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Diffidare della sinistra anti-anti guerra
di Jean Bricmont
Sin dagli anni ’90, e soprattutto dopo la guerra del Kosovo nel 1999, chiunque si opponga agli interventi armati delle potenze occidentali e della NATO deve confrontarsi con quella che può essere definita una sinistra anti-anti-guerra (compreso il suo segmento dell’estrema sinistra). In Europa, e in particolare in Francia, questa sinistra anti-anti-guerra è costituita dalla socialdemocrazia tradizionale, dai partiti Verdi e dalla maggior parte della sinistra radicale. La sinistra anti-anti-guerra non è apertamente a favore degli interventi militari occidentali e a volte non risparmia loro critiche (ma di solito solo per le loro tattiche o per le presunte motivazioni – l’Occidente sta sostenendo una giusta causa, ma goffamente e per motivi legati al petrolio o per ragioni geo – strategiche). Ma la maggior parte della sua energia la sinistra anti-anti-guerra la spende nell’emettere ”avvertimenti” contro la presunta pericolosa deriva di quella parte della sinistra che continua ad opporsi fermamente a tali interventi. La sinistra anti-anti-guerra ci invita ad essere solidali con le “vittime” contro “i dittatori che uccidono il loro stesso popolo” e a non cedere all’ istintivo anti-imperialismo, anti-americanismo o anti-sionismo, e, soprattutto, a non finire dalla stessa parte dell’estrema destra. Dopo gli albanesi del Kosovo nel 1999, ci è stato detto che “noi” dobbiamo proteggere le donne afgane, i curdi iracheni e, più recentemente, il popolo libico e siriano.
Non si può negare che la sinistra anti-anti-guerra sia stata estremamente efficace.
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Dal fronte esterno al fronte interno
Per una strategia di liberazione nazionale
di Pasquale Cicalese
Prima ancora di parlare di programma, è bene chiarire che compito dei comunisti è quello di adottare la matrice del materialismo storico per comprendere le dinamiche in atto, dunque analizzare in pieno i conflitti e le guerre di classe che attraversano la società italiana.
Ritornare a crescere con l’intervento pubblico nell’economia
Il Paese vive da vent’anni una fase recessiva che è stata essenzialmente dovuta alla dismissione dell’economia mista avviata con vigore nel dopoguerra, quando la produzione militare lasciò il passo alla produzione manifatturiera civile, con un forte connubio, nelle industrie pubbliche, tra scienza e industria.
Ritornare a un sentiero di crescita implica necessariamente un ritorno del pubblico nell’economia: ciò sottintende, innanzitutto, la nazionalizzazione del sistema bancario italiano e la creazione di oligopoli pubblici capaci di intercettare la richiesta di merci tecnologicamente avanzate da parte dei paesi che sono emersi o che sono in un sentiero di sviluppo.
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Il deleterio modello tedesco e i luoghi comuni sul welfare
di Guido Iodice e Daniela Palma
Un articolo di Giovanni Perazzoli su MicroMega online [1] indica Keynes blog tra quelle fonti che diffonderebbero false informazioni sulla situazione sociale in Germania. Addirittura, veniamo accusati di essere parte di una “controinformazione italiana” la quale mirerebbe a “smentire che in Germania i salari siano più alti che in Italia”.
In primo luogo è bene chiarire che l’articolo a cui si riferisce implicitamente il nostro critico [2] è stato tratto da Voci dalla Germania [3], che a sua volta riprendeva i contenuti da due siti tedeschi. La “controinformazione” di cui saremmo un pericoloso tentacolo avrebbe perciò radici nella stessa Germania. Ma questo è evidentemente un argomento minore.
Ciò di cui Perazzoli sembra proprio non rendersi conto è che la sua argomentazione integra e conferma la tesi che abbiamo esposto, ossia che il “reddito minimo di cittadinanza”, di cui egli è un sostenitore, è esattamente ciò che ha permesso alla Germania di rendere socialmente sopportabili i mini-jobs, cioè il lavoro sottopagato. Come lo stesso Perazzoli spiega, infatti:
i Mini-Job sono lavori part-time da 400 euro al mese netti rivolti per principio agli studenti, e che – attenzione – si possono sommare a Hartz IV, il reddito minimo garantito tedesco.
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Ma l’Agenda Monti è davvero così diversa dalla Carta dei Progressisti?
di Alfonso Gianni
L’antivigilia di Natale ha portato nuove certezze agli italiani. Finalmente si è capito, punto per punto, in cosa consiste la celebre “agenda Monti” di cui tutti parlavano da alcuni mesi. L’ha pubblicata lo stesso Presidente del Consiglio dimissionario nel suo sito, in versione integrale. Si tratta di 25 pagine, ma non particolarmente dense. Alcuni sostengono che gliela abbia scritta Ichino. Questa sarebbe la causa della miniscissione dal Pd capitanata dal senatore. Se è vero non deve essersi sforzato molto: la parte sul lavoro non fa altro che ribadire perentoriamente che “non si può fare marcia indietro” rispetto alle riforme Fornero e al di là di frasi di circostanza si annuncia una drastica semplificazione normativa in materia di lavoro. Il progetto di legge Ichino, appunto.
