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Ascesa e caratteristiche del totalitarismo liberale
di Alessandro Pascale – Resistenza Popolare
La presente relazione è stata tenuta a Roma il 6 ottobre 2024, in occasione della IV sessione del Forum organizzato dalla Rete dei Comunisti dedicato al tema “Elogio del comunismo del Novecento”.
Il tema di cui tratterò riguarda il particolare tipo di regime che si è realizzato in Occidente negli ultimi 30 anni a seguito dell’intreccio tra la crisi del movimento comunista filosovietico, e del parallelo affinamento delle tecniche imperialiste di controllo sociale. Lo definisco un totalitarismo “liberale”, ossia una fase particolare della dittatura della borghesia, in cui questa classe è riuscita ad affermare in maniera pressoché totale non solo le proprie politiche economiche, ma anche il proprio modo di pensare e categorizzare la realtà; ciò ha comportato la piena vittoria della sua ideologia, il liberalismo, riuscendo a emarginare ogni altro paradigma politico alternativo, compreso quella marxista. Il totalitarismo liberale è la consacrazione del TINA (There is no alternative), ossia l’affermazione nel senso comune popolare dell’idea che non ci siano alternative possibili al modo di produzione capitalistico. Uso il termine “totalitarismo” non nel senso pessimistico di un controllo totalizzante, ma per descrivere simbolicamente il livello egemonico inedito raggiunto dalle classi dominanti sulla stragrande maggioranza della popolazione, riducendo all’insignificanza politica le capacità teoriche e pratiche della gran parte del proletariato, che dopo un secolo e mezzo di emancipazione intellettuale e organizzativa, è tornato ad affidarsi alla guida politica di esponenti e organizzazioni borghesi.
Questi temi erano ben presenti a Marx ed Engels, che già negli anni giovanili concludevano che “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” e che il proletariato dovesse dotarsi di proprie organizzazioni di classe, emancipandosi dalla direzione borghese. Le gravi contraddizioni materiali derivanti però dall’industrializzazione nel XIX secolo, e ancora per la gran parte del XX secolo, risultavano in ogni caso ancora prevalenti rispetto alla capacità borghese di operare una “rivoluzione passiva”, ossia di imporre, grazie anche a misurate e contenute concessioni materiali, una certa ideologia, ossia una visione distorta della realtà, sulla maggioranza del proletariato, riuscendo ad attirare piuttosto nei propri ranghi gli strati dell’aristocrazia operaia, quelli che la borghesia chiama “ceti medi”.
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Perché l'occidente perde
Il realismo geopolitico di Emmanuel Todd
di Carlo Formenti
A mano a mano che le guerre provocate dal blocco occidentale per puntellare la sua crescente incapacità egemonica si rivelano un rimedio peggiore del male, aumenta il numero degli intellettuali liberal democratici che criticano “dall’interno” le scelte delle élite euro-americane (più americane che euro, vista la totale sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti, anche a costo di risultare la prima vittima del dominus d’oltreoceano). In generale si tratta di eredi dell’approccio “realistico” ai conflitti geopolitici che ha un illustre precursore nell’autore della teoria del “contenimento”: quel George Kennan che invitava gli Stati Uniti e i loro alleati ad affrontare la minaccia sovietica attraverso il confronto diplomatico, evitando lo scontro militare aperto. Tale strategia comportava, in primo luogo, un’attenta e approfondita analisi dell’avversario (interessi economici e geopolitici, cultura e valori ideali, potenzialità industriale, scientifica e tecnologica, potenza militare, ecc.) per poterne prevedere mosse e intenzioni. A questa tradizione si iscrive lo storico, sociologo e antropologo francese Emmanuel Todd, autore di un libro, La sconfitta del’Occidente, appena uscito in edizione italiana per i tipi di Fazi, un testo che sta ottenendo una sorprendente attenzione dai media italiani, di solito solleciti nel silenziare qualsiasi critica, ancorché moderata, nei confronti della politica imperiale a stelle e strisce.
E’ probabile che ciò che ha consentito al libro di Todd di infrangere la “spirale del silenzio” (1), sia, oltre all'andamento della guerra, che rende sempre più insostenibile lo tsunami di balle propagandistiche che ha invaso giornali, televisioni e social negli ultimi due anni, l’impeccabile curriculum occidentalista dell’autore, scevro da sospetti di inclinazioni “putiniane” o, Dio non voglia, socialcomuniste, così come da simpatie “terzomondiste” nei confronti delle nazioni e dei popoli che manifestano la volontà di sganciarsi da un’area imperiale ormai ridotta a Stati Uniti, Ue, Giappone e “anglosfera” (Inghilterra, Canada, Australia e Nuova Zelanda).
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La variante Draghi
di coniarerivolta
Circa tre settimane fa è stato pubblicato l’atteso Rapporto sul futuro della competitività europea, a opera dell’ex Presidente di: Banca d’Italia, Banca Centrale Europea, del Consiglio italiano, Mario Draghi. Presentato da molti come un faro di luce che illumina con lungimiranza il tetro destino di un’Europa bloccata tra le pastoie dei suoi conflitti interni e di un’irragionevole austerità, il rapporto Draghi ci offre spunti molto interessanti per comprendere gli scenari che il capitalismo europeo si trova ad affrontare. In un certo senso il Rapporto rappresenta plasticamente una delle diverse varianti dell’applicazione del neoliberismo nell’Unione europea di oggi.
Il Rapporto prende spunto dal crescente divario nei tassi di crescita dell’Europa e degli Stati uniti, riconducendolo a una progressiva erosione della competitività del tessuto produttivo europeo in favore dei principali concorrenti internazionali, un fenomeno causato, principalmente, da un declino della produttività europea.
Tale declino dipenderebbe da un ritardo delle imprese europee sul fronte tecnologico e da un assetto industriale europeo eccessivamente frammentato: mentre in Europa si scontrano oligopoli nazionali, i mercati americani e cinesi sono dominati da giganteschi monopolisti che, sfruttando l’ampia scala di produzione che deriva da un mercato di sbocco grande quanto un continente, raggiunge livelli produttivi tali da consentire e giustificare spese di investimento che in Europa appaiono impossibili da realizzare.
