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L’identità occidentale e i suoi nemici
Andrea Zhok
1. La chiamata alle armi
A commento dell’attentato a Charlie Hebdo sulla prima pagina del Corriere della Sera del 10/01/2015 campeggiava un articolo del noto editorialista Piero Ostellino, dal titolo “Il buonismo che ci accieca”. Secondo l’autore l’Occidente (e l’Italia in particolare) soffrirebbe di “un’identità ambigua e compromissoria”, e il nostro “buonismo retorico, politicamente corretto” sarebbe incapace di guardare la realtà, portando solo a “patetiche invocazioni al dialogo”. I responsabili di questa nostra identità fragile e inetta di fronte all’aggressività teocratica dell’Islam sarebbero innanzitutto una “sinistra che non sa e non vuole darsi un’identità” e, in seconda battuta un “Papa pauperista”, che, si inferisce, non farebbe quanto in suo potere per difendere la nostra identità. Il messaggio di fondo lo si trova riassunto verso la chiusa del pezzo: “Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro.”
La posizione di Ostellino, peculiarità stilistiche a parte, non è affatto idiosincratica. Pur giocando su toni che vogliono apparire ‘contro corrente’ si tratta di una posizione per certi versi esemplare di un orientamento culturale da tempo crescente, e non solo in Italia.
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Draghi, Hamilton e i creditori contro la democrazia
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
In un recente editoriale su Repubblica, Eugenio Scalfari paragona Mario Draghi, attuale Presidente della Banca Centrale Europea, ad Alexander Hamilton, il primo Segretario al Tesoro degli Stati Uniti d’America (dal 1789 al 1895). Draghi sarebbe l’Hamilton dell’Unione Europea. È un paragone che Scalfari riprende da un articolo apparso sul Foglio a firma di Aresu e Garnero, in cui si spiega come “Hamilton, per migliorare le aspettative dei creditori, usò con determinazione l’unico strumento concreto di cui disponeva: la creazione di un’unione fiscale con un allineamento di istituzioni e di interessi in grado di aumentare la reale probabilità di pagamento da parte del governo federale”. Ovvero: l’integrazione fiscale degli stati come modo per rassicurare i creditori e per difenderne gli interessi.
Anche Draghi ha in più occasioni invocato il completamento dell’unione fiscale tra gli stati membri dell’Eurozona, sostenendo che senza unione fiscale non può esserci alcuna unione monetaria funzionante, né convergenza economica.
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Le ultime battaglie
Il maggio parigino del 1968
di Robert Kurz
Il maggio '68 in retrospettiva
Chi non si ricorda del maggio parigino? Anche chi non c'era perché era nato troppo tardi, se lo ricorda sulla base dei documenti storici, e ancora oggi il maggio del 68 vaga nella letteratura come un'anima in pena. Il maggio parigino del 68, non il maggio di Berlino o di Francoforte che sono stati un simulacro del maggio. La Francia, di fatto, venne scossa fin nelle sue fondamenta borghesi, e de Gaulle si gettò fra le braccia del generale Massu, che non vedeva l'ora di mandare a Parigi i carri armati dell'esercito francese che si trovavano di stanza in Renania. La rivolta degli studenti, innescata da un piccolo gruppo di marxisti di sinistra, i cosiddetti "situazionisti" dell'Università di Nanterre, fu una vera e propria scintilla in grado di appiccare il fuoco alla steppa: le lotte all'Università innescarono, com'è noto, una colossale ondata di scioperi e innumerevoli occupazioni delle fabbriche da parte dei lavoratori. A differenza del relativamente pallido movimento del 68 in Germania, il maggio parigino sembrava porre all'ordine del giorno la questione dell'emancipazione sociale, e la base del sindacato era pronta allo scontro sociale. Dal 3 di maggio al 30 di giugno del 1968, il potere del sistema dominante apparve paralizzato.
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Il disagio della "totalità" e i marxismi italiani degli anni '70*
Roberto Finelli
La «rivoluzione passiva» dell’ultimo quarantennio e il mancato incontro tra comunismo del Novecento e cultura del riconoscimento del Sé. I «marxismi senza Capitale» di Gramsci e Della Volpe. Dalla «dialettica» tedesca alla «differenza» francese. L’operaismo italiano tra Gentile e Heidegger
Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli intellettuali italiani hanno abbandonato, in massa e in modo definitivo, il marxismo. Il fenomeno non è stato solo italiano, ma in Italia, per il radicamento e la lunga storia che il marxismo, nelle sue varie accezioni, aveva avuto, quel congedo significava la conclusione e la disgregazione di un mondo, di una comunanza di idee, di linguaggio, di confronti e di scontri. «Nell’arco di quattro o cinque anni, fra il 1976 e il 1981, sprofondarono in una rapida obsolescenza modelli di pensiero, criteri di valutazione morale e psicologica, forme della sensibilità. E con le “cose” cambiarono le “parole”. A sottolineare il carattere radicale di questo fenomeno di trasformazione dei modi di pensare di tutto un ceto sociale e delle sue propaggini immediate qualcuno impiegherà più tardi la metafora della mutazione antropologica e genetica»1.
