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La generazione scomparsa
di Gigi Roggero
0. Se non lo affrontiamo da un punto di vista esclusivamente sociologico o meramente anagrafico, sappiamo bene che quello di generazione è un concetto materialistico. È cioè uno degli elementi centrali che rende peculiare la collocazione sociale dei singoli dentro i rapporti di produzione e di classe. Nell’ultimo ventennio, per esempio, la precarietà e poi la crisi hanno progressivamente dilatato la categoria di giovani, fino a farla esplodere. Se nell’epoca definita “fordista” il giovane medio era colui che studiava e/o era in attesa di entrare nel mercato del lavoro, di passare dalla famiglia di provenienza a una propria famiglia, oggi che ne è di quella categoria a fronte della scomparsa del tradizionale rapporto tra formazione e lavoro, della rottura della supposta linearità delle successioni temporali di vita, della precarietà e disoccupazione che diventano elementi strutturali e permanenti? La precarietà e la crisi ci rendono giovani in modo duraturo, nel segno dell’impoverimento e dell’assenza di tutele.
Fondandosi su una struttura materiale e storicamente determinata, il concetto di generazione è importante per analizzare anche le forme della militanza. È indispensabile, cioè, per comprendere la costituzione della soggettività militante, al di fuori delle mitologie o dei fallaci racconti basati sull’eroismo individuale.
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Il rifiuto del lavoro
Teoria e pratiche nell'Autonomia Operaia
di Ottone Ovidi
Il rifiuto del lavoro è stato patrimonio dell’autonomia operaia degli anni settanta, intesa sia con la A maiuscola di organizzazione politica sia con la a minuscola di egemonia di pratiche nel movimento di quegli anni[1].
La prima considerazione da fare riguarda la mancanza di ricerca storiografica sul tema, dal punto di vista della teoria e della prassi messe in campo dagli autonomi. Finora, infatti, l’interesse della gran parte degli storici si è concentrato su altri aspetti quali la violenza e l’illegalità teorizzate e/o praticate dagli stessi[2].
L’attenzione accordata a questi temi ha messo in ombra quello che invece è stato un nodo centrale attorno a cui si è sviluppata l’autonomia e larghi strati del movimento di quegli anni fornendogli forza e, soprattutto, originalità. La teoria e la pratica, appunto, del rifiuto del lavoro.
Uno studio storico di quella stagione da questo punto di vista comporta una certa difficoltà. Le piccole e grandi realtà nascono e muoiono velocemente, vi è un continuo scambio e ricambio di militanti e mancando una direzione centrale o centralizzata le stesse regole per venire inclusi e autodefinirsi appartenenti a quest’area non sono rigide[3]. Un ulteriore problema per lo storico consiste nella difficoltà di reperire documenti d’archivio perché il tipo di organizzazione di questi gruppi ha comportato una perdita notevole di materiale.
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La Grecia ci dice che questa Europa non è riformabile: deve essere rivoluzionata
di Andrea Fumagalli
Logica finanziaria versus logica economica
La conclusione della trattativa tra Bruxelles e Atene (la capitolazione greca) è l’esito di una scelta politica che di economico non ha nulla. Anzi irride profondamente qualsiasi razionalità economica, quella razionalità dell’homo oeconomicus che viene ritenuta alla base di qualsiasi scelta economica efficiente e continuamente sbandierata dai manuali di economia politica, dalla stampa e dagli stessi politici di governo per giustificare decisioni che di economico hanno invece ben poco.
L’accordo imposto alla Grecia con il ricatto della stretta di liquidità prevede per 10 anni un avanzo primario del 3,5%, la costituzione di un fondo di garanzia patrimoniale da alienare (leggasi privatizzare) del valore di 50 miliardi di euro (poco meno del 25% del Pil Greco, una cifra che in Italia equivarrebbe a più di 450 miliardi!), misure fiscali che incidono negativamente sulla domanda interna grazie all’aumento dell’Iva (con il duplice effetto di colpire 1. settori –turismo, in primo luogo, da cui “la Grecia –come giustamente rileva Paolo Pini – trae un flusso positivo di risorse estere per compensare almeno in parte il saldo negativo complessivo della bilancia commerciale” e 2. penalizzare i redditi più bassi), nuovi interventi sulla previdenza e sanità pubblica oltre a quelli già adottati negli anni precedenti e via di questo passo.
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Le immagini della scienza e la pretesa di verità
di Riccardo Falcinelli
Viviamo circondati da immagini, in un numero enorme se confrontato con qualsiasi società che ci abbia preceduto. Gran parte di queste sono pensate per intrattenere, per raccontare, per sedurre, come quelle della fiction, dei videogiochi o della pubblicità. Un’altra parte è fatta per testimoniare o per spiegare: si tratta delle foto giornalistiche e delle immagini scientifiche. In entrambi i casi si mostra qualcosa e si afferma che quanto si sta mostrando è “vero”. Sarebbe però più corretto dire che si pretende sia vero, visto che il rapporto delle immagini con la verità non è dato una volta per tutte ma sempre frutto di un accordo, di una negoziazione tra chi mostra e chi guarda. Condizione stringente nel caso delle immagini scientifiche che esibiscono spesso cose non visibili a occhio nudo: l’atomo, un virus o il DNA li conosciamo infatti attraverso raffigurazioni e non tramite esperienza diretta. C’è dunque da chiedersi quali strumenti figurativi vengano impiegati a questo scopo e perché questi e non altri.
