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Chi sono i nostri
di Ascanio Bernardeschi
In un mondo del lavoro frammentato e sconfitto come ripartire? Chi e dove sono i nostri referenti di classe? Chi e dove sono i nostri nemici e come riunificare le mille lotte che attualmente non comunicano fra loro? La borghesia sa che le condizioni strutturali inevitabilmente vanno omogeneizzando il mondo del lavoro e cerca perciò di introdurre elementi di divisione sovrastrutturali. Un'inchiesta del collettivo Clash City Workers ci aiuta a capire
La crisi generale del capitalismo aggrava pesantemente le condizioni del mondo del lavoro. Qua e là assistiamo a momenti di ribellione e di lotta che nessuna forza della sinistra è stata in grado di unificare. Nello scoramento generale stanno facendo breccia le semplificazioni populiste e la peggiore destra xenofoba, mentre la “sinistra” si aggrappa alle mode culturali del momento, dimostrandosi incapace di un'analisi della fase all'altezza delle necessità.
Per cambiare il mondo deve essere posto al centro il nodo della contraddizione capitale/lavoro, ma cos'è oggi il lavoro? Non tutti i proletari sono uguali davanti al capitale. In una realtà volutamente frammentata bisogna capire “dove sono i nostri”.
Clash City Workers, un collettivo “di lavoratrici e lavoratori, disoccupate e disoccupati, e di precari”, si è cimentata in questa impresa e ci offre un prezioso contributo, una sorta di inchiesta sul mondo del lavoro e alcune deduzioni politiche conseguenti.
La lettura di questa indagine è raccomandata a tutti coloro che sono impegnati nelle lotte del mondo del lavoro. In questa sede cerchiamo di riferirne alcuni punti principali.
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Euro (breve sintesi)
Marino Badiale e Fabrizio Tringali
Proponiamo ai nostri lettori un breve testo riassuntivo che comparirà in una futura pubblicazione a cura dell'ARS
Quando, nel 2011, abbiamo cominciato ad argomentare la necessità per il nostro paese di abbandonare l'euro1 , non era facile imbattersi, nel dibattito pubblico, in critiche esplicite alla moneta unica. Per fortuna abbiamo quasi subito incontrato persone che andavano nella stessa nostra direzione, a partire da Alberto Bagnai2 e dagli amici che avrebbero poi dato vita all'ARS. Nel corso del tempo, i contenuti che diffondevamo hanno mostrato in pieno la loro correttezza, tanto che alcuni di essi sono entrati a far parte del mainstream economico.
Recentemente, un gruppo eterogeneo di economisti molto noti ha pubblicato una comune analisi, una “consensus narrative”, della crisi che ha raccolto ampie adesioni3 . Ciò che ha messo d'accordo esperti appartenenti a orientamenti diversi, non diverge da quanto abbiamo cercato di diffondere già diversi anni fa. Il punto fondamentale è che la crisi dell'euro non è una crisi di debito pubblico, bensì una crisi di debito estero (pubblico e privato), generata dai deficit delle partite correnti nei paesi della periferia dell'eurozona. Tali saldi negativi si sono perpetuati nel tempo a causa delle profonde differenze fra le diverse economie nazionali.
È accaduto che con l'unificazione della moneta i paesi più deboli si sono trovati in mano una valuta troppo forte, mentre quelli del centro hanno goduto di un cambio più favorevole alle loro politiche economiche basate sulle esportazioni.
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Gli USA, il pivot anticinese e i pericoli di guerra
di Domenico Losurdo
La Cina rappresenta davvero una minaccia a livello geopolitico per gli Stati Uniti e i Paesi ad essa confinanti nella regione del Pacifico? Vi presentiamo un estratto del Prof. Domenico Losurdo che analizza alcune questioni relative alla cosiddetta “minaccia cinese”
Il pivot asiatico
Il “pivot” viene spesso presentato in Occidente come una risposta alla “minaccia“ proveniente da Pechino. Non c’è dubbio che con l’ascesa o, più esattamente, col ritorno della Cina, dopo la fine del “secolo delle umiliazioni“, e con l’avanzare del processo di maturazione della Repubblica popolare, il quadro internazionale sta cambiando in modo radicale. Nel marzo 1949 il generale statunitense MacArthur poteva constatare compiaciuto: «Ora il Pacifico è diventato un lago Anglo-Sassone» (in Kissinger 2011, p. 125). Dati i rapporti di forza esistenti, gli USA potevano sperare di bloccare con il loro intervento l’ascesa al potere del partito comunista e di Mao Zedong; la speranza andava rapidamente delusa e a Washington, tra polemiche furibonde, si scatenava la caccia al responsabile della “perdita” del grande Paese asiatico.
Il Pacifico non era più in senso stretto “un lago Anglo-Sassone” ma, come sappiamo, ancora alla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti violavano indisturbati lo spazio aereo e marittimo cinese. Erano gli anni in cui la superpotenza ormai solitaria cercava di consolidare e rendere permanente e incolmabile la sua già netta superiorità militare mediante la Revolution in Military Affairs.
