L’astronomica finanziarizzazione di Stellantis
di Francesco Cappello
Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale. Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose
Stellantis è nata il 16 gennaio 2021 dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e Groupe PSA. La nuova entità era diventata uno dei principali produttori automobilistici al mondo, con un portafoglio di 15 marchi in tutto il mondo, tra cui Fiat, Peugeot, Jeep, Alfa Romeo, e Maserati, 250.000 dipendenti e un fatturato di 190 miliardi di euro.
È scoppiato il bubbone della profonda crisi che sta attraversando il colosso automobilistico, in termini di calo delle vendite e aumento ingestibile delle scorte che ha portato alle dimissioni di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis. Il valore delle azioni è crollato di oltre il 50% rispetto al picco del 2024. Il licenziamento coatto dell’amministratore delegato ha fatto seguito a uno scontro interno con il consiglio di amministrazione che gli ha comunque garantito una buon’uscita da 120 milioni di dollari e il mantenimento nel consiglio di amministrazione.
È di oggi l’annuncio di un piano ambizioso per rilanciare la produzione automobilistica in Italia, che dovrebbe vedere la nuova Fiat 500 presso lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, la produzione della Panda nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, in Campania, e una triplicazione dei volumi di produzione a Melfi, in Basilicata. A Cassino, nel Lazio, il gruppo promette l’avvio le linee per tre nuovi modelli di Alfa Romeo. Per sostenere questo piano, Stellantis ha stanziato 2 miliardi di euro di investimenti, dichiarando di non aver richiesto alcun supporto economico da parte dello Stato italiano.
A contribuire alla crisi del gruppo c’è sicuramente stata la minore attenzione verso i segmenti produttivi più tradizionali che in passato avevano decretato il successo del gruppo, a favore della transizione troppo veloce verso l’elettrico che ha causato prezzi troppo elevati delle auto elettriche e standard di qualità, sicurezza e sostenibilità ambientale assai discutibili.
Anche la minaccia di Donald Trump di eliminare i sussidi per i veicoli elettrici, che negli Stati Uniti ammontano a 7.500 dollari per auto ha contribuito. Tuttavia l’esito catastrofico della gestione Tavares, si misura soprattutto dagli esiti deleteri della finanziarizzazione, davvero astronomica, di Stellantis.
La nomina provvisoria di John Elkann alla guida del gruppo, è peraltro in continuità con la precedente gestione finanziaria dell’azienda, attenta, cioè, soprattutto a garantire la massima remunerazione possibile agli azionisti.
Il caso Stellantis non è perciò del tutto paragonabile ad altre vicende del settore automobilistico, come quella di Volkswagen, Audi, Mercedes e altre. I profitti realizzati negli ultimi anni da Stellantis non sono, infatti, il risultato di una solida strategia industriale, ma derivano principalmente dai tagli degli investimenti in ricerca e sviluppo, abbassamento dei costi di produzione e di quelli del personale e dall’aumento dei prezzi al consumatore. Una strategia tipica del capitalismo più tradizionale (modello globalizzazione) che ha portato a una drastica riduzione dei posti di lavoro in Italia, praticamente dimezzati, delocalizzazione dove i costi del lavoro e di produzione sono più bassi, chiusura di numerose fabbriche e ad un progressivo disimpegno di Exor (1) dal settore automobilistico. Emblematica la vicenda di Trasnova, per ora rientrata, fornitore di servizi di trasporto a Stellantis, che illustra come la finanziarizzazione possa danneggiare il lavoro. Stellantis aveva interrotto la collaborazione con Trasnova, portando al licenziamento di 97 dipendenti diretti e circa 400 lavoratori considerando i subappalti. Una decisione coerente con la strategia finanziaria del gruppo di massimizzazione dei dividendi per gli azionisti riducendo drasticamente i costi operativi.
Stellantis ha delocalizzato gran parte della produzione, lasciando in Italia meno del 13% dei dipendenti, e ha scelto fornitori con minori garanzie contrattuali e salari più bassi. Questo approccio genera profitti sacrificando la competitività a lungo termine e il tessuto industriale italiano. Attualmente, circa 18.000 lavoratori italiani di Stellantis sono in cassa integrazione o con contratti di solidarietà.
La finanziarizzazione, che si accompagna alla perdita di attenzione a tutte quelle condizioni reali dello sviluppo della produzione industriale e del suo successo, si traduce in pratica in un progressivo abbandono dell’obiettivo primario dell’attività produttiva e della creazione di valore attraverso la produzione di beni o servizi, a favore della massimizzazione del profitto in termini di dividendi per gli azionisti, perseguita attraverso strategie di natura prettamente speculativa-finanziaria. Stellantis ha distribuito quasi 24 miliardi di dividendi in soli 4 anni, privilegiando la remunerazione degli azionisti a scapito degli investimenti in ricerca e sviluppo e del miglioramento delle condizioni lavorative e delle remunerazioni dei dipendenti.
