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Il potere di generare crisi

di Guglielmo Forges Davanzati

Il fallimento delle politiche economiche messe in atto dal governo Monti è anche il fallimento delle teorie economiche che le hanno sostenute sul piano “scientifico”, e che possono essere ricondotte a due proposizioni: 1) La riduzione della spesa pubblica accresce i consumi. 2) La riduzione della spesa pubblica accresce gli investimenti privati


Sul piano della politica economica, il bilancio del governo Monti non è particolarmente entusiasmante. Tre dati possono essere sufficienti per attestarlo: circa centomila individui hanno perso lavoro nel corso dell’ultimo mese, come rilevato nell’ultimo Rapporto ISTAT, con un tasso di disoccupazione giovanile (superiore al 30%) che ha raggiunto, in Italia, il suo massimo storico; è notevolmente aumentato il numero di fallimenti di imprese, con oltre cento crisi industriali in atto; il rapporto debito/PIL è aumentato di 6 punti percentuali nel corso dell’ultimo anno. In altri termini, appare sempre più evidente che ciò che viene definita “crisi” è oggi niente altro che l’inevitabile effetto di politiche fiscali restrittive attuate in un contesto di calo della domanda aggregata; politiche che questo Governo, più del precedente, ha perseguito con la massima tenacia.

L’argomento utilizzato dal Governo e dai suoi sostenitori del “cosa poteva accadere se” [non ci fosse stato Monti] è non dimostrato né probabilmente dimostrabile e, sebbene al prof. Monti vada riconosciuta un’autorevolezza incomparabilmente maggiore di quella del suo predecessore, non è dato riscontrare nessuna correlazione significativa fra “credibilità” di un Governo ed esposizione del Paese al rischio di fallimento. L’argomento del “ce lo chiede l’Europa” [di mettere in atto politiche di austerità] vale, al più, per delegittimare l’Unione Europea, non certo per accreditare la presunta necessità di ridurre drasticamente la spesa pubblica e di aumentare ancor più drasticamente l’imposizione fiscale.

Il fallimento delle politiche economiche messe in atto da questo Governo è anche il fallimento delle teorie economiche che le hanno sostenute sul piano “scientifico”, e che possono schematicamente essere ricondotte a due proposizioni.


1) La riduzione della spesa pubblica accresce i consumi. La riduzione della spesa pubblica pone i consumatori nella condizione di non essere costretti a risparmiare per far fronte al pagamento delle imposte. La ratio di questa proposizione risiede nella tesi in base alla quale l’indebitamento pubblico – derivante da aumenti della spesa pubblica – costituisce un trasferimento dell’onere fiscale sulle generazioni future. In quest’ottica, nel caso in cui il Governo decida di accrescere oggi la spesa pubblica, e che questo sia un segnale pubblicamente osservabile, le famiglie sanno che dovranno risparmiare oggi per pagare più tasse domani. Questa tesi – che rinvia alla c.d. equivalenza ricardiana - poggia su due ipotesi essenziali. In primo luogo, occorre assumere che gli individui abbiano perfetta capacità previsionale e che, dunque, sappiano quando la pressione fiscale aumenterà e di quanto aumenterà. Occorre poi assumere che gli individui siano altruisti nei confronti delle generazioni future, così che – conoscendo la tempistica e il futuro aumento della tassazione – trasmettano ai propri discendenti una quantità di risorse monetarie tale da consentire a questi ultimi di pagare le tasse. Posto in termini diversi e più facilmente comunicabili, si ritiene che un aumento dei nostri redditi oggi – nel caso in cui ciò derivi da un aumento dell’indebitamento pubblico – comporta impoverire i nostri figli.

Questa tesi è stata oggetto delle seguenti obiezioni. In primo luogo, si può rilevare che a maggior reddito disponibile oggi corrispondono maggiori lasciti ereditari e, dunque, maggior reddito disponibile a beneficio delle generazioni future. A ciò si può aggiungere che la decisione di aumentare l’imposizione fiscale è una decisione propriamente politica, così che non vi è nessuna ragione stringente che leghi l’aumento del debito pubblico oggi all’aumento della tassazione domani. In secondo luogo, come messo in evidenza, in particolare, in ambito keynesiano, le scelte individuali sono effettuate in condizioni di “incertezza radicale”, così che le aspettative non possono realisticamente essere assunte razionali, bensì dipendenti da ondate di ottimismo/pessimismo, da effetti di imitazione, consuetudini, abitudini.

2) La riduzione della spesa pubblica accresce gli investimenti privati. Ciò si verifica a ragione del fatto che la spesa pubblica ‘spiazza’ la spesa privata, sia perché sottrae quote di mercato agli operatori privati (il che accade soprattutto se lo Stato interviene mediante la produzione diretta di beni e servizi), sia perché l’aumento della spesa pubblica accresce i tassi di interesse e, per conseguenza, riduce gli investimenti. E poiché si assume che l’operatore privato è più efficiente dell’operatore pubblico, ne deriva che un’economia con la minima “interferenza” pubblica sia un’economia nella quale è massima l’efficienza produttiva (e, date le risorse disponibili, è massimo il tasso di crescita).

Si tratta, anche in questo caso, di una tesi molto controversa, suscettibile di una duplice critica. In primo luogo, le decisioni di investimento da parte delle imprese private non dipendono esclusivamente dai tassi di interesse, essendo profondamente influenzate dagli animal spirits degli imprenditori. In secondo luogo, si può dimostrare che fra spesa pubblica e spesa privata esistono semmai nessi di complementarietà, dal momento che la spesa pubblica, accrescendo i mercati di sbocco, accresce i profitti attesi e, di conseguenza, accresce gli investimenti. Questo è particolarmente significativo nel caso italiano e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno, dal momento che la struttura produttiva italiana, con poche eccezioni, è costituita da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e scarsamente internazionalizzate. In questo contesto, l’attuazione di politiche di austerità riduce i mercati di sbocco, potendo determinare – come, di fatto, si è determinato – riduzioni dei profitti e fallimenti.

La tesi governativa fa riferimento al fatto che, nelle condizioni istituzionali date, non è possibile fare diversamente, dal momento che la priorità dell’agenda di politica economica non può che essere la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL. Il timore consiste nel fatto che – stando a questa impostazione – si ritiene che aumenti della spesa pubblica incentivino attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico. Quelli che vengono definiti attacchi speculativi sono situazioni nelle quali un gran numero di investitori si muove di concerto vendendo titoli del debito pubblico di un Paese. A ciò fa seguito la riduzione del valore di quei titoli e la necessità di collocarli sul mercato con tassi di interesse più alti. In tali condizioni, il singolo Stato si trova nella condizione di dover pagare interessi crescenti per finanziare le proprie spese, fino ad arrivare a un limite oltre il quale occorre dichiarare fallimento, ovvero dichiarare di non essere più in grado di ripagare i debiti contratti. Anche in questo caso, si tratta di un argomento fallace sotto un duplice aspetto.

In primo luogo, l’evidenza empirica mostra inequivocabilmente che le politiche di austerità non riducono, ma semmai aumentano l’indebitamento pubblico, e, se si stabilisce una (presunta) correlazione fra variazioni del rapporto debito pubblico/PIL e attacchi speculativi, questi ultimi potrebbero essere (paradossalmente) generati proprio dalle politiche di austerità. Si può stabilire, sul piano teorico ed empirico, che gli attacchi speculativi sono mossi da fattori che non attengono alle dimensioni del debito pubblico né alle sue variazioni, e si può affermare che una condizione permissiva per l’attivarsi di attacchi speculativi è costituita dall’assenza di una Banca Centrale che svolga il ruolo di prestatore di ultima istanza. Si possono considerare, a riguardo, due casi. Il primo: l’attacco speculativo alla Grecia – nella primavera 2010 – è avvenuto in un contesto nel quale il rapporto debito/PIL in quel Paese superava di soli 2 punti percentuali quello italiano. Il secondo: la crisi del 2001 in Argentina è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto appena il 63% del reddito nazionale. Se, per contro, la Banca Centrale è posta nella condizione di acquistare titoli del debito pubblico, potendo di fatto produrre “moneta” senza vincoli di scarsità, nel momento in cui annuncia di volerlo fare, di fatto erge, per così dire, un “muro” nei confronti degli speculatori, modificandone le aspettative, i quali, per quanta ricchezza monetaria dispongano, non ne dispongono mai in una quantità paragonabile a quella di una Banca Centrale. Il caso giapponese – con un rapporto debito/PIL superiore che oscilla intorno al 230% – è emblematico in tal senso.

Posta la questione in questi termini, e nonostante quanto ripetutamente sottolineato dal prof. Monti, non vi è alcuna ragione per la quale non possiamo vivere “al di sopra delle nostre possibilità”, né vi è alcuna ragione per la quale il Governo dovrebbe reiterare politiche che non hanno altri effetti se non accentuare l’intensità della crisi.

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