sottolineare il ruolo centrale e dominante della finanza speculativa nel nuovo (dis)ordine monetario internazionale e il tendenziale declino del dollaro come moneta di riserva internazionale. Ma nel frattempo, il biopotere (che poteva dare origine anche a qualche forma di contropotere, come illusoriamente ha fatto credere la parabola del bitcoin) si è trasformato in una vera e propria dittatura.
La finanziarizzazione delle materie prime
Ciò che sta succedendo nella determinazione del prezzo del gas nel mercato di Amsterdam lo conferma ampiamente. Già nel passato c’erano state avvisaglie della capacità della speculazione finanziaria, oggi sempre più essenza e anima dei mercati finanziari, di stravolgere in modo quasi irreversibile le stesse regole di funzionamento di un mercato neo-liberista.
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Flat tax: rubare ai poveri per ingrassare i ricchi
di Aristoteles
Vorremmo sottoporre ai lettori alcune riflessioni a partire da un piccolo “caso di studio”: il tema elettorale della Flat Tax. Ma il nucleo vero del nostro ragionamento è più ampio – dare qualche spunto su come affrontare questo ed altri temi da sinistra. Per inciso: non iniziamo a discutere se esistono ancora destra e sinistra prima di aver finito l’articolo, per favore.
A metà articolo troverete una cesura, che separa radicalmente due prospettive: laddove infatti la disamina dettagliata di una politica è un momento necessario per capire se rigettarla, non è detto che questo approccio analitico sia poi il modo migliore di contrastarla. In questa seconda sezione faremo pertanto qualche riflessione su come combattere politiche ingiuste ed indigeste.
Sia chiaro: non vogliamo dire la parola definitiva sulla Flat tax; men che meno risolvere i (tanti) problemi della sinistra in questo banale articoletto. Non abbiamo le “istruzioni per l’uso”, sebbene questa sia la forma che provocatoriamente abbiamo adottato. Non vogliamo insegnare niente a nessuno. Vorremmo discutere – assieme – qualche spunto, eclettico, di riflessione.
Atto primo
Come affrontare un tema, dal punto di vista analitico, passo dopo passo.
1. Definire concettualmente l’oggetto
Cosa vuol dire Flat Tax, nelle sue accezioni? Essenzialmente, per Forza Italia e Lega, un’aliquota unica per tutti coloro che sono soggetti a imposizione fiscale (cittadini e imprese), che stanno al di sopra di una “no tax area”. Ad esempio, si può decidere che sopra gli 8 o i 12mila euro di reddito annuo, si applichi una aliquota fissa del 23% su quanto supera questa soglia (proposta di Forza Italia).
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La guerra in un mondo senza futuro
di Marino Badiale
1. Introduzione.
Il primo dei numeri della rivista “Limes” dedicati alla guerra in Ucraina (uscito a marzo) aveva il titolo “La Russia cambia il mondo”. È un titolo che coglie molto bene uno degli aspetti di fondo della situazione attuale, cioè il cambiamento netto, nella realtà politica mondiale, causato dall’attacco della Russia all’Ucraina. In questo intervento cercherò di esaminare come questo cambiamento si colleghi all’analisi della situazione storica contemporanea che ho sviluppato in vari interventi su questo blog, analisi la cui tesi principale è che l’attuale società capitalistica mondializzata si sta avviando verso un drammatico collasso.
Il punto di partenza per queste riflessioni è la sensazione che nei paesi occidentali buona parte dell’opinione pubblica, ma anche degli analisti e degli stessi ceti dirigenti, sia stata colta di sorpresa dall’azione russa, ritenendo evidentemente molto improbabile quello che poi è realmente accaduto. Anch’io ero di questa opinione, perché mi sembrava che una guerra, come quella attualmente in corso, fosse contraria agli interessi di tutti gli attori in gioco, e ovviamente confidavo nella razionalità di tali attori. La realtà ha smentito queste opinioni (che, come ho indicato, ritengo non fossero solo mie), e naturalmente occorre prenderne atto. D’altra parte, il fatto che la guerra sia iniziata e prosegua mi sembra non invalidi del tutto la tesi che vi siano, in questo fatto, forti elementi di irrazionalità, nel senso sopra indicato: tale guerra non appare del tutto congrua agli interessi dei vari attori coinvolti. Questo intervento è dedicato ad una riflessione su questo punto, cioè su come questa vicenda, e la sua disturbante irrazionalità, illumini alcuni aspetti di fondo della realtà contemporanea.