A guardare bene, separato il loglio dal grano, non vi è poi tanta differenza fra questa “agenda” e la Carta di intenti dei progressisti e democratici. Anzi su qualche questione Monti appare persino più ardito. Ad esempio per quanto riguarda il welfare propone di generalizzare il “reddito minimo di sostentamento”, una sorta di reddito di cittadinanza, del quale la Carta di intenti non fa minimo cenno. Non vi è da stupirsi per almeno due ragioni. La prima è che questa misura era raccomandata dal parlamento europeo in una risoluzione assunta più di un anno fa come misura di contenimento della povertà e di facilitazione per trovare lavoro. Per quanto il Parlamento europeo abbia poteri solo virtuali, qualcuno prima o poi qualcosa la doveva pur dire.
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Un esercizio di egemonia perfettamente riuscito
di Antonio Calafati
Lo si capisce già dalle prime pagine di Manifesto capitalista*, quanto sia profonda la crisi del pensiero neoliberista. Scrive Luigi Zingales come viatico al lungo viaggio che compie in questo libro: “E quando arrivai in America (…) provai l’emozione inebriante di avere ogni obiettivo alla mia portata. Ero finalmente in una nazione in cui i limiti ai miei sogni dipendevano solo dalle mie capacità”. In effetti, non c’è più nulla da dire e da pensare, nessun argomento razionale per difendere il capitalismo americano e i suoi mercati finanziari. Ai neoliberisti non resta che disconoscerlo, affrettarsi a rinnovare la promessa di una riforma del sistema, e riscoprire la “retorica della frontiera”.
Molti sostenitori del capitalismo americano, quelli che avevano una coscienza liberale, per quanto incerta, erano preoccupati già da molto tempo. Non occorreva attendere la crisi finanziaria del 2008 per accorgersi di ciò che stava accadendo: “Tra il 1997 e il 2001 ci sono stati cambiamenti nel nostro sistema finanziario che mi hanno profondamente preoccupato” (“The New York Review of Books”, XLIX, n. 3) scriveva con mesto sconforto Felix G. Rohatyin, ambasciatore degli Stati Uniti in Francia e banchiere di lungo corso. Se lo chiedeva nel 2002, riflettendo su ciò che erano diventati i mercati finanziari, non nella loro isterica instabilità, bensì nella loro progettata indecenza. E poco più avanti aggiungeva: “Forse è troppo presto per emettere un giudizio definitivo, ma gli eventi recenti fanno pensare che il nostro sistema di regolazione stia fallendo”.
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L’essenziale sull’essenziale, ovvero del nihil privativum
(poche brevi note)
Giuseppe Sottile
“This critique analyzes the working class as an integral element of capitalism
rather than as the embodiment of its negation”, M. Postone
Ho letto con interesse ed una certa gioia alcuni passi del testo “L’essenziale sull’essenziale” (Gilles Dauvé & Karl Nesic), quegli accenni relativi a come dovrebbe immaginarsi una rivoluzione e società comuniste, privi come sono della incredibile indecenza terminologica marxista del secolo scorso. Intelligenza e vita si coniugano felicemente in questi autori.
Tuttavia restano alcuni punti che continuo a non intendere e su cui ho scritto qualcosa in passato. Si parla come al solito in maniera scontata di contraddizione capitale/lavoro (salariato), si sottintende dei proletari marchiati non si sa da quando come e perché dall’essere rivoluzionari, mentre da tutt’altro sembrano essere caratterizzati. Si concede in un punto del testo quanto segue: ““lotta” tra capitale e lavoro salariato non implica che queste due realtà si affrontino senza tregua, in forma larvata o violenta, all'interno dell'impresa o nelle strade, ma soltanto che esse sono legate da un rapporto di collaborazione obbligata e allo stesso tempo di inimicizia. Raramente due lottatori si combattono fino alla morte. Lottare, il più delle volte, significa essere forzati ad accettare il quadro all'interno del quale la lotta si svolge. Se il capitale ha bisogno del lavoro salariato, finché sussiste questo sistema, anche il lavoro ha bisogno del capitale.” E ancora poco oltre: ” Il problema, per i rivoluzionari, non è sapere se la lotta di classe esiste, ma chiedersi come, anziché auto-riprodursi, essa possa concludersi per mezzo di una rivoluzione.”
Dunque la “lotta” si assume comunque e mai si cita quella ben più sistematica nel tempo e nello spazio dei salariati contro se stessi, vale a dire della concorrenza da sempre e specie oggi spietata tra loro.
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La crisi, quattro anni dopo
Da Lehman Brothers alla questione del debito europeo
Francesco Schettino
Ogni scienza sarebbe superflua
se l'essenza delle cose e la loro forma fenomenica
direttamente coincidessero [K. Marx, Il Capitale, III, 48]
Passato un quadriennio dalla formidabile deflagrazione che ha sconvolto definitivamente gli assetti dell'attuale fase del capitalismo, è giunto il momento di fare il punto della situazione. Esplosa come un bubbone, che covava sotto l'epidermide del modo di produzione contemporaneo da più di tre decenni - sempre più tesa e malridotta nonostante i continui interventi di maquillage ideologico -, la crisi ha iniettato di liquido infetto ogni angolo del pianeta, non risparmiando nessuno a causa della profonda interconnessione produttiva e circolatoria che si è andata, negli anni, configurando a livello planetario.