Il 25 aprile 1953 Francis Crick e James Watson presentano su “Nature” l’articolo epocale sulla struttura dell’acido deossiribonucleico che li avrebbe portati qualche anno dopo al premio Nobel. Vi compare un’immagine che, in forme diverse, sarebbe stata destinata a un enorme successo: la prima effigie del DNA sotto forma di elica. Per l’occasione il disegno viene realizzato dalla moglie di Crick – che è pittrice – partendo da uno schizzo del marito. Una nota in calce dice che l’immagine è niente più che uno schema: “purely diagrammatic” recita la didascalia.
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Basta un "Piano B" per rompere la gabbia dell'Unione Europea?
Dante Barontini
In calce "Un piano B per l'Europa"
I fatti hanno la testa dura, andiamo ripetendo spesso. E costringono tanti a cambiare idea, visione, progetto politico. Nel panorama disastrato della sinistra radicale europea questo è certamente un bene, vista la miseria mostrata negli ultimi 25 anni.
Ma intorno a cosa si sta cambiando idea? Intorno al problema principale, discriminante, politico per definizione: quale rapporto tra movimenti sociali contro l'austerità e Unione Europea?
Ora ben quattro leader politici della sinistra europea, in alcuni casi ex ministri (o vice) delle finanze dei rispettivi paesi (Lafontaine, Varoufakis, Fassina, Melenchon) hanno firmato e diffuso, da Parigi, un documento-appello intitolato “Un piano B per l'Europa” in cui dichiarano di di “essere determinati a rompere con questa Europa”, con una visione che prevede anche una revisione totale del sistema della moneta unica e il ritorno alle monete nazionali. Vedremo tra poco quelli che secondo noi sono i limiti di questa impostazione, ma non si può negare che si tratti di un notevole passo in avanti rispetto al “riformismo europeista” ancora sbandierato dalla parte meno reattiva della cosiddetta sinistra radicale.
Nel dire questo, e nell'invitare alla discussione i nostri lettori e tutti gli attivisti sociali e politici di questo paese, consigliamo di concentrarsi sull'evoluzione dei processi storici, anziché sui nomi e cognomi dei singoli. Non perché le biografie o la formazione individuale non abbiano la loro importanza, ma per la forza irresistibile dei processi storici, che producono i propri interpreti anziché esserne determinati. In fondo, è l'essere sociale (complessivamente) a produrre la coscienza, non viceversa...
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L’aporia del debito pubblico: Keynesiani vs Classici
di Gaetano Perone
L’intera architettura dell’Unione Europea poggia le sue basi sull’apodittico assunto che il debito pubblico rappresenti un vincolo insostenibile per la crescita di lungo periodo, nonché un grave ostacolo a una corretta e completa integrazione economica fra i Paesi. Si tratta chiaramente di un modello di stampo ortodosso, che dimentica l’essenza stessa del capitalismo, ossia la possibilità/opportunità di prendere denaro a prestito e di contrarre debiti/crediti.
Da qui l’idea che lo Stato sia assimilabile al buon pater familias e che il consolidamento delle finanze pubbliche rappresenti l’unico viatico possibile per rilanciare consumi e investimenti. Un paradigma antitetico a quello proposto da Keynes (1936), che vedeva nella spesa di matrice statale uno strumento di perequazione e di composizione dei fallimenti privati, nonché una leva fondamentale per azionare una crescita sostenibile e bilanciata.
Secondo l’approccio classico mainstream, dato che la crisi sarebbe da ascriversi principalmente a un eccesso sistematico di spesa pubblica, che avrebbe favorito in sequenza, prima l’accumulazione e poi l’implosione dei debiti pubblici, sarebbe necessario – per riattivare il sistema – tagliare drasticamente la spesa di matrice nazionale (Reinhart e Rogoff 2013).
Tuttavia, il rapporto di causazione non sembra reggere alla prova dei fatti, né a quella empirica. Innanzitutto, come dichiarato apertamente dallo stesso vicepresidente della commissione UE, Victor Constâncio (2012), il debito pubblico è semmai l’effetto, non la causa della crisi.
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La Buona Scuola, ovvero il carrarmato della propaganda e del ricatto
Clash City Workers
[SPOILER: Contributo di due paginette, con numeri, dati e spiegoni. Ma questa non è l'osteria delle emozioni, per le analisi in 160 caratteri rivolgetevi a Palazzo Chigi. #ciaogufi]
Oggi a mezzanotte [11 settembre ndr] scade il termine ultimo per l'accettazione delle proposte di assunzione della cosiddetta fase B, cioè distribuite su tutto il territorio nazionale.
Una fase che è stata un mezzo flop per il Governo: 16.210 posti messi a bando, solo 10.780 le domande presentate al 14 Agosto, 8.776 le proposte di assunzione effettive. Insomma, per una serie di motivi, legati anche a leggerezze e opacità procedurali sulle quali è partita anche una interrogazione parlamentare, poco più della metà dei posti messi a bando sarà finalmente occupata da un docente assunto a tempo indeterminato. Virtualmente: molti, infatti, hanno già accettato un incarico annuale nella propria provincia, l'ultimo possibile prima di prendere effettivamente il ruolo, per cui anche quest'anno molte cattedre saranno coperte da supplenti.