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Dallo ZIRP al NIRP: l'ultimo lancio di dadi
La “saggezza” della banca centrale
di Michael Roberts
Il recente annuncio della Banca del Giappone (BoJ), che introdurrà un tasso di interesse negativo (NIRP) per le banche commerciali in possesso di riserve di contanti, è l'ammissione finale che la politica monetaria supportata dagli economisti ufficiali ed implementata a livello globale dalle banche centrali ha fallito.
Le principali armi di politica economica, usate a partire dal crac finanziario globale e della conseguente Grande Recessione al fine di evitare un'altra Grande Depressione come quella del 1930, erano state prima il tasso di interesse a zero (ZIRP), poi le 'non-convenzionali' misure monetarie del 'quantitative easing (QE)' (che incrementava la quantità di denaro con cui vengono rifornite le banche), che un anno fa o giù di lì avevano fissato al 2% l'obiettivo dell'inflazione. Si supponeva che lo ZIRP e una fornitura di denaro virtualmente illimitata (QE) avrebbero rilanciato l'economia globale, in modo che eventualmente il capitalismo e le forze del mercato avrebbero prevalso e avrebbero portato ad una 'normale' e duratura crescita economica e ad una più piena occupazione.
Ma QE e ZIRP hanno fallito nel raggiungimento del loro obiettivi di inflazione (e crescita).
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2016: un’osservazione dall’alto della tempesta
by Federico Dezzani
Il 2016 si preannuncia un anno movimentato: la tensione internazionale, in progressivo aumento sin dal 2011, difficilmente decrescerà ma, al contrario, toccherà lo zenit in coincidenza con l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca che, imprimendo una svolta militare alla situazione mediorientale, incendierà probabilmente le polveri. L’elaborazione di qualche carta è utile a comprendere la strategia di fondo delle oligarchie euro-atlantiche che, abbandonati i sogni di egemonia globale di inizio millennio, hanno ripiegato sino all’attuale ipotesi di un conflitto militare per impedire che il vuoto lasciato dietro di sé sia colmato da Russia e Cina.
* * *
Il piano A
Per comprendere la realtà, afferrarne le dinamiche sottostanti ed ipotizzarne gli sviluppi, bisogna sempre partire dagli obbiettivi di fondo di chi occupa la stanza dei bottoni: solo così si può evitare di interpretare i fatti secondo i propri parametri e scadere in analisi autoreferenziali. La corretta comprensione degli attuali avvenimenti necessita quindi dell’interrogativo: qual è l‘obbiettivo strategico delle oligarchie euro-atlantiche? La risposta, può sembrare sproposita, ma non lo è, è il dominio globale, una meta quasi raggiunta nel periodo che intercorre tra il collasso dell’URSS (1991) e la bancarotta di Lehman Brothers (2008).
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Un Referendum decisivo
di Leonardo Mazzei
Renzi punta al regime ma l’attacco alla democrazia viene da lontano, dal neoliberismo e dall’Europa
Quello che si svolgerà in autunno sarà il referendum più importante della storia repubblicana. Il suo esito sarà decisivo per due motivi: si deciderà lì se lo stupro in atto da un quarto di secolo della Costituzione del 1948 avrà condotto infine alla sua definitiva sepoltura; si deciderà lì il destino del progetto di regime incarnato da Matteo Renzi. Le due cose sono strettamente legate tra di loro, e chi le separa sbaglia.
Detto questo è detto quasi tutto. Le ragioni del nostro no sono evidenti. Si tratta di impedire una svolta autoritaria, riaprendo concretamente la battaglia per la democrazia. Si tratta di mandare a casa un famelico gruppo di potere, portatore delle più feroci politiche ultraliberiste (jobs act, privatizzazioni, mercatismo allo stato puro, eccetera). Ma se da tempo insistiamo sulla centralità di questa battaglia non è solo per la sua oggettiva rilevanza, è anche perché siamo convinti – contrariamente a quel che vorrebbe far intendere il tam tam mediatico – che vincerla sia assolutamente possibile. È questo un punto che va affermato con forza, battendosi contro la logica da eterni sconfitti di certa sinistra sinistrata.
Il referendum può essere vinto per due motivi. Primo, perché sarà innanzitutto un pronunciamento su Renzi, il quale è sì segretario del partito di maggioranza relativa, ma è ben lontano da quella assoluta. Secondo, perché la sensibilità democratica è ancora forte in vasti strati popolari.
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Il Cartello, di Don Winslow
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
Il potere del cane è il capolavoro degli anni Duemila, il libro finora insuperato. Ci sbagliavamo. Il Cartello è almeno al suo livello. Non è facile essere riconosciuti in vita come l’autore di uno dei romanzi più importanti degli ultimi decenni. Ma essere l’autore dei due romanzi più importanti degli ultimi decenni, beh, questo apre a Don Winslow le porte dell’immortalità letteraria. James Ellroy ha definito il libro “il Guerra e pace della lotta alla droga”. È maledettamente così. E a noi non rimane che prenderne atto.