Rivoluzione passiva
Da tale passaggio socio-culturale, che ha segnato profondamente l’intellettualità e l’ideologia italiana, è derivata insieme ad altri fattori, quella «rivoluzione passiva» che i ceti popolari e i gruppi sociali più radicali hanno vissuto e subìto durante l’ultimo quarantennio, e continuano tuttora dolorosamente e drammaticamente a subire.
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La neolingua del Jobs Act
di Domenico Tambasco
Nonostante ci si affanni a sostenere che le ideologie sono morte con la fine del “secolo breve”, la realtà odierna ci mostra, con sempre maggiore chiarezza, come nel presente si sia imposto, incontrastato, il dominio di una “nuova” ideologia: quella neoliberista, che nonostante un’ostentata modernità, utilizza gli stessi mezzi di manipolazione delle masse propri del secolo trascorso. La “neolingua del Jobs Act” è uno di questi.
“Jobs Act”, “jobs property”, “flexicurity”, “tutele crescenti”, “semplificazione”, “mutamento di mansioni”, “moderazione salariale”, “crescita”, “competitività”: da alcuni mesi a questa parte, in coincidenza con “l’epocale” riforma del lavoro, l’opinione pubblica è costantemente bombardata da una pioggia di anglicismi e termini tecnici ripetuti ormai all’infinito. Sono le parole d’ordine dell’Italia del nuovo millennio che, come argutamente osservato da qualcuno, si è trasformata tutto d’un tratto in un popolo di giuslavoristi.
Potremmo riprendere le parole del morettiano protagonista di “Palombella rossa” che, nel disperarsi contro il “trend negativo” evocato da una giovane giornalista, scolpiva una pietra miliare del cinema affermando, contro la corruzione del linguaggio, che “chi parla male pensa male, e vive male”.
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Un'Alba Mediterranea contro troika ed euro
Il M5S rompe gli indugi
Luca Fiore - Alessandro Avvisato
Una platea composita e affollata ha seguito oggi con estrema attenzione l’iniziativa organizzata dal Movimento 5 Stelle presso l’Auditorium Sandro Pertini della Camera dei Deputati. L'incontro ha visto la partecipazione di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle come Di Stefano e Di Battista, del giornalista Gianni Minà, di alcuni intellettuali militanti – come Luciano Vasapollo e Joaquin Arriola - e di numerose rappresentanze delle ambasciate paesi dell’Alba.
Una iniziativa che a partire dal processo di rottura avvenuto in America Latina nei decenni scorsi rispetto all’asfissiante dominazione economica statunitense e alla dollarizzazione delle economie, propone un processo di rottura all’interno dell’Unione Europea che liberi i Pigs – i paesi “maiali” oggetto di quasi un decennio di politiche di austerity – dall’ormai intollerabile gabbia rappresentata da una moneta – l’Euro – e da alcune istituzioni – la Bce, la Troika – che i partecipanti all’iniziativa hanno esplicitamente contestato.
Introducendo i lavori, il parlamentare del M5S Manlio Di Stefano ha sottolineato "L'insostenibilità del sistema-euro per i paesi europei con condizioni diverse tra loro e gli effetti della globalizzazione". A questo punto si può fare altro? A questa domanda Di Stefano ha risposto citando l'esempio dei paesi dell'Alba Latino americana. "Quindi i cittadini italiani possono discutere anche di altre ipotesi possibili". Importante il passaggio nel quale ha affermato che il M5S vuole tradurre tutto questo in atti legislativi.
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L’ “invenzione” della classe operaia*
Marx e il “partito come classe”
Paolo Favilli
“Finito il concetto di una vita, di un sapere tecnico, di un lavoro. Il lavoratore del futuro dovrà essere pronto a un riciclaggio continuo, se non vuole finire accantonato in un mercato del lavoro in perenne riconversione, dove sicuri e tranquilli probabilmente saranno solo i conferenzieri occupati a vendere la necessità di non essere né sicuri né tranquilli” (M. Vázquez Montalbán, 1994)
Vorrei iniziare riflettendo su alcune affermazioni di un grande scrittore italiano: Italo Calvino.