Il fallimento pilotato di Lehman Brothers - insieme agli onerosi salvataggi governativi di Fannie Mae e Freddie Mac - ha fornito una rappresentazione suggestiva di un fenomeno, quello della crisi, che, in realtà, affonda le proprie radici nel naturale svolgimento della produzione capitalistica e delle sue interruzioni iniziate, con frequenza sempre maggiore, già all'inizio degli anni settanta del secolo passato. Pressoché tutti ricordano le sensazioni provate nell'osservare i dipendenti della Lehman Brothers che abbandonavano, con le ormai celeberrime scatole di cartone, la sede di una di quelle aziende che ora vengono definite persino "too big to fail", e che riportava un magnifico rating sul livello di stabilità finanziaria [cfr no. 138, ...la chiamavano trinità] per molti fu uno shock, paragonabile forse solo a quello sperimentato in occasione del crollo delle torri gemelle, e non furono in pochi a pensare che da quel momento le cose sarebbero cambiate significativamente: e, non c'è dubbio, che costoro ebbero ragioni da vendere.
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Cambiare è difficile
Livio Pepino
Due mesi fa, in settanta (diversi per storie e provenienza ma uniti negli obiettivi), abbiamo lanciato il documento «Cambiare si può». Volevamo verificare la possibilità di una presenza alternativa alle elezioni politiche del 2013. Alternativa al liberismo, al governo Monti e a chi ne è stato il socio di riferimento (le destre da un lato e il Pd dall'altro) sulla base di una diversa idea di Europa, di sviluppo, di politiche per uscire dalla crisi, di centralità del lavoro (e non del capitale finanziario). E, poi, alternativa al sistema politico che ha caratterizzato gli ultimi decenni (anche a sinistra) portandoci allo sfascio attuale: un sistema soffocato da un rapporto corrotto con il denaro e con il potere economico, dalla trasformazione della rappresentanza in delega incontrollata, dalla incapacità di affrontare i problemi reali della vita delle persone; un sistema da trasformare nel profondo con segni tangibili di radicale discontinuità e con nuovi metodi, nuove pratiche, nuove facce (designate dai territori, all'esito di un dibattito pubblico, senza quote o riserve per ceti politici).
A che punto siamo oggi, due mesi dopo?
Vale la pena ripercorrere le tappe del percorso. Abbiamo suscitato un entusiasmo impensato coinvolgendo in centinaia di incontri e assemblee, decine di migliaia di «cani sciolti» e orfani di partiti e sindacati ma anche associazioni, movimenti, gruppi, comitati: se ne facessimo l'elenco raggiungeremmo numeri a tre cifre.
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Un metodo pericoloso
Sabina Spielrein e il femminile rimosso della civiltà
di Leni Remedios*
“Ogni uomo porta in sé la forma intera dell’umana condizione”
Michel de Montaigne [1]
Nel 1977, in uno scantinato del Palais Wilson di Ginevra, vecchia sede di un prestigioso Istituto di psicologia, viene ritrovato uno scatolone colmo di documenti. Il ritrovamento è il frutto casuale di un paziente lavoro di ricerca capeggiato dall’analista italiano Aldo Carotenuto. Di cosa si tratta? Lo scatolone contiene frammenti di diario e un carteggio importante fra tre soggetti: il padre della psicanalisi Sigmund Freud, il suo discepolo Carl Gustav Jung, in seguito allontanatosi per fondare una nuova teoria e una certa Sabina Spielrein, psicanalista ed autrice del diario.
Il materiale porta ad emersione particolari finora sconosciuti sulle vicende storico-biografiche dei tre personaggi, vicende che hanno inciso in maniera inequivocabile sugli sviluppi teorici di ognuno di loro. Ciò che viene alla luce turba e sconvolge talmente il mondo intellettuale da stimolare una lunga serie di saggi, opere teatrali e cinematografiche, di cui il film di Cronenberg, Un metodo pericoloso, rappresenta solo l’ultima appendice. Insomma, anche figurativamente parlando, Sabina Spielrein – dimenticata, rimossa, incompresa – emerge dal sottosuolo della civiltà, dall’inconscio della storia della psicologia, simboleggiato così bene dallo scantinato del palazzo ginevrino, per rivendicare la sua verità.
Sabina Spielrein è il perturbante [2] della storia della psicoanalisi. Il primo dei lavori a lei dedicato è naturalmente il libro di Carotenuto, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud.
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Una recensione su David Harvey
di Connessioni
Come funziona il sistema capitalistico e perchè accadono le crisi? È difficile, ma cruciale, provare a rispondere a queste parole, specie di questi tempi. Un buon tentativo di accettare la sfida è il libro di David Harvey, “L'enigma del capitale”.
Nel suo libro, Harvey prova a costruire una teoria delle crisi del capitalismo, in primis proponendo la sua visione del capitale come un flusso. Se questo flusso è interrotto, a causa dei limiti che il capitale incontra, descritti da Harvey nel prosieguo del libro, c'è una crisi, come quella che stiamo sperimentando oggi. Le crisi servono a riconfigurare il capitalismo, permettendo la sua sopravvivenza.