Quanti saranno, allora, i docenti assunti a tempo indeterminato da domani? Il conto è presto fatto: 47.476 erano i posti disponibili per le prime due fasi di assunzione, 16.210 quelli “avanzati”, quindi il totale degli assunti al 31 Agosto era 31.266. A questi vanno aggiunti gli 8.760 della fase B che hanno detto SI nel momento in cui scriviamo (al 10/09, 16 hanno rifiutato). Totale: 40026.
Il numero è considerevole se lo si somma ai 55.258 posti messi a bando per la cosiddetta fase C, ma ammesso che tutti i rimanenti posti verranno coperti – cosa non facile né scontata – 95.000 assunti restano ben distanti dai 150.000 circa promessi a Settembre scorso, specialmente se opera di un Governo che ha gridato ai quattro venti di voler mettere fine alla ultraventennale piaga del precariato.
Inoltre, quando da domani il Governo e il suo tweeting staff canteranno vittoria imbrodandosi nelle lodi, ricordate che la pena, per chi rifiutava queste proposte di assunzione, era la cancellazione da ogni graduatoria.
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Gli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica sono in Rete
di Benedetto Vecchi
Va preliminarmente sgomberato il campo da una rappresentazione della produzione dell’opinione pubblica che vede una polarità tra vecchi e nuovi media. Da una parte, viene sostenuto, attingendo e al lessico di Marshall McLuhan, ci sono la carta stampata, la radio e la tv, che sono medium freddi o caldi dove si esprime l’egemonia dello stile enunciativo televisivo, data la rilevanza del visuale – le immagini rivelano una immediatezza comunicativa che manca invece alla parola orale o scritta -; dall’altra c’è la Rete, regno indiscusso del caos comunicativo e dall’assenza di una gerarchia che seleziona i fatti e i punti di vista. Da una parte un ordine del discorso facile da decrittare e mettere a critica; dall’altra una trasparenza radicale della comunicazione che produce un rumore di fondo che distoglie l’attenzione e favorisce una colonizzazione della discussione pubblica da parte dei governi e delle imprese. Speculare a queste, c’è l’altra rappresentazione, dove i “vecchi media” sono una sofistica tecnologia del controllo sociale, mentre il web sarebbe uno spazio comunicativo difficile da manipolare e ribelle a qualsiasi eterodirezione palese o nascosta.
Entrambe le rappresentazioni inducono all’equivoco che la Rete sarebbe, di volta in volta, una tecnologia della liberazione dal potere performativo e autoritario di televisione, carta stampata e radio; o uno strumento di manipolazione dell’opinione pubblica, possibilità preclusa ai vecchi media visti gli elementi di autogoverno che regolano il loro funzionamento, a partire dalle regole deontologiche dei giornalisti che consentono proprio ai giornalisti di vigliare sull’operato degli editori e dei direttori.
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Cyber-Proletariat
G. Mueller intervista Nick Dyer-Witheford
Gavin Mueller: Il tuo libro del 1999 Cyber-Marx è un ottimo sunto dell'approccio marxista autonomo e post-operaista, e rappresenta una riflessione rispetto alla loro rilevanza nella lotta contro un capitalismo sempre più pervaso di tecnologie comunicative e informazionali. Con Cyber-Proletariat appari meno ottimista rispetto all'abbraccio che usualmente il post-operaismo propone rispetto alle tecnologie. Puoi spiegare questo cambio di posizione? Che cosa ha reso le tecnologie comunicative e informazionali sembrare sempre più come una sfida alla classe operaia globale?
Nick Dyer-Witheford: Il mio cambio di posizione riflette il coinvolgimento in due momenti di lotta – quello dell'alter-globalismo da metà anni '90 fino ai primi Duemila; e poi, dal 2008 a oggi, i nuovi antagonismi sociali e le lotte emerse sull'onda del collasso finanziario. Entrambe le lotte hanno rivelato nuove possibilità e nuovi problemi per i movimenti anticapitalisti rispetto all'uso delle tecnologie cibernetiche. Da un lato c'è stato un evidente – e molto dibattuto – uso dei social media e delle reti di telefonia mobile in ciò che possiamo chiamare come le rivolte del 2011 – i riot, gli scioperi, le occupazioni. Al contempo, e d'altra parte, tutti questi eventi hanno mostrato le difficoltà insite nel considerare tali tecnologie come matrici organizzative - ad esempio quello che potremmo definire come sindrome "dalle stelle alle stalle" che ha caratterizzato alcuni movimenti del 2011. Anche durante questo ciclo, e in particolare con le rivelazioni di Snowden in Nord America, è divenuto chiaro lo scopo e l'intensità della sorveglianza alla quale sono sottoposti i militanti grazie a questo milieu cibernetico.