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Il ritorno di Paul Volcker
di Paul Mattick, Jr
Abbiamo tradotto questo interessante articolo di Paul Mattick da Brooklyn Rail che ha il pregio di chiarire la direzione verso cui sta correndo la politica economica americana ed occidentale in generale (gli echi nel nostro paese sono chiari nelle dichiarazioni del Governatore della Banca d'Italia Visco sulla necessità di "evitare la spirale prezzi-salari" presa pari pari dal presidente della FED Powell). La sostanza è che sebbene la dinamica inflazionistica sia in gran parte differente da quella degli anni '70, la ricetta che sta venendo progressivamente imposta è la stessa, quella del famigerato Paul Volcker del cosiddetto "Volcker Shock". Lo scopo, senza girarci troppo intorno, è quello di un'ulteriore appropriazione delle ricchezze dall'alto attraverso l'abbassamento dei salari, il fallimento delle aziende medio-piccole e una ancora maggiore concentrazione dei capitali in poche mani. Di nuovo, l'innesco della recessione alle porte, non sta solo negli esiti della pandemia e delle guerra in Ucraina, ma nella forte tensione speculativa del capitalismo occidentale. La guerra semmai ne è in parte una conseguenza nello scacchiere geopolitico. Tra grandi concentrazioni di capitale, aumento della speculazione sui mercati, investimenti nell'industria militare e tendenze protezionistiche lo scenario somiglia insopportabilmente a quello anteriore alla Prima Guerra Mondiale, sebbene con le dovute differenze e ciò dovrebbe interrogarci seriamente, ma questa è un'altra questione, intanto buona lettura!
* * * *
Cardi B, astuta nell'interpretare la società, ha capito bene: "Quando tutti voi pensate che annunceranno che entreremo in recessione?" ha twittato il 5 giugno. Nove giorni dopo, il New York Times si è portato al passo, strombazzando in un titolo di testa a pagina 1 della sezione Business, "UN BRIVIDO CORRE ATTRAVERSO WALL STREET".
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Prove generali di dittatura ambientale. Niente e nessuno potrà opporsi al Commissario unico di Draghi
di Francesco Cappello
Al fine di riuscire a dare le necessarie garanzie di realizzazione, in tempi rapidi, di quei progetti che potrebbero risultare invisi alle popolazioni locali ma che viceversa stanno molto a cuore a tutti quegli interessi, sempre più spesso esterni, che hanno colonizzato economicamente e politicamente il nostro Paese, ecco la figura del Commissario unico di cui si parlerà nello specifico più avanti, con il compito di realizzare in forma di iter agevolato dei “procedimenti unici” puntanti all’obiettivo preposto in un tempo massimo di 4 mesi; si tratta di prove generali di un autoritarismo governativo volto a spianare tutti gli eventuali ostacoli di un normale iter autorizzativo se in grado di minacciare la realizzazione del progetto o anche solo l’allungamento dei tempi di realizzo dell’opera in questione.
Alla base della forza persuasiva di tali iter accelerati la strategia e le politiche emergenziali.
Una strategia ormai consolidata secondo la quale generi ad hoc, artificiosamente, un’emergenza o ne adotti una esistente da pompare adeguatamente utilizzando tutti i mezzi di “informazione” a disposizione del mainstream, al fine ultimo di poter poi proporre la soluzione che ti permetterà di realizzare, insieme al business che ti sta a cuore, quegli obiettivi politici e di controllo sociale a cui puntavi.
L’emergenza sanitaria ha diffuso la paura della covid in seguito a contagio e infezione del virus ingegnerizzato, il Sars Cov 2, diffondendo e rafforzando la voce che essa fosse una malattia per la quale non esistesse alcuna cura efficace. Su questa base si è poi potuto affermare il successo della campagna vaccinale di massa che ha prodotto ed autorizzato in tempi record vaccini ogm (più di 200 i vaccini messi a punto su scala planetaria) e farmaci di nuova generazione (più di 500) utilizzanti bio e nano tecnologie autorizzati con procedura accelerata FAST TRACK.