Dato che le crisi hanno accompagnato l'intera storia del capitalismo, è piuttosto chiaro che ci deve essere una contraddizione sistemica nel processo di accumulazione capitalistica. Harvey affronta la questione definendo il capitale non come un oggetto ma come un flusso, dove il denaro è costantemente mandato in cerca di altro denaro.
I capitalisti, sotto la pressione della forza della competizione, sono costantemente forzati a re-investire i profitti che essi eventualmente abbiano guadagnato. I problemi nascono quando il flusso si interrompe. L'11 Settembre ha fermato momentaneamente il flusso. Non fu sorprendente, allora, che il presidente Bush dedicasse tutto se stesso a riportare il flusso alla normalità.
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Ripoliticizzare la decrescita*
Considerazioni a partire dalla Conferenza di Venezia
Marino Badiale, Fabrizio Tringali
Quest'anno la Conferenza Internazionale sulla Decrescita, ormai giunta alla terza edizione, si è tenuta in Italia, a Venezia, dal 19 al 23 settembre. Senza dubbio l'iniziativa è stata un successo: circa 700 partecipanti provenienti da 47 paesi diversi, età media piuttosto bassa (più di un terzo degli iscritti aveva meno di 30 anni), grande partecipazione sia alle assemblee plenarie sia ai workshop (più di 80 in tre giorni), circa 180 papers discussi. Tutto ciò, unito alla capacità dimostrata dagli organizzatori, prova che anche in Italia il movimento della decrescita, nelle sue varie componenti, è ormai una realtà ben consolidata. Un risultato di questa portata comporta anche, come è ovvio, una grande responsabilità: quella di far crescere e fruttificare le potenzialità che il movimento ha dimostrato di avere, riuscendo ad incidere effettivamente sulla realtà politica, a livello sia nazionale sia internazionale.
Il pensiero della decrescita ha certamente la possibilità di sparigliare le carte della lotta politica tradizionale, imponendo un'agenda non riducibile agli schemi concettuali che hanno segnato gli antagonismi del Novecento, in particolare quello fra destra e sinistra. Ma affinché la decrescita possa sviluppare le sue grandi potenzialità, è probabilmente necessario un ulteriore sforzo di focalizzazione di alcuni nodi concettuali.
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"Bentornato Marx!"
recensione al libro di Diego Fusaro
di Emiliano Alessandroni
Nel 1993 viene pubblicato in Italia per la Rusconi un libro di Armando Plebe: Dimenticare Marx? La presenza stessa del volume costituiva di per sé una risposta alla domanda espletata nel titolo, ma l'autore volle essere esplicito esortando a non dimenticarsi di Marx «irresponsabilmente, come ci si scorda di un numero di telefono che da qualche tempo non si usa più»; è possibile infatti «considerare meritoria oppure sciagurata la stesura del Capitale», ma occorre pur sempre tener presente che dietro di essa «stanno secoli di cultura» la quale «ha generato a sua volta un secolo e mezzo di cultura marxista»; ne discende che «un politico che non dimentichi Marx è un politico costretto ad accorgersi che la cultura esiste»1.
Da alcuni anni a questa parte, parrebbe quasi che il monito di Plebe abbia sortito un effetto maggiore del previsto. Nel 1999 un sondaggio della BBC ha premiato Marx come «il più grande pensatore del millennio»2. Sei anni più tardi il programma radiofonico In our time, della medesima emittente televisiva, ritenta il sondaggio in forme diverse, ma ottenendo il solo risultato di far conquistare a Marx anche il titolo di «più grande filosofo della storia»3.
A partire dall'avvento della crisi economica i richiami al teorico tedesco aumentano vertiginosamente: nel 2008 l’omonimo arcivescovo di Monaco Freising Reinhard Marx, dopo aver pubblicato un libro dal titolo Il Capitale. Una difesa dell'uomo, dichiara che «poggiamo tutti sulle spalle» del filosofo di Treviri «perché aveva ragione», infatti «nella sua analisi della situazione del XIX secolo ci sono punti inconfutabili»4.
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Resistenza in Bahrain: le lotte dei lavoratori
di Yusur Al Bahrani
Il testo che segue è stato scritto da una compagna residente in Canada ma originaria del Bahrain. I legami che tuttora mantiene col suo paese le permettono di restituirci una realtà meno schiacciata su quelle che sono le letture cui solitamente possiamo accedere. Le avevamo chiesto di scrivere un resoconto che ci desse l'opportunità di inquadrare il ruolo che la classe lavoratrice sta giocando nell'isola perché troppo spesso ci pare sia l'attore che sparisce dalle cronache.
Ciò che ci sembra emergere dalla lettura è soprattutto la lotta per la fine di un regime oppressivo e reazionario. Ma nella critica alla gestione del potere degli Al-Khalifa, più che la rivendicazione di un modello simile a quello occidentale, si intravedono le parole d'ordine che hanno riempito e – fortunatamente – continuano a riempire le piazze arabe: “Pane, libertà e giustizia sociale!”
Le lotte dei lavoratori sono al centro del movimento. In questo testo si prende in considerazione soprattutto la repressione di cui sono stati fatti oggetto e che mostra una sostanziale comunanza di vedute del capitale privato e dello stato. I lavoratori sono il nemico e vanno sconfitti in ogni modo: con la tortura, la galera, i licenziamenti e la sostituzione con altri membri dell'esercito di riserva mondiale. Il tutto pur di lasciare inalterato l'attuale assetto di potere. Per approfondire le dinamiche della rivolta in Bahrain, leggi 'La rivoluzione in Bahrain: resistenza all'imperialismo'.