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Davanti al dolore dei rifugiati
L’uso delle immagini e l’«operazione simpatia» della Germania e dell’Unione europea
Militant
Nel 2003, la scrittrice statunitense Susan Sontag si interrogò, nel libro Davanti al dolore degli altri, su come la continua riproposizione di immagini di atrocità sui media influenzasse e condizionasse le nostre opinioni, i nostri valori, il nostro sostegno o la nostra opposizione a guerre e «interventi umanitari». Un libricino scritto quando Facebook ancora non esisteva e i social networks erano pressoché sconosciuti ai più, ma ricco di spunti che ci sembrano molto attuali alla luce degli avvenimenti delle ultime settimane. Qual è stata, infatti, l’influenza della riproposizione dell’immagine del cadavere di Aylan, il bambino curdo siriano affogato durante un disperato tentativo di attraversare il lembo di mare che avrebbe condotto lui e la sua famiglia a Kos (Grecia) e trovato morto sulla spiaggia turca di Bodrum? In quale modo la commozione che ha suscitato nell’intero pianeta ha condizionato i sentimenti e le opinioni rispetto all’immigrazione, la risposta dei governi europei e, in un gioco di rimandi, l’immagine che di se stessi offrono al mondo?
La commozione suscitata dall’immagine di Aylan ha spinto la Germania a sospendere il patto «Dublino III» – che prevede che la richiesta di asilo vada fatta nel primo paese in cui si arriva – e di garantire protezione internazionale e accoglienza ai profughi provenienti dalla Siria e, in misura minore, da Afghanistan e Irak.
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Grecia, la necessità di un Piano B
Meglio un salto nel vuoto che uno nel nulla
di Marco Bertorello
Trascorso del tempo dall'accordo tra Troika e Grecia si può provare a trarre qualche considerazione di più ampio respiro, provando a uscire dalla logica manichea traditore versus eroe popolare, capitolazione versus vittoria. Senza fare/farci sconti per capire cosa comporta quell'accordo e, in particolare, per considerare cosa fare per poter cambiare qui e ora. Questa terribile vicenda, infatti, pone seri problemi per una prospettiva di trasformazione. Dopo anni di marginalità su scala internazionale il cambiamento è parso alla portata nel piccolo paese ellenico, o, perlomeno, si è posta la concreta possibilità di iniziare un processo di controtendenza, rimettendo in discussione debito e austerità, cioè i pilastri della costituzione materiale del neoliberismo sul piano europeo. Le conseguenze di ciò che è accaduto, dunque, ricadono sull'agire politico di molteplici paesi.
Il piano B e le sue banalizzazioni
Con tutte le cautele del caso e la consapevolezza di non poter impartire lezioni ai greci, penso che nell'estenuante trattativa di luglio fosse necessario prevedere un piano B. Prima di spiegare perché fosse necessario preferisco concentrarmi sulle difficoltà di una sua realizzazione. Non mi convince, infatti, come da diverse parti esso sia stato banalizzato.
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Crash tutto cinese?
di Raffaele Sciortino
Difficile ad oggi prevedere se il crollo della borsa cinese, che ha trascinato con sé le correzioni delle borse mondiali, sia l’innesco di una precipitazione della crisi globale dopo la pausa, economica in realtà più che geopolitica, degli ultimi due, tre anni. In ogni caso ne rappresenta un passaggio di fase: non solo la Cina sempre meno può, e vuole, fare da volano per un Occidente in prolungata stagnazione, ma si approssima un secco redde rationem sui circuiti di debito globali. Detto in altro modo: tende ad alzarsi il livello dello scontro sullo scarico dei costi della crisi a partire dagli scricchiolii del disequilibrio bilanciato1 Usa/Cina perno finora della globalizzazione.
Presentiamo di seguito alcune provvisorie ipotesi di lettura e inquadramento degli sviluppi in corso tentando innanzitutto una lettura non scissa tra dimensione “interna” cinese ed “esterna”. Tutto all’opposto della narrazione, di netto segno politico, che va imponendosi in Occidente dove -dopo anni di idiozie giornalistiche sullo scontato “sorpasso” del Dragone ai danni degli Usa- come d’incanto si riscoprono ora i nodi irrisolti dello sviluppo capitalistico cinese (!) per ingiungere a Pechino i compiti da svolgere pena la messa a rischio dell’economia mondiale.
Primo. La svalutazione agostana dello yuan secondo la narrazione corrente sarebbe stata la risposta al rallentamento dell’economia cinese che ha “naturalmente” innescato il crollo di borsa. Risposta “disperata” (addirittura!), comunque “scorretta” (come se gli stati occidentali in questi anni non avessero socializzato le immani perdite dei mercati…).
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La lotteria del lavoro
di Domenico Tambasco
Il lavoro ridotto a vincita di qualche lotteria patronale. Il salario diventato premio di una gara tra aspiranti lavoratori. Cosa si cela dietro la recente “ludizzazione” del lavoro? La lettura dell’illuminante saggio dal titolo “Ego. Gli inganni del capitalismo” di un grande intellettuale tedesco recentemente scomparso, Frank Schirrmacher, può aiutarci a trovare una sorprendente e inquietante risposta
Il lavoro è diventato un gioco. Sembra quasi uno slogan, ma la realtà quotidiana ci fornisce un’immediata e tangibile conferma.
L’ultimo caso balzato agli onori delle cronache risale a questa estate, ed arriva dalla provincia di Piacenza, precisamente da Ponte dell’Olio. In occasione della festa patronale, infatti, un salumificio ha organizzato una tombola[1]. Primo premio, manco a dirlo, un posto di lavoro. E non si tratta di un caso isolato. Altre “lotterie del lavoro”, negli ultimi anni, sono state organizzate in Italia, da Nord a Sud, regalando ai più fortunati dei veri e propri contratti di lavoro, a tempo indeterminato o a termine.