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Il conflitto in Ucraina accelera la fine del dominio dell’Occidente
di Thierry Meyssan
Il conflitto ucraino, presentato come un’aggressione della Russia, è invece l’applicazione della risoluzione 2202 del 17 febbraio 2015 del Consiglio di Sicurezza. Francia e Germania non hanno tenuto fede agli impegni assunti con l’Accordo di Minsk II, quindi per sette anni la Russia si è preparata allo scontro attuale. Mosca ha previsto le sanzioni occidentali con molto anticipo, sicché le sono bastati due mesi per aggirarle. Le sanzioni scompaginano la globalizzazione statunitense, perturbano le economie occidentali spezzando le catene di approvvigionamento, facendo rifluire i dollari verso Washington e provocando un’inflazione generale, causando infine una crisi energetica. Chi la fa l’aspetti: gli Stati Uniti e i loro alleati si stanno scavando la fossa con le proprie mani. Nel frattempo le entrate del Tesoro russo in sei mesi sono aumentate del 32%.
Nei sette anni appena trascorsi spettava alle potenze garanti dell’Accordo di Minsk II (Germania, Francia, Ucraina e Russia) farlo rispettare. Non l’hanno fatto, sebbene l’intesa sia stata avallata e legalizzata il 17 febbraio 2015 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e a dispetto delle affermazioni sulla necessità di proteggere i cittadini ucraini, minacciati dal loro stesso governo.
Il 31 gennaio 2022, allorquando cominciavano a circolare notizie su un possibile intervento militare russo, il segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale di Difesa ucraino, Oleksy Danilov, sfidava Germania, Francia, Russia e Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dichiarando: «Il rispetto degli Accordi di Minsk significa la distruzione del Paese. Quando furono firmati sotto la minaccia armata dei russi e sotto lo sguardo di tedeschi e francesi era già chiaro a tutte le persone razionali che sarebbe stato impossibile applicarli» [1].
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Draghistan: se non riusciamo a uscire dal tunnel... almeno arrediamolo*
di Luca Busca
Qui e qui le puntate precedenti
Il fatto che il governo Draghi sia caduto non comporta in alcun modo la fine del Draghistan. Al contrario lo scivolone politico assume sempre di più le caratteristiche di un golpe bianco. Per l’ennesima volta in Italia ha avuto luogo un evento straordinario, mai accaduto prima ma perfettamente in linea con i dettami costituzionali. Il premier si è dimesso pur avendo ottenuto la fiducia tutte le volte, moltissime, l’abbia richiesta. Caso ha voluto che fosse scelto il mese di luglio per rassegnare quelle anomale dimissioni, raccolte con spontanea complicità dal Presidente Mattarella, che con poco italica sollecitudine ha fissato le elezioni al 25 settembre. Il solerte Capo dello Stato ha poi avallato un espediente legislativo che, pur infierendo sulla già stremata costituzione, ha esentato tutte le forze politiche allineate con il regime dalla raccolta firme per la presentazione delle liste. Nel più assoluto rispetto dei principi democratici e di uguaglianza le costituende alleanze antisistema sono state, invece, costrette a rincorrere i firmatari tra ombrelloni e lettini o in estenuanti trekking d’altura. Per bilanciare la sicura vittoria della destra la povera Giorgia Meloni è stata obbligata a rinnegare le proprie origini fasciste, qualsiasi forma di correlazione con il mostro Putin, ogni sfumatura avversa al green pass e al vaccino. Si è dovuta dichiarare atlantista convinta e anche da sempre, in compenso e stata lasciata libera di esprimere tutta la sua propensione alla guerra e alla distruzione ambientale mediante ripristino del nucleare. Al fine di mantenere le strette relazioni politiche e programmatiche che legano i due fronti immaginari della scena italiana, è toccato al solito Berlusconi perdere qualche pezzo importante per il bene della patria. Così, come fece Angelino Alfano, i cagnolini più fedeli (Brunetta, Carfagna e Gelmini) hanno dovuto trasmigrare verso la fazione opposta, alla corte di Calenda e del più privo di vergogna dei politici italiani, Matteo Renzi.
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Il neoliberismo è il problema del XXI secolo
di Fabrizio Li Vigni
Introduzione (1)
La domanda cui mi propongo di rispondere in queste pagine è la seguente: esiste un legame fra il cambiamento climatico, le crisi migratorie, le disuguaglianze, le carestie, la mortalità infantile, lo sfruttamento minorile, la disoccupazione, l’evasione fiscale, il degrado dei servizi pubblici e l’estinzione delle specie viventi? E se esiste, di che si tratta?