Questa strategia ha portato ad un arricchimento degli azionisti ed in particolare della famiglia Agnelli (detentrice del 14% di Stellantis tramite Exor), a discapito della salute a lungo termine dell’azienda. Parallelamente alla distribuzione sproporzionata di dividendi, Stellantis ha implementato una drastica riduzione del costi del lavoro. In Italia, ad esempio, il numero di dipendenti è stato dimezzato, con la conseguente chiusura di stabilimenti e il massiccio ricorso alla cassa integrazione. Questa strategia, in linea con il modello tradizionale della globalizzazione, ha portato allo spostamento della produzione in paesi con manodopera a più basso costo. Un altro elemento chiave della strategia finanziaria di Stellantis è stato lo sfruttamento della crisi inflazionistica per aumentare i prezzi dei propri prodotti, massimizzando i profitti a breve termine. Questa politica ha però comportato una riduzione del mercato, costringendo l’azienda a ricercare nuove strategie per garantire la remunerazione degli azionisti.
Inoltre, Stellantis ha fatto ricorso a strumenti finanziari speculativi come i buyback (2) per manipolare il valore delle azioni e massimizzare i profitti per gli azionisti. Tali operazioni, pur essendo legali, non contribuiscono alla creazione di valore reale e possono mettere a repentaglio la stabilità dell’azienda. Le conseguenze di queste dinamiche sono state devastanti per Stellantis e per il settore automobilistico italiano, contribuendo alla deindustrializzazione del paese, alla chiusura di stabilimenti e alla perdita di posti di lavoro. La dipendenza dagli aiuti statali, sotto forma di incentivi, ha ulteriormente aggravato la situazione, creando un circolo vizioso dannoso per l’azienda.
Da parte italiana, dal 2016 al 2024, Stellantis, ex FCA, ha ottenuto circa 100 milioni di euro in aiuti statali, includendo fondi per l’aggiornamento tecnologico delle fabbriche e per sostenere la cassa integrazione dei dipendenti. Nel periodo 2014-2020, l’azienda ha ricevuto circa 446 milioni di euro. Durante la pandemia, ha beneficiato di una garanzia statale di 6,8 miliardi di euro, con l’impegno di mantenere e aumentare gli investimenti in Italia. Guardando indietro a un periodo più lungo, dal 1970 fino a oggi, i vari governi hanno fornito oltre 220 miliardi di euro alla società, che un tempo era la Fabbrica Italiana Automobili Torino (3).
Exor ha avuto un contenzioso anche con l’agenzia delle entrate con cui ha raggiunto un accordo, pagando quasi un miliardo di euro per chiudere il contenzioso(4).
La focalizzazione sui profitti a breve termine ha portato ovviamente a una mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo, rendendo Stellantis vulnerabile alla concorrenza di aziende più innovative che investono maggiormente nel personale e nella ricerca. In definitiva, il caso Stellantis dimostra come la finanziarizzazione dell’impresa possa innescare una spirale negativa di disinvestimento, deindustrializzazione e dipendenza dagli aiuti statali, con conseguenze negative per l’azienda, i lavoratori e l’intero sistema economico. La vicenda di Stellantis rappresenta, in ultima analisi, una preoccupante manifestazione della crisi storica del capitalismo italiano, caratterizzata da una finanziarizzazione malsana con radici profonde nel passato (5).
La delocalizzazione per abbattere i costi di produzione e la dipendenza dagli incentivi statali sono elementi ricorrenti dalla FIAT a Stellantis. Stellantis ha potuto, ad esempio, beneficiare dell’inserimento nel PNRR. La crisi innescata dalla finanziarizzazione rischia di travolgere l’intero comparto, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro. Essa è il risultato di un connubio perverso tra un modello di business predatorio, la debolezza della politica italiana, l’assistenzialismo verso le grandi imprese e la mancanza di pianificazione con relativi investimenti a lungo termine finalizzati allo sviluppo industriale.
Finanziarizzazione di guerra
Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale (5). Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose. Si tratta, a lungo andare, di un circolo vizioso catastrofico. Nell’ambito italiano e più in generale europeo, il gruppo ha sofferto anch’esso dei costi energetici più elevati, causati della suicida decisione di sanzioni alla Federazione Russa, su ordine di Washington, che si è spinta, come è noto, sino al sabotaggio del North Stream (vedi il mio Le condizioni economiche della guerra da Biden a Trump). Questo ha reso più difficile per Stellantis mantenere la competitività, specialmente rispetto ai produttori cinesi che offrono veicoli a prezzi più bassi anche grazie a quell’apporto energetico a basso costo proveniente dalla Russia a cui l’Europa ha follemente rinunciato. I produttori automobilistici cinesi, come BYD e Leapmotor, sono, infatti, diventati una minaccia significativa grazie ai loro veicoli elettrici (EV) a più alta tecnologia e a basso costo.