Il Rapporto Draghi è fitto di numeri ed esempi concreti di questo ritardo del capitalismo europeo rispetto agli Stati Uniti e al cospetto dell’incombente “minaccia cinese”. A fronte delle difficoltà europee, il rapporto invoca “cambiamenti radicali” che dovrebbero riguardare principalmente tre aree: innovazione tecnologica e struttura industriale; gestione della transizione verde; difesa.
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Ucraina, media, euro e nichilismo: le ragioni della sconfitta dell'occidente
Alessandro Bianchi intervista Emmanuel Todd
Incontriamo Emmanuel Todd nella sede romana di Fazi, l’editore che ha pubblicato la versione italiana del suo bestseller “La sconfitta dell’Occidente”. Storico, sociologo e antropologo francese di fama internazionale, ci colpisce per la disponibilità, umiltà e generosità con cui ci accoglie e con la quale ci permette di esaudire tutto il nostro fiume di domande e interessi. In Italia per presentare quello che è stato un caso editoriale in Francia e che è in procinto di essere tradotto in tante altre lingue, gli abbiamo esteso i nostri complimenti sinceri per il coraggio in una fase di appiattimento culturale e di chiusura ermetica delle idee nella parte di mondo che si autoproclama libero. Ma per Todd non è coraggio. Ci ricorda come suo nonno “Paul Nizan è stato un grande poeta, giornalista e scrittore che pubblicava con Gallimard. Il suo testimone di nozze era Raymond Aron ed è morto durante la seconda guerra mondiale. Mio padre Olivier era un grande giornalista del “Nouvel Observateur”. L’agire nel portare avanti qualcosa in cui credo l’ho ereditato dalla mia famiglia e non lo vedo come coraggio, ma come il giusto modo di agire”.
Noto per aver previsto per primo, con anni di anticipo, il collasso dell’Unione Sovietica e la crisi finanziaria del 2008, Emmanuel Todd è una preziosa fonte per “Egemonia” per comprendere meglio i tempi in cui viviamo.
Per la lunghezza dell’intervista abbiamo deciso di dividerla in due parti.
Nella prima, che segue, entriamo nel dettaglio delle ragioni che sottendono il suicidio delle classi dirigenti europee nella guerra per procura in Ucraina e nel come si potrebbe materializzare la sconfitta dell’Occidente.
Nella seconda affronteremo nel dettaglio il concetto di nichilismo, perno del libro di Todd; in relazione, in particolare, al ruolo dell’informazione, alla perdita dei tradizionali riferimenti politici, culturali e sociali in occidente e cercheremo, infine, di comprendere se sia all’orizzonte, nel nostro continente, la nascita di qualche formazione politico-aggregativa in grado di offrire una valida alternativa al sistema fallito, fallimentare e che è stato, come brillatemente argomentato dal Prof. Todd, sconfitto.
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La caduta di Israele
di Scott Ritter
Un anno fa Israele era seduto al posto di comando. Oggi guarda in faccia la sua fine
Avevo scritto dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, definendolo “il raid militare di maggior successo di questo secolo“.
Avevo descritto l’azione di Hamas come un’operazione militare, mentre Israele e i suoi alleati l’avevano definita un’azione terroristica della portata di quella avvenuta contro gli Stati Uniti l’11 settembre 2001.
“La differenza tra i due termini”, avevo osservato, “è come tra la notte e il giorno: etichettando gli eventi del 7 ottobre come atti di terrorismo, Israele trasferisce su Hamas la colpa delle enormi perdite dai suoi servizi militari, di sicurezza e di intelligence. Se Israele, invece, riconoscesse che ciò che Hamas ha fatto è stato, in realtà, un raid – un’operazione militare – allora la competenza dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani sarebbe messa in discussione, così come la leadership politica responsabile della supervisione e della direzione delle loro operazioni”.
Il terrorismo impiega strategie che cercano la vittoria tramite l’indebolimento e l’intimidazione – per logorare e creare un senso di impotenza nel nemico. I terroristi per natura evitano un conflitto esistenziale decisivo e cercano battaglie asimmetriche, che contrappongano i loro punti di forza alle debolezze dei loro nemici.
La guerra che sconvolge il Levante dal 7 ottobre 2023 non è una tradizionale operazione antiterrorismo. Lo scontro Hamas-Israele si è trasformato in un conflitto tra Israele e il cosiddetto Asse della Resistenza che coinvolge Hamas, Hezbollah, Ansarullah (gli Houthi dello Yemen), le Forze di Mobilitazione Popolare, cioè le milizie di Iraq, Siria e Iran. Si tratta di una guerra regionale in tutto e per tutto, che deve essere valutata come tale.
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La Borsa, «il comitato d'affari della borghesia» e la guerra
di Andrea Pannone
L’articolo di Andrea Pannone fa il punto su guerra e crisi, oggi. I processi di finanziarizzazione sono tanto al centro dell’articolo, quanto lo sono al cuore del capitale contemporaneo. Questo implica, discute Pannone, che lo Stato non può più essere considerato un campo di battaglia da occupare con riforme politiche più o meno progressiste e che, comunque, possano interrompere o limitare i processi di accumulazione selvaggia. Lo Stato, oggi, è il «comitato di affari della borghesia». Nella seconda parte dell’articolo l’autore lega questo discorso a quello della guerra. Che cos’è la guerra? – già titolo del volume di Pannone edito da DeriveApprodi (2023): «un tragico spazio di compromesso utile alla sopravvivenza delle diverse manifestazioni del potere del capitale, che necessitano continuamente di nuovi equilibri per non fagocitare se stesse».
* * * *
Aspettando (forse invano) una nuova crisi finanziaria
La crisi finanziaria del 2007-2008, la seconda del XXI secolo, dopo quella provocata dal crollo delle quotazioni del NASDAQ nel marzo del 2000, sancisce il fatto che le crisi delle economie capitalistiche sono sempre più legate alla finanziarizzazione della produzione piuttosto che alla struttura produttiva stessa. Se nel fordismo le crisi erano originate da sovra-produzione o da sotto-consumo, per poi trasmettersi al credito e alla finanza, ora sembra avvenire il contrario, una volta raggiunto il culmine di una fase di forte sopravvalutazione dei titoli azionari[1].