Il pamphlet che avete fra le mani ha come obiettivo di mostrare le interdipendenze che connettono tutti i principali problemi che i popoli della Terra sono ad oggi costretti ad affrontare. Tale filo conduttore va spesso sotto il nome di «neoliberismo». In un’intervista recente, il filosofo canadese Alain Deneault(2) affermava che il neoliberismo «è il problema del XXI secolo»(3). Nelle prossime pagine vorrei mostrarvi perché.
La maggior parte della cosiddetta «opinione pubblica» disconosce tanto il termine quanto il suo significato; spesso ignora persino che ci possa essere un minimo comun denominatore fra i fenomeni sopra citati. I politici che conoscono il neoliberismo non lo nominano quasi mai: quelli che lo sostengono non hanno interesse a dare ai cittadini un’arma concettuale potente per combatterlo; e quelli che lo combattono hanno paura di rendersi incomprensibili ai loro elettori.
Di fatto, creatori ed esecutori di questo sistema economico, politico e culturale sono abilissimi nel renderlo indecifrabile. Eppure se avete sentito parlare di «austerità», «società dei consumi», «aggiustamenti strutturali», «libero mercato», «mondializzazione», «globalizzazione»,«consenso di Washington», «turbocapitalismo», «libero scambio», «capitalismo finanziario», «reaganismo», «thatcherismo», «laissez-faire»(4) (lasciar fare), «deregulation» (deregolazione), «el modelo» (come lo chiamano in Cile), «new public management» (nuovo management pubblico), «gig economy» (economia dei lavoretti), «flessibilità», «flexicurity» (flessicurezza), «delocalizzazioni», «dumping salariale/fiscale/ambientale», «crony capitalism» (capitalismo clientelare o di collusione), «governance» (governanza), di «deep state» (Stato nello Stato) o di «filantrocapitalismo», allora avete sentito parlare di questo regime, di una sua variante o di una sua componente.
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La propaganda NATO è a nudo. Le implicazioni dello studio del "Marine Corps Gazzette"
di Roberto Buffagni
Espongo con la massima brevità le principali implicazioni, a mio avviso di eccezionale rilievo dello studio dedicato all’invasione russa dell’Ucraina pubblicato dalla “Marine Corps Gazette” nei numeri di giugno e agosto 2022. L’Autore è “Marinus”, un ufficiale superiore del Corpo dei Marines. La traduzione italiana integrale dello studio di “Marinus” è disponibile ai due link in calce[1].
Per intendere quanto sto per scrivere è dunque necessario aver letto con attenzione il testo di “Marinus” che mi accingo a commentare.
1. Perché lo studio di Marinus è così importante? Perché è un eccellente studio del conflitto in Ucraina, radicalmente discordante dall’interpretazione ufficiale largamente diffusa in Occidente, ed è: a) scritto da un tecnico di elevata competenza b) scritto da Autore insospettabile di parzialità a favore dei russi c) pubblicato dalla rivista del Corpo dei Marines: indirizzato dunque anzitutto a un reparto militare che deve prepararsi ad affrontare i russi sul campo di battaglia, e al quale appartiene anche l’Autore. È autoevidente che per affrontare con successo un nemico sul campo di battaglia è indispensabile conoscerlo e valutarlo nel modo più accurato, realistico e veritiero possibile. Dunque lo studio di Marinus proviene da una fonte insieme competente, obiettiva e affidabile, che ha tutto l’interesse ad accertare la verità.