Calvino, agli inizi degli anni sessanta, affrontava, con la consueta “leggerezza metodologica”, il problema della “centralità operaia” nel discorso culturale contemporaneo in uno di quei suoi articoli costruiti in attento e calibrato equilibro tra specifico letterario e teoria della società, ed affermava: “Da più di un secolo a questa parte, il termine “operaio” da denominazione d’una condizione sociale o professionale è diventato elemento esplicito o implicito di ogni discorso culturale. (…) l’operaio è entrato nella storia delle idee come personificazione dell’antitesi”1.
Certamente le culture del marxismo sono state essenziali nella determinazione del valore di immanenza universalistica attraverso il quale il termine “operaio” ha espresso tanto la soggettività che l’oggettività di un processo storico che avrebbe dovuto, negando l’esistente, concludersi in un orizzonte di liberazione totale.
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La necessità di un governo forte di fronte alla disarticolazione della società
di Militant
La controriforma costituzionale/istituzionale del sistema politico italiano si presenta, da un lato, come l’ennesimo tentativo di risolvere tramite ingegneria costituzionale un problema politico del nostro paese – e dell’Europa intera – di lungo corso, quello cioè della perdita di sostanza del concetto di “democrazia rappresentativa”; dall’altro, questa ennesima riforma sancisce la chiara volontà da parte dei governanti (non solo Renzi e il PD, ma tutto l’arco potenzialmente chiamato a poter governare) di bypassare la crisi di consenso e del concetto di rappresentanza che la costruzione europeista impone agli Stati aderenti. Questi due aspetti sono evidentemente legati fra loro: il primo costituisce il problema politico di lungo periodo che attraversa le società capitaliste neoliberiste; il secondo la risposta che la visione politica egemone al momento ha escogitato per tentare non di risolvere, ma di contenere e gestire quel tipo di problema.
E’ ormai cosa nota – ci arrivano pure Corriere e Repubblica – che è in atto nel consesso europeo una “crisi della democrazia”, intesa come estrema difficoltà, da parte delle istituzioni rappresentative preposte, nell’inglobare le differenti visioni del mondo e le differenti classi all’interno di un contesto formale di rappresentanza politica.
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La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity
di Vladimiro Giacchè
In un suo recente contributo sulla stagnazione secolare nell’eurozona, Paul De Grauwe, dopo aver osservato che “dalla Crisi Globale del 2007/8 gran parte dei paesi sviluppati non sono stati in grado di tornare ai livelli di crescita pre-crisi”, ha rilevato però come “da nessuna parte nel mondo sviluppato l’ipotesi della ‘stagnazione secolare’ sia meglio confermata che nell’eurozona”. Lo stesso (ri)scopritore del concetto di “secular stagnation”, Laurence Summers, ha in effetti ricordato che nella zona dell’euro «il pil reale è circa del 15 per cento inferiore a quello stimato nel 2008», e anche il prodotto potenziale «è stato rivisto al ribasso di quasi il 10 per cento». Ma torniamo a De Grauwe: lo studioso belga osserva che, se già prima della crisi il pil reale dell’eurozona evidenziava dinamiche di crescita inferiori a quelle degli Stati Uniti e degli stessi paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’area monetaria, dalla crisi del 2008 in poi questa divergenza si è accresciuta ulteriormente (v. grafico 1).
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Il PIN di Renzi e i numeri dell'economia reale
di Leonardo Mazzei
L'altro giorno la controriforma costituzionale voluta da Renzi ha avuto l'approvazione della Camera. Nel buffonesco linguaggio dell'inquilino di Palazzo Chigi «il secondo numero del Pin è stato digitato». Ecco, infatti, cosa ci è capitato di sentire dalla bocca del segretario del Pd:
«Fare le riforme costituzionali non crea di per se nuovi posti di lavoro, ma - se posso usare l'espressione - è prendere il telefonino. Le riforme sono il Pin. Se tu non digiti il Pin e sblocchi la tastiera non c'è verso di far funzionare niente. Le riforme costituzionali sono questa cosa qui». (Gr1, ore 8 del 10 marzo 2015).
Il tentativo è chiaro: occultare, dietro alla solita retorica efficientista, il progetto antidemocratico che punta al presidenzialismo partendo dallo svuotamento di ogni potere parlamentare. Un disegno ben rappresentato dalla farsa di un Senato di nominati. Almeno lo si fosse eliminato davvero! Invece no, quel che si è voluto eliminare è solo la sua elezione da parte dei cittadini. Una mostruosità che si commenta da sola.