I dazi alla Cina sono un’arma spuntata e a doppio taglio oltretutto inefficace perché la Cina sta già provvedendo a installare impianti di produzione di automobili direttamente in Europa. Ad esempio, BYD ha aperto una fabbrica in Ungheria e Chery ha avviato una joint venture in Spagna mentre altre case automobilistiche cinesi come Geely e Great Wall Motor stanno a loro volta considerando investimenti in Europa saltando a piè pari i dazi europei.
La scelta bellica è stata e sarà finché non vi si porrà termine un vero disastro non solo per l’industria dell’auto (vedi il mio Gli USA hanno vinto la guerra contro l’Europa). In Italia, infatti, a settembre 2024 l’ISTAT ha registrato il ventesimo mese consecutivo di calo della produzione industriale con tutto ciò che ne consegue. L’economia europea è, infatti, un’economia di trasformazione, quasi del tutto dipendente dall’energia e dalle materie prime e sta subendo processi inflattivi (inflazione da costo) che sono stati aggravati dalle scelte guerrafondaie e maldestramente affrontati dalla BCE alzando i tassi di interesse (come se si trattasse di inflazione da domanda). Ovviamente l’innalzamento dei tassi penalizza gli investimenti industriali e abbassa insieme all’inflazione il potere di acquisto dei cittadini (costi di mutui e prestiti più alti). Ne sono conseguiti perdita di competitività, deindustrializzazione e delocalizzazione e finanziarizzazione quale strategia per continuare a fare profitti mentre tutto va in malora (5).
Rispetto a ottobre dello scorso anno gli inattivi nel nostro paese sono aumentati di quasi 400.000 persone; da inizio anno 232.000 lavoratori sono stati collocati in cassa integrazione. Henry Ford si domanderebbe come fa un operaio in cassa integrazione o disoccupato ad avere un potere d’acquisto sufficiente a comprare un’automobile, oltretutto elettrica…







































Il cammino verso e l'entrata in un secolo caratterizzato da guerra, terrorismo e manifesta depredazione, dopo che, prima gradualmente e poi di repente, (sulla falsariga dei due modi di andare in bancarotta, specificati da Hemingway, in The Sun Also Rises, “gradually, then suddenly”), sono crollate le sceneggiate di decenni sull'antifascismo e sulla democrazia- sceneggiate allestite dalla classe dominante, per inebetire le classi inferiori- è una reale e logica conseguenza del paradigma neoliberale, che è basato sul razzismo, nazifascismo e imperialismo.
Il sistema di potere, nel capitalismo finanziario neofeudale imperialistico, controllato da ristrette oligarchie e pochissimi giganteschi fondi speculativi, con i politici per lo più ridotti al ruolo di clown, si sostiene sulla “assettizzazione” finanziaria del mondo e della vita, sull’accapparramento di tutti i flussi finanziari, (da qui lo svuotamento dello stato e delle politiche sociali), da parte di pochissime mani e sulla massima estrazione di rendita, (con la definitiva trasformazione della vita umana degli inferiori in scarti, utili solo a fornire plusvalore): quando all’ultimo secondo, poco prima dell’assoggettamento all’imperialismo finanziario, Russia e Cina hanno creato una resistenza, l’impero è dovuto ricorrere, in forma sempre più appariscente, al terrorismo e alla guerra, per consolidare il comando delle risorse mondiali, da utilizzarsi nel processo monopolistico di “assettizzazione” finanziaria e estrazione di rendita.
Per l’Europa, completamente sottoposta al regime coloniale, in gran parte affidata alle cure di corrotte e irresponsabili figlie e nipoti di nazisti e inconsistenti politici, (il governo italiano, nel suo opportunismo, tolti i soliti noti stolidi, è quello che più astutamente cerca di capitalizzare dalla accettata condizione coloniale), obbligata a “dichiarare” guerra alla Russia, il destino è quello prevedibile, di affrontare alcuni disastri economici, data la moltiplicazione dei costi e difficoltà a vendere; tuttavia il ridimensionamento e la diminuzione in chiave subalterna di rendite finanziare non significa il calo del plusvalore relativo, specie se tutti costi vengono trasferiti alle classi inferiori, il cui stile di vita può forzatamente adattarsi a quello di popolazioni più povere.