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Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto in Carlo Vercellone
di Bollettino Culturale
Carlo Vercellone con la sua tesi sulla “crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto” afferma che il profitto e la legge del valore, con lo sviluppo del capitale, acquisiscono un carattere maggiormente rentier. Dopo la crisi del fordismo si può osservare un ritorno e una moltiplicazione della rendita, che implica una generale inversione del rapporto tra salario, rendita e profitto. Secondo l'autore, c'è un approccio molto diffuso all'interno delle teorie marxiste che considerano la rendita un’eredità precapitalista che ostacola lo sviluppo del capitale stesso. Il capitalismo puro non consentirebbe l'esistenza della rendita. Allo stesso modo, esiste una lettura che sostituisce la rendita fondiaria con la rendita finanziaria e interpreta la crisi del 2008 come un conflitto tra questa vocazione rentier del capitale finanziario e il capitale produttivo "buono", che genera profitto e occupazione. Capitale e lavoro avrebbero stipulato un accordo che implicherebbe il controllo del prezzo dei beni, salari compresi, con l'obiettivo di garantire la piena occupazione e ristabilire il funzionamento della legge del valore tempo di lavoro socialmente necessario, contro le distorsioni causate dall'intervento del settore finanziario sul settore produttivo. Vercellone afferma di non essere d'accordo con questa lettura per quattro motivi: (1) la rendita non è al di fuori delle dinamiche del capitale, né si oppone al profitto; (2) la rendita non è separata dall'aumento della dimensione immateriale e cognitiva del lavoro, successiva alla crisi del fordismo, di cui fanno parte i servizi finanziari; (3) c'è un esaurimento della logica industriale dell'accumulazione di capitale e un aumento della vocazione rentier e speculativa dello stesso capitalismo produttivo; (4) nega la natura globale della finanza, che ora è nell'intero ciclo economico, rendendo ancora più difficile distinguere tra economia finanziaria ed economia reale.
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Reagire e non aspettare: il manifesto della lotta di classe nel XXI secolo
di Lidia Undiemi
Mentre il dibattito sul lavoro prosegue spedito su questioni spicciole, la realtà corre molto più velocemente verso un inesorabile stravolgimento della capacità dei lavoratori di produrre reddito, per sé e per la propria famiglia.
Sino a poco tempo fa abbiamo vissuto nel mito del lavoro dipendente “stabile” e in grado di garantire il benessere economico, senza troppe pretese.
Adesso siamo nella fase di stordimento, quella in cui tutti ci siamo bene o male resi conto che il lavoro dipendente sta gradualmente perdendo i suoi due attributi di “stabilità” e “benessere”.
Senza capire il perché è inutile discutere di quale sia l’alternativa.
Come spiego in dettaglio nell’indagine compiuta nel libro “La lotta di classe nel XXI secolo”, i motivi sono sostanzialmente legati alla deriva del sistema capitalista globalista, che inevitabilmente conduce a conflitti tra super potenze, di cui oggi possiamo iniziare a cogliere le conseguenze con il pericoloso aumento del costo della vita dovuto alla guerra energetica.
Il ritorno al lavoro tecnologico di stampo fordista
Riguardo alla tecnologia, questa ha indubbiamente migliorato per molti versi taluni processi di lavoro e la qualità della vita in generale, ma d’altro canto sta producendo gravi danni al benessere dei lavoratori, riproponendo modelli di organizzazione del lavoro sempre più simili alle catene di montaggio dell’800 e del 900: tempi di lavoro scanditi in modo standardizzato dalle macchine “virtuali”, risultati sempre più basati sulla mera capacità dei lavoratori di elaborare pratiche nel più breve tempo possibile senza un rilevante apporto di conoscenze, che sono invece inglobate direttamente nei software delle macchine in uso.
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Il Problema della Scienza sono gli Scienziati
di Steve Templeton
Un articolo di Steve Templeton, dal suo blog "Fear of a Microbial Planet" (L'avevo già postato un anno fa, ma mi sembra sempre attuale, e quindi è il caso di ripostarlo. Tanto per ribadire certe cose) [UB]
Cinque anni fa l'astrofisico e divulgatore scientifico Neil deGrasse Tyson ha twittato un testo davvero memorabile e degno di una citazione:
Il mondo ideale di Tyson era attraente per molti a causa della politica istintiva e guidata dalle emozioni e della guerra politica tribale che aveva invaso ogni arena della vita pubblica, inclusa la scienza. Ha attirato molti dei suoi colleghi scienziati, persone addestrate a pensare in modo obiettivo e testare ipotesi basate su osservazioni sul mondo naturale.
L'unico problema: l'enorme peso delle prove dimostra perché il paese virtuale "Rationalia" semplicemente non esisterà mai.
Questo perché, per gli umani, pensare razionalmente richiede un'enorme quantità di energia e sforzo. Di conseguenza, la maggior parte delle volte non ci preoccupiamo di farlo. Invece, nella stragrande maggioranza dei casi, il nostro pensiero è guidato completamente dalla nostra intuizione e dai nostri istinti, senza che entri in gioco quel fastidioso pensiero razionale che interferisce sulle nostre decisioni.