Ma se la sostanza della controriforma costituzionale è questa, vale comunque la pena di seguire il filo del ragionamento di Renzi. Il quale vorrebbe farci credere (vedi il riferimento alla disoccupazione) che: 1) la crisi dipenda da un eccesso di parlamentarismo, 2) che solo un governo (ovviamente guidato da lui) senza opposizione saprà venirne fuori, 3) che dunque lo scasso della Costituzione serve in definitiva al bene comune.
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Tre Riflessioni Sull'Orlo Dell'Abisso
Written by Franco Berardi Bifo
L’errore del 2005
Si avvicinano le elezioni dipartimentali in Francia, e i sondaggi dicono che il Front National sarà il grande vincitore. Il premier Manuel Valls ha rimproverato i cittadini francesi per la loro passività, e ha detto che gli intellettuali non fanno il loro dovere antifascista. Davvero Manuel Valls ha la faccia come il culo, che fuor di metafora vuol dire che proprio non tiene vergogna. I socialisti francesi come i democratici italiani hanno tradito le loro già pallide promesse di opporsi all’oltranzismo austeritario, hanno gestito in prima persona la mattanza sociale, e ora fanno le vittime, si lamentano perché il popolo non li segue e gli intellettuali non si impegnano.
Lasciamo perdere gli intellettuali francesi che non esistono più da almeno venti anni, a meno di considerare Bernard Henri Levy un intellettuale mentre a me pare che si tratti di un imbecille molto pericoloso, come dimostrano le sue campagne a favore dell’intervento in Siria e in Libia.
Non so come andranno a finire le elezioni francesi. Quel che so è che il Front National è la sola forza politica capace di interpretare i sentimenti prevalenti nel popolo francese: odio nazionalista riemergente contro l’arroganza tedesca, e ribellione sociale contro la violenza finanziaria. Un mix inquietante ma potente, che cancella la distinzione tra destra e sinistra.
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Il populismo continentale
Leonardo Clausi intervista Perry Anderson
Perry Anderson, docente della University of California di Los Angeles, nonché tra i teorici fondatori della «New Left» anglosassone e della rivista «New Left Review», è osservatore meticoloso della scena europea e di quella italiana in particolare, da lui studiate secondo un metodo comparativo delle strutture politiche e assetti culturali che tiene ben presente il magistero gramsciano. Fin dagli anni Settanta, lo storico inglese ha intrecciato dialoghi illuminanti con figure cardine del nostro panorama intellettuale: Lucio Colletti, Norberto Bobbio, Carlo Ginzburg, fino alle recenti, sentite commemorazioni di Sebastiano Timpanaro e Lucio Magri apparse sulla «London Review of Books». Gli articoli che da anni dedica all’Italia sulla «Lrb» sono stati ora pubblicati, accompagnati da una nuova conclusione, per la prima volta da Castelvecchi con il titolo L’Italia dopo l’Italia. Il libro è un’analisi spietata degli ultimi venticinque anni di politica nazionale, dal dominio berlusconiano all’offensiva neoliberista dell’attuale presidente del consiglio, dove il personalismo autoritario di Matteo Renzi, convinto com’è di poter riformare il paese sul duplice fronte economico e istituzionale, si tinge di gaullismo. Lo abbiamo raggiunto via email da Los Angeles.
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Syriza e dintorni
di Franco Senia
Il capitalismo senza nemmeno un capitalista
Ci sono due saggi fondamentali per poter capire perché Syriza, in Grecia, con ogni probabilità sta andando verso il fallimento: il primo testo è "Dominio senza soggetto", di Robert Kurz, il secondo è "Che cosa fa andare avanti il capitalismo" di Michael A. Lebowitz.
Kurz spiega perché quello che noi chiamiamo marxismo sia in fondo solo una critica riduttiva del concetto di dominio, critica di per sé incapace di spiegare quello che è il capitalismo "maturo":
«Uno dei termini più amati dalla critica sociale di sinistra - che viene utilizzato con la spensieratezza dell'ovvietà - è il concetto di "dominio". I "dominanti" sono stati e sono considerati, in numerosi trattati ed opuscoli, come dei grandi ed universali cattivi al fine di poter spiegare le sofferenze della socializzazione capitalista. Questa cornice viene applicata retrospettivamente a tutta la storia. Nel gergo specificamente marxista, questo concetto di dominio viene ampliato nel concetto di "classe dominante". In questo modo, la comprensione del dominio ottiene una "base economica": la classe dominante è la consumatrice del plusvalore, del quale essa si appropria con l'astuzia e con la perfidia e, chiaramente, con la violenza.