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L’esercito sionista attacca le basi Unifil in Libano. Strano? E perché?
di Il Pungolo Rosso
S’è scatenato un gran baccano internazionale, in questi giorni, perché l’esercito sionista ha osato attaccare le basi Unifil, forte della sua assoluta storica impunità dovuta alla protezione incondizionata di cui gode da decenni. Un baccano insensato, e ipocrita. Forse è il caso di ricordare che il 22 luglio 1946 l’Haganah e l’Irgun non esitarono a far saltare in aria a Gerusalemme il King David Hotel in cui era ospitato il comando delle truppe britanniche in Palestina e Cisgiordania (facendo 91 morti e 46 feriti) – fu la punizione inferta ai loro protettori britannici per aver cercato, assai blandamente in verità, di porre un qualche argine all’immigrazione ebraica in Palestina – https://it.wikipedia.org/wiki/Attentato_al_King_David_Hotel.
La banda Stern (il nome ufficiale era Lehi), autrice del feroce massacro di palestinesi nel villaggio di Deir Yassin e dalle esplicite simpatie per il nazismo, l’Irgun e l’Haganah si segnalarono per altri omicidi mirati ai danni dei loro mandanti (Lord Moyne, ad esempio, e fu assassinato da loro anche Lord Bernadotte, il mediatore ONU). Compirono attentati anti-britannici anche fuori dalla Palestina (uno avvenne a Roma), e – notate bene! – all’atto di fondazione dello stato di Israele tutti i membri di queste formazioni ultra-sioniste di rivendicata matrice terroristica (*) furono incorporati, previa amnistia generale, dentro l’esercito regolare e nella nomenklatura politica. I loro capi (Shamir, il “pacifista” Rabin, i macellai Dayan e Sharon, e via continuando) sono stati per decenni tra le massime autorità politiche e militari dello stato sionista.
Quindi, di cosa meravigliarsi? C’è da chiedersi, piuttosto, il perché dei recenti attacchi ad Unifil nel sud del Libano. E la risposta è piuttosto agevole. La trascriviamo paro paro dal Corriere della sera di ieri, 11 ottobre, certo non imputabile di sentimenti anti-sionisti:
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Contro il green: per una vera ecologia
di Antonio Semproni
Il numero 1 del 2024 de La Fionda – Contro il green – si apre sotto il segno di una riflessione sul diritto del sistema terra, cioè su quel diritto chiamato a indurre comportamenti umani armoniosi e a valorizzare l’interdipendenza tra gli esseri umani e i viventi non umani: ci si domanda quali enti debbano essere legittimati a sancire e fa valere tale diritto e in particolare se essi debbano avere dimensione statuale o ultrastatuale. Quest’ultima dimensione pare accattivante perché rispondente all’imperativo secondo cui i “problemi globali devono essere risolti a livello globale”; tuttavia, il diritto plasmato da entità sovranazionali, sprovviste delle caratteristiche tipiche dell’ente statuale (quali sovranità e giurisdizione), scade in soft law e dunque è incoercibile. Recuperare la dimensione nazionale è imprescindibile per produrre hard law, cioè diritto coercibile, che possa garantire, con la forza della sanzione, comprovati risultati ambientali; tuttavia, ci si dovrà preoccupare, in primo luogo, di sventare derive tecnocratiche: nessuno Stato, soprattutto se gravitante nell’eurozona, è immune a questo rischio, che si affaccia pericolosamente in considerazione del carattere emergenziale del diritto del sistema terra, il quale richiederebbe un piglio manageriale; in secondo luogo, di assicurare, nella formazione delle decisioni politiche interessanti l’ambiente, il ricorso a meccanismi di democrazia partecipativa, che permettano alla parte sociale debole “di confrontarsi ad armi pari con i detentori di forza sociale”.
Affidare la soluzione della crisi climatica alla tecnocrazia implica anche sedare il conflitto sociale immanente alla transizione ecologica: quali saranno le sorti dei lavoratori impiegati nelle industrie più inquinanti? Per questo motivo un ruolo primario nella transizione ecologica deve essere riservato alle parti sociali: in America Latina si dà il caso il sindacati che hanno ottenuto la riassunzione, presso altre aziende, del personale impiegato da imprese inquinanti, delle quali era stata decretata la chiusura con un provvedimento del giudice.
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Anniversari. Il 7 ottobre è accaduto l’11 settembre
Una parziale rassegna di analisti non allineati
di Francesco Cappello
All’indomani del 7 ottobre è stato subito chiaro che non tutti i giornalisti e gli analisti avevano accettato l’interpretazione dei fatti come diffusi dal mainstream. Passerò in rassegna, più o meno in ordine di apparizione, quelle analisi che mi sono note e che hanno messo radicalmente in dubbio l’interpretazione corrente dei fatti di quel sabato 7 ottobre 2023, usati per “legittimare”, almeno agli occhi della maggioranza più sprovveduta, l’azione genocidiaria del governo israeliano, iniziata il giorno dopo, e che tragicamente continua, senza interruzione, da un anno a questa parte
Ecco come Grandangolo, la Rassegna stampa internazionale del venerdì su Byoblu, a cura di Manlio Dinucci, andata in onda venerdì 13 ottobre, presenta didascalicamente la propria versione dell’attacco di Hamas ai danni di Israele, avvenuto sabato 7 ottobre del 2023, nell’edizione dal titolo L’11 settembre del Medioriente:
Secondo la versione ufficiale, l’attacco di Hamas ha “colto di sorpresa” Israele. Vi è però una serie di fatti inspiegabili che non rende credibile la versione ufficiale.
Come è possibile che la barriera di Gaza sia stata sfondata con bulldozer senza che nessuno se ne sia accorto? La barriera che circonda Gaza, lunga 64 chilometri, è formata da un muro sotterraneo dotato di sensori, per impedire di scavare tunnel, e da una recinzione alta 6 metri con sensori, radar, telecamere e sistemi d’arma automatici collegati a un centro di comando, ed è presidiata da soldati.
Come è possibile che in quello stesso giorno si stesse svolgendo un festival musicale, con migliaia di giovani, nel deserto a pochi chilometri da Gaza, in una zona già ritenuta pericolosa perché nel raggio dei razzi di Hamas, per di più senza alcuna forza di sicurezza?
Come è possibile che, quando i militanti di Hamas hanno attaccato i centri abitati, non siano immediatamente intervenute con elicotteri le forze speciali israeliane, ritenute tra le migliori del mondo, e siano intervenute solo forze di polizia?
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Contro l’Europa del capitale e della guerra
di Ascanio Bernardeschi
Le politiche economiche dell’Unione europea tutelano gli interessi del grande capitale conducendoci a una crisi di vaste proporzioni, peggiorando drasticamente le condizioni e i diritti dei lavoratori e abbattendo gli spazi di resistenza democratica.