Il libro racconta la lunga, straziante, soffocante, sporca e ambigua lotta al narcotraffico tra Stati uniti e Messico. Una lotta dove non ci possono essere vincitori o sconfitti, perché ambedue le parti – chi produce e vende droga e chi dice di combatterla – sono un unico cartello. La forza degli uni aumenta la potenza degli altri. Gli interessi collimano, le persone si scambiano di ruolo. Il cartello vince sempre, sia nella sua veste ufficiale del narcotraffico che in quella ufficiosa della “lotta al narcotraffico”. Come già raccontato dal Potere del cane, la droga è paradossalmente il prodotto della “lotta alla droga”. Una lotta alla droga che sradica popolazioni che ingrossano le file dei cartelli narcotrafficanti in una spirale di interessi convergenti che rende impossibile immaginare spazi di sviluppo sociale ed economico. Gli unici a perdere sono i poveri, massacrati da tutte e due le parti, inutili orpelli di una storia che non li riguarda se non come carne da macello.
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M5S: l’insostenibile pesantezza della coerenza (in risposta a Giannuli)
di Davide Amerio
Il giornalista Aldo Giannuli scrive un post sul M5S. le sue osservazioni meritano un'attenta considerazione. La mia modesta risposta
Aldo Giannuli, persona preparata e intelligente che appartiene alla categoria ristrettissima dei “veri” giornalisti, ha scritto una riflessione sul Movimento Cinque Stelle. Essendo le sue osservazioni non pregiudiziali meritano una risposta.
Concordo su una considerazione: sul piano politico il movimento è “adolescente”, con tutte le potenzialità, le ansie “ormonali” e le contraddizioni che questo comporta. Ma è un “ragazzo” speciale: è cresciuto senza genitori (le ideologie) e si trova nella condizione di dover affrontare una crescita forzata – e rapida – dettata dagli eventi che incombono. Contrariamente alla facilonerie intellettuali che vogliono rinchiuderlo nell’ambito del “populismo”, governato da un duo semi dittatoriale – dentro il quale beoti ingenui sono soggiogati dai guru, – la storia del movimento è ricca di spunti umani, politici e sociali come non si vedeva da almeno trent’anni in questo paese.
La riprova ne è la varietà delle storie politiche personali (desta, sinistra, centro, a-partitica) che sono in esso confluite. In comune condividono alcuni principi, o valori – potremmo azzardarci ad affermare, – orfani (anche questi) di una casa politica che li sostenga con coerenza.
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La Sostanza del Capitale 2
Seconda parte: Il lavoro astratto come metafisica sociale reale ed il limite interno assoluto della valorizzazione
di Robert Kurz
Il fallimento delle teorie della crisi del marxismo dell'ontologia del lavoro e le barriere ideologiche contro la continuazione dello sviluppo della critica radicale del capitalismo. Qui la prima parte
Soggetto ed oggetto nella teoria della crisi. La soluzione apparente del problema per mezzo di mere relazioni di volontà e di forza
Se dovessimo tornare a rivedere tutto il dibattito storico, sarebbero due realtà a richiamare la nostra attenzione. Da una parte, la fobia rispetto all'idea di limite interno della valorizzazione del valore in realtà non si trova associata a situazioni sociali dell'economia e della politica, di crisi e di prosperità. La cosiddetta teoria del collasso è stata fin dall'inizio uno scandalo ed un estremo imbarazzo, sia durante i tempi indolenti di notabili marxisti dell'impero guglielmino che all'epoca delle catastrofi delle guerre mondiali e della crisi economica mondiale, e lo è stata maggiormente nell'epoca di prosperità del dopoguerra, ed infine lo è anche oggi, di nuovo, nella crisi mondiale della terza rivoluzione industriale. Lo scandalo è rimasto, indipendentemente dalle specifiche esperienze storiche, e così l'idea di un limite assoluto immanente non è mai diventata egemone nel discorso marxista mainstream, nemmeno nel bel mezzo delle maggiori catastrofi della storia mondiale.
Dall'altra parte, però, quel che è palese è la mancanza di profondità nella riflessione teorica intorno a tutto questo dibattito, la rapidità con la quale si passa sopra il concetto di dinamica capitalista e quanto poco si tenga in considerazione tutto l'armamentario concettuale che era già rappresentato da Marx.
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Giulio Regeni, dove volano gli avvoltoi
Fulvio Grimaldi
Due cose sono infinite. L’universo e la stupidità umana. E non sono sicuro dell’universo”. (Albert Einstein).
“Le azioni sono ritenute buone o cattive, non per il loro merito, ma secondo chi le fa.Non c’è quasi genere di nequizia– tortura, carcere senza processo, assassinio, bombardamento di civili – che non cambi il suo colore morale se commessa dalla ‘nostra’ parte. Lo sciovinista non solo non disapprova atrocità commesse dalla sua parte. Ha anche una notevole capacità di non accorgersene”. (George Orwell)
Un eroe? Calma e gesso
Sulla persona di Giulio Regeni, trovato morto con segni di tortura al Cairo, probabilmente fatto trovare morto con segni di tortura, non ho elementi e quindi diritto di pronunciarmi. Prendo atto della sua formazione accademica anglosassone, della sua vicinanza giornalistica al più discutibile e filoccidentale informatore sul Medioriente (Giuseppe Acconcia, “il manifesto”), del suo impegno per i "sindacati indipendenti". Leggo anche della notizia riferita dal “Giornale” secondo cui Regeni avrebbe lavorato per il servizio segreto AISE. Prendo quest’ultima notizia con le pinze, come con pinze lunghe cento metri prendo l’uragano di interpretazioni uniformi e apodittiche, nella solita chiave razzista eurocentrica, scatenate, sul solito pubblico basito e disarmato, in perfetta unanimità dai due giornali opposti di opposizione (“manifesto” e “Fatto Quotidiano”) e dalla gran maggioranza dei mainstream media di stampa e radiotelevisivi. In ogni caso, compiango la sua morte e il dolore dei suoi.