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Dopo l'euro
di Jacques Sapir
Jacques Sapir discute lo stato attuale del dibattito sull’euro (citando anche Fassina) e considera imminente il punto di rottura. L’intransigenza tedesca combinata alla passività delle altre classi dirigenti europee rende probabile, purtroppo, uno smantellamento “conflittuale”, con la Germania che cercherà di negare la propria responsabilità nella distruzione dell’equilibrio europeo per la terza volta in un secolo. Sapir parla poi del “day after”: dei passi necessari da intraprendere subito dopo la rottura, del quadro giuridico e del sistema monetario che verrà, discutendo l’eventualità di un euro mantenuto come moneta comune —ma non unica— negli scambi internazionali: un’ipotesi comunque difficile da implementare, e utile più che altro come salvagente ideologico per chi non vorrà ammettere il fallimento totale dell’euro.
Le più recenti dichiarazioni e gli articoli scritti negli ultimi giorni da diversi economisti e politici europei dimostrano che siamo entrati in una fase acuta della crisi dell’euro. In Grecia, la questione di un possibile ritorno alla dracma viene discussa apertamente. In Italia c’è Stefano Fassina, un economista del Partito Democratico (il partito di centro-sinistra da cui viene anche Renzi), ed ex Viceministro dell’Economia e delle Finanze, che per quanto riguarda la questione euro ha deciso di attraversare il Rubicone (1.1; 1.2). La “conversione” di Fassina a posizioni critiche sull’euro dimostra bene come il dibattito si stia espandendo in Italia. Più recentemente abbiamo visto Wolfgang Streeck, sociologo ed economista, pubblicare su Le Monde un lungo articolo per spiegare che l’Europa deve abbandonare la moneta unica (2) [Trovate l’articolo di Streeck da noi recentemente tradotto su questo link, NdT]. Queste diverse posizioni, senza dimenticare quelle di Podemos in Spagna, sono un buon indicatore del fatto che siamo effettivamente ad un punto di rottura. Streeck dice senza mezzi termini che il mantenimento dell’euro sta uccidendo l’Europa e sta provocando un aumento di antagonismo anti-tedesco.
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Il grande freddo
di Lapo Berti
Il termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è quasi certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi religiosa. Di un’ulteriore e possibile declinazione non si è parlato o si è parlato molto poco, quasi incidentalmente, o, addirittura non si è voluto parlare: di crisi di civiltà
Una crisi di civiltà?
Il termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è quasi certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi religiosa; di crisi di nervi, verrebbe da aggiungere. Di un’ulteriore e possibile declinazione non si è parlato o si è parlato molto poco, quasi incidentalmente, o, addirittura non si è voluto parlare: di crisi di civiltà. Eppure, è forse questa la prospettiva che ci consentirebbe di considerare e di comprendere più in profondità le tante crisi che ci angosciano e, più in generale, le dinamiche sociali, economiche, politiche lungo le quali sta scivolando la nostra civiltà. Il grande antropologo Ernesto De Martino vi avrebbe forse trovato la materia per delineare un’ennesima “apocalisse culturale”.
Forse, come l’ambiente fisico in cui viviamo, anche l’ambiente sociale è soggetto all’alternanza di ere calde o temperate in cui la vita fiorisce e si espande e di ere glaciali in cui la vita si ritira e combatte duramente per conservarsi. La sensazione cui vorrei offrire il supporto di qualche riflessione più accurata è che ci stiamo avviando verso una sorta di glaciazione sociale, perché stanno venendo meno alcune delle spinte vitali, espansive, che hanno sospinto la precedente fioritura.
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L’austerità “flessibile” che non genera crescita e accentua le diseguaglianze
di Guglielmo Forges Davanzati
Con uno slittamento semantico che ben poco toglie alla sostanza della questione, le politiche economiche suggerite dalla commissione europea vengono ora definite di austerità “flessibile”1, dove è l’aggettivo a contare maggiormente sul piano comunicativo. Ciò a indicare che la stagione delle misure radicali di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale sarebbe ormai terminata.
In questa nuova prospettiva, fatta propria dal Governo Renzi, si inserisce la proposta formulata da due dei più accreditati economisti italiani – Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – di far ripartire la domanda interna riducendo la pressione fiscale e sforando temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil2. E’ una proposta che merita di essere discussa proprio perché essa è alla base di quello che viene propagandato come un nuovo corso della politica economica italiana.