Questa dicotomia è magistralmente spiegata nei minimi dettagli dal premio Nobel Daniel Kahneman nel suo libro Thinking Fast and Slow, ed è anche trattata con un focus sulle divisioni politiche nel capolavoro di Jonathan Haidt, The Righteous Mind. Entrambi sono opere interessantissime come tali e forniscono spiegazioni affascinanti sul perché ognuno di noi ha punti di vista diversi e perché è così difficile cambiarli.
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L’ ideologia new-liberal e la deriva nichilista dell’Occidente
di Antonio Castronovi
“Il tramonto dell’occidente…esprime un destino a cui non ci si può sottrarre.
Il sole non si può fermare. Il tramonto è inevitabile.
L’occidente è la terra destinata a ospitare questo tramonto”.
(Umberto Galimberti – Il tramonto dell’Occidente )
Il capitalismo post borghese e tecnocratico: fine delle ideologie?
Il paradosso del nostro tempo è che viviamo in un’epoca iper-ideologica caratterizzata nello stesso tempo dalla negazione della stessa ideologia, in quanto la nostra sarebbe l’epoca post-ideologica e della Fine della Storia, dominata e governata dalla Tecnica. I suoi attori non sarebbero più le classi sociali ma oscuri tecnocrati che amministrano l’economia e la finanza e le tutelano dalle ideologie che vi si oppongono e le criticano. In questa autorappresentazione non ci sarebbe più posto per la filosofia e la politica come ricerca della verità sociale, come pensiero che trasforma il mondo con l’azione consapevole, e non ci sarebbe più posto per l’autocoscienza come processo di apprendimento dialettico dalla storia.
L’Epoca borghese è così tramontata con il tramonto del suo soggetto storico e della dicotomia borghesia-proletariato, e con la fine della narrazione che ne aveva segnato l’ascesa come ideologia del progresso.
La Globalizzazione si presenta oggi come fatalità ineluttabile e come destino, e tutto ciò che si oppone ad essa è denunciato come ideologia e come nemico da combattere anche con le guerre camuffate da guerre di civiltà.
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Lavoro morto, lavoro vivo: il gap energetico della società del lavoro [*1]
di Sandrine Aumercier
Ciò che angoscia molti, è cercare di capire come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto di quel che appare come uno sfrenato sviluppo tecnologico che implica l'automazione progressiva di ogni possibile attività, oltre a un incessante progredire di uno stato di sorveglianza di massa. Che genere di critica possiamo opporre a tale evoluzione, senza che essa si riveli solo come una sterile reazione, o un movimento puramente emotivo? Alcune delle critiche che sono già state fatte - e che sono diventate dei classici - si sforzano di trovare dei criteri per poter distinguere tra tecnologie buone e tecnologie cattive, tra un utilizzo buono e uno cattivo, tra tecnologie alienanti ed emancipatrici, se non addirittura tra tecnologie autoritarie e democratiche (se vogliamo usare i termini adottati da Ivan Illich, da Lewis Mumford, ecc.).
Spesso, sulla stampa o nella letteratura specializzata, leggiamo l'espressione del rifiuto che molte persone esprimono nei confronti di un «inaccettabile limite» dello sviluppo tecnico, il quale starebbe per essere superato. Vediamo anche come questo «confine inaccettabile» non smette mai di venire esteso e come, con ogni nuova generazione di critici, venga stabilito un nuovo «limite inaccettabile». Tuttavia, i criteri sembrano quasi sempre che siano basati, o sull'opinione degli autori stessi o sulle tendenze del loro tempo. Ciò che però tutti questi critici hanno in comune, è il fatto che essi idealizzano una loro «volontà consapevole», come se quasi fosse possibile determinare dei limiti razionali per questa «fuga in avanti» corrispondente alla competizione tecno-scientifica. Ma se osserviamo meglio, vedremo come invece queste critiche siano quasi sempre rivolte all'indietro: indicano dei limiti che sono già stati superati, o che si trovano in procinto di esserlo; cosa che le condanna, per principio, a essere delle posizioni reazionarie, oltre a renderle già superate a partire da ogni innovazione che si presenta.