Non ho certezze, ma come per tutti gli avvenimenti che rivestono una portata strategica ed esercitano una fortissima pressione sull’opinione pubblica, potenziata dal concorso dei media citati, mi permetto di rilevare indizi e raggiungere un’ipotesi che, alla luce di quanto c’è di concreto e inoppugnabile, ha la stessa dignità e validità di quelle conclamate con sospetta sicumera da tutti gli altri che, a minuti dalla scoperta del cadavere, sanno già perfettamente su chi puntare il dito.
Regeni scriveva per il “manifesto” sotto pseudonimo. Per timore di rappresaglie, come dice la direttrice del suo giornale, dotata di certezze incrollabili fin dalle prime ore della notizia del ritrovamento, o perché sotto copertura?
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Il virus del lavoro è ricombinante
di Devi Sacchetto e Sandro Chignola
Riprendiamo da «Il Manifesto» del 3 febbraio 2016 il testo introduttivo del convegno «Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore» che si è svolto presso l’Università di Padova il 4-5 febbraio 2016
Due fotografie, per cominciare. La prima mostra le lavoratrici marocchine in lotta a Monselice, nella bassa padovana, per difendere il proprio lavoro. La cooperativa per la quale operano la selezione della plastica nelle ecoballe di rifiuti a mani nude, con semplici guanti e mascherina, le ha licenziate per essersi sindacalizzate con l’Adl-Cobas. La seconda mostra i lavoratori migranti spagnoli che un’agenzia interinale tedesca ha selezionato per Amazon a Bad-Hersfeld, nell’Assia. Essi lavorano a salari molto più bassi di quelli che erano stati prospettati; non sono stati assunti a tempo indeterminato da Amazon come era stato loro promesso, ma solo per smaltire il carico di ordini di Natale e da una ditta subappaltatrice; vengono acquartierati in molti per camera in piccoli alberghi attorno ai magazzini di distribuzione controllati anche nel tempo libero o dedicato al riposo da una agenzia di security imbottita di neonazisti. Queste due fotografie evidenziano una serie di processi che marcano le condizioni del lavoro oggi e rendono problematiche le categorie con le quali l’Europa si autorappresenta. Migranti spagnoli in Germania per effetto del job on call; donne (marocchine) che lavorano tra i rifiuti a Monselice come se si trattasse di recuperadoras nelle discariche di qualche metropoli sudamericana.
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Per una prassi cosmopolita del patrimonio culturale
Alcuni appunti sulla visita di Rouhani
di Enrico Gullo
a Stefania
L’istituzione museale, nell’epoca della riproducibilità tecnica, non espone al suo interno nulla che non sia noto. È finalizzata alla conservazione e alla fruizione di una parte del patrimonio storico del territorio cui appartiene, ma quel patrimonio – almeno nei suoi elementi reputati fondamentali – è già riprodotto, divulgato, diffuso: le sue images percorrono lo spazio mediale e anticipano la fruizione materiale dell’opera. Gadget, merchandising, pubblicità: l’estetico diffuso – che trovi il suo punto di emissione nel Museo o in altri punti della rete di produzione estetica globalizzata – usa continuamente le immagini del passato (quante borse con la stampa della Gioconda abbiamo visto nella nostra vita? Quante volte abbiamo visto usata la Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer?); e se non è noto allo Straniero, all’Altro, è almeno noto – o gli è facilmente reperibile l’informazione – al cittadino occidentale, all’abitante del territorio; a maggior ragione se si tratta di una figura istituzionale o di rappresentanza.
Si spiega facilmente: il discorso mediale pubblico è completamente permeato dalle immagini del passato, cui in particolare l’Occidente dedica cure e sforzi nel tentativo di trovar loro una collocazione; in quella che si è pretesa essere l’era della fine delle grandi narrazioni (era che ormai volge al termine), l’Occidente continua a non poter fare a meno della Storia. Possiamo dire con serenità che era impossibile non essere a conoscenza della presenza di nudi che avrebbero potuto “offendere gli ospiti islamici”. I Musei Capitolini contengono la romanità antica per eccellenza. Si spiega però anche la goffa misura adottata come mediazione: era impensabile che figure di nudo – storicizzato e “artisticizzato” – potessero offendere qualcuno.
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La quarta guerra mondiale
di Spartaco A. Puttini
La crisi del Vicino oriente sembra divenire sempre più calda e complicata. Le sue ricadute, dirette e indirette, sull’Europa si fanno sempre più pesanti. Ma è l’intero clima internazionale a surriscaldarsi.
La dinamica è innescata dal tentativo statunitense si ottenere un dominio a pieno spettro che affermi Washington come l’unico vero centro decisionale del pianeta a scapito della libertà e della sovranità degli altri popoli e delle altre nazioni.
Con la prima guerra mondiale si è assistito all’urto tra gli imperialismi delle Grandi Potenze europee che fino a prima si erano spartiti il mondo all’interno di una logica che potremmo definire di “concerto competitivo”. Fino a che gli antagonismi non divennero tanto irriducibili da accendere il fuoco alle polveri e mettere in moto la macchina infernale degli ultimatum, delle alleanze, delle dichiarazione di guerra e delle mobilitazioni.