Lavoratori e studenti sono l'essenza della resistenza all'oppressione ed alla repressione dello stato. Sono il cuore di ogni rivoluzione che voglia costruire una vera democrazia fondata sull'emancipazione della forza dei lavoratori.
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Il capitalismo globale e la sinistra
Jamie Stern-Weiner intervista Leo Panitch
In quale senso il capitalismo è un sistema ‘globale’?
Il nostro mondo è tuttora in gran parte costituito da stati nazione con economie e strutture di classe e sociali molto diverse.
Detto questo, molte delle economie sono integrate nelle reti di produzione delle imprese multinazionali (MNC) che producono, esternalizzano o appaltano in molti paesi diversi. Molti stati sono oggi altamente dipendenti, per una percentuale elevata del loro PIL, dalle esportazioni e dagli scambi che, a loro volta, sono inestricabilmente collegati a sistema bancario internazionale (attraverso i crediti al commercio, i derivati del mercato delle divise, e così via). Le banche commerciali e d’investimento sono diventate interamente internazionalizzate. Da questo punto di vista si può dire che ciò di cui parlava Marx intorno al 1850 – del capitalismo come sistema con tendenze globalizzanti – si è più o meno avverato.
Quale ruolo svolgono gli stati nel sostenere questo ordine capitalista globale?
Il nostro libro inizia con due citazioni. Una è di David Held, già della London School of Economics, che nei primi anni ’90 parlò di una crescente economia mondiale transnazionale che scavalcava anche gli stati più potenti. La seconda è di Eric Hobsbawm, nel suo magnifico ‘Age of Extremes’ [L’epoca degli estremi], e afferma che le MNC preferirebbero un mondo ‘popolato da stati nani o da nessuno stato del tutto’.
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Le lotte contro il regime della Troika
di Thomas Seibert
(…dalla Interventionistische Linke, ma non per la Interventionistische Linke…)

Assieme alle questioni di merito, la proposta di Thomas annuncia un criterio di metodo che va oltre il gruppo al quale comunque lui fa riferimento. Anche per questo lo pubblichiamo. Propone le questioni su una scala che anche noi abbiamo provato a impiegare, inserendo i movimenti di lotta in Europa in uno scenario che va dalla Cina agli Stati uniti. Usa un linguaggio che noi non utilizziamo, dato che non abbiamo mai praticato il lessico del comune, né abbiamo parlato di sciopero metropolitano. Questo intervento invita però ad andare oltre le definizioni usuali e rassicuranti. E questo riguarda anche noi. Non da ∫connessioni precarie, ma per le connessioni precarie…
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Keynesismo, socialdemocrazia e l’anomalia italiana
di Francesco Scacciati
Nei paesi per i quali la migliore definizione penso possa essere “a capitalismo democratico”, si è quasi sempre potuta distinguere “una destra” e “una sinistra”. Nell’ambito di quest’ultima, molto frequentemente si è potuto ulteriormente distinguere tra una sinistra moderata o “di governo” e una sinistra radicale o “antagonista”. La sinistra radicale molto raramente ha fatto parte delle coalizioni al governo e, quando ciò è accaduto, ha avuto un ruolo largamente minoritario e sostanzialmente di appoggio alle forze “riformiste”. Ma, a parte l’autodefinirsi tali (che ovviamente non basta), che cosa contraddistingue i partiti di sinistra, seppur moderata, dalla destra nei paesi a capitalismo democratico? Probabilmente l’elenco non è brevissimo e forse è anche opinabile. Pacifismo e ambientalismo certamente sono parte della cultura di sinistra, ma non è escluso che ci possa essere una destra pacifista (o quantomeno “non interventista”) e ambientalista; altrettanto può valere per l’accoglienza degli immigrati, per la tolleranza nei confronti di altre culture e delle diversità in generale, etc. Uno degli elementi caratterizzanti della sinistra è, a mio avviso, l’aver creato, o esteso e rafforzato, lo stato sociale, il cosiddetto welfare, o avere ciò nel proprio programma.
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Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità
Saša Hrnjez intervista Costanzo Preve
Il testo di questa intervista è stato pubblicato in lingua serba nella rivista Stvar/Thing – Journal for Theoretical Practices (No.3/2012, pp. 286-309) a cura del circolo filosofico Gerusija di Novi Sad (http://gerusija.com/stvar/ e http://www.facebook.com/casopisstvar) e in lingua italiana su Koinè, Periodico culturale – Anno XIX – NN° 1-4 Gennaio-Dicembre 2012, Petite Plaisance Editrice.
La fine della filosofia, Heidegger, paradigma dello spazio e temporalità storica
SAŠA HRNJEZ: Comincerei da un tema abbastanza trattato nel corso del Novecento. È il tema della “fine della filosofia”. Basta pensare a Heidegger, ma non solo. Mi interessa come ti rapporti con questo problema. Ed inoltre pongo la questione della autocontraddizione dell’annuncio filosofico della fine della filosofia, in quanto questa stessa affermazione rimane ancora nell’orizzonte della filosofia. É la questione che lateralmente apre un altro problema: il problema dell’autoriflessione della filosofia stessa.