Si tratta di una proposta apparentemente di buon senso, definita keynesiana e, in quanto tale, “di sinistra”. In realtà, essa non è affatto keynesiana, non è affatto “di sinistra” (se la si legge considerando gli effetti redistributivi che la sua attuazione produrrebbe), e non è neppure di buon senso. Per queste ragioni.
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Tra Leopolda e seduzione: appunti su un profilo di Matteo Renzi
di Adriano Voltolin
Molto volentieri pubblico questo interessante ed anche divertente articolo di Adriano Voltolin, Presidente della Società di Psicoanalisi critica. Buona lettura!
Una lettura psicoanalitica di un fenomeno oppure di un personaggio non ha la pretesa di dare una lettura vera di quanto preso in esame, ma solo l’ambizione di poter contribuire, assieme ad altri vertici osservativi, ad una interpretazione più completa di quanto viene preso in osservazione. Nello studio di un analista una persona porta se stessa in molti modi, tra i quali, l’opinione che esprime di se stessa, ha una notevole importanza sintomatica: vale di più ciò che non sa di sé e che emerge, per dirla con un famoso analista francese, come qualcosa che zoppica, che fa ostacolo e che marca un tratto della sua personalità.
Prendendo in esame la figura dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri, alcuni tratti del suo carattere emergono prepotentemente nelle sue interviste sulla stampa o in televisione.
Certamente appare disinvolto, a suo agio col pubblico, pronto alla battuta salace che è sempre ben congegnata, sufficientemente risoluto, pronto ad ascoltare e prontissimo nel controbattere le opinioni altrui. Il suo abbigliamento appare quello di un uomo che rispetta le convenzioni, ma che anche le evade con noncuranza sia elegante che volutamente involontaria.
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Grecia: il vero e il crudele
di Francesca Coin
È stato proprio Varoufakis lo scorso novembre in un seminario sull’estetica della moneta tenuto a Berkeley a ricordare come la signora Thatcher fosse contrarissima all’euro. Proprio io, diceva, che sono stato a duecento manifestazioni contro di lei. Proprio io, mi trovo ora a citare la Thatcher. Era stata accolta con scetticismo, l’opposizione intransigente della Thatcher. Allora, solo lei si era opposta all’integrazione monetaria, ma la sua opposizione le era costata cara: prima le dimissioni del Ministro degli Esteri Geoffrey Howe, e poi le proprie nel novembre del 1990. Venticinque anni dopo le sue posizioni tornano ad essere oggetto di discussione, ironicamente da parte di quegli stessi critici della scuola neo-liberale a cui lei si ispirava per difendere la necessità di mantenere disperso il potere e decentralizzate le decisioni senza cedere la sovranità a “un super-stato […] che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”.
Varoufakis riprende la Thatcher e poi torna al presente, a quell’unione europea divisa in modo quasi tragicomico proprio dall’unione monetaria in quello che sembra, per citare il suo libro, “uno squilibrio fondamentale”. È Christian Marazzi che riporta l’attenzione su questo concetto laddove descrive la situazione contemporanea come una situazione di squilibrio fondamentale, “quella situazione in cui alcuni paesi importano eccessivamente e altri esportano anch’essi eccessivamente, utilizzando i ricavi di queste esportazioni non per investire al loro interno, bensì per finanziare i deficit e i debiti dei paesi importatori” (Marazzi, 2015).
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La stretta monetaria
Manfredi De Leo*
Altro che effetti espansivi sulla crescita. Come sostenuto più volte su Economia e Politica, in assenza di una ripresa degli investimenti pubblici il quantitative easing della BCE non servirà a rimettere in moto l’economia. Sarà piuttosto uno strumento con il quale le autorità monetarie potranno imporre nuovi tagli e riforme strutturali.
La Banca Centrale Europea ha dato avvio al massiccio programma di acquisti di titoli sui mercati finanziari detto Quantitative Easing (QE). Si tratta di una misura di portata storica, per le dimensioni del programma – circa mille miliardi di euro – ma anche e soprattutto per il fatto che esso coinvolge i titoli del debito pubblico europei: la banca centrale ne acquisterà quote consistenti, in controtendenza con un’impostazione della politica monetaria incentrata sull’indipendenza dell’autorità monetaria da quella fiscale. Una mossa che ha diviso gli analisti. Da un lato chi, con Scalfari, descrive il governatore della BCE come il “motore della crescita europea”, un eroe moderno che “mette l’economia al servizio del bene comune” – spesso rappresentato in contrapposizione al governatore della Bundesbank, arcigno sostenitore del rigore. In effetti, lo stesso termine “quantitative easing” allude ad una misura che accompagna una politica fiscale espansiva, allentando quei vincoli di natura monetaria che, in assenza di un aumento della liquidità, ne ostacolerebbero l’operato. Entro questa lettura, l’eurozona appare animata da un conflitto tra due opposti indirizzi di politica economica: crescita vs rigore, ovvero Draghi vs Weidmann, con il primo che incarnerebbe lo spazio politico per condurre l’Europa fuori dal paradigma dell’austerità.