In Europa siamo di fronte a una crisi di vaste proporzioni, tanto da far rimpiangere quella del 2008. Il tessuto produttivo europeo è alla canna del gas a partire dalla “locomotiva” Germania. Come al solito, il peggio ne fanno i lavoratori. Proviamo a indagare le cause.
1992, Trattato di Maastricht. Una data infausta. Da quel momento, con una costante progressione, si è impoverito e ha perso diritti il mondo del lavoro. Non si tratta di una coincidenza. L’ex governatore della Banca d’Italia, nell’occasione della firma del Trattato, ebbe a sussurrare agli intimi che i nostri governanti non si rendevano conto di cosa stavano sottoscrivendo, cioè il cambiamento della natura dello Stato, la sua riduzione a uno Stato minimo, ma non di tipo liberale ottocentesco; molto peggio perché privava gli Stati della sovranità monetaria e sposava acriticamente tutte le indicazioni della scuola neoliberista di Chicago.
Per la verità, la cosa era cominciata un paio di anni prima con il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro, di cui fu esecutore Azelio Ciampi. Uno dei capisaldi della scuola di Chicago è, infatti, che le banche centrali debbano essere indipendenti dalla politica e debba essere loro proibito di acquistare non già i titoli tossici, ma direttamente dal Tesoro i titoli del debito pubblico. Questo ha significato che da allora gli Stati sono costretti a collocare per intero tali titoli nel mercato, esponendosi alla speculazione a rischio di far lievitare i tassi e con ciò il debito stesso, come è avvenuto regolarmente per la maggior parte delle nazioni.
Questo tranello è stato confermato dal Trattato che vi ha aggiunto altre tagliole. Sempre in omaggio alle dottrine neoliberiste ha stabilito che la prima cosa da tutelare è la stabilità monetaria e il controllo del tasso di inflazione, non i diritti sociali.
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I sionisti stanno vincendo?
di Leonardo Mazzei
Domande e punti fermi ad un anno dal 7 ottobre
Un anno fa, a caldo, scrivemmo che la data del 7 ottobre sarebbe rimasta nella storia. Definimmo lo sfondamento del muro che recinge il lager di Gaza come il grido di libertà della Resistenza palestinese. Sapevamo pure che il significato e la natura di quell’eroica azione sarebbe stato infangato, distorto, infine rovesciato dalla narrazione nazi-sionista che pervade l’occidente.
Così scrivevamo, infatti, il 10 ottobre 2023:
«A Gaza, sabato scorso, un muro è stato abbattuto. È il muro che recinge da 16 anni il più grande campo di concentramento che la storia ricordi. Quello sfondamento è stata la vittoria di tutti coloro che amano la libertà delle persone e dei popoli. Ma quel coraggioso rilancio della lotta di liberazione è stato subito etichettato come “terrorismo”. Il linguaggio orwelliano si è imposto un’altra volta. Era inevitabile che così fosse nella nostra marcia società. Ma questa arroganza dei dominanti è pure il segno della loro straordinaria insicurezza. Hanno talmente paura del mondo così com’è, che lo raccontano a rovescio non solo agli altri ma pure a sé stessi».
Fu chiaro da subito che il 7 ottobre avrebbe segnato una svolta nella lotta di liberazione del popolo palestinese, così come non c’erano dubbi sull’estrema ferocia della reazione dell’occupante sionista.
In un anno di acqua ne è passata sotto i ponti, ed è giusto tentare un primo bilancio (sintetico e per punti) di quanto avvenuto, anche per provare a capire quel che ci aspetta.
- Israele stato criminale e genocida
In questi giorni i sionisti di tutto il mondo, gente disonesta e spudorata come tutti i razzisti che si rispettino, hanno cercato di venderci la storia di un 7 ottobre come riedizione dello sterminio nazista.
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La guerra alle porte
di Enrico Tomaselli
Un errore facile da commettere, se si pensa all’attuale situazione mondiale, è quello di sopravvalutare l’importanza delle scelte opzionabili dalle varie leadership; o per meglio dire, non si tiene sufficientemente conto di quanto l’accumulo delle scelte pregresse (e delle loro conseguenze) finiscano per limitare sempre più lo spettro delle opzioni possibili, e quindi – di fatto – spostino il baricentro decisionale dalla volontà delle élite politiche all’incastro oggettivo degli elementi in campo.
Se prendiamo ad esempio in considerazione il conflitto ucraino, che ormai si avvia verso il suo terzo anno, dovremmo – con maggiore razionalità – riconoscere che le chance di una soluzione non militare sono ormai decisamente esigue, e ovviamente tendono a ridursi assai velocemente. E ciò, appunto, non dipende più tanto dalla mancanza di volontà di giungere a una composizione diplomatica, quanto dal fatto che i margini per una possibile soluzione di tal genere sono effettivamente minimi.
Ci sono, ovviamente, interessi contrapposti di non facile conciliazione, o tra i quali non è facile anche solo trovare una mediazione, sia che ci riferiamo all’interesse ucraino di mantenere/recuperare la propria integrità territoriale, sia che ci riferiamo a quello statunitense di destabilizzare la Russia – e naturalmente, agli opposti interessi russi.
Si è detto più volte che la guerra ha una logica propria, che conduce le cose verso esiti spesso assai diversi da quelli desiderati, e soprattutto imprevisti. E ciò vale, naturalmente, anche sul piano delle conseguenze politiche. Ora è chiaro che i calcoli con cui i due principali player della partita – Stati Uniti e Russia – sono entrati nel conflitto, non solo si sono rivelati (in misura diversa) errati, ma proprio in virtù della loro erroneità hanno determinato un mutamento degli obiettivi strategici.
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Raniero Panzieri e la questione del potere
di Franco Ferrari
Il 9 ottobre 1964 muore improvvisamente a Torino, a soli 43 anni, Raniero Panzieri, intellettuale socialista, per diversi anni dirigente politico del PSI e poi dal 1961 promotore dei “Quaderni Rossi”, rivista di teoria e di intervento politico diventata nel tempo oggetto di una sorta di vera e propria venerazione.
Panzieri è stata una figura intellettuale importante, un attento e originale studioso di Marx e un critico acuto di molte delle tesi prevalenti nella sinistra tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni ’60, con la indubbia capacità di cogliere elementi nuovi presenti in una fase di tumultuoso cambiamento sociale dell’Italia di quel periodo.