COSTANZO PREVE: In primo luogo io penso che Heidegger non possa essere ridotto all’annunciatore della fine della filosofia. Più esattamente lui è un annunciatore della fine della metafisica che egli ritiene risolta integralmente nella tecnica planetaria, perché il termine tedesco Gestell vuol dire dispositivo anonimo ed impersonale.
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L'essenziale sull'essenziale
Gilles Dauvé & Karl Nesic
Nell'autunno del 2009 uno degli attuali partecipanti a «Il Lato Cattivo» inviò un questionario a Gilles Dauvé e Karl Nesic, redattori della rivista «Troploin»; le relative risposte andarono a costituire la Lettre de Troploin n. 10 (novembre 2009). Ne pubblichiamo qui la traduzione italiana, che può essere letta sia come un testo autonomo, sia come un complemento al più lungo La Ligne Générale (Lettre de Troploin, n. 8, aprile 2007), anch'esso frutto delle risposte a un questionario che Dauvé e Nesic avevano ricevuto dalla rivista tedesca «Revolution Times». [ndr]
[1] Ha ancora senso, nella nostra epoca, credere ragionevolmente non diciamo alla necessità, ma alla possibilità di una rivoluzione sociale, e agire di conseguenza? Quali sono le condizioni di possibilità di una tale rivoluzione?
Oltre un secolo e mezzo dopo la pubblicazione del Manifesto del partito comunista, la rivoluzione si fa ancora attendere. La questione che sollevate è quindi non solo legittima, ma necessaria. Tutto dipende dal modo in cui la si pone... o la si aggira.
Alcuni dei nostri compagni hanno creduto nella rivoluzione, cercato di contribuire alla sua venuta, e poi smesso di credervi allorché non l'hanno veduta arrivare. Evidentemente, per loro, la rivoluzione aveva consistenza reale o possibilità di realizzarsi, soltanto nella misura in cui fosse sopraggiunta nel corso della loro vita, o diciamo piuttosto della loro giovinezza.
Altri conservano una prospettiva rivoluzionaria soltanto mantenendosi “sotto pressione”, come se la combinazione di un capitalismo sempre più insostenibile e di lotte sempre più profonde, conducesse inevitabilmente al sovvertimento dell'esistente.
Non possiamo nulla per i delusi, gli stanchi, gli impazienti e gli irritati dalla storia...
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Finanza e capitalismo. Che cosa è cambiato
di Claudio Gnesutta
Gli intrecci della finanza con la produzione, il potere economico e il consenso sociale sono essenziali per capire la crisi di oggi. Il peso che ha ora la finanza è diventato insostenibile per l’economia e la società. O si ridimensiona la finanza, o si riduce lo spazio per la democrazia e i diritti sociali
La crisi, manifestatasi inizialmente sui mercati finanziari e immobiliare statunitense, si è rapidamente propagata a livello mondiale assumendo via via contorni diversi, tanto da presentarsi, specie in Europa, prima come caduta della produzione e dell’occupazione e successivamente, anche per effetto della recessione, come una crisi della finanza pubblica, il cui superamento non è stato certamente favorito dalle politiche di austerità adottate per contrastarla.
Il fatto che finanza e produzione, finanza privata e finanza pubblica risultino strettamente intrecciate rende manifesto il carattere sistemico di questi rapporti e induce a una loro analisi più attenta per comprendere i processi in atto e qualificare la critica all’attuale modo di produzione, qualificato correntemente come capitalismo finanziario.
È di particolare stimolo a questo riguardo l’analisi del volume di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini Il film della crisi. La mutazione del capitalismo (Einaudi, 2012, www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Come-la-finanza-ha-rotto-il-compromesso-tra-capitalismo-e-democrazia-15842) che inserisce l’attuale fase all’interno di un processo di lungo periodo, così lungo da comprendere almeno tre cicli storici e l’intero ventesimo secolo, dello sviluppo del capitalismo mondiale.
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Dopo la fine della rappresentanza
Disobbedienza e processi di soggettivazione
Maurizio Lazzarato
Le forme collettive di mobilitazione politica contemporanea, che si tratti di sommosse urbane o di lotte sindacali, che siano pacifiche o violente, sono attraversate da una stessa problematica: il rifiuto della rappresentanza, la sperimentazione e l’invenzione di forme di organizzazione ed espressione in rottura con la tradizione politica moderna fondata sulla delega del potere a dei rappresentanti del popolo o delle classi. Il rifiuto di delegare la rappresentanza di ciò che è divisibile ai partiti e ai sindacati e la rappresentanza di ciò che è comune allo Stato, trova la sua origine in una nuova concezione dell’azione politica derivata dalla «rivoluzione» del ’68.
Le mobilitazioni che sorgono un po’ ovunque nel mondo affermano che all’interno della democrazia rappresentativa «non ci sono alternative» possibili.
Il rifiuto, la disobbedienza che abitano queste lotte cercano e sperimentano delle nuove azioni politiche all’interno della crisi. Ma di quale crisi si tratta e quali tipi di organizzazione politica si esprimono nella crisi?