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Con Marx, contro il lavoro
di Anselm Jappe
A proposito di Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale. Una reinterpretazione della teoria critica di Marx"; e di Isaak Rubin, "Saggi sulla teoria del valore di Marx". -
Nell'assumere come parola d'ordine la liberazione del lavoro, l'uscita dallo sfruttamento, i marxisti tradizionali hanno trascurato il fatto che Marx ha svolto una critica, non solo dello sfruttamento capitalistico, ma del lavoro stesso, così come esiste nella società capitalista. Pertanto, si tratta non di rimettere al centro ma, al contrario, di criticare il posto centrale occupato dal lavoro in questo sistema, dove esso regola tutti i rapporti sociali. E' questo l'oggetto della rilettura di Marx svolta in "Tempo, lavoro e dominio sociale" di Moishe Postone.
Nell'editoria, a volte ci sono delle felici coincidenze. Così, questa primavera, "Mille et une nuits" (Fayard) ha pubblicato la traduzione francese del libro di Postone, pubblicato negli Stati Uniti nel 1993, mentre le edizioni Syllepse hanno ripubblicato i "Saggi sulla teoria del valore di Marx" di Isaak Rubin, la cui edizione russa risale al 1924 e la precedente edizione francese (di Maspero, ed esaurita da tempo) al 1978. In questo modo, il pubblico francofono ha in un sol colpo, a disposizione, due delle pietre miliari - si potrebbe perfino dire, il punto di partenza ed il punto di arrivo provvisorio - di una rilettura di Marx basata sulla critica del lavoro astratto e del feticismo della merce.
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Non servono "moniti" se manca una bussola
L'euro: un destino segnato?
Giovanni Mazzetti
Prosegue il dibattito sul “destino dell’euro”. Il “monito degli economisti” è inadeguato perché nega il bisogno di un radicale cambiamento della struttura delle relazioni sociali. Non è possibile una riedizione del Welfare. Perché abbiamo bisogno di una bussola per affrontare la crisi.
Poco più di un anno fa un folto gruppo di economisti di diversi paesi ha lanciato un “monito”, pubblicato sul Financial Times del 23 settembre 2013, che ora viene riproposto da Emiliano Brancaccio sull’ultimo numero di Critica marxista1.
Il succo dell’appello era ben riassunto dalle conclusioni:
Occorre essere consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle cosiddette “riforme strutturali” il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Ma che cosa succede se la caduta degli investimenti pubblici e privati, l’accentuato squilibrio tra i redditi, l’esplodere della disoccupazione di massa e perfino l’eventuale futura fuga dell’euro, sono sintomi della crisi, non le sue cause? Succede – com’è successo – che il monito lascia il tempo che trova, e cioè non sortisce gli effetti sperati. Né basta insistere sulla sua attualità, come fanno ora Brancaccio e Zezza sul citato numero di questa rivista, per ottenere qualcosa di diverso.
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La connessione meridionale. Podemos, Syriza e i movimenti
Intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar
Pubblichiamo una lunga intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar, entrambi militanti di Podemos, ma anche ricercatori sociali. Il nostro intento era quello di guardare alla Grecia a partire dalla Spagna, cercando di mettere a tema similitudini e differenze tra i due modi di affrontare il nodo del rapporto tra movimenti e istituzioni. Questo rapporto d’altra parte non è riducibile alla scelta di partecipare o non partecipare alle elezioni. Solo lo sconcertante dibattito italiano può ridurre il problema all’accettazione o – specularmente ‒ al rifiuto di stabilire una qualche alleanza con un ceto politico residuale o con qualche piccolo partito più o meno esistente. La tensione tra movimenti e istituzioni è in realtà un campo politico in cui si tratterebbe di mettere alla prova realisticamente la propria capacità di ottenere risultati, dimostrando l’efficacia del moto dei movimenti invece di fissarli in traiettorie definite e determinate una volta per tutte, lungo le quali ci si muove con la sicurezza di chi affronta percorsi conosciuti e cerca di evitare ogni novità.
L’intervista è stata fatta prima dell’ultimo round delle trattative tra il governo greco e le istituzioni europee, quindi non tiene ancora conto del tentativo di governare l’aporia che esse hanno evidenziato.