L’obbiettivo limitato di queste note non è certo di ricostruirne, neppure sommariamente, la biografia, intensa per quanto breve (per questa si rimanda a Dalmasso 2015), né di esaminarne in dettaglio un pensiero complesso che, come sempre avviene nei pensatori originali, non può essere ridotto a un percorso lineare. La scomparsa improvvisa ha anche lasciato irrisolti molti nodi che poi altri, in direzioni diverse, cercheranno di sviluppare spesso con forzature che probabilmente lo stesso Panzieri non avrebbe accettato. Né si possono facilmente ridurre e semplificare, quasi in forma manualistica, le implicazioni e anche le contraddizioni del suo pensiero. Più modestamente si cercherà di individuare qualche nodo problematico attorno al quale ci si può interrogare anche nel presente, a sessant’anni dalla sua scomparsa.
Il socialismo di sinistra
Il primo punto che si vuole evidenziare è come si collochi Panzieri nella più generale storia del movimento operaio e socialista italiano.
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Umiliata in Ucraina e impantanata nel Pacifico, Kabala Harris dichiara guerra all’Iran
di OttolinaTV
Intervistatore: “Quale paese straniero considera sia il nostro principale nemico?”
Kabala Harris: “Credo ovviamente ne venga subito uno in mente, che è l’Iran. l’Iran ha sangue americano sulle sue mani“
Ottoliner buondì. Dopo due anni e mezzo vi cominciavate ad annoiare a sentir sempre parlare degli schiaffi che quotidianamente l’Occidente collettivo raccatta nella guerra per procura in Ucraina? Nessun problema: la guerra mondiale dell’imperialismo a guida USA contro il resto del mondo è pronta ad arricchirsi di un nuovo, entusiasmante capitolo! Per mesi, un po’ tutti (e noi per primi) ci siamo fatti mille pippe su come a volere una regionalizzazione dello sterminio di Gaza fosse Israele, mentre gli USA erano titubanti; la motivazione è nota e a chi ci segue ormai gli uscirà dalle orecchie: aprire un altro fronte, oltre a quello caldo in Ucraina e a quello in via di preparazione nel Pacifico, non è alla portata della superpotenza USA e dei suoi alleati. E visto che – da quando hanno raso al suolo l’intero paese per diventare energeticamente indipendenti e da quando la Cina è diventata la leader globale indiscussa delle rinnovabili – il Medio Oriente aveva cominciato a perdere la sua centralità, indebolire la deterrenza su uno dei due fronti principali per rimettere a ferro e fuoco l’Asia occidentale non sembrava avere molto senso, fino a quando qualcosa non è cominciata a cambiare piuttosto rapidamente. Le prime avvisaglie le abbiamo cominciate a registrare a inizio estate quando, mano a mano che Biden rincoglioniva sempre di più, Trump, da underdog ostracizzato dal sistema, cominciava a incassare il sostegno di pezzi sempre più consistenti di Stato profondo (a partire dai peggio sociopatici miliardari della Silicon Valley) e addirittura, cosa più unica che rara, cominciava a surclassare in donazioni la campagna dem.
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Cinquanta sfumature di rosso. Il marxismo e la pluralizzazione del conflitto sociale
di Alexis Piat
Introduzione: Il rosso delle origini – Marx e la teoria materialista del conflitto
1 - Pochi autori sono più difficili da leggere di Marx. Non perché la concettualità marxiana sia particolarmente astratta o complessa – se è indiscutibilmente così, queste dimensioni appartengono di diritto a qualsiasi grande pensiero – ma perché il lettore deve sempre assicurarsi di leggere Marx correttamente, senza le innumerevoli scorie lasciate dalla storia che ricopre il testo. Se tale recupero avviene, il lettore non legge più Marx: sogna il pensiero o la pratica di un altro, quello di Althusser nel migliore dei casi, quello di Stalin quando le cose vanno davvero male. Tutti sanno che per Marx «la lotta di classe è il motore della storia». Tuttavia, sarebbe difficile fare riferimento a una tale formula quando essa sembra essere una figura imposta di commento (al punto che è difficile rintracciarne l'origine), dal momento che invece non appare da nessuna parte, come tale, nell'opera di Marx. [*1]
2 - D'altra parte, è indiscutibile che la prima sezione del Manifesto del Partito Comunista si apre con l'affermazione che «La storia di ogni società fino ai giorni nostri è la storia delle lotte di classe» [*2]. Tuttavia, è necessario fare diverse osservazioni su questa affermazione. In primo luogo, non è strettamente equivalente alla formula generalmente utilizzata dal commento: è infatti descrittiva, piuttosto che analitica, e la storia stessa deve essere intesa come il periodo su cui i resoconti scritti danno conto, e non come la sostanza del futuro delle società umane [*3]. In secondo luogo, si colloca all'interno di un testo il cui statuto non è strettamente teorico: il Manifesto è un documento di propaganda e, per quanto sia una propaganda di ottima qualità, e direttamente radicata nella teoria, il suo rigore è subordinato alle necessità dell'azione rivoluzionaria.
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Regalo di Mazzucco a Israele
di Fulvio Grimaldi
Un video del giornalista investigativo denuncia Hamas creatura consapevole di Israele. Peccato che i file di Wikileaks e l’evidenza politica e materiale dicano il contrario
Massimo Mazzucco è un valido giornalista-regista investigativo. I suoi lavori, Il presunto allunaggio, l’autoattentato dell’ 11 settembre, il mega-imbroglio Ucraina, meritano le nostre standing ovations. E’ un amico, per quanto distanziatosi, forse in seguito ad alcune divergenze su interpretazioni dei fatti. Con il video sul 7 ottobre dell’attacco di Hamas ha, a mio avviso, indebolito la sua credibilità. Volente o nolente, il suo è stato il ricorso a uno dei classici sistemi messi in campo per demolire l’onorabilità e la verità di un protagonista della lotta contro il Potere.
E aggiungo una considerazione cruciale. Fosse anche fondata la tesi di un Hamas prezzolato a suo tempo e poi lasciato fare il 7 ottobre e quindi spinto nella trappola – e NON lo è - , diffonderla ora, per amore di scoop alla Fracassi, a detrimento dell’onorabilità e dell’integrità del cuore della resistenza palestinese e umana, significa assumersi una pensate responsabilità
Lo si è fatto molte volte e io ne sono stato testimone, in particolare al tempo delle guerre all’Iraq. Saddam Hussein, da sempre l’antagonista più coerente e pericoloso per americani e Israele, andava distrutto moralmente ancora prima che militarmente.