In un seminario del 1984, Félix Guattari afferma che la crisi che l’Occidente attraversa dall’inizio degli anni Settanta, prima di essere una crisi economica, prima di essere una crisi politica, è una crisi di produzione di soggettività. Come intendere quest’affermazione?
Se il capitalismo «propone dei modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone delle nuove serie» allora, la posta in gioco più grande di una politica capitalista risiede nell’articolazione di flussi economici, tecnologici e sociali con la produzione di soggettività, in modo tale che l’economia politica non sia altro che «economia soggettiva».
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Cambiare i partiti non si può
di Pierluigi Sullo
Non avrei gran che da aggiungere all’articolo di Guido Viale riprodotto in questo sito. Mi pare che tracci con nettezza la differenza che c’è, o dovrebbe esserci, tra le intenzioni con le quali l’appello “Cambiare si può” è stato varato, un mese fa o giù di lì, e la “lista arancione” che il sindaco di Napoli e quello di Palermo, De Magistris e Orlando, con quel che resta dell’Italia dei Valori, probabilmente il Pdci di Diliberto e, come annunciano tutti i media, il magistrato Ingroia nella parte del “frontman”, si apprestano a lanciare in una manifestazione convocata a Roma il 21 di dicembre. Giusto un giorno prima dell’assemblea nazionale fissata da “Cambiare si può” fin dal suo incontro, a Roma, il primo dicembre.
Il tono dell’articolo di Viale dice che qualcosa non sta funzionando, nonostante le quasi 10 mila firme all’appello per una “lista di cittadinanza”. E questo qualcosa è il fatto che una iniziativa nata per cambiare i modi di presentare alle elezioni programmi e candidati, e i contenuti da promuovere, si scontra con lo stile di partiti e personaggi politici. Da una parte si vorrebbero escludere dalle candidature i “dinosauri” e stabilire nettamente che la partecipazione alle elezioni serve a ostacolare l’”agenda Monti”, cui il centrosinistra invece offre fedeltà; dall’altra si vogliono, come sempre, confermare o rinnovare i posti di deputato o senatore, e soprattutto proporre al Pd una qualche forma di alleanza.
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Il progetto europeo pericolante
di Riccardo Achilli
L'economia tedesca su un crinale pericoloso I recenti dati congiunturali sull'economia tedesca sono univoci, e preoccupanti. La crescita del PIL, che è stata, in volume, pari al 3,1% nel 2011, nel 2012 dovrebbe attestarsi su un modesto 0,9%, per poi scendere ulteriormente allo 0,6% nel 2013. I segnali di rallentamento del ciclo sono peraltro colti dagli indicatori anticipatori. L'indice IFO è in caduta libera: il sub-indice sul clima di business scende dal valore di 108,3 di gennaio 2012 a 101,4 a novembre, e certo il lieve incremento congiunturale sul mese precedente (+1,4 punti) non basta a tratteggiare una aspettativa di recupero; il sub-indice sulle aspettative di business scende, sul medesimo periodo, da 100,9 a 95,2, ed anche qui il lieve recupero fra ottobre e novembre non è tale da configurare alcuna prospettiva di ripresa economica in futuro. Ciò anche perché il saldo fra risposte positive e negative circa il clima degli affari, anche a novembre 2012, permane negativo per tutti i settori produttivi (seppur con un recupero rispetto ad ottobre), ad eccezione del solo commercio all'ingrosso. Il superindice Ocse, un indice composito con elevata capacità di anticipare l'andamento futuro del ciclo, nell'ultima release aggiornata ad ottobre 2012, anticipa un peggioramento per il ciclo economico tedesco per i prossimi mesi, con un outlook di “crescita debole”.
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Il capitale fittizio e la riproduzione contratta oggi
Cina e rivoluzione permanente
di Loren Goldner
«Il capitale è la contraddizione in movimento, in cui esso spinge a ridurre il tempo di lavoro al minimo, mentre, dall’ altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte di ricchezza.» Marx, Grundrisse1
Questa citazione dai Grundrisse, che mette a fuoco la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, descrive succintamente la situazione odierna su scala mondiale: ancora una volta, come nel 1914, il capitale richiede, per poter sopravvivere come capitale, una vasta svalorizzazione di tutti i valori esistenti, nonostante la grande distruzione di esseri umani e mezzi di produzione che ciò comporta.
In realtà, questa è stata la situazione da circa il 1970/73. Il capitale globale ha rinviato il giorno della re-sa dei conti, una deflazione vera e propria, con una vasta crescita piramidale di debito – capitale fittizio – e con una serie di tendenze «compensative», che hanno sostenuto questo debito contraendo la riproduzione sociale.
Prima di indagare le specifiche dei quattro decenni dal 1970/73, fatemi innanzitutto delineare i mutamenti che si sono verificati in termini generali.
Il sistema dei tassi di cambio fissi ancorati al dollaro USA di Bretton Woods del secondo dopoguerra era appena crollato.
A quel tempo, l’accumulazione mondiale era chiaramente divisa nelle tre zone dei 1) paesi capitalisti avanzati (OCSE) (USA-Europa-Giappone), 2) il blocco «socialista» (Unione Sovietica e Comecon) e 3) il «terzo mondo» dei paesi «non allineati», con la Cina come un mondo a parte.