Con la seconda guerra mondiale si è assistito al fenomeno della guerra totale nel pieno senso del termine, con il coinvolgimento diretto dei civili nel conflitto (sia passivo che attivo) e con l’implosione definitiva dell’ordine eurocentrico delle relazioni internazionali. La guerra segnò, de facto, l’egemonia statunitense e la subordinazione a Washington degli altri paesi a capitalismo avanzato. Un fenomeno senza nessun precedente storico.
Durante la guerra fredda l’egemonia statunitense è stata frenata e contrastata dall’URSS e dal campo socialista. La guerra fredda in fondo è stata la terza guerra mondiale. O la prima guerra mondiale dell’era atomica. Il meccanismo della mutua distruzione assicurata ha impedito che il confronto bipolare degenerasse in uno scontro diretto tra giganti. La guerra ha così assunto una molteplicità di forme: corsa agli armamenti strategici, competizione economica, conflitto ideologico, gara d’influenza nel Terzo Mondo, guerre calde, per procura, a livello regionale, etc…
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Democrazia, potere e sovranità nell’Europa di oggi
Nick Buxton intervista Yanis Varoufakis
In un’estesa intervista l’ex ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis, sostiene che lo stato-nazione è morto e che la democrazia nella UE è stata sostituita da una tossica depoliticizzazione algoritmica che, se non contrastata, condurrà alla depressione, alla disintegrazione e forse alla guerra in Europa. Egli sollecita il lancio di un movimento pan-europeo per democratizzare l’Europa, per salvarla prima che sia troppo tardi.
Questa intervista, tratta da ‘State of Power’ del Transnational Institute – gennaio 2016, è stata condotta a fine dicembre 2015 da Nick Buxton del TNI con l’ex ministro greco delle finanze.
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Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?
La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre estremamente pronunciata e il sistema ha sempre cercato di svuotarla.
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Capitalismo senza fine?
Intervista con Anselm Jappe
Nato e cresciuto in Germania Anselm Jappe ha studiato filosofia in Italia e in Francia. È autore di vari vari libri, tra cui: Guy Debord, Roma, Manifesto libri, 2013²; Les Aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur, Éditions Denoël, 2003; Crédit à mort: la décomposition du capitalisme et ses critiques, Éditions Lignes, 2011; Contro il denaro, Milano, Mimesis, 2013; Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione, con Serge Latouche, Milano, Mimesis, 2014. Ha collaborato con le riviste tedesche “Krisis” e “Exi”t (fondate da Robert Kurz), che sviluppano la “Critica del valore”.
Il 17 dicembre del 2015, ospite delle comunità zapatiste del Chiapas, ha presentato la conferenza “En busca de las raíces del mal” al Cideci/Universidad de la Tierra Chiapas, visualizzabile → qui.
Nell’intervista rilasciata successivamente a Radio Zapatista, tradotta per TYSM (e → qui ascoltabile in versione originale), Jappe parla del modo in cui certi concetti marxisti – in particolare la critica del valore – risultino indispensabili alla comprensione della realtà attuale, soprattutto in relazione a quella che egli chiama la crisi terminale del capitalismo. Allo stesso modo, Jappe riflette sulle implicazioni che tutto questo ha rispetto agli attuali movimenti di emancipazione.
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Come difendere la nostra privacy dal "Grande Fratello"
Micah Lee intervista Edward Snowden
Avvertenza: nel seguito, quanto è in corsivo tra parentesi quadre, è di Micah Lee; quanto è in tondo corpo 8 tra parentesi quadre, è del traduttore.
Il mese scorso ho incontrato Edward Snowden* in un hotel nel centro di Mosca, a pochi isolati dalla Piazza Rossa. Era la prima volta che ci incontravamo di persona. Mi aveva scritto un paio di anni fa, poi avevamo creato un canale di comunicazione criptato per i giornalisti Laura Poitras e Glenn Greenwald, ai quali Snowden voleva rivelare la dilagante e frenetica sorveglianza di massa messa in atto dalla National Security Agency (NSA) e dal suo equivalente britannico GCHQ (Government Communications Headquarters).
Oramai Snowden non era più nascosto nell’anonimato. Tutti sapevano chi era, molte delle informazioni che aveva rivelato erano di dominio pubblico ed era noto che viveva in esilio a Mosca, dove era rimasto bloccato quando il Dipartimento di Stato USA gli aveva annullato il passaporto mentre stava recandosi in America Latina. La sua situazione adesso era più stabile e le minacce contro di lui un po’ più facili da prevedere. Quindi ho incontrato Snowden con meno paranoia di quella che era invece giustificata nel 2013, ma con più precauzioni per la nostra sicurezza personale, visto che questa volta le nostre comunicazioni non sarebbero state telematiche ma di persona.
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Le Confessioni pericolose
Intervista su “Storia di un comunista” di Toni Negri
Marco Ambra intervista Girolamo De Michele
In occasione dell’uscita dell’autobiografia di Toni Negri (Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015), che tante polemiche ha sollevato, abbiamo intervistato il curatore del volume Girolamo De Michele
Marco Ambra: Lasciamo da parte l’acritica stroncatura di Simonetta Fiori su Repubblica, segno di un evidente fastidio provocato dalla lettura di questa autobiografia, alla quale peraltro lo stesso Negri ha replicato sine ira ac studio.
