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Il Maestro e Margherita da Bulgakov al grande schermo
di Carlotta Guido
A Mosca, su una panchina presso gli Stagni del Patriarca, in un tempo così definito da diventare infinito, è stato affermato l’impossibile. Tre uomini, tutti e tre notevoli rappresentanti di un impegno, di un pensiero, di un modo d’essere, affermano il Caos. Soltanto uno di loro, però, è in grado di volerlo davvero. È questo l’incipit del capolavoro postumo di Michail Bulgakov, Il Maestro Margherita; ma bisogna attendere una quarantina di minuti per vederlo sul grande schermo nell’omonima versione cinematografica firmata da Michail Lokšin.
L’intreccio è risaputo: nella Mosca del 1929, uno strano figuro che si fa chiamare Woland (un calibratissimo August Diehl), spacciandosi per esperto di occulto e magia nera, si insinua nelle vite di alcuni personaggi di spicco della città, dimostrandosi ghiotto di teatro e letteratura. Con lui un pugno di bizzarri manigoldi: l’instancabile Korov’ev (Jurij Kolokol’nikov), per gli amici Fagotto, l’irascibile Azazello (Aleksej Rozic), l’imperscrutabile Hella (Polina Aug) e il gatto Behemoth. A fare da perno è la figura del Maestro (Evgenij C'īgardovič), autore di talento, intento a portare sulle scene la sua nuova opera, Ponzio Pilato; nel mentre, una lunare Margherita (Julija Snigir') lo incrocia casualmente per le strade di una Mosca assediata dai cantieri per non lasciarlo mai più.
Coprodotto dalla statunitense Universal, che per lungo tempo ne ha bloccato la distribuzione mondiale in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, il film di Lokšin arriva ora nelle sale italiane.
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«La nuova religione di massa è il culto della guerra»
di Emmanuel Todd
Per l’antropologo francese Emmanuel Todd, la matrice religiosa delle società occidentali attraversa tre fasi: religione attiva, religione zombie e, infine, religione zero – la scomparsa completa della fede e dei suoi valori morali. Negli Stati Uniti e in Israele, che hanno raggiunto lo stadio zero, Todd osserva la comparsa di nuove forme di religiosità: un evangelismo delirante e un ebraismo ultraortodosso. Ma la vera novità, in entrambi i Paesi, è il culto della guerra: una religione di massa post-monoteista, nutrita di nichilismo e di divinità guerriere. La sua incarnazione simbolica? Thor, il dio scandinavo della guerra.
Una sequenza in tre fasi può descrivere la dissoluzione della matrice religiosa delle nostre società: religione attiva (credenza e pratica regolare), religione zombie (incredulità accompagnata dalla sopravvivenza di valori morali e sociali) e infine religione zero (scomparsa completa).
Ho inizialmente applicato questo schema al cristianesimo, in tutte le sue varianti – cattolica, protestante, ortodossa – per poi estenderlo agli altri due grandi monoteismi, l’ebraismo e l’islam, concentrandomi in quest’ultimo caso sulla componente sciita. Così, possiamo descrivere per la Scandinavia per esempio una sequenza tipo: «protestantesimo attivo, protestantesimo zombie, protestantesimo zero». Per l’Iran: «sciismo attivo, sciismo zombie», con la possibilità futura di uno «sciismo zero». In Israele, invece, la sequenza appare già compiuta: «ebraismo attivo, ebraismo zombie, ebraismo zero».
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Decima parte. I profsojuz durante la NEP: il settore socializzato (parte II)
Ci eravamo lasciati con Vladimir Il’ič, ripartiamo da lui. Guarda caso subito dopo aver rimesso i paletti tolti in tempo di guerra civile e comunismo di guerra, parla del diritto di sciopero nelle aziende nazionalizzate. Il suo è un capolavoro di EQUILIBRIO tra dovere di rappresentanza sindacale e senso di responsabilità nei confronti della nuova collettività di cui si fa parte, lo Stato degli operai e dei contadini:
Finché ci saranno le CLASSI, la LOTTA DI CLASSE sarà inevitabile. L’esistenza stessa delle classi sarà inevitabile, nel periodo di TRANSIZIONE dal capitalismo al socialismo, e il programma del PCR afferma in modo inequivocabile che noi siamo solo AI PRIMI PASSI DI QUESTA TRANSIZIONE.
Per questo sia il partito comunista, sia i soviet, così come i sindacati, devono riconoscere apertamente l’esistenza della lotta di classe e la sua inevitabilità, almeno fino a quando, fosse anche solo nelle sue linee fondamentali, non sarà