Si fece credere a un’opinione pubblica, che ne stava sostenendo la causa antimperialista e antisionista e costituiva massa critica nell’opposizione internazionale a contrasto della guerra (ricordate i milioni in piazza detti “La Terza Potenza Mondiale”?), che, dopotutto, il presidente iracheno aveva delle vergogne da occultare: era stato “l’uomo degli americani” i quali lo avevano armato per decenni e, in particolare, contro l’Iran. Quindi, agli occhi del suo popolo e dei suoi sostenitori internazionali, doveva risultare un inaffidabile doppiogiochista, al quale non andava concessa nessuna solidarietà.
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Ebrei o sionisti? Decidete!
di Algamica
La manifestazione del 5 ottobre a Roma è stata grande nonostante la campagna terroristica fatta dalla stampa, in modo martellante quella dei fogliacci di destra.
In quella manifestazione esponevamo un cartello: «Ebrei o sionisti? Decidete »! Un cartello che ha incuriosito perfino la nota giornalista Giovanna Botteri che ha voluto intervistarci, alla quale abbiamo esposto il suo significato e alla domanda: «ma allora non credete nella possibilità di due popoli due Stati»? abbiamo risposto che: «è l’insieme dell’Occidente che non ha mai voluto uno Stato per i palestinesi ed ha sempre sostenuto lo Stato di Israele e la sua azione criminale per 80 anni nei confronti dei palestinesi fino al genocidio che sta praticando in questo periodo».
Ora nonostante, ripetiamo, la campagna terroristica e il divieto della questura e del governo, ispirati dalla Sinagoga di Roma, fin da subito che era stata indetta la manifestazione, la manifestazione c’è stata, nonostante che per entrare in piazza fosse necessario essere identificati. Dunque il significato è impressionante: una volontà di esprimere a tutti i costi una condanna radicale dell’Occidente e dello Stato sionista di Israele e il sostegno alla resistenza palestinese.
Si diceva: «ma manifestare il 5 ottobre, a ridosso del 7 ottobre, ha un significato politico: vuol dire festeggiare l’azione “terroristica” compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023». Ovviamente chi ragiona in questo modo intende rimuovere in toto 80 anni di torture operate dallo Stato sionista di Israele nei confronti del popolo palestinese. A noi non interessa fare comparazione, perché se dovessimo mettere su due piatti di una bilancia ottant’anni di soprusi e il 7 ottobre 2023 non c’è alcun dubbio di dove penderebbe la bilancia.
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I Lincei e l’INVALSI: 10 domande scomode
di Redazione ROARS
Un interessante convegno linceo, dal titolo “Problemi sulla valutazione” a scuola, si svolgerà alla presenza dell’INVALSI. Ecco le nostre 10 domande: non abbiamo resistito, sperando che qualche Linceo voglia farle al posto nostro.
L’Accademia Nazionale dei Lincei è un’istituzione di rilevanza storica e culturale, considerata “la più illustre nella storia fra le moderne accademie d’Italia e d’Europa”. Sul sito dell’Accademia se ne può ripercorrere la storia: i lincei, dal nome del felino dallo sguardo acuto, simbolo della compagnia di studiosi – Federico Cesi, Galileo Galilei, Quintino Sella, Giovanbattista della Porta, per citare i più illustri – coltivarono e promossero fin dal ‘600 una rinnovata visione delle scienze, fondata sull’indagine libera e sperimentale, opposta a qualsiasi vincolo di tradizione e autorità.
L’Accademia di oggi promuove e organizza un Convegno nazionale dal titolo “Problemi sulla valutazione scolastica” (qui il programma). Ottima idea, pensiamo. Di “Problemi sulla valutazione scolastica” ce ne vengono in mente parecchi. Sfogliamo il programma. Tra diversi nomi, più o meno noti, ritroviamo alcune vecchie conoscenze.
Primo tra tutti: il presidente INVALSI, Roberto Ricci, che racconterà in apertura le sfide della scuola del futuro, viste attraverso i dati dei test INVALSI.
-il professor Matteo Viale, linguista, che tra le sue attività istituzionali annovera quella di esperto e consulente INVALSI, con cui condividemmo un interessante scambio di informazioni su chi e come vengono corretti i test computerizzati (vedi qui)
-il professor Giorgio Bolondi, matematico, storico esperto e collaboratore, in diverse tipologie di ben remunerati incarichi, dello stesso istituto INVALSI.
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Cheng Enfu. “Dialettica dell’economia cinese”
di * * * e Vladimiro Giacché
Cheng Enfu, tra i maggiori esponenti del marxismo cinese e internazionale, promotore e animatore, con riviste e forum internazionali, della più importante comunità marxista mondiale, raccoglie diversi saggi scritti negli ultimi decenni, nei quali la Cina ha compiuto – non in rottura ma in continuità dialettica con il trentennio di costruzione delle basi del socialismo dopo la conquista del potere politico (1949-1978) – uno straordinario percorso di sviluppo economico che per durata (pochi decenni) e popolazione coinvolta (oltre 1,4 miliardi di persone) non ha eguali in tutta la storia mondiale.
Preceduto da un importante saggio su Dieci punti di vista sul marxismo, questo corposo libro si snoda attraverso 7 capitoli a loro volta suddivisi in diverse sezioni: 1. Il moderno sistema economico della Cina; 2. L’economia cinese nel quadro di una Nuova Normalità; 3. I cinque nuovi concetti di sviluppo della Cina; 4. La riforma del sistema di distribuzione cinese; 5. Riforma del rapporto tra mercato e governo in Cina; 6. L’apertura graduale del mercato finanziario interno in Cina; 7. L’apertura dell’economia cinese.
Ognuna delle rilevantissime questioni inerenti l’“economia socialista di mercato” cinese viene affrontata, con approccio critico-dialettico, con analisi concreta della situazione concreta, “cogliendo la verità dai fatti”, combinando sempre rilevazione empirica e analisi teorica, senza cedimenti ad affermazioni propagandistiche o autocelebrative.