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Pane e libertà. O della cugina povera rimasta vedova
di Gaspare Nevola
Pane e libertà: la cugina povera rimasta vedova. Questa è la storia o, meglio, il tema che vorrei qui vivificare in tempi di campagna elettorale
«Per sei famiglie italiane su 10 il tema del carrello della spesa o del caro bollette è prioritario rispetto a qualsiasi altra questione», in cima ai pensieri dei cittadini ci sono i timori dell’inflazione e del razionamento dell’energia. Così rilevano i sondaggi di opinione[1], i quali, come è noto, al di là della loro perizia tecnica nel descrivere le opinioni della società, contribuiscono a costruirle[2]. Simili timori del cittadino comune non dovrebbero essere trattati con supponenza, ma, d’altra parte, è bene che siano considerati nel contesto di una società che suole dirsi democratica e difendersi come tale. E qui il discorso pubblico non può banalizzare il tema della libertà, anche a costo di rimettersi a viaggiare in quel mare aperto e insidioso evocato dalla parola “libertà”: tanto quella degli antichi, quanto quella dei moderni, sia essa “libertà di” o “libertà da”, “libertà positiva” o “libertà negativa”[3]
Ben sappiamo quanto la libertà di ciascuno abbia dei limiti: limiti dati dalla libertà degli altri e dal danno che la libertà di ciascuno può procurare agli altri, come è stato teorizzato in modo esemplare, già a metà Ottocento, da un liberale classico come John Stuart Mill, padre di quell’utilitarismo che pure riconosceva in cima alla sua dottrina che “nessuno è miglior giudice di se stesso nel definire i suoi interessi di libertà”[4]. Ma il principio di Stuart Mill, tanto invocato (e strumentalizzato) dai sapiens e dai minus sapiens dei nostri giorni, costituisce l’inizio e non la fine del discorso sulla libertà, specie in una società che si vuole democratico-pluralistica, fatta di maggioranze e minoranze, di costituzioni e di culture che intendono tutelare proprio il pluralismo (delle idee, degli interessi, dei valori), i diritti e le libertà; una società dove la tutela è posta anzitutto a difesa delle minoranze, temendo la “dittatura della maggioranza”, ovvero il fatto che the winner takes all – anche se pare che per molti tale timore valga solo nei giorni dispari, dato che lo si dimentica o respinge nei giorni pari.
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Caduto Draghi resta la sua agenda. Che non si fa mettere ai voti
La parola non alle urne, ma alla piazza!
di Nucleo Comunista Internazionalista
Alle porte di mesi cruciali e devastanti – con tanto di possibili se non probabili razionamenti di gas, energia elettrica, forse anche di cibo e di altri possibili se non probabili giri infernali della giostra pandemica in seguito alla diffusione di nuovi virus o di nuove varianti – la caduta del governo Draghi di unità nazionale avvenuta il 20 luglio è una disdetta, un motivo di intorbidimento delle acque, dal punto di vista del movimento sociale di opposizione sorto il sabato 24 luglio 2021 che bene o male (male! certamente si può dire; ma gli uomini e le donne che da allora si sono attivizzati lo hanno fatto come hanno potuto in un quadro generale sfavorevole…) ha cercato di contrastare la subdola guerra di classe (1) dichiarata e attuata dal governo Draghi.
Sarebbe stato utile, secondo il nostro modo di vedere, avere innanzi nel combattimento sociale alle porte la Forza nemica apertamente unificata in tutti i suoi tentacoli politici dietro alla figura-Draghi incarnazione del potere più assatanato del capitale. Cosa estremamente utile come fattore di catalizzazione del massimo di energie disponibili nella lotta “contro tutti”, contro il governo “di tutti”, inclusa opposizione lealista e di facciata fratelloitaliota. Soli contro tutti e senza alcuna tangibile “sponda” parlamentare: splendida posizione di isolamento (rispetto ad una baracca marcia fradicia e tutta la sua ciurma) e di combattimento sociale e politico! Con il venir meno, per il momento, dell’Union Sacrée politica in questo senso si intorbidiscono le acque. Il polverone alzato con la crisi di governo ad annebbiare la vista.
Dobbiamo amaramente riconoscere che il governo di unità nazionale installato nel febbraio 2021ha centrato il suo principale obiettivo e Draghi lo ha, con giusta ragione dal suo punto di vista, rivendicato nel suo perentorio discorso programmatico pronunciato il 20 luglio alla Camera sul quale ha chiesto la fiducia.