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La Controriforma e la Rivolta
di Rino Genovese
In un tempo ormai lontano, per tutti gli anni sessanta del Novecento e buona parte dei settanta, si sono contrapposte due idee, se si vuole due ipotesi, cariche entrambe di ambizioni innovative, ambedue non prive di una loro mitologia retrodatabile (nel senso che non nascevano di punto in bianco ma affondavano le radici nel passato). Erano la Rivoluzione e la Riforma. La prima aveva alle spalle la rottura francese del 1789 e poi – come in una grande epopea – le successive ondate ottocentesche fino alla Comune di Parigi e oltre, fino all’Ottobre sovietico e al moto spartachista in Germania. La concezione di fondo era quella, progressista radicale, della violenza come levatrice della storia: Hegel e Marx insieme, realismo politico e utopia. Dall’altro lato splendeva di una luce non meno intensa un’idea riformistica, gradualistica, a lungo prevalente nel movimento operaio organizzato, diciamo fino alla prima guerra mondiale, e ritornata in auge dopo la seconda. Stando a questa concezione, il modo capitalistico di produzione e di consumo va corretto, in prospettiva anche superato, senza il ricorso alla violenza rivoluzionaria: piuttosto con la pressione dei movimenti sociali combinata con una strategia elettorale e un’azione di governo.
Esisteva certo una serie di opzioni, variamente modulate, per cui la Rivoluzione poteva andare dalla semplice esaltazione rituale della Russia sovietica, o in seguito della Cina rossa, al progetto – non si sa quanto realistico – di una lotta che vedesse la fine dello stesso Occidente capitalistico, con il contributo più o meno decisivo delle spinte rivoluzionarie provenienti dal Terzo mondo; mentre, nel segno della Riforma, si poteva intendere un mero accomodamento in funzione di quello che all’epoca era detto il neocapitalismo, come pure una progressiva fuoriuscita dal sistema mediante le “riforme di struttura”.
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Le lezioni della Grecia e le prospettive
di Michele Nobile
1. Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi. Da una parte alcuni dei governi e delle istituzioni più potenti del mondo, che da anni scaricano i costi della crisi capitalistica interamente sui lavoratori e sui comuni cittadini; dall'altro lato del tavolo, il governo di un paese devastato dall'austerità e in depressione si è fatto portavoce della necessità di provvedere urgentemente alla gravissima condizione in cui versano i lavoratori e i comuni cittadini greci. Non c'è alcun dubbio che in questa contrattazione si siano confrontate e scontrate la democrazia e la postdemocrazia, gli interessi immediati del popolo greco e gli interessi immediati del capitale europeo. Per la sua logica e per ciò che potrebbe implicare per gli orientamenti della politica economica e sociale del continente, il programma di Syriza è suonato alle orecchie delle caste politiche della postdemocrazia europea come un delitto di lesa maestà. Inoltre, la visione implicita nella proposta di Syriza è quella di un'Europa autenticamente federale; la troika, invece, intende l'unione monetaria alla stregua di un accordo di cambi fissi, con ciò minando la coesione europea.
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Perchè l'avanzata del fascismo è nuovamente il problema
di John Pilger
Il recente 70° anniversario della liberazione di Auschwitz ci ha ricordato quale grande crimine sia il fascismo, la cui iconografia nazista è radicata nelle nostre coscienze. Il fascismo è conservato come storia, come tremolanti riprese di camicie nere che marciano al passo dell'oca, la loro criminalità terribile e chiara. Eppure, nelle stesse società liberali le cui belligeranti élite ci impongono di non dimenticare mai, del crescente pericolo di un moderno tipo di fascismo non si parla, perché è il loro fascismo.
"Iniziare una guerra di aggressione...", dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, "non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo, che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto contiene in sé l'accumulo di tutti i mali".
Se i nazisti non avessero invaso l'Europa, Auschwitz e l'Olocausto non sarebbero accaduti. Se gli Stati Uniti ed i loro vassalli non avessero iniziato la loro guerra di aggressione in Iraq nel 2003, quasi un milione di persone oggi sarebbero vive, e lo Stato islamico, o ISIS, non ci avrebbe in balìa delle sue atrocità. Essi sono la progenie del fascismo moderno, svezzato dalle bombe, dai bagni di sangue e dalle menzogne, che sono il teatro surreale conosciuto col nome di informazione.
Come durante il fascismo degli anni '30 e '40, le grandi menzogne vengono trasmesse con la precisione di un metronomo grazie agli onnipresenti, ripetitivi media e la loro velenosa censura per omissione. Prendiamo ad esempio la catastrofe in Libia.
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