I lavori di Cheng e della sua scuola prendono le mosse dalla realtà, esaminano i caratteri di fondo e le ragioni del successo complessivo della “via cinese”, denunciano altresì limiti e rischi di alcune tendenze, proponendo correttivi, o cambiamenti di rotta.
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Il panico morale di fronte alle critiche a Israele
di Donatella della Porta
Nel pamphlet “Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica” Donatella della Porta analizza come artisti, attivisti e intellettuali solidali con la Palestina – ebrei compresi – siano stati presi di mira e accusati di antisemitismo, in particolare in Germania, per le loro posizioni critiche di Israele.
Al Festival del Cinema di Berlino 2024 (la Berlinale) il premio per il miglior film documentario è stato assegnato a “No Other Land”, opera congiunta del regista palestinese Basel Adra e del giornalista israeliano Yuval Abraham, che esamina l’impegno comune di un cittadino palestinese e un cittadino israeliano a portare alla luce le violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele nella Cisgiordania occupata. Durante la cerimonia di conferimento del premio, l’artista palestinese ha condannato i massacri in corso in Palestina e ha chiesto alla Germania di interrompere la fornitura di armi al governo israeliano (cosa che Paesi come Spagna, Irlanda e Portogallo si erano già impegnati a fare); l’artista israeliano ha denunciato la situazione di apartheid nel suo Paese e ha chiesto la fine dell’occupazione.
Quasi immediatamente politici e giornalisti tedeschi li hanno accusati di antisemitismo, hanno minacciato di togliere i finanziamenti al festival e hanno invitato il ministro verde della Cultura, Claudia Roth, a dimettersi dopo che il quotidiano Bild l’aveva accusata di aver applaudito i discorsi degli artisti. Dopo aver affermato che le dichiarazioni al gala erano “scioccamente unilaterali e caratterizzate da un profondo odio verso Israele”, il suo ufficio stampa ha affermato che la ministra aveva applaudito l’artista israeliano ma non il suo coautore palestinese. In seguito alla reazione scandalizzata alle loro dichiarazioni, entrambi gli artisti hanno ricevuto minacce di morte. Come ha dichiarato Abraham al Guardian, “stare sul suolo tedesco come figlio di sopravvissuti all’Olocausto e chiedere un cessate il fuoco – e poi essere etichettato come antisemita non è solo oltraggioso, ma sta anche mettendo letteralmente in pericolo vite ebree… Non so cosa la Germania stia cercando di fare con noi”, ha aggiunto. “Se questo è il modo in cui la Germania affronta il senso di colpa per l’Olocausto, lo sta svuotando di ogni significato”. Prima dell’inizio dell’evento, alcuni artisti si erano già ritirati dal festival, denunciando quella che consideravano una nuova ondata di maccartismo.
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Il ritorno dell’estrema destra nell’Europa (neo)liberale
di Giovanni Guerra
Il successo dei "populisti" non è la causa, ma l’effetto, della crisi della democrazia. E dato che all'orizzonte l’unico keynesismo che si profila è quello in campo militare coniugato al rigore fiscale, è prevedibile un ulteriore rafforzamento dell'estrema destra
Stimolato da alcune considerazioni del suo maestro Hegel, Karl Marx, nell’incipit del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, osservava che la «storia si present[a]» sempre «due volte», «la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». L’adagio del filosofo di Treviri descrive alla perfezione il ritorno dell’estrema destra in Europa a distanza di un secolo, lustro più, lustro meno, dalla sua prima ascesa con Mussolini (1922) ed Hitler (1933), ma anche Horty (1920), Salazar (1932), Franco (1939) e Pétain (1939), che hanno fatto precipitare il continente nel ventennio più buio della sua storia recente.
La resistibile ascesa dei populisti in Europa
Quelli erano “dittatori”, quelli di oggi sono (chiamati) “populisti”, ma non per questo sono meno pericolosi. Sollecitati da questa ricorrenza storica, e stanchi di veder versare altre lacrime di coccodrillo da parte di chi pensa che il successo dell’estrema destra sia la causa, e non l’effetto, della crisi della democrazia nel continente, sembra doveroso provare a riflettere sulle responsabilità gravanti sulle classi dirigenti liberali europee (Zielonka), nella convinzione che molte siano le colpe loro imputabili nell’aver favorito, oggi come allora, tale resistibile exploit. Non solo, forte è l’impressione che, proprio come in passato, tra l’estrema destra e l’«estremo centro» (Ali) (neo)liberale si registrino numerose convergenze, a partire, neanche a dirlo, dalla comune avversione per il socialismo (Dardot – Guéguen – Laval – Sauvêtre): a ben vedere, la prima non costituisce una “rottura” rispetto al secondo, quanto piuttosto una “inflessione” sciovinistica e politicamente illiberale di una medesima cultura basata sulla protezione del liberismo economico e dei processi di accumulazione capitalistica (Wilkinson).
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La grande rimozione
Il comunismo nel Novecento? Una sconfitta, non un fallimento
di Mauro Casadio
Ieri la prima giornata di lavori del Forum “Elogio del comunismo del Novecento”. Oggi si prosegue la mattina con la seconda e terza sessione, poi interruzione per partecipare alla protesta contro il divieto di manifestazione. I lavori riprenderanno domenica mattina con la quarta sessione.
Pubblichiamo il testo dell’introduzione ai lavori del Forum di Mauro Casadio della Rete dei comunisti
In questo nuovo cambio epocale si stanno determinando le condizioni per affrontare in modo più oggettivo la grande rimozione politica fatta, in buona e mala fede, sul movimento di classe e comunista del ‘900; necessità che si impone non solo in termini storici ma anche per le prospettive di una, ora di nuovo, necessaria trasformazione sociale. Come RdC già dagli anni ’90 sentivamo questa esigenza tanto da produrre alcune pubblicazioni, titolate “Il bambino e l’acqua sporca”, per indagare più a fondo quelle esperienze cercando, appunto, di salvare il “bambino”.
Ci fermammo, però, in quella ricerca ed elaborazione sia per nostri limiti soggettivi sia perché, nel contesto dell’affermazione globale del neoliberismo, rischiavamo di oscillare tra suggestioni ipercritiche e continuismo dogmatico vista l’impossibilità di avere verifiche certe nella realtà. Ciò non esclude che avessimo già una idea di ciò che era avvenuto e si era prodotto nelle esperienze comuniste dell’est e dell’ovest dell’Europa in particolare, luogo dal quale era partito il moto rivoluzionario mondiale del Novecento.