Partiamo invece dal testo. Scorrendo le seicento pagine della vita di Toni Negri il lettore ha l’impressione di avere a che fare con una confessione, nel senso dato a questa categoria dalla filosofa Marìa Zambrano: la confessione è un genere letterario che sorge laddove l’autore intenzionato a raccontare la propria vita individui un conflitto di questa con la verità (La confessione come genere letterario, ed. it. Bruno Mondadori, Milano 2004). L’effetto principale di questo conflitto sarebbe l’emergere, nell’autore, dell’uscita dal senso di isolamento attraverso la comunicazione di questo conflitto. Ma per farlo l’autore della confessione deve farsi carico di lavoro faticoso, della produzione di un linguaggio in grado di raccontare. Come dice lo stesso Negri «il linguaggio bisogna reinventarlo, attraverso segni e parole che corrispondono ad altro, che indicano altro rispetto a quello che nella mia infanzia ancora mi dicevano» (p. 15). In che modo l’io narrante della vita di Toni Negri è riuscito a parlare questo nuovo linguaggio? Quale relazione ha questa esigenza con il suo essere un filosofo? E con il suo essere un militante?
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Vecchi imperialismi e moderni Don Chiscotte. Un’ultima replica a Pagliarone
di Guglielmo Carchedi
Quanto segue è un una mia ultima risposta Pagliarone. Invece di scrivere un pezzo a se stante, mi sono limitato a fare commenti a piè di pagina al testo di Pagliarone. Il suo testo è in nero, i miei commenti in rosso.
***
... Carchedi definisce l’imperialismo come “appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale”. Cosa significhi lo sa solo lui. Secondo gli esempi che fa (petrolio e bilancia commerciale in deficit) sembrerebbe che teorizzi l’imperialismo come appropriazione ossia l’aggressione (militare ed economica) per rapinare materie prime o chissà che altro). Innanzitutto vorrei ricordare a Carchedi che nell’opuscolo “Imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin riprende le tesi di Bucharin e di Hilferding per diffonderle alle masse. In esso si fa riferimento all’espansione del capitale nei paesi arretrati per la realizzazione di plusvalore grazie al lavoro e a materie prime a basso costo. Non si tratta di appropriazione pura e semplice ma di classici investimenti di capitale. [Ma io dico che alcuni elementi della teoria di Lenin sono ancora validi (per esempio l’appropriazione di petrolio) mentre altri sono nuovi (la bilancia commerciale USA perennemente in deficit)]. Naturalmente a quel tempo la guerra mondiale rappresentava lo strumento per poter realizzare l’obiettivo della conquista di aree di egemonia. Purtroppo l’epoca delle guerre mondiali preconizzata da Lenin si è rivelata erronea. Dopo il Secondo Conflitto mondiale (in realtà prosecuzione del Primo) non abbiamo mai più visto, e grazie al cielo non subiremo mai più, una devastazione del genere a meno che Carchedi non voglia paragonare le “guerre” che sono seguite al conflitto planetario terminato nel 1945 ad un conflitto imperialistico, allora saremmo veramente alla frutta.
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Karl Marx, il risveglio del giornalista
Fabrizio Denunzio
Una raccolta di articoli lucidi e appassionati composti dal filosofo di Treviri che tra il 1852 e il 1861 si trasferì a Londra e lavorò nella redazione della «New York Daily Tribune», dividendosi tra le ricerche per i «Grundrisse» e l’attività da reporter
Qualunque soggetto volesse tornare a mettere piede sul campo delicatissimo e strategicamente determinante dell’organizzazione politica delle masse, lo dovrebbe fare tenendo sempre presente le indicazioni fornite da Gramsci in quella nota del primo quaderno del carcere dedicata a Hegel e l’associazionismo. Ciò che si trova di operativo in queste annotazioni si riferisce non tanto a Hegel ma, naturalmente a Marx: «Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica».
Sebbene limitate dalle condizioni storiche del tempo, teoria e prassi dell’organizzazione di Marx vengono riportate da Gramsci al medium egemone dell’Ottocento: il giornale. Tradotta e operativizzata nel linguaggio di una qualunque media theory, questa geniale osservazione non vuol dire altro che Marx, lavorando come giornalista, faceva esperienza delle masse nella forma di quella del pubblico di lettori e che riversava, tra gli altri, il modello organizzativo dell’industria culturale giornalistica su quello dell’organizzazione operaia. Tornare a mettere piede sul terreno organizzativo significa, allora, riflettere sul modo in cui i media strutturano i pubblici e li fidelizzano e su come, debitamente riutilizzato, questo stesso modo può rilanciare le forme politiche dell’associazionismo collettivo.