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L’io e la società, senza la politica
Rossana Rossanda
È diventato di uso comune dire che la politica è stata divorata dall’economia, intendendo con questo che essa non ha più il potere di decidere su temi economici, come i conti pubblici, i movimenti dei capitali, l’ingigantimento della finanza, le direzioni di investimento. Questo è in gran parte vero, a condizione che sia chiaro che essa non è stata spossessata dei precedenti poteri da una guerra esterna o da colpo di stato interno, se ne è spossessata per sua scelta, attraverso regolari leggi dei suoi parlamenti, in genere sollecitate dai suoi esecutivi. Il primato dell’economico è stato insomma una scelta del politico, come erano stati gli accordi di Bretton Woods e il “compromesso capitale-lavoro” dopo la seconda guerra mondiale in Europa. Va ricordato perché l’antipolitica di destra e di sinistra, nella sua alterna polemica con i partiti e il notabilato che ne tiene le redini, ama dimenticarlo. Gran parte delle nuove sigle antipartito che si presentano sulla scena, non solo italiana, si considerano vergini dall’influenza del vecchio notabilato nato nel seno dei partiti o dei sindacati, dando luogo alla corruttela o, quanto meno, ai personalismi oggi imperanti.
La movenza di Alba “Facciamo esprimere tutti prima di decidere qualsiasi cosa” e, non troppo differentemente, di tutti i “Cambiare si può” e della diffidenza di molti movimenti verso qualsiasi forma di organizzazione dà per scontato che il vizio principale dei partiti o dei sindacati sia costituito non dai loro programmi ma dai loro vertici decisionali, anche quando eletti nella forma più democratica.
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Ricordare/Trasformare/Uscire da qui
di Elisabetta Teghil
L’esperienza passata condiziona quella futura, per questo è necessario conquistare una memoria autonoma e collettiva del movimento femminista.
La memoria è l’occasione per produrre nuove possibilità e dare un senso agli eventi presenti e futuri.
Il femminismo è nato dalla prassi consapevole di soggetti che intendevano liberarsi e la liberazione di noi tutte è il programma del passato, del presente e del futuro.
C’è stato un momento magico in cui le donne hanno pensato di potersi riappropriare del proprio corpo, della propria sessualità, della propria vita.
E’ durato un anno? qualche anno? un mese? qualche mese? per ognuna è stato un tempo diverso, ma è bastato per prendere su di sé una consapevolezza che è potenza, che è l’aver assunto la certezza che la liberazione può essere, che non è utopia, mito, sogno o follia, ma autonomia e autodeterminazione.
La conoscenza del nostro corpo, dai primissimi timidi tentativi, si è aperta poi a ventaglio, è stata la scoperta della fisicità, la gestione della salute, della sessualità, dei desideri, della mente fino ad una grande e positiva sensazione di onnipotenza, sensazione di poter finalmente decidere di sé e per sé.
Ma, anche, consapevolezza della costruzione sociale del nostro essere e del corpo, per cui esistevano tante immagini esterne della femminilità e del corpo stesso, quante erano e sono le classi e le frazioni di classe.
Quindi, compenetrazione di conoscenze di sé e di conoscenze del “fuori”.
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Gli articoli più letti degli ultimi tre mesi
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Domenico Moro: La prospettiva di default del debito USA e l'imperialismo valutario
Sergio Fontegher Bologna: L’assedio alle scuole, ai nostri cervelli
Giorgio Lonardi: Il Mainstream e l’omeopatia dell’orrore
Il Pungolo Rosso: Una notevole dichiarazione delle Brigate Al-Qassam
comidad: Sono gli israeliani a spiegarci come manipolano Trump
Alessandro Volpi: Cosa non torna nella narrazione sulla forza dell’economia statunitense
Leo Essen: Provaci ancora, Stalin!
Alessio Mannino: Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war
Sonia Savioli: Cos’è rimasto di umano?
L'eterno "Drang nach Osten" europeo
Gianni Giovannelli: La NATO in guerra
BankTrack - PAX - Profundo: Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele
Alessandro Volpi: Come i dazi di Trump mettono a rischio l’Unione europea
Marco Savelli: Padroni del mondo e servitù volontaria
Fulvio Grimaldi: Siria, gli avvoltoi si scannano sui bocconi
Mario Colonna: Il popolo ucraino batte un colpo. Migliaia in piazza contro Zelensky
Enrico Tomaselli: Sulla situazione in Medio Oriente
Gianandrea Gaiani: Il Piano Marshall si fa a guerra finita
Medea Benjamin: Fermiamo il distopico piano “migliorato” di Israele per i campi di concentramento
Gioacchino Toni: Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
Fulvio Grimaldi: Ebrei, sionismo, Israele, antisemitismo… Caro Travaglio
Elena Basile: Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
Emiliano Brancaccio: Il neo imperialismo dell’Unione creditrice
Gli articoli più letti dell'ultimo anno
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Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
Riccardo Paccosi: La sconfitta dell'Occidente di Emmanuel Todd
Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
Yanis Varofakis: Il piano economico generale di Donald Trump
Andrea Zhok: "Io non so come fate a dormire..."
Fabrizio Marchi: Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
Massimiliano Ay: Smascherare i sionisti che iniziano a sventolare le bandiere palestinesi!
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Alessandro Mariani: Quorum referendario: e se….?
Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto