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Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia
di Alessandro Scassellati
Dopo decenni in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla famosa frase di Margaret Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul concetto e sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, Roma-Bari 2024) che fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia politica, una disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società, indagando in modo particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia capitalistica.
Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.
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Bambini morti di freddo o divorati dai cani randagi: questa è la “normalità” a Gaza, oggi
di Il Pungolo Rosso
Dal blog di Alain Marshal sul sito “Mediapart” riprendiamo questo pezzo che è costruito con due articoli della CNN: una fonte più insospettabile di questa, implicata com’è in tutta la propaganda di guerra yankee, è impossibile. L’attuale situazione a Gaza è al di là di ogni parola, un orrore al di là di ogni orrore immaginabile – come solo può esserlo una guerra che ha i bambini, i bambini palestinesi come uno dei primissimi bersagli, sparando alla loro testa (come abbiamo documentato), facendoli morire di fame (**), di freddo, di malattie, spezzandogli braccia e gambe, o arrestandoli e facendoli marcire nelle carceri (*).
L’autore collettivo responsabile di questi immondi crimini non è solo lo stato coloniale sionista; sono l’Italia di Meloni-Mattarella & Schlein, l’Unione europea, gli Stati Uniti senza il cui sostegno militare, economico, propagandistico, Israele crollerebbe in pochi giorni.
Rilanciamo con tutte le nostre forze la denuncia di questo genocidio pianificato portato avanti dall’intero campo occidentale, le azioni concrete per spezzare alla fonte i legami che lo alimentano, la solidarietà al popolo palestinese e alla resistenza palestinese. (Red.)
Con le solite contorsioni linguistiche, questi due articoli della CNN toccano la serie di orrori inflitti a Gaza da oltre un anno dall’esercito genocida israeliano, che gode del pieno sostegno militare, diplomatico e mediatico del “civile Occidente”. Dato che non riguardano degli ucraini, ma “solo” una popolazione arabo-musulmana, questi abomini suscitano in noi solo indifferenza, se non addirittura stanchezza. Opponiamoci a questa disumanizzazione!
Quattro bambini muoiono di ipotermia a Gaza mentre la guerra di Israele costringe i palestinesi nelle tendopoli
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Fine della libertà?
Per la libertà di pensiero
di Marino Badiale
1. Una lenta erosione
Assistiamo da molto tempo, nei paesi occidentali, a una lenta erosione del fondamentale principio della libertà di pensiero, intesa naturalmente come libertà di espressione pubblica delle opinioni. Nel 2024 abbiamo assistito, per fare qualche esempio, all’arresto di Pavel Durov, fondatore del “social” Telegram, e a iniziative repressive contro le proteste nei confronti della politica israeliana, iniziative che assumono modalità diverse nei vari paesi ma sembrano avere in comune l’accomunare la critica alle politiche israeliane con l’antisemitismo. Il catalogo dell’intolleranza contemporanea è però, purtroppo, molto più vasto, e comprende per esempio alcuni aspetti di quello “spirito del tempo” che viene genericamente indicato con termini quali “politicamente corretto”, “wokism”, “cancel culture”. Un recente notevole esempio in questo senso è rappresentato dalle contestazioni verso il film “Ultimo tango a Parigi”, che hanno portato alla cancellazione di una proiezione prevista in una sala cinematografica della capitale francese.
In sostanza, l’intolleranza contemporanea è presente in versioni sia “di destra” sia “di sinistra”, e va quindi indagata appunto come una espressione dello “spirito del tempo”.
Per fissare un punto di partenza di questa deriva, almeno per quanto riguarda l’Europa, si può forse indicare la legge francese del 1990, legge Gayssot, che fra le altre cose rendeva reato la negazione dell’esistenza del genocidio subito dagli ebrei ad opera del nazismo. Questa legge è stata poi imitata, in un modo o nell’altro, da molti paesi europei. Sicuramente tale legge non è la prima, in un paese occidentale, a colpire la libertà di opinione: basti pensare, in Italia, alla legge Scelba. La legge Gayssot mi sembra però significativa perché è stata imitata, in forme diverse, in vari paesi europei, e soprattutto perché essa colpisce non tanto una posizione politica sgradita, ma proprio la pura e semplice manifestazione di un’opinione: negare il genocidio ebraico, di per sé, è solo un’opinione relativa a fatti storici e non sottintende nessuna particolare posizione politica, tanto che sono esistite correnti di estrema sinistra (ultraminoritarie anche all’interno dell’estrema sinistra, s’intende) che sostenevano tale opinione.
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Apologia di Lukàcs
di Carlo Formenti
I miei ultimi lavori (1) devono molto alla interpretazione che l’ultimo Lukacs (2) ha dato del pensiero di Marx. Analizzando i concetti fondamentali della ontologia lukacsiana in un ciclo di lezioni che sto tenendo per il Centro Studi Domenico Losurdo (la più recente si può ascoltare all’indirizzo You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=z6q7KhmGK5g ) mi sono reso conto che, in tutte le cose che ho sin qui scritto e detto su di lui, ho fatto solo brevi accenni alla sua biografia. È vero che, ragionando su un pensiero di grande spessore le considerazioni relative all’opera tendono a prevalere su quelle dedicate alla figura dell’autore, tuttavia, nel caso specifico, tale approccio non è del tutto appropriato. Non solo perché la sua vicenda umana ha incrociato eventi storici di enorme portata - la Prima guerra mondiale, le Rivoluzioni russa e ungherese, lo stalinismo, la Seconda guerra mondiale, l’insurrezione ungherese del 56 – e personaggi della statura di Georg Simmel, Max Weber, Thomas Mann, Ernst Bloch, Lenin e Stalin. Ma perché proprio il fatto di aver attraversato – uscendone indenne – queste grandi prove, ha fatto sì che critici e detrattori abbiano potuto attribuirgli una “prudenza” al limite della pavidità, se non di un vero e proprio opportunismo. Il tutto al fine malcelato di sminuire la portata del suo pensiero.
È per questo che ho deciso di rimettere mano a una sua lunga intervista autobiografica (Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo) pubblicata in edizione italiana dagli Editori Riuniti nel 1983. Nelle pagine che seguono ne richiamerò alcuni passaggi perché ritengo che, da questa “confessione”, emerga un profilo di straordinaria coerenza personale, politica, ideale e morale, anche – se non soprattutto – nelle discontinuità e nei ripensamenti autocritici: la sua storia è quella di un intellettuale e militante comunista che, pur consapevole delle contraddizioni e delle storture emerse nel corso del grande esperimento sociale inaugurato nell’Ottobre 1917, non ha mai voluto “salvarsi l’anima” (e intraprendere una ricca carriera in qualche università occidentale) indossando i panni del “dissidente”, perché, dichiara, è sempre rimasto convinto che “sia meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”.
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2024: non ci sono vincitori
di Roberto Iannuzzi
Un’America in crisi all’interno tenta una proiezione “muscolare” all’esterno. Infrantasi contro il “muro” russo in Ucraina, affonda nel ventre molle mediorientale trainata dall’ariete israeliano
Sebbene i bilanci di fine anno si risolvano spesso in stucchevoli elenchi di eventi e in previsioni il più delle volte erronee, al termine di un’annata così tragica e tumultuosa come quella che si sta chiudendo sarà forse utile tracciare un bilancio per tentare di comprendere cosa ci riserva il futuro.
Il 2024 era iniziato mentre infuriava la violentissima operazione militare di Israele a Gaza, e i primi omicidi mirati israeliani in Siria e Libano, così come gli attacchi degli Houthi (gruppo yemenita altrimenti noto come Ansar Allah) al traffico commerciale nel Mar Rosso, lasciavano presagire un possibile allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale.
Nel frattempo, dopo la fallita controffensiva delle forze armate ucraine nell’estate del 2023, il conflitto nel paese est-europeo ha cominciato a volgere al peggio per Kiev. L’Ucraina mancava di uomini e mezzi. L’Occidente stava perdendo la sfida della produzione bellica con la Russia.
Anche a causa dei contraccolpi della guerra ucraina, nel 2024 l’Europa ha iniziato a sprofondare in una crisi economica e politica in gran parte frutto delle disastrose scelte degli anni passati: le prolungate politiche di austerità, la ridefinizione delle catene di fornitura avviata con la crisi del Covid-19, la decisione europea di rinunciare all’energia a basso costo fornita dalla Russia.
I due paesi leader dell’UE, Germania e Francia, hanno cominciato ad avvitarsi in gravi crisi interne che hanno intaccato progressivamente la loro stabilità politica.
Nel vano tentativo di rovesciare le sorti del conflitto in Ucraina, i paesi NATO hanno adottato tattiche sempre più provocatorie (sebbene militarmente inconcludenti), incoraggiando Kiev a colpire obiettivi in territorio russo e violando progressivamente le “linee rosse” di Mosca.
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“Contro la sinistra liberale" di Sahra Wagenknecht. Quali insegnamenti per l'Italia?
di Domenico Moro
“Contro la sinistra liberale” di Sahra Wagenknecht è senza dubbio uno dei più importanti libri di critica delle società del capitalismo cosiddetto avanzato, specialmente di quelle dell’Europa occidentale, usciti negli ultimi anni. Non è un caso se in Germania il libro, il cui titolo originale è Die Selbstgerechten, ossia i Presuntuosi, è stato in cima alle classifiche di vendita per molto tempo.
Il testo è scritto, infatti, in modo molto semplice, in grado di essere recepito da parte di un vasto pubblico anche se i temi trattati sono complessi. L’interesse principale del libro consiste nel fatto che l’autrice svolge una critica alla sinistra oggi dominante, sviluppando una analisi delle società a capitalismo avanzato, della ideologia di sinistra e soprattutto della composizione sociale delle classi sociali derivata dalle modificazioni dovute alla modernizzazione capitalistica degli ultimi decenni.
A incuriosire alla lettura di questo libro è, però, anche il fatto che l’autrice non è una semplice intellettuale, bensì una politica molto nota in Germania, che ha raccolto risultati positivi con la sua forza politica di recente costituzione. BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und Gerechtigkeit, in italiano Alleanza Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia) è una scissione dal partito Die Linke ed è stata fondata il 26 settembre 2023 come associazione e l’8 gennaio 2024 come partito. Nel giro di soli sei mesi BSW ha dimostrato inaspettatamente di essere un partito capace di raggiungere risultati lusinghieri. Alle elezioni europee di giugno 2024 è risultato essere il quinto partito con il 6,2% dei voti, mentre Die Linke scivolava al 2,7%. Le roccaforti di BSW sono nella ex Germania est, la zona più povera del Paese, dove alle europee era il terzo partito con il 13,8%. Il risultato positivo nella ex Germania est si è ripetuto alle regionali tenutesi a settembre in Turingia (15,8%) e in Sassonia (11,8%), dove BSW si è confermata la terza forza politica.
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Palantir comincia la guerra civile nella difesa americana
di nlp
Nei racconti di Tolkien i Palantir sono le pietre veggenti e vedenti presenti nel Signore degli Anelli il cui nome significa “coloro che vedono lontano”. In linea con il testo “Magical Capitalism”, di Moeran e De Waal Malefyt, che vede il magico delle narrazioni come un potente strumento di valorizzazione del brand delle piattaforme, a inizio anni 2000 i Palantir hanno dato il nome all’omonima azienda. Palantir Technologies si occupa di analisi dei big data e di piattaforme di gestione dell’intelligenza artificiale. Palantir opera su diverse piattaforme di gestione della AI di cui qui ne segnaliamo tre per capire il tipo di azienda di cui stiamo parlando: Gotham, Foundry e MetaConstellation.
Gotham è utilizzata principalmente da agenzie governative, forze dell’ordine e intelligence ed è progettata per integrare, gestire, proteggere e analizzare enormi quantità di dati eterogenei provenienti da diverse fonti (come database, fogli di calcolo, e-mail, immagini, dati geospaziali). Permette agli utenti di identificare schemi, collegamenti nascosti e trend all’interno dei dati, facilitando indagini complesse e l’analisi di intelligence i suoi casi tipici di uso sono contrasto alla Jihad, prevenzione di frodi finanziarie, cybersecurity, gestione di emergenze e catastrofi naturali, intelligence militare.
Foundry è utilizzata da imprese commerciali e organizzazioni di vario tipo, in diversi settori (finanza, sanità, produzione, logistica, ecc.) . Si tratta di una piattaforma più versatile, progettata per aiutare le organizzazioni a integrare dati da diverse fonti, trasformarli, analizzarli e costruire applicazioni operative basate su di essi. Permette di creare un “digital twin” dell’organizzazione, facilitando l’ottimizzazione dei processi, la presa di decisioni basate sui dati e l’innovazione. Ha come uso principale la ottimizzazione della supply chain, gestione del rischio, manutenzione predittiva, ricerca e sviluppo, customer relationship management, compliance. In breve, si tratta di una potente piattaforma per la gestione e l’analisi di dati aziendali, per migliorare l’efficienza e la presa di decisioni.
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György Lukács, un’eresia ortodossa / 3 – Dal “popolo” al popolo. Il proletariato come classe dirigente
di Emilio Quadrelli
Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo industriale e agrario del capitalismo all’interno del sistema feudale russo, dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di un movimento borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla nascita delle prime forme di organizzazione operaia.
Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.
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Venezuela, il calendario dei popoli e l'agenda di chi li opprime
di Geraldina Colotti
C’è un calendario dei popoli e uno di chi li opprime, compilato in base agli interessi inconciliabili che muovono la lotta di classe, e confusi solo nei paesi in chi la borghesia ha vinto la partita nel secolo scorso, riuscendo a imporre la “verità” dei vincitori: “Per ora”, come disse il comandante Chávez consegnando con quella frase una promessa. Che quella promessa si sia compiuta con la rivoluzione bolivariana, e che questa continui a incamminarsi verso una transizione al socialismo vantando un anno in più di resistenza, è una forte spina nel fianco di un capitalismo in crisi sistemica, che sta portando il mondo alla catastrofe.
Per imporre la strategia del “caos controllato” anche in America latina – un continente ancora esente da un conflitto armato e che, il 28 e 29 gennaio del 2014, un vertice della Celac ha dichiarato “zona di pace” – l’imperialismo a guida Nato deve strapparsi a ogni costo quella spina dal fianco: sommergendola sotto un manto di menzogne, per preparare un attacco in più grande stile dagli esiti incerti.
Se, infatti, il primo governo di Donald Trump ha inasprito e moltiplicato il sistema di misure coercitive unilaterali illegali messo in moto con il decreto Obama (che definì il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti”), il secondo, che inizierà formalmente il 20 gennaio, non si annuncia di segno diverso. Dopo aver vinto le elezioni, il 5 novembre, il tycoon ha infatti annunciato che a far parte del suo staff saranno alcuni dei rappresentanti più incarogniti nel perseguire i governi socialisti dell'America latina, come Marco Rubio ed Elon Musk. E come il cubano-statunitense, Mauricio Claver-Carone, ex presidente del Bid e da sempre all'attacco di Cuba e del Venezuela, ora inviato speciale del Dipartimento di Stato per l'America latina.
A Rubio, senatore della Florida, noto per le posizioni da falco contro la Cina, contro Cuba (da cui è scappata la sua famiglia), contro il Venezuela e il Nicaragua, toccherà il ruolo di Segretario di Stato. Per aver mobilitato a favore di Trump il voto dei “latinos”, sarà il primo capo della diplomazia di origine ispanica.
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L’urgenza di una politica anti-egemonica e proattiva
di Enrico Tomaselli
Il 2024 sembra chiudersi in una condizione generalmente sfavorevole alle forze ad ai paesi che si oppongono all’egemonismo occidentale, che a sua volta sembra preludere a un 2025 all’insegna di una rinnovata offensiva globale dell’egemone. Il tracollo della Siria, l’ostentata sicumera di Trump e di Netanyahu, la difficile situazione in Iran, il moltiplicarsi di situazioni in cui l’esercizio della democrazia viene sempre più ridotto a mero aut-aut (Georgia, Romania, Moldavia)… tutto insomma sembra indurre al pessimismo, almeno per chi auspica un passaggio verso un nuovo ordine mondiale basato sul multipolarismo.
Ma anche se molti elementi sono effettivamente negativi, si tratta però sostanzialmente di una distorsione percettiva, in larga misura indotta dalla propaganda occidentale – in cui del resto siamo pienamente immersi. Volendo quindi tracciare una sorta di bilancio, e soprattutto puntare lo sguardo sull’anno che verrà, è bene farlo a partire dai dati di fatto, piuttosto che dalle sensazioni.
Il 2025 vedrà con ogni probabilità la fine del conflitto cinetico in Ucraina – e questo, già di per sé, è un fatto positivo – e ciò rappresenterà un passaggio cardine, destinato a pesare pesantemente sugli anni successivi, perché quale che sia il modo in cui si concluderà non potrà mutare la sostanza di tale evento, ovvero la sconfitta politico-militare della NATO, e quindi dell’egemonismo occidentale. La portata di tale sconfitta, che è inevitabile, ancora non appare pienamente – e di sicuro saranno fatti sforzi enormi per occultarla – ma non solo una volta avvenuta risulterà evidente, i suoi effetti si propagheranno come onde sismiche, scuotendo l’intera architettura politica occidentale.
Nonostante quanto si possa pensare, difficilmente il conflitto si potrà chiudere in virtù dell’azione messa in campo dalla nuova amministrazione americana, e ciò per due fondamentali ragioni: innanzitutto, l’assoluta incapacità (e mancanza di volontà), da parte statunitense, di riconoscere e comprendere le ragioni e gli interessi della Russia, e poi (cosa forse ancor più significativa) perché a muovere il blocco di potere coagulato intorno alla figura di Trump è una rinnovata fiducia nell’egemonia degli Stati Uniti e nel loro diritto-dovere di esercitarla globalmente.
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La sinistra occidentale e la nuova negazione dell’imperialismo
di John Bellamy Foster
John Bellamy Foster torna alle pietre miliari del pensiero marxista antimperialista – presenti nelle opere di V. I. Lenin, Samir Amin e altri – per affrontare la crescente negazione dell’imperialismo da parte della sinistra. Questa visione del mondo e le sue conseguenze, scrive Foster, ha implicazioni preoccupanti non solo per i lavoratori supersfruttati delle periferie, ma per tutti i lavoratori del mondo e per il carattere internazionalista del marxismo contemporaneo
È dall’inizio della Prima Guerra mondiale – durante la quale quasi tutti i partiti socialdemocratici europei parteciparono alla guerra interimperialista a fianco dei rispettivi Stati nazionali – e dalla dissoluzione della Seconda Internazionale, che la divisione sulla questione dell’imperialismo non assumeva, a sinistra, dimensioni così serie, manifestandosi come un segno della profondità della crisi strutturale del capitale nel nostro tempo.[1] Sebbene le sezioni più eurocentriche del marxismo occidentale abbiano cercato a lungo, in vari modi, di attenuare la teoria dell’imperialismo, l’opera classica di V. I. Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo (scritta nel gennaio-giugno 1916), ha mantenuto per oltre un secolo la sua posizione centrale all’interno di tutte le discussioni sull’imperialismo, non solo per la sua accuratezza nel rendere conto della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, ma anche per la sua utilità nello spiegare l’ordine imperiale del secondo dopoguerra.[2] Tuttavia, lungi dall’essere isolata, l’analisi complessiva di Lenin è stata integrata e aggiornata in vari momenti dalla teoria della dipendenza, dalla teoria dello scambio ineguale, dalla teoria dei sistemi-mondo e dall’analisi della catena del valore globale, tenendo conto dei nuovi sviluppi storici. In tutto questo, la teoria marxista dell’imperialismo ha mantenuto un’unità di base che ha ispirato le lotte rivoluzionarie globali.
Oggi, tuttavia, questa teoria marxista dell’imperialismo viene comunemente rifiutata in gran parte, se non nella sua interezza, da sedicenti socialisti occidentali con baricentro eurocentrico. Di conseguenza, il divario tra la visione dell’imperialismo della sinistra occidentale e quella dei movimenti rivoluzionari del Sud globale è più ampio che in qualsiasi altro momento del secolo scorso. Le basi storiche di questa frattura risiedono nel declino dell’egemonia statunitense e nel relativo indebolimento dell’intero ordine imperialista mondiale, incentrato sulla triade Stati Uniti, Europa e Giappone, di fronte all’ascesa economica delle ex colonie e semicolonie del Sud globale. Il tramonto dell’egemonia statunitense, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, è stato accompagnato dal tentativo degli Stati Uniti/NATO, di creare un ordine mondiale unipolare dominato da Washington.
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Crisi dell’auto: un problema europeo
di Alfonso Gianni
Le difficoltà di Stellantis si iscrivono in un quadro europeo dove le industrie automobilistiche perdono terreno commerciale a favore della Cina e rimangono indietro nello sviluppo tecnologico anche rispetto agli USA. È indispensabile maggiore lungimiranza circa i temi ambientali e il rapporto col Sud globale
Chi si aspettava dall’incontro del 17 dicembre fra Stellantis e il Governo una vera svolta, la può trovare solo nei titoli di qualche giornale compiacente. Si può certamente dire che l’occasione sia servita per togliere qualche ruggine accumulatasi nelle relazioni tra il Ministero del Made in Italy (una denominazione quanto mai insincera) e i manager dell’industria automobilistica, approfittando anche della dipartita di Tavares, ma nulla più di questo. D’altro canto le tradizioni non si smentiscono. Gianni Agnelli, parlando del gruppo Fiat, diceva “Noi siamo governativi per definizione”1. La Fiat non c’è più, ma quello che resta si aggrappa a una postura che in qualche modo vuole riattivare. Non stupisce perciò l’entusiasmo del ministro Adolfo Urso, che si è permesso persino di nascondere sotto il tappeto il definanziamento di 4,6 miliardi dal Fondo automotive operato dalla manovra economica e di sbandierare l’inserimento nella medesima, tramite emendamento alla Camera, di soli 400 milioni come un atto di generosa riparazione. Urso ha parlato anche di 1,6 miliardi di euro disponibili per la filiera auto. Ma a tale cifra si arriva sommando diverse voci, che riguardano una pluralità di settori, quindi non tutte facenti riferimento all’automotive, fra cui, oltre ai già citati milioni di euro tra nuovi e residui del Fondo specifico, vi sarebbero quelli per i contratti di sviluppo (500 milioni) già esistenti, perché stanziati dal PNRR e destinati a più filiere strategiche, di cui l’auto è solo una di queste. Sommando queste cifre più altre frattaglie, il Governo promette di giungere alla poco mirabile quota di 1,6 miliardi nel triennio, subito giudicata del tutto insufficiente da Anfia (l’Associazione nazionale della filiera industria automobilistica).
Tutto ciò in cambio di che? Il nuovo numero uno di Stellantis in Europa, Jean Philippe Imparato, ha chiarito che il target di un milione di veicoli prodotti in Italia, vagheggiato solo un anno e mezzo fa, resta un sogno – per usare un eufemismo – dal momento che il volume del prodotto si è ridotto rispetto al 2023 d quasi il 30% e che si prevede che tra veicoli industriali leggeri e vetture auto il bilancio del 2024 raggiungerà a stento le 500.000 unità.
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Quando l’unica giustizia è la vendetta
di Eros Barone
Le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto ecc., sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge.
K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista.
1. “Negare, ritardare, difendere"
Il 4 dicembre scorso, il cinquantenne Brian Thompson, amministratore delegato della compagnia di assicurazioni UnitedHealthcare, è stato ucciso a colpi di pistola fuori dall’hotel Hilton Midtown di New York, dove alloggiava per partecipare alla riunione annuale degli investitori. L'uomo, che già in passato aveva ricevuto minacce di morte, è stato ucciso da un’arma da fuoco e sui proiettili utilizzati per l’agguato sono state scritte con un pennarello le parole “Negare, Ritardare, Difendere”, un chiaro riferimento alla strategia operativa delle compagnie di assicurazioni che mirano a ritardare i pagamenti, a negare i rimborsi dovuti e a difendere queste azioni dando inizio a lunghe battaglie legali. Un uomo è stato arrestato per aver presumibilmente ucciso il suddetto dirigente della multinazionale statunitense UnitedHealthcare.
Il sospettato, Luigi Mangione, è stato arrestato il 9 dicembre in Pennsylvania e la polizia ritiene che si sia trattato di un omicidio premeditato. Al momento dell’arresto, Mangione aveva con sé un “manifesto” in cui l’impresa assicurativa sanitaria viene condannata per aver ricavato i suoi enormi profitti speculando in vario modo sulle malattie dei pazienti. Nel “manifesto” si afferma a chiare lettere che «questi parassiti se l’erano cercata». 1
Sono molte le persone che, negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo, hanno espresso comprensione per la rabbia di Luigi Mangione nei confronti di questa multinazionale della sanità privata. Il consenso di vaste masse di cittadini, che sulla Rete hanno approvato l’omicidio, ha rivelato una verità scomoda, e cioè che nel loro intimo milioni di Americani hanno sognato una simile vendetta. Fra tutte le anonime e incontrollabili forze che governano la vita quotidiana dei cittadini, la sanità commerciale è infatti quella che infligge le maggiori sofferenze e le più crudeli ingiustizie ai cittadini inermi.
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L’apocalisse economica dell’Europa è ora
di Francesco Piccioni - Matthew Karnitschnig*
Il 2025 non sarà un buon anno. I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.
Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.
Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee.
Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.
Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.
I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali a esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).
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Marx: la sua critica al colonialismo è più attuale che mai
C.J. Polychroniou intervista Marcello Musto
Contrariamente alle errate interpretazioni liberali, Marx era un feroce critico del colonialismo, afferma lo studioso marxista Marcello Musto
C.J. Polychroniou - Nell'ultimo decennio, tra gli intellettuali di sinistra, c'è stato un rinnovato interesse per la critica di Karl Marx al capitalismo.Tuttavia, il capitalismo è cambiato drasticamente dai tempi di Marx, e l'idea che sia condannato all'autodistruzione a causa delle contraddizioni che sorgono dal funzionamento della sua stessa logica non sembra più meritare credibilità intellettuale. La classe operaia di oggi è molto più complessa e diversificata di quella dei tempi della rivoluzione industriale. Inoltre, la classe operaia non ha adempiuto alla missione storica mondiale immaginata da Marx. Infatti, sono state proprio simili considerazioni a dare origine al post-marxismo; una posizione intellettuale in voga tra gli anni '70 e '90, che attacca la nozione marxista di analisi di classe e sottovaluta le cause materiali dell'azione politica radicale. Ma ora, a quanto pare, sembra che ci sia ancora una volta un ritorno alle idee fondamentali di Marx. Come spiegarlo? In effetti, Marx è ancora attuale oggi?
Marcello Musto: «La caduta del muro di Berlino è stata seguita da due decenni di omertà sull'opera di Marx. Negli anni '90 e 2000, l'attenzione rivolta a Marx era estremamente scarsa e lo stesso si può dire della pubblicazione, e della discussione, dei suoi scritti. L'opera di Marx – non più identificata con l'odiosa funzione svolta dall'Unione Sovietica in quanto instrumentum regni – si è ritrovata al centro di un rinnovato interesse globale, nel 2008, dopo una delle più grandi crisi economiche nella storia del capitalismo. Giornali prestigiosi, così come periodici con un vasto pubblico, hanno descritto l'autore del Capitale come un teorico lungimirante, la cui rilevanza è stata ancora una volta confermata. Marx è diventato quasi ovunque oggetto di corsi universitari e conferenze internazionali. I suoi scritti allora riapparvero sugli scaffali delle librerie e la sua interpretazione del capitalismo acquisì un rinnovato slancio. Negli ultimi anni c'è stata anche una riconsiderazione di Marx come teorico politico, inducendo molti autori con una visione progressista a sostenere che le sue idee continuano a essere indispensabili per coloro che credono sia necessario costruire un'alternativa alla società in cui viviamo.
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Come siamo arrivati allo stato totalitario
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
La democrazia americana è stata distrutta dai due partiti al potere che ci hanno svenduti alle multinazionali, ai militaristi e ai miliardari. Ora ne paghiamo il prezzo
Per oltre due decenni, io e una manciata di altri — Sheldon Wolin, Noam Chomsky, Chalmers Johnson, Barbara Ehrenreich e Ralph Nader— abbiamo avvertito che la crescente disuguaglianza sociale e la costante erosione delle nostre istituzioni democratiche, tra cui i media, il Congresso, il lavoro organizzato, il mondo accademico e i tribunali, avrebbero inevitabilmente portato a uno stato autoritario o fascista cristiano. I miei libri — “American Fascists: The Christian Right and the War on America” (2007), “Empire of Illusion: The End of Literacy and the Triumph of Spectacle” (2009), “Death of the Liberal Class” (2010), “Days of Destruction, Days of Revolt” (2012), scritto con Joe Sacco, “Wages of Rebellion” (2015) e “America: The Farewell Tour” (2018) sono stati una serie di appelli appassionati a prendere sul serio il decadimento. Non provo alcun piacere nell’avere ragione.
“La rabbia di coloro che sono stati abbandonati dall’economia, le paure e le preoccupazioni di una classe media assediata e insicura e l’isolamento paralizzante che deriva dalla perdita di una comunità, sarebbero stati la base l’innesco per un pericoloso movimento di massa”, ho scritto in “American Fascists” nel 2007. “Se questi diseredati non venissero reintegrati nella società tradizionale, se alla fine perdessero ogni speranza di trovare un buon lavoro stabile e opportunità per sé e per i propri figli – in breve, la promessa di un futuro più luminoso – lo spettro del fascismo americano assalterebbe la nazione. Questa disperazione, questa perdita di speranza, questa negazione di un futuro, hanno portato i disperati tra le braccia di coloro che promettevano miracoli e sogni di gloria apocalittici”.
Il presidente eletto Donald Trump non annuncia l’avvento del fascismo. Annuncia il crollo della patina che mascherava la corruzione della classe dirigente e la loro pretesa di democrazia. È il sintomo, non la malattia. La perdita delle norme democratiche di base è iniziata molto prima di Trump, è ha aperto la strada al totalitarismo americano.
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La grande trasformazione. I 10 eventi che nel 2024 hanno cambiato per sempre il mondo
di OttolinaTV
Dal trionfo elettorale di Trump all’allargamento dei BRICS che, per la prima volta, ha reso un’organizzazione multilaterale che non è emanazione diretta di potenze ex coloniali la più importante del pianeta; dal ritorno nell’Occidente libero e democratico del golpe come strumento per la risoluzione delle tensioni politiche interne al boom di droni e intelligenza artificiale che ha cambiato per sempre il modo di fare la guerra; dal trionfo di Israele contro l’asse della resistenza che ha sdoganato il ricorso al genocidio come strumento di risoluzione delle controversie internazionali al collasso definitivo dell’economia e delle classi dirigenti europee che ha definitivamente reso il vecchio continente un soggetto del tutto marginale della politica internazionale: e meno male che la storia era finita. Il 2024 è stato probabilmente l’anno più ricco di eventi di portata storica dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi; in questo video abbiamo provato a stilare la nostra top10. Il 2024 è stato l’anno dove è diventato chiaro anche ai muri che ormai siamo in guerra; e quindi non potevamo che iniziare da una notizia su come si fa oggi la guerra.
Iniziamo quindi con la nostra decima notizia più importante dell’anno: l’affermazione definitiva dei droni come l’arma per eccellenza nelle guerre del ventunesimo secolo
A partire dallo spettacolare attacco contro Israele dell’aprile scorso durante il quale l’Iran ha impiegato in un colpo solo oltre 300 droni, è diventato chiaro che la capacità di impiegare il più ampio numero possibile di velivoli aerei senza equipaggio a basso costo sarebbe diventata, a stretto giro, la variabile fondamentale per determinare i rapporti di forza in un conflitto: nonostante i limiti del singolo veicolo, infatti, il loro impiego in numero massiccio è comunque in grado di saturare rapidamente sistemi di difesa pensati e sviluppati per altri sistemi d’arma e con costi unitari di diversi ordini di grandezza superiori; inoltre, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale permette da un lato di coordinare sempre di più l’azione congiunta di un numero sempre più ampio di velivoli e, dall’altro, di renderli autonomi nell’individuazione e nel raggiungimento dell’obiettivo, rendendo così sempre meno efficaci strumenti di difesa basati sull’interferenza elettronica.
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Leggere ancora Marx. Dialogo con Roberto Fineschi
Afshin Kaveh intervista Roberto Fineschi
L'intervista a Roberto Fineschi, attento studioso di Marx, prosegue con la serie di interviste a personaggi non direttamente legati alla Wertkritik ma che in qualche modo si pongono, o possono farlo, in un rapporto costruttivo con questa. In precedenza era stato intervistato Wolf Bukowski
Afshin Kaveh: Potrebbe tracciare una breve storia della seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA 2) – annesse le differenze, per esempio con la MEW, Marx-Engels-Werke – e quali sono le prospettive aperte sinora dall’operazione di questa nuova edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels?
Roberto Fineschi: L’edizione è detta seconda perché ci fu un primo tentativo di realizzare una Gesamtausgabe tra gli anni Venti e Trenta del Novecento a opera prima di Rjazanov e poi di Adoratsky. Questo secondo tentativo è tuttavia un progetto completamente nuovo, basato su criteri filologici e struttura diversi. Inizialmente a cura degli Istituti per il Marxismo-Leninismo rispettivamente di Mosca e Berlino est, con la fine della guerra fredda è adesso curata dalla Fondazione Internazionale Marx-Engels, con sede ad Amsterdam e principale centro operativo presso l’Accademia delle Scienze di Berlino e del Brandeburgo. A differenze della prima che prevedeva solo tre sezioni, la seconda ne presenta quattro: I) le opere e gli abbozzi (escluso Il capitale), II) Il capitale e i lavori preparatori (a partire dal 1857), III) il carteggio, IV) gli estratti/annotazioni. L’ultima sezione è una novità assoluta. Un’edizione critica si differenzia da una normale edizione di opere perché presenta tutti i testi editi e inediti, a tutti i livelli di lavorazione, nella loro forma/lingua originale. Una tale precisione e complessità è in genere impossibile in un’edizione di Opere che adotta criteri che mirano a una maggiore leggibilità e schematizzazione. Marx ha pubblicato in vita molto poco rispetto a quanto ha scritto; soprattutto alcune delle sue opere fondamentali sono state edite dopo la sua morte in maniera non sempre adeguata: per es. i Manoscritti economico-filosofici, L’ideologia tedesca, il secondo e il terzo libro de Il capitale li abbiamo conosciuti in forme pesantemente editate. L’edizione storico-critica mette a disposizione dei lettori e degli studiosi sia i testi editati (oramai diventati essi stessi dei classici, in particolare i libri de Il capitale), ma anche tutti i manoscritti preparatori in forma filologica, ovvero per quanto possibile neutrale. Si può dunque procedere a un confronto tra quanto fatto da Marx in persona e il lavoro dei suoi editori.
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La collana "Materiali marxisti" di Feltrinelli
di Sergio Fontegher Bologna
Penso valga la pena ricordare, sia pure per brevi cenni, una delle iniziative di Toni Negri che ha lasciato un segno nella storia dei movimenti rivoluzionari degli anni 70 e in particolare nell’evoluzione del pensiero “operaista”. In questa iniziativa Toni volle coinvolgermi in un momento in cui i nostri rapporti erano diventati complicati a causa della mia uscita da Potere Operaio avvenuta proprio nel momento in cui, grazie a Toni, ottenevo un incarico di insegnamento presso l’Istituto di Dottrina dello Stato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, novembre 1970.
Il bisogno di riprendere una produzione teorica dopo la fase Quaderni Rossi-Classe Operaia si era fatto impellente una volta che il ciclo di lotte operaie, iniziato a Milano con lo sciopero dei 70 mila elettromeccanici del 1960-61, si era concluso alla fine del 1969. La costituzione materiale del Paese era cambiata ed erano cambiate con la strage di Piazza Fontana le regole non scritte del gioco politico. Le previsioni dell’operaismo di un’offensiva operaia di rottura si erano avverate del tutto, il soggetto protagonista di quella fase conflittuale era stato ben individuato nell’operaio massa, il lessico operaista ormai veniva utilizzato anche dai detrattori dell’operaismo. Era necessario riorganizzare l’intero bagaglio concettuale che aveva consentito di ottenere quei risultati ma al tempo stesso era necessario, preso atto che la costituzione materiale del paese era cambiata, aggiornare i dispositivi culturali e teorici che ci avrebbero permesso di affrontare la nuova fase. Dovevamo esplicitare il percorso che ci aveva portati al 68/69 e tracciare in anticipo quello che avremmo dovuto e voluto intraprendere.
Per Toni c’era un’esigenza in più, l’esigenza molto banale di trovare una sede dove mettere a disposizione di tutti i risultati del lavoro di ricerca che il Collettivo di Scienze Politiche aveva iniziato, una volta che l’organico dell’istituto era stato completato e che consisteva in una cattedra, quella di Toni, in quattro incarichi d’insegnamento e in una serie di figure di ricercatori-tecnici. I nomi dei titolari erano Luciano Ferrari Bravo, Ferruccio Gambino, Mariarosa Dalla Costa, Alisa Del Re, Guido Bianchini, Sandro Serafini, Sergio Bologna.
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Riflessioni sull’identità degli opposti
di Pietro Terzan
Recensione l libro di D. Burgio, M. Leoni e R. Sidoli "Logica dialettica e l'essere del nulla" (L.A.D. GRUPPO EDITORIALE, 2024)
“Questo è acuto e giusto. Ogni cosa concreta, ogni qualcosa concreto sta in rapporti diversi e spesso contraddittori con tutto il rimanente, ergo è sé stesso e un altro.”[1]
Dopo aver letto e riletto le “noiosissime pagine” della Logica dialettica e l’essere del nulla[2], l’ultima impresa di Burgio, Leoni e Sidoli, mi è girata la testa in un vortice di pensieri per giorni. Una tempesta creativa, perché le tesi di questo breve saggio sono così dense di significato da riuscire a far dimenticare la pesantezza. Questo testo è da studiare, analizzare, studiare e rianalizzare. Tanti sono gli spunti che può costruire, una serie di ponti per approfondire la realtà in cui viviamo e per tentare di cambiarla. Buttiamoci dunque nell’abisso ontologico illuminato tre secoli fa da Leibnitz: “Perché esiste qualcosa, e non il nulla?”. I fatti testardi della scienza sono corde che ci aiuteranno a calarci in questo oscuro meandro della vita. Il moschettone Hendrik Casimir ci permetterà di non cadere e perderci nel vuoto quantistico. Vari esperimenti hanno dimostrato appunto l’effetto Casimir: il vuoto quantistico è allo stesso tempo nulla ma anche qualcosa.[3] Non esiste soltanto la materia, ma la grandissima maggioranza “dell’oceano cosmico” finora conosciuto è composto dall’energia e dalla materia oscura. Come può tutto ciò non avere effetti sul nostro mondo? Come possono non esserci conseguenze sulla logica del pensiero e su tutta la filosofia? Siamo di fronte alla rinascita della dialettica, alla rivalsa del materialismo dialettico e di quello storico?
Principio fondamentale della logica aristotelica è quello di non contraddizione, quindi di conseguenza anche quello d’identità.[4] Sul solco tracciato da Hegel, Marx ed Engels, Lenin e mi permetto di aggiungere anche Mao[5], la logica dialettica ha svoltato bruscamente rispetto a questa tradizione.
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La realtà dei conflitti mondiali oltre la propaganda e le rimozioni
di Alberto Bradanini
1. Il deprimente riflesso dei media occidentali – ai quali ci sforziamo di sfuggire quanto possibile – ci condurrebbe alla più profonda depressione, se non fossimo soccorsi dalla fede nell’avanzare dell’autocoscienza dell’uomo nella storia, poiché nel tempo breve non v’è alcuna speranza di intravedere nemmeno l’ombra di un orizzonte più sereno. Più vivo – affermava G. B. Shaw – più sono convinto che questo pianeta sia usato da altri pianeti come manicomio dell’universo. Ed è difficile dargli torto. Eppure, se occorre dar senso al tempo che rimane da vivere, esso è quello di distruggere con l’arma della verità tutto ciò che può essere distrutto.
Non passa giorno che Israele non uccida intenzionalmente giornalisti palestinesi a Gaza[1] (196 negli ultimi 14 mesi, tra i 45.000 palestinesi uccisi e 150.000 feriti!), mentre impedisce a chi è fuori di entrare nella Striscia per nascondere i disumani massacri di cui si rende colpevole davanti all’umanità, alla giustizia internazionale, all’etica delle nazioni e alla storia, protetto e armato dai loro complici occulti, gli Stati Uniti d’America.
In Siria, in contemporanea, l’esercito d’Israele, che insieme ai conniventi americani e turchi, ha dato il via libera ai tagliagole jihadisti, si espande oltre il Golan – che occupava illegalmente dal 1967 – e invade altre terre siriane (che B. Netanyahu dichiara non verranno restituite mai più!) nel garbato silenzio di Usa ed Europa, vocianti propugnatori del Diritto Internazionale. Non solo, mentre sulla carta firma il cessate il fuoco con Hezbollah, lo Stato Ebraico non smette di bombardare villaggi libanesi già martoriati, facendo ogni santo giorno decine di vittime. Tutto ciò sotto lo sguardo appagato della presidente della Commissione Ue, la tossica von der Leyen, caporal maggiore del cupo esercito Nato e la cui unica caratteristica degna di nota è l’obbedienza al globalismo atlantico. Nella Nato, si pensava di aver toccato il fondo con il tramonto di Jens Stoltenberg, dal nome altamente evocativo, ma non è così! Al suo posto quale Segretario Generale abbiamo ora tale Marc Rutte, anch’egli con un nome onomatopeico, che dispone per nostro conto di ridurre gli stanziamenti a pensioni e sanità per produrre armi destinate, secondo cotanta testa, a sconfiggere la Russia!
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Marxistizzare la dialettica hegeliana: Geymonat, Colletti e Althusser a confronto con Lenin
di Eros Barone
Negli anni Settanta del secolo scorso due eventi di notevole importanza nella cultura italiana furono l’approdo di Ludovico Geymonat al materialismo dialettico e il costituirsi attorno al filosofo torinese, il quale da tempo insegnava presso l’Università Statale di Milano, di una scuola che sostenne un nuovo approccio alla filosofia marxista, rilanciando un tema tradizionalmente poco frequentato in Italia. 1 Riflettere sul significato, sul valore e anche sui limiti di questa esperienza culturale è necessario non solo per tornare a dipanare, nell’attuale congiuntura ideologica e teorica, il filo rosso del materialismo dialettico engelsiano e leniniano, ma anche per dimostrare, in primo luogo, che il marxismo ha un nucleo filosofico proprio e indipendente che si sviluppa in relazione alla lotta teorica, quindi in ultima istanza in relazione alla lotta di classe, e, in secondo luogo, che esso è in grado di conservare la sua autonomia nella misura in cui si sviluppa sulle proprie basi. Questa specificità e originalità del modo di concepire e di praticare la filosofia è un tratto saliente del marxismo, che non può venire meno senza che venga meno la sua stessa esistenza come filosofia: da qui nasce la necessità di riprendere in esame la concezione geymonatiana del materialismo dialettico a partire dalla individuazione della centralità di due testi quali Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici che si possono considerare terreni elettivi per saggiare il significato e il valore di quella concezione.
In effetti, il primo di essi, come è ben noto, ha conosciuto nel ‘marxismo occidentale’ una tale ‘sfortuna’ (peraltro simmetrica alla ‘fortuna’ dei Quaderni filosofici) che, già per questo solo motivo, una simile sorte richiederebbe una specifica e approfondita riflessione (per converso, come è altrettanto noto, ha conosciuto la massima auge nel marxismo orientale): comprendere e spiegare quale precisa funzione teorica abbia svolto il suo rifiuto, parziale o totale, significherebbe scrivere un capitolo non secondario della storia del marxismo. Sennonché il problema di fondo, che sottostà all’uno come all’altro caso, è lo stesso: il problema cioè della concezione leniniana della scienza, che si sdoppia nei due distinti problemi del rapporto tra scienza e filosofia, da una parte, e del rapporto tra scienza e politica, dall’altra.
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“Lessico del neoliberalismo. Le parole del nemico”: una recensione
di Antonio Semproni
In “Lessico del neoliberalismo. Le parole del nemico” (Autori vari de La Fionda, Rogas, 2024) sono commentati i termini e le espressioni che la cultura neoliberale ha coniato o di cui si è appropriata, risemantizzandoli, per costruire un senso comune trasversale al tessuto sociale e perciò atto a negare la pensabilità di un’opposizione all’ordine neoliberale o comunque di una trascendenza di quest’ordine.
Questi termini ed espressioni corrispondono a concetti che Herbert Marcuse riterrebbe operativi, cioè la cui descrizione si esaurisce in una serie di operazioni e, tramite queste, in una o più funzioni. I concetti operativi designano quindi la cosa nella sua funzione, realizzando un’identificazione tra cosa e funzione, per cui attributo precipuo della prima è il suo ruolo servente l’ordine esistente. Così, per esempio, l’economia sociale di mercato dovrebbe soddisfare i bisogni sociali e le tecnologie smart dovrebbero risultare sempre e comunque intelligenti e pertanto profittevoli all’uomo.
L’operazionismo – cioè la definizione dei concetti in senso operativo – astrae dalla cosa in sé, dal complesso delle sue potenzialità che, se estrinsecate, la porrebbero in una relazione rinnovata con l’insieme di altre cose che compongono l’ordine esistente: una relazione che potrebbe anche assumere tratti conflittuali. Il concetto operativo rimuove dunque dalla cosa qualsiasi portata negatoria dello status quo o anche solo ostativa alla direzione indicata dal progresso. Così, per esempio, il concetto di concorrenza, se consideriamo l’etimologia del termine, indica l’azione di correre insieme e dunque dovrebbe escludere la competizione senza scrupoli tra gli operatori economici, dando piuttosto adito o a una regolamentazione statale che detti loro i tempi e i modi di realizzazione del bene comune o, addirittura, a una collaborazione orizzontale tra di essi.
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Antigone e noi
di Salvatore Bravo
Letteratura e filosofia greca
Vi sono opere eterne, il cui significato polisemico cela la verità della condizione umana che si presta a una molteplicità di letture condizionate dalle circostanze storiche. La verità è nella storia e si svela in essa, pertanto vi sono nuclei veritativi filtrati mediante l’orizzonte storico-mondano in cui l’essere umano è situato.
La letteratura greca è fonte di verità come la filosofia, si utilizzano linguaggi differenti ma in esse si colgono verità intramontabili. La verità non brilla al di là dello spazio e del tempo, essa è nel mondano, quindi pone problemi interpretativi, e nei differenti periodi storici un particolare aspetto della verità prevale sugli altri. La verità è prismatica e dinamica, è unità che contiene e relaziona una pluralità di aspetti tra di loro razionalmente congiunti in una fitta rete di relazioni. La letteratura e la filosofia greca sono creazioni politiche, in esse sono iscritte le progettualità politiche nelle quali il processo che conduce dal particolare al generale si rende reale e razionale mediante il confronto dialettico. La tragedia è processo di superamento concettuale delle scissioni che conducono a una conflittualità nichilistica e irrazionale.
La letteratura e la filosofia greca, dunque, non possono essere spiegate con il semplice rapporto struttura-sovrastruttura, tale consapevolezza vi era anche in Marx. La verità eccede la storia pur vivendo in essa. L’eterno si materializza nella storia. Marx è autore di stampo idealistico, egli è un hegeliano in tale prospettiva, poiché l’eterno si svela nella storia. Ogni semplicismo rischia di introdurre l’irrazionale il quale comporta una contrazione della capacità di decodificare la verità nel suo disvelamento storico.
Il mondo greco è per Marx un problema, poiché sfugge alle categorie del materialismo, vi è in esso un’eccedenza che esige altre categorie per poter essere interpretato e compreso. La verità della condizione umana ha un nucleo profondo che sfugge all’applicazione meccanica di taluni schemi preordinati:
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L’astronomica finanziarizzazione di Stellantis
di Francesco Cappello
Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale. Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose
Stellantis è nata il 16 gennaio 2021 dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e Groupe PSA. La nuova entità era diventata uno dei principali produttori automobilistici al mondo, con un portafoglio di 15 marchi in tutto il mondo, tra cui Fiat, Peugeot, Jeep, Alfa Romeo, e Maserati, 250.000 dipendenti e un fatturato di 190 miliardi di euro.
È scoppiato il bubbone della profonda crisi che sta attraversando il colosso automobilistico, in termini di calo delle vendite e aumento ingestibile delle scorte che ha portato alle dimissioni di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis. Il valore delle azioni è crollato di oltre il 50% rispetto al picco del 2024. Il licenziamento coatto dell’amministratore delegato ha fatto seguito a uno scontro interno con il consiglio di amministrazione che gli ha comunque garantito una buon’uscita da 120 milioni di dollari e il mantenimento nel consiglio di amministrazione.
È di oggi l’annuncio di un piano ambizioso per rilanciare la produzione automobilistica in Italia, che dovrebbe vedere la nuova Fiat 500 presso lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, la produzione della Panda nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, in Campania, e una triplicazione dei volumi di produzione a Melfi, in Basilicata. A Cassino, nel Lazio, il gruppo promette l’avvio le linee per tre nuovi modelli di Alfa Romeo. Per sostenere questo piano, Stellantis ha stanziato 2 miliardi di euro di investimenti, dichiarando di non aver richiesto alcun supporto economico da parte dello Stato italiano.
A contribuire alla crisi del gruppo c’è sicuramente stata la minore attenzione verso i segmenti produttivi più tradizionali che in passato avevano decretato il successo del gruppo, a favore della transizione troppo veloce verso l’elettrico che ha causato prezzi troppo elevati delle auto elettriche e standard di qualità, sicurezza e sostenibilità ambientale assai discutibili.
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