Se per la soggettività gli esami non finiscono mai, sul piano dell’oggettività la situazione attuale viene ora in nostro aiuto in quanto la crisi di egemonia dell’imperialismo euroatlantico ci fornisce più strumenti per concepire una nuova possibilità di cambiamento di sistema.
Certo se il capitalismo non fosse ricaduto ancora una volta nelle sue intime contraddizioni di fondo parlare del movimento comunista del ‘900 sarebbe possibile farlo solo in termini di ricerca storica, utilissima ma non di nostra diretta competenza.
La fine della “fine della storia”
Invece la fine della “Fine della Storia” ci permette di tracciare una linea rossa dalla rivoluzione Bolscevica del ’17 utile a interpretare gli andamenti del conflitto di classe internazionale, ma soprattutto definire il ruolo avuto da essa nel processo di emancipazione generale di tutta l’umanità.
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Perché la guerra?
La congiuntura economico-politico-militare
di Maurizio Lazzarato
Pubblichiamo il primo di una serie di articoli scritti per noi da Maurizio Lazzarato, volti a fare il punto sulla «guerra civile mondiale» in corso. Nella prima parte, l’autore si sofferma sul «centro che non tiene», come direbbe il poeta, ovvero sulla crisi negli Usa, cuore del potere capitalistico contemporaneo. Le crisi e le guerra che stanno distruggendo il mondo sono figlie proprio delle strategie di potere del paese a stelle e strisce.
Ricordiamo che su questi temi Maurizio Lazzarato ha scritto un libro recentemente edito da DeriveApprodi, Guerra civile mondiale?
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Il fallimento economico e politico degli USA
Un doppio, contraddittorio e complementare, processo politico ed economico è in corso: lo Stato e la politica (statunitense) affermano con forza la loro sovranità attraverso la guerra (anche civile) e il genocidio. Mentre, allo stesso tempo, mostrano la loro completa subordinazione al nuovo volto che il potere economico ha assunto dopo la drammatica crisi finanziaria del 2008, promuovendo un’inedita finanziarizzazione, altrettanto illusoria e pericolosa, come quella che ha prodotto la crisi dei mutui sub prime. La causa del disastro che ci ha portato alla guerra è diventata una nuova medicina per uscire dalla crisi: una situazione che non può essere che foriera di altre catastrofi e di altre guerre. Un’analisi di quanto sta accadendo negli Stati Uniti, il cuore del potere capitalistico, è fondamentale poiché è proprio dal suo seno, dalla sua economia e dalla sue strategia di potere, che sono partite tutte le crisi e tutte le guerre che hanno sconvolto e, tutt’ora, devastano il mondo.
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A un anno dall’attacco di Hamas, Israele spinge il Medio Oriente verso l’abisso
di Roberto Iannuzzi
L’assassinio di Nasrallah e l’offensiva israeliana in Libano potrebbero innescare una spaventosa destabilizzazione regionale. I missili iraniani su Israele ne costituiscono solo la prima avvisaglia
Il 27 settembre 2024 ha segnato uno spartiacque nella storia mediorientale. L’uccisione di Hassan Nasrallah (guida storica e carismatica di Hezbollah) a seguito di un violentissimo bombardamento israeliano ha scosso gli equilibri regionali con conseguenze difficili da prevedere.
In questo sanguinoso episodio sono rimasti uccisi anche centinaia di civili – un bilancio preciso è reso difficile dall’impossibilità di recuperare corpi letteralmente polverizzati dalla potenza delle esplosioni.
A quasi un anno da quel fatidico 7 ottobre che vide l’attacco di Hamas ad avamposti militari e insediamenti israeliani, l’eliminazione di Nasrallah ha segnato un’ulteriore escalation in un conflitto che ha ormai assunto una dimensione regionale.
Nel quadro dell’irrisolto e dimenticato conflitto israelo-palestinese, e della durissima occupazione militare israeliana, l’inaspettata azione di Hamas del 7 ottobre (la cui dinamica rimane tuttora avvolta da misteri e interrogativi) fu all’origine della devastante reazione militare di Tel Aviv che ha portato alla totale distruzione di Gaza provocando oltre 41.000 morti.
Perfino una catastrofe di queste dimensioni era stata però trasformata in routine dalla copertura parziale e insufficiente dei media occidentali, e declassata a quarta o quinta notizia sui telegiornali (quando viene citata).
Ora vi è il rischio che anche la portata dell’operazione israeliana che segna il definitivo coinvolgimento del Libano nel conflitto venga sottovalutata in Occidente. L’uccisione di Nasrallah, in particolare, e la decapitazione della leadership di Hezbollah, è ciò che ha portato i missili di Teheran nei cieli israeliani.
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L’Europa di Draghi e l’economia di guerra
di Alessandro Scassellati
Nel suo rapporto l'ex Presidente del Consiglio non propone una maggiore cooperazione a livello internazionale e un dialogo con le potenze emergenti, ma asseconda la deriva verso un mondo dominato da poli energeticamente e tecnologicamente autosufficienti, armati fino ai denti e disposti a entrare in guerra per risolvere eventuali controversie
Mentre l’Unione europea si è spostata a destra sia in Parlamento sia nella composizione della Commissione1 e si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania e altri paesi cosiddetti “frugali”) che esclude solo le spese per le armi dal computo nel calcolo del deficit2, da mesi gli alti funzionari dell’Ue fanno dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro”, ha affermato qualche settimana fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica” e a sostenere che “dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”, spendendo 500 miliardi di euro nel prossimo decennio, lavorare per costruire un esercito europeo e avere come priorità principale “prosperità e competitività”.
Non a caso, circa un anno fa, von der Leyen aveva affidato a due dei maggiori esponenti della tecnocrazia europea, campioni della visione del mondo neoliberista, Mario Draghi ed Enrico Letta, la redazione/supervisione di due rapporti complementari che avrebbero dovuto delineare, da un lato, una strategia per il futuro della competitività europea (vedi qui e qui) e, dall’altro, una strategia per il futuro del mercato unico europeo (vedi qui). Il Rapporto Draghi incorpora le analisi e raccomandazioni del Rapporto Letta, per cui nell’analisi che segue ci concentriamo sulla strategia messa a punto da Draghi e presentata ufficialmente il 9 settembre scorso.
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