E quando non è oggetto di una lotteria, allora la retribuzione (scopo primario del lavoro) si trasforma nel premio concesso al vincitore della gara organizzata tra una pluralità di aspiranti lavoratori: siamo dinanzi al crowdsourcing, moderna forma di “cottimo digitale” che abbiamo già incontrato sulla nostra strada[2].
Cosa significa questa trasposizione del lavoro nella forma ludica ora della lotteria ora della vera e propria gara? E’ forse espressione dell’homo ludens, per utilizzare una felice espressione utilizzata nell’omonimo e storico saggio di Johan Huizinga? Sembrerebbe escluderlo lo stesso Huizinga che, in merito, ha espresso parole inequivocabili: “Salario è situato completamente fuori dall’ambito del gioco: significa l’equa ricompensa al lavoro prestato o ai servizi prestati. Non si gioca per un salario, si lavora per un salario”[3].
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La ‘cronicizzazione’ della crisi e la necessità di costruire coalizioni sociali
Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi
Appunti per una discussione a venire, a partire dalla giornata seminariale dell’11 settembre nella Scuola estiva di Euronomade
Da più parti si discute sul fenomeno di sostanziale cronicizzazione della crisi capitalistica in Europa. Intendiamo riprendere questo tema nelle nostre giornate della scuola estiva, per tornare a discutere sulla nozione di crisi e sull’ipotesi che questa congiuntura, più che essere interpretata come una fase ciclica che apre ad un nuova stagione di espansione, sembra contenere invece tutti gli elementi di una “nuova forma di regolazione” di lungo periodo del sistema capitalistico. Sorprende che alcuni economisti del mainstream marginalista, anche negli ambienti da cui più direttamente sono provenute le ricette di politica economica centrate sulla austerità di bilancio e la liberalizzazione dei fattori nel mercato del lavoro, sia nata la preoccupazione sul futuro dello sviluppo capitalistico. Lawrence Summers alla conferenza annuale del Fmi nel 2013 suggerisce l’ipotesi che l’economia statunitense in modo particolare, si stia avviando lungo un sentiero di “stagnazione secolare”, aggiungendo che questa potrebbe essere la «questione [principale] del nostro tempo» . Ciò che questi economisti, insieme a tutte le altre teste d’uovo dell’establishment europeo non potranno mai vedere, è che alla base dell’ipotesi realistica della “stagnazione secolare” opera una radicale trasformazione del rapporto sociale capitalistico, maturata lungo il ciclo neoliberale.
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La Germania kantiana, il nuovo spirito umanitario e altre boiate
Cosa c’è dietro l’apertura tedesca ai migranti siriani. Con un’intervista a Vladimiro Giacchè
di Militant
La questione migranti può essere affrontata nei modi più disparati, ma tutti a loro modo fruttuosi per la politica europeista. Lungi dal costituire un “problema”, i migranti sono lo strumento perfetto per aggregare consensi o dissensi, a seconda dei casi. Possono consolidare una leadership o, all’inverso, essere utilizzati per combattere la linea politica avversa. E’ la manna dal cielo per le difficoltà in cui spasima la politica continentale, l’elisir di lunga vita che consente ai governi (e ai media dipendenti) di spostare l’attenzione dai problemi reali a quelli indotti, mentre al tempo stesso alimenta il consenso delle opposizioni populiste e/o direttamente razziste. Oltretutto, da che mondo è mondo, i migranti fruttano anche e soprattutto economicamente. Insomma, se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. In effetti, gli attuali flussi migratori sono stati proprio inventati, nel senso letterale del termine, con un ventennio di bombardamenti in giro per il medioriente, di regime change, di guerre umanitarie, di ingerenze esterne. Sono in tutto e per tutto il frutto avvelenato delle politiche occidentali nei diversi territori col tempo trasformati in failed states.
Nel giro di qualche giorno, la Germania si è trasformata da “Stato canaglia”, inviso agli spiriti umanitari in sofferenza per la Grecia, a Stato illuminato, progressista, in linea con l’umanitarismo cattolico e la solidarietà internazionale. Un capitale di consenso veicolato dalle più bizzarre interpretazioni mediatiche, che descrivono in questi giorni la Germania come faro della civiltà europea.
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Capitalismo vs. democrazia
di Michael Löwy
Iniziamo con una citazione tratta da un saggio sulla democrazia borghese in Russia, scritto nel 1906 dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa:
“è veramente ridicolo attribuire all’odierno capitalismo maturo (Hochkapitalismus), quale esso viene ora importato in Russia ed esiste in America, un’affinità con la democrazia e la libertà qualunque senso si voglia dare a queste parole […]. Ci dobbiamo invece domandare se la democrazia e la libertà siano possibili a lungo termine sotto il dominio del capitalismo maturo” (1).
Chi è l’autore di questo penetrante commento? Lenin, Trotskij o forse il precoce marxista russo Plechanov? In realtà è Max Weber, il ben noto sociologo borghese. Anche se Weber non ha mai sviluppato questa intuizione, qui sta suggerendo che esiste una contraddizione in termini tra capitalismo e democrazia.
La storia del ventesimo secolo sembra confermare questa opinione: molto spesso, quando è sembrato che il potere della classe dominante fosse minacciato dal popolo, la democrazia è stata messa da parte come un lusso eccessivo ed è stata rimpiazzata dal fascismo – come in Europa negli anni ’20 e ’30 – o da dittature militari, come in America Latina negli anni ’60 e ’70. Fortunatamente non è il caso dell’Europa attuale.
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La rottamazione del Mezzogiorno
di Guglielmo Forges Davanzati
Renzi ha dichiarato che il suo Governo “ha salvato il Mezzogiorno”. È un’affermazione palesemente smentita dall’evidenza empirica. Al di là della propaganda governativa, occorre prendere atto del fallimento delle politiche per il Mezzogiorno degli ultimi decenni, e operare una radicale revisione degli interventi puntando a rafforzare il tessuto industriale dell’economia meridionale
Il Presidente del Consiglio Renzi ha recentemente dichiarato che il suo Governo “ha salvato il Mezzogiorno”. E’ davvero difficile comprendere il senso di questa affermazione: stando all’ultimo Rapporto SVIMEZ, il Pil del Mezzogiorno è inferiore a quello greco, ha fatto registrare una contrazione del 13% dal 2008 a fronte del 7.4% del Centro-Nord, configurando uno scenario che SVIMEZ definisce di “sottosviluppo permanente”. Si tratta di un dato, fra i tanti rilevati nel Rapporto, che non può non destare preoccupazione e che smentisce in modo inequivocabile la propaganda governativa[1]. E si tratta peraltro di un’evidenza confermata dai dati recentemente diffusi dal Ministero delle Finanze, dalla quale risulta che, a fronte di una riduzione del reddito pro-capite in tutte le regioni italiane, le contrazioni di maggiore entità si sono manifestate nelle regioni meridionali e nelle Isole.
Occorre innanzitutto individuare le cause che hanno portato a questo esito. Cause sostanzialmente riconducibili alle seguenti.
1) In primo luogo, in assenza di interventi esterni, un’economia di mercato tende spontaneamente a generare divari regionali e ad amplificarli. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una volta determinatasi un’agglomerazione di imprese in una data area, per l’operare di economie di scala e di network, e per l’esistenza di centri di ricerca e di facile accesso al credito bancario, le imprese operanti in quell’area sono in grado di realizzare maggiori investimenti (e di generare più intensi flussi di innovazione) rispetto alle aree periferiche.
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La teatralizzazione della sovranità
Edoardo Greblo
Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino veniva abbattuto fra gli applausi dell’opinione pubblica di tutto il mondo. Il sogno di un pianeta senza frontiere sembrava finalmente a portata di mano. A neppure vent’anni da quell’evento, il Congresso degli Stati Uniti votava, il 15 dicembre 2005, la legge 6061, che autorizzava l’innalzamento di un muro lungo oltre mille chilometri al confine con il Messico. Non si trattava della prima costruzione di questo tipo, e non era neppure destinata a essere l’ultima. Sia prima sia dopo, molti altri Stati hanno creato o progettato altri muri un po’ dovunque. Ultimo, almeno per il momento, quello che l’Ungheria sta costruendo al confine con la Serbia e che fa seguito a scelte analoghe compiute sia dalla Bulgaria sia dalla Grecia lungo i rispettivi confini con la Turchia e con lo stesso obiettivo: impedire ai migranti di entrare illegalmente nei propri territori nazionali.
Eppure, sino a non molto tempo fa, alcuni salutavano la fine dell’era dello spazio – dell’epoca del limes, dei cordon sanitaires, del Lebensraum – come la “fine della storia”. E quindi della fine dei muri, perché solo nell’era dello spazio il territorio e le sue eventuali fortificazioni erano garanti della sicurezza collettiva e il loro controllo rappresentava la prerogativa sovrana del potere politico: quello degli antichi imperi (la muraglia cinese e il vallo di Adriano), delle città e dei signori feudali del Medioevo (fossati, ponti levatoi, fortificazioni), degli Stati moderni (linee Maginot e Sigfrido), dei blocchi militari contrapposti (muro di Berlino).
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Il gruppo Krisis e il soggetto automatico capitalista
di Lorenzo Procopio
Richiamandosi a Marx le analisi del gruppo Krisis colgono puntualmente le strettissime relazioni che intercorrono tra l’attuale crisi economica e le profonde contraddizioni del processo d’accumulazione del capitale. Lo stesso gruppo di Krisis, sempre in nome di Marx, con un colpo di spugna cancella le differenze di classe e trasforma borghesi e proletari in vittime comuni del soggetto automatico capitalista
Ogni giorno è sempre più evidente che la crisi economica che attanaglia l’intero sistema capitalistico sia destinata a perdurare ancora per un lungo periodo di tempo. Non è più un caso che le ottimistiche previsioni di ripresa economica formulate in questi ultimi anni dai vari organismi internazionali, quali il Fondo Monetario Internazionale o la Banca mondiale, per non parlare delle previsioni dei vari governi dei singoli stati nazionali, sono sistematicamente smentite alla prova dei fatti e la tanto agognata crescita del Pil è rinviata sempre all’anno successivo. Anche il 2014 a livello globale farà registrare una crescita economica irrisoria che non permetterà al sistema capitalistico di recuperare i livelli macroeconomici precedenti lo scoppio dell’attuale crisi.
Le conseguenze sociali di questa crisi economica stanno diventando sempre di più drammatiche, con miliardi di esseri umani scaraventati nella miseria più nera o utilizzati come carne da macello in quella che ormai possiamo definire la guerra imperialista permanente. Infatti non passa un solo giorno durante il quale in qualche angolo del globo non si combatti una guerra funzionale ai processi d’accumulazione e alla conservazione capitalistica.
Non è più un caso che proprio a causa di questa lunga crisi economica molti intellettuali stiano cercando di spiegare il fenomeno recuperando i vecchi arnesi della critica dell’economia politica di Karl Marx. Ciò sta avvenendo non con l’intento di rilanciare una vera alternativa alle barbarie del capitalismo, ma con il preciso scopo di deformare e mistificare il pensiero di Marx
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Falso movimento: sette anni di rivoluzione passiva, sette anni politicamente perduti
di Stefano G. Azzarà*
Non di tradimento bisogna parlare a proposito di Tsipras ma di una sconfitta annunciata di fronte a rapporti di forza impietosi e dell'incapacità politica di gestirla. Il tradizionale trasformismo di casa nostra si è ormai proiettato su scala continentale e fa della sinistra europea un pezzo della rivoluzione passiva in Occidente. Nell'imminente “Syriza italiana” si ricostituisce la maggioranza politica e culturale bertinottiana
Da Prodi a Tsipras, dall'Arcobaleno alla “Syriza italiana”
Grazie alle scelte di Tsipras ci sarebbe ancora la "possibilità di difendere i redditi più bassi e di operare una progressiva resistenza all'applicazione delle parti più regressive del Memorandum”, fino a “riproporre condizioni per un diverso sviluppo", sogna a occhi aperti Alfonso Gianni nel momento in cui il governo greco vara misure draconiane di austerità; "una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la 'casa comune della sinistra e dei democratici'", annuncia Marco Revelli il giorno dopo l'esplosione di Syriza in almeno tre tronconi. Di fronte a simili prese di posizione il gioco è fin troppo semplice : si confrontino le argomentazioni dei pasdaran di Tsipras oggi con quelle degli ultimi giapponesi del PRC a sostegno di Prodi nel 2008, oppure si rilegga la campagna di “Critica Marxista” a favore della Sinistra Arcobaleno accostandone le tesi a quelle dei fautori della cosiddetta Syriza italiana, e si avrà la misura di come in sette anni non sia cambiata una virgola nel processo di apprendimento della sinistra di casa nostra. Una sinistra che sembra quasi candidarsi a gestire nuovi memorandum e che anche dopo la catastrofe che ne ha cancellato ogni effettualità è preda di un'irresistibile coazione a ripetere gli stessi errori di confusione analitica e subalternità politica.
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La crisi globale e la Pizia cinese
Cronaca di un’estate torrida
Angela Pascucci
Alla fine è arrivato Capitan America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che nessuno si aspettava e il rinvio dell’aumento dei tassi di interesse, e i foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro sistema spompato. Le Borse mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la “tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che, a leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è acquattato dietro l’angolo.
Ragion per cui l’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.
Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa, il governo di Pechino prima interviene massicciamente per bloccare il crollo, poi lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90 milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a entrare nel recinto dei razziatori di professione è come andare contro la forza di gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare fiato all’economia in panne.
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Il re è nudo! Viva il re!
di Beneath Surface
Approcciarsi a scrivere un pezzo sul pensiero di Keynes è sempre un azzardo, sia per l’immensa autorità dell’economista di Cambridge, sia per la monumentalità della sua opera, di cui sono un illuminante esempio i numerosissimi scritti di critica, perfezionamento e completamento sparsi nei decenni successivi ad opera di altri influenti economisti, in primis Hicks, Modigliani, Tobin, Samuelson e Hansen, sia per l’assenza in tutto il suo scritto di una modellizzazione formale, che fu lasciata ai successori.
Tratterò perciò della teoria keyesiana ortodossa, per quanto completata dalle riflessioni degli autori citati prima, intendendo con ciò soprattutto distinguerla dalla c.d. “sintesi neoclassica” che farà parte a sè in una serie di altri articoli.
La struttura del mio intervento è perciò la seguente: nel presente articolo tratterò i principali contributi della teoria di Keynes all’occupazione, agli investimenti e alla moneta; nel prossimo vedremo il ciclo economico e alcuni pros e cons dei primi due articoli; nel terzo parlerò della sua nuova politica economica basata sulla spesa pubblica in deficit e della politica del commercio estero; in un quarto articolo condenserò alcuni commenti e critiche relativi ai primi tre pezzi; in un quinto articolo vedremo un semplice modello keynesiano in economia aperta.
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Cominciare a finire di lavorare
Intervista a Moishe Postone
Quella che segue, è la trascrizione di un'intervista collettiva fatta da un nutrito gruppo di persone a Moishe Postone, il 23 novembre del 2012, a Madrid, preso la Escuela de Relaciones Laborales. Le domande sono state riassunte, in modo da limitare l'estensione del testo
Domanda: Come può aiutare, la lettura di Marx da lei svolta, i movimenti sociali in generale?
Moishe Postone: Quello che sto tentando di recuperare, è un concetto di capitale che credo sia stato perduto dai movimenti sociali di sinistra. E non solo dai movimenti più recenti. Credo che esista una tendenza a non capire pienamente il sistema, ma di personalizzarlo nei banchieri (ad esempio, nei banchieri tedeschi). E' ovvio che questi stanno giocando un importante (e pessimo) ruolo, ma dobbiamo capire che ci troviamo davanti ad una crisi globale. Il mio lavoro è un tentativo di recuperare categorie molto astratte, come quella del capitale, per iniziare a ripensare il modo in cui intendiamo la natura sistemica del capitalismo, non solo della crisi, ma anche di quello che accade nella crisi. Credo che, per quel che attiene alla coscienza delle sinistre, la guerra fredda sia stata disastrosa. Il movimento comunista internazionale ha trasformato il termine internazionalismo nello schierarsi con un bando, cosa che ha ridotto la capacità critica delle persone di sinistra. Potevano essere molto critici con gli Stati Uniti, ma quello che facevano era limitarsi a difendere quello che stava succedendo in Unione Sovietica. Categorie storiche come il capitalismo ed il socialismo si sono trasformate in categorie spaziali: una zona ed un'altra. Questo è importante in quanto la nuova sinistra ha trasferito questo problema ai nazionalismi del Terzo Mondo. [Questa forma di pensiero] riduce la capacità critica delle persone di sinistra nel trattare a fondo determinate situazioni, nel preciso momento in cui è urgente creare una nuova forma di internazionalismo, che sia realmente internazionale, e non solo una somma di nazionalismi buoni e cattivi.
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Il male oscuro (ma non troppo) del Capitale
di Giovanni Di Benedetto
Prosegue su Palermograd il dibattito avviato dagli interventi di Totò Cavaleri (9 Aprile 2015) e Calogero Lo Piccolo (3 Giugno 2015) su disagio mentale, desiderio, lavoro e nuove forme di schiavitù del godimento. L’intento è quello di tracciare una cartografia in grado di individuare le forme della sofferenza psichica nell’attuale contesto sociale e di provare a legarle all’analisi della società capitalistica, alle forme contemporanee del lavoro e del suo sfruttamento
Alcuni articoli comparsi negli ultimi mesi su Palermograd hanno provato a sottolineare il nesso strettissimo che lega le condizioni del benessere psicologico soggettivo e l’assetto della sfera dei rapporti sociali e di produzione dell’attuale formazione sociale dominata dal modo di produzione capitalistico. Mi riferisco, nella fattispecie, alle riflessioni di Calogero Lo Piccolo e Totò Cavaleri. Si sottolineava, in particolare, come il campo dell’attuale crisi economica abbia determinato un conseguente incremento di infelicità e malessere, aggravato peraltro dalla percezione di non reversibilità di una tale condizione di naufragio e spaesamento. In una recente intervista, l’economista Emiliano Brancaccio ammoniva chi, in Italia, si è recentemente esaltato per l’andamento dell’economia e dell’occupazione ricordandogli che se alla fine del 2015 l’occupazione, come previsto dalla Commissione Europea, dovesse crescere di 130.000 unità, ci troveremmo comunque con un milione di posti di lavoro in meno rispetto al 2008. Stesso discorso andrebbe fatto per la tanto celebrata economia della Spagna che si ritroverà, alla fine dell’anno, con due milioni e mezzo di occupati in meno in confronto all’anno in cui è esplosa la crisi dei mutui subprime. Il governo greco, alla vigilia del referendum a seguito della rottura delle trattative sul debito, rottura, è bene ricordarlo, voluta dai “creditori” della Troika, ha pubblicato alcune significative informazioni sulla situazione economica del Paese. L’austerità, imposta dalle istituzioni europee, dal Fondo monetario internazionale e dal governo tedesco, ha prodotto i seguenti risultati: tra il 2010 e il 2014 la pressione fiscale è cresciuta di 5 punti percentuali rispetto al Pil, la spesa pubblica è diminuita di un quarto e i salari monetari sono caduti di 20 punti percentuali.
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Elvio Fachinelli: il clinico che ridefinì l'osceno
Pietro Barbetta
Tempo fa William Buckley rimproverava Allen Ginsberg di comporre opere oscene per via del suo linguaggio; invitato a una trasmissione televisiva gestita dallo stesso Buckley, Ginsberg rispose che oscene non sono le parole, ma le morti durante l'allora guerra del Viet-Nam.
La biografia culturale di Elvio Fachinelli (1928-1989) sembra una genealogia Biblica. Il suo analista fu Cesare Musatti (1897-1989), il quale – considerato uno dei Padri della psicoanalisi italiana – si formò con Edoardo Weiss (1889-1970), il primo psicoanalista italiano. Weiss era, a sua volta, in supervisione dallo stesso Sigmund Freud. Nonostante le sue origini nobili e ortodosse, Fachinelli fu tra gli psicoanalisti che più cambiarono la psicoterapia in Italia.
In primo luogo rifiutò l'idea di “resistenza del paziente” a favore dell'accoglienza della “persona che frequenta l'analisi”, spostando la responsabilità della terapia sull'"esperto”. Negli anni Settanta nacque e si diffuse la strana idea che se c'è fallimento nella relazione tra il professionista e il suo utente, la responsabilità è del professionista, non dell'utente. Per esempio, se un tempo una persona moriva legata a un letto, si attribuiva la morte alla furia della persona. Basaglia per primo ebbe l'idea di invertire l'ordine delle responsabilità nei manicomi. Don Milani invertì l'ordine delle responsabilità nelle scuole. Lo stesso Fachinelli contribuì, con altri autori, a fondare una scuola libera, nell'epoca in cui veniva messo in discussione il ruolo dell'insegnamento.
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