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La cambiale della guerra: siamo tutti incastrati
di Fabio Mini
Il risultato più evidente, mentre sul terreno poco si muove, è che gli sponsor di Kiev, anche quelli ormai meno entusiasti, non possono più tirarsi indietro
Sembra la scadenza di una cambiale e in un certo senso lo è, ma non a sei mesi e nemmeno a un anno. La guerra non si misura a mesi, si misura a eventi, fatti importanti, cambiamenti strategici e soprattutto si misura alla fine. Ci sono state guerre di una notte, sei giorni e cento anni. Le celebrazioni o le ricorrenze riguardano le date d’inizio e fine e, in mezzo, le date delle vittorie, delle sconfitte e dei massacri. In Ucraina da tre mesi a questa parte non si è visto nulla di tutto ciò e anche i massacri dovranno essere accertati con riscontri oggettivi e non quelli della propaganda, che è uno strumento di guerra e non una sua finalità. Si sono viste alcune stanche attività sul campo di battaglia e quasi nulla su quello politico-strategico. Le posizioni sono quasi stabilizzate: i russi non premono sull’acceleratore per superare il Dniepr e nemmeno per arrivarci. Si limitano a consolidare le retrovie e le linee dei rifornimenti oltre a istituzionalizzare il controllo della popolazione dei territori occupati. Territori non ancora reclamati dalla Russia, ma appartenenti alle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk.
Gli ucraini non hanno risorse e capacità né per andare avanti né per ritirarsi. Tutti gli sponsor dell’Ucraina si danno da fare, ma con minore energia e determinazione di un mese fa. A chiacchiere, il sostegno americano e della Nato è immutato, nei fatti l’Ucraina non ha ancora i mezzi per nessuna azione decisiva. L’insistenza con la quale negli Usa e nel resto del mondo si enfatizzano i successi ucraini “grazie al ruolo determinante delle armi occidentali” e soprattutto degli Himars Usa è più una dichiarazione di cedimento che di propulsione. Sembra che si voglia mettere in evidenza che l’occidente ha fatto già la sua parte e ora, contrariamente a ciò che dice Zelensky, è l’Ucraina che se la deve sbrigare e non il resto del mondo.
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America latina, la “nuova onda” progressista e il socialismo bolivariano
di Geraldina Colotti
Dopo l’attacco ai germogli di rivoluzione sbocciati 20 anni fa in America Latina a seguito dell’affermazione di Hugo Chavez in Venezuela, si assiste a una seconda ondata progressista. Ma sussistono differenze importanti fra le due ondate e differenziazioni strategiche fra le esperienze rivoluzionarie di Venezuela e Cuba e l’approccio moderato di altre forze progressiste, come quella del Pt di Lula in Brasile
Una seconda ondata progressista per l’America Latina? E su quali basi, forze, contenuti, nemici e alleati? La vittoria di Gustavo Petro, in Colombia, ha riacceso il dibattito: con qualche riflesso persino nell’isteria bovina che anima il nostro Stivale, avviato al voto anticipato. Nel pollaio politico in cui si beccano galletti e galline, si ripresenta infatti puntuale il presunto spauracchio Venezuela, simbolo di un socialismo come quintessenza di tutti i mali, fallito in ogni sua forma.
Che il “socialismo bolivariano” sia stato e sia lo stimolo per la tenuta o la ripresa dei processi di cambiamento in America latina, è dimostrato dai fatti. Il primo fatto, più testardo di tutti, è che, in Venezuela, ci sono governi che si richiamano al socialismo da quasi 24 anni: ossia da quando, il 6 dicembre del 1998, l’ex tenente colonnello Hugo Chávez Frias vinse alla grande le presidenziali, alla guida di una coalizione composta da nazionalisti progressisti, da partiti di centro-sinistra o di estrema sinistra e da ex guerriglieri che avevano combattuto con le armi le “democrazie camuffate” della IV Repubblica.
La prima “muta” di quel blocco sociale “plebeo”, deciso a portare la sfida di una nuova egemonia, coniugando 500 anni di lotta anticoloniale a una seconda indipendenza basata sui principi del socialismo (in base, però, a un modello che non fosse “né calco né copia”), avvenne dopo il golpe contro Chávez del 2002, e dopo la lunga serrata petrolifera padronale che seguì al ritorno al governo del Comandante. Gli elementi di socialismo si fecero da allora sempre più marcati. I parametri di quella svolta erano già insiti nel processo costituente, approvato dopo un’ampia discussione nel paese, nel 1999.
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