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Il male della banalità
Un gruppo di studiosi ed esperti fa appello ad un'informazione corretta e approfondita sul Medio Oriente e il mondo arabo. A partire dai fatti di Colonia, una risposta forte - e unita - a Molinari, a La Stampa e ai media italiani in generale. La pubblichiamo di seguito (e aderiamo anche noi di OssIraq)
Siamo un gruppo di studiosi e docenti universitari di storia, letteratura e cultura dei paesi arabi, africani e islamici, e scriviamo dopo la pubblicazione di alcuni articoli sulla stampa italiana a seguito dei fatti di Colonia. Da essi è scaturito un dibattito pubblico superficiale, incentrato sulla paura dell’Islam, dell’immigrato, dell’arabo; focalizzato, in senso lato, sulla costruzione dell’arabo-musulmano come “altro” e, in quanto tale, “pericoloso”.
Si tratta di un discorso che, come insegna uno dei testi fondanti degli studi post-coloniali (Edward Said, Orientalismo), ha radici storiche profonde, riproponendosi con recrudescenza in ogni momento di crisi.
Riteniamo importante prendere posizione contro la stampa generalista che fa della banalizzazione e della schematizzazione, antitesi di ogni forma di analisi complessa e articolata, il mezzo di un progetto di disinformazione di massa quantomeno preterintenzionale.
In particolare ci ha colpito, il 10 Gennaio scorso, l’editoriale intitolato “Da dove viene il branco di Colonia” di Maurizio Molinari, già corrispondente da Gerusalemme per La Stampa e suo neo-direttore, oltre che autore del controverso instant book Il Califfato del Terrore. Varie critiche sono state subito mosse al testo, un vero e proprio pamphlet. Ad esempio, il collettivo di scrittori WuMing osserva come “nel generale squallore e servilismo”, sia tuttavia “importante segnalare passaggi di fase, salti di qualità, ulteriori salti in basso e spostamenti a destra”[1].
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Una doverosa replica ad una risposta
Alcune note critiche all’articolo di Guglielmo Carchedi L'imperialismo oggi: che cos'è e dove va
di Antonio Pagliarone
In calce a questo articolo un primo provvisorio commento di Pagliarone, seguito da una replica di Carchedi
Punto Primo
Carchedi definisce l’imperialismo come “appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale”. Cosa significhi lo sa solo lui. Secondo gli esempi che fa (petrolio e bilancia commerciale in deficit) sembrerebbe che teorizzi l’imperialismo come appropriazione ossia l’aggressione (militare ed economica) per rapinare materie prime o chissà che altro). Innanzitutto vorrei ricordare a Carchedi che nell’opuscolo “Imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin riprende le tesi di Bucharin e di Hilferding per diffonderle alle masse. In esso si fa riferimento all’espansione del capitale nei paesi arretrati per la realizzazione di plusvalore grazie al lavoro e a materie prime a basso costo. Non si tratta di appropriazione pura e semplice ma di classici investimenti di capitale. Naturalmente a quel tempo la guerra mondiale rappresentava lo strumento per poter realizzare l’obiettivo della conquista di aree di egemonia. Purtroppo l’epoca delle guerre mondiali preconizzata da Lenin si è rivelata erronea. Dopo il Secondo Conflitto mondiale (in realtà prosecuzione del Primo) non abbiamo mai più visto, e grazie al cielo non subiremo mai più, una devastazione del genere a meno che Carchedi non voglia paragonare le “guerre” che sono seguite al conflitto planetario terminato nel 1945 ad un conflitto imperialistico, allora saremmo veramente alla frutta. Ma Carchedi ci fornisce una sua definizione: “Allora che cos'è l'imperialismo? Se ci limitiamo all'aspetto economico, che è poi quello determinante, l'imperialismo è la concorrenza capitalista portata a livello internazionale.
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Slump
Franco Berardi Bifo
Stanno suonando le trombe del giudizio? L’orizzonte economico che si presenta nel primo scorcio dell’anno 2016 suscita vivo sgomento negli osservatori. Mario Draghi ripete l’esorcismo estremo: «Whatever it takes». Ma il pericolo attuale non è più quello di un collasso finanziario come nel 2008. Il pericolo è quello di una crisi di sovrapproduzione globale, e di una stagnazione di lungo periodo. Il crollo delle borse non è che un segnale. Da sei anni le banche centrali prestano denaro a costo zero, e da un paio di anni il petrolio scende ininterrottamente. Cionostante la domanda cala, e la stagnazione persiste, si aggrava, tende a divenire recessione.
Il 10 gennaio il «New York Times» ha pubblicato un articolo di Clifford Kraus dedicato agli effetti che il calo della domanda cinese produce sull’economia globale:
«Per anni la Cina s’è ingozzata di ogni tipo di metalli e di energia perché la sua economia si espandeva rapidamente; le grandi aziende hanno ampliato aggressivamente le loro operazioni di estrazione e produzione, scommettendo sulla prospettiva che l’appetito cinese sarebbe continuato per sempre. Adesso tutto è cambiato. L’economia cinese si contrae. Le compagnie americane, che tentano disperatamente di pagare i loro debiti mentre aumentano i tassi di interesse, debbono continuare a produrre. Questo eccesso spinge i prezzi verso il basso, e colpisce le economie dipendenti dalla produzione di merci di consumo come il Brasile e il Venezuela, ma anche i paesi sviluppati come l’Australia e il Canada» (Clifford Kraus, «New York Times»: China ’s Hunger for Commodities Wanes, and Pain Spreads Among Producers).
Negli anni passati le grandi corporation hanno investito somme enormi nell’estrazione di petrolio, nella raffinazione dello shale gas, nelle tecnologie necessarie per il cracking, e così via. Il sistema bancario globale ha finanziato queste operazioni.
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L’economista in tuta da lavoro. Federico Caffè e il capitalismo in crisi
Postfazione ad Economia senza profeti
di Riccardo Bellofiore
Premessa
Sono passati ormai ventisei anni da quando Federico Caffè ha deciso di scomparire: riformista solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e che ha però saputo essere un maestro.
Ha detto Mario Draghi, nella giornata in ricordo di Caffè svoltasi a Roma il 24 maggio 2012: «Ai suoi allievi ha insegnato a pensare con la propria testa, non ha trasmesso un credo vincolante. Ha aiutato i suoi studenti – scienziati dell’economia, pensatori, servitori dello Stato e delle Istituzioni, cittadini consapevoli – a scoprire se stessi». Le due raccolte di articoli per le edizioni Studium – questo Economia senza profeti: Contributi di bibliografia economica (1977; d’ora in poi ESP, tutti i riferimenti sono da considerarsi infra e riguardanti questa edizione) e L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi (1981, d’ora in poi EC, citato nella nuova edizione curata da Stefano Zamagni e uscita in questa stessa collana nel 2013): due libri che vanno letti e valutati assieme, e che congiuntamente danno un accesso privilegiato a questo economista – possono aiutarci ad andare oltre la celebrazione, e consentirci di intavolare un dialogo con Caffè una generazione dopo.
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Richard Levins, una scienza per il popolo
scritto da ccw
Ogni cosa oggi sembra portare in sé la sua contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l'uomo di fame e lo ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo trasforma le nuove sorgenti della ricchezza in fonti di miseria.
Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Sembra che l'uomo nella misura in cui assoggetta la natura, si assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell'ignoranza. Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso istupidire la vita umana, riducendola a una forza materiale.
Karl Marx
La settimana scorsa, il 19 Gennaio, è morto a 85 anni Richard Levins, contadino, rivoluzionario, biologo, matematico, filosofo della scienza. Negli Stati Uniti, dove è nato e ha vissuto la maggior parte della sua vita, la notizia circola grazie a qualche articolo e all’annuncio di morte sulla sua pagina web di Harvard, l’università dove ha insegnato nel dipartimento di Ecologia e Sanità Pubblica per quasi 50 anni. In Italia il suo nome lo può aver incontrato chi si sia imbattuto in un qualsiasi manuale di Ecologia, ma la sua scomparsa rischia di passare del tutto inosservata. E sarebbe un vero peccato.
Non tanto perché sia importante ricordare i notevoli risultati e la sua vita straordinaria da scienziato eccezionale e militante infaticabile, ma perché rischieremmo di perdere il suo prezioso insegnamento sulla sintesi dei due aspetti. Perché per Richard Levins era impossibile tenerli separati: per lui che veniva da un ambiente familiare proletario ma colto -di quel tipo cultura che è uno dei più bei frutti dell’impegno politico-, in cui “era scontato che il mondo fosse ricco, complesso, interconnesso e soprattutto pieno di cose interessanti”; un ambiente in cui “la realizzazione personale coincideva con il contributo che si dava per migliorarlo”; per lui, appunto, era facile, addirittura “inevitabile”, come sapeva già da ragazzino, crescere da “scienziato e comunista”.
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La lotta per la Costituzione
di Andrea Catone
Abbiamo già scritto circa due mesi fa su questo sito dello sviluppo di un movimento a difesa e rilancio della costituzione repubblicana in opposizione alle “riforme” costituzionali del governo Renzi e alla legge elettorale battezzata Italicum, peggiore del Porcellum, dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte costituzionale del dicembre 2013. Il “combinato disposto” di legge elettorale, che potrebbe dare la maggioranza alla Camera dei deputati a un partito che ha nel paese il 20-25% di consensi di chi va a votare (cioè, stando alle ultime consultazioni, il 50-55% degli aventi diritto al voto) insieme con una “riforma” (più correttamente ribattezzata “deforma” dall’avvocato Besostri, animatore dei ricorsi in tribunale per incostituzionalità dell’Italicum), che svuota il Senato delle sue competenze legislative e i cui componenti, ridotti a 100, non sono più eletti dai cittadini, ma nominati tra i consiglieri regionali, ha fatto parlare eminenti costituzionalisti di “svolta autoritaria.
Nel merito e nel metodo questa “riforma” costituzionale rappresenta un nuovo passaggio, una marcia del gambero, dal governo parlamentare su cui era stata imperniata la Costituzione del 1948, a una forma di governo presidenziale, con ulteriore svuotamento del ruolo e delle funzioni delle assemblee elettive. Basti pensare che l’articolo 12 della “deforma” renziana prevede che sia il governo a dettare l’agenda dei lavori parlamentari. E che il disegno di legge costituzionale per questa “deforma” è di iniziativa governativa. È il trasferimento all’esecutivo di funzioni e ruolo spettanti al parlamento. L’approvazione definitiva della “deforma costituzionale” è prevista – ormai senza intoppi per la maggioranza renziana (ottenuta nelle ultime elezioni politiche del 2013 grazie allo scandaloso premio dichiarato incostituzionale dalla Consulta) – per la metà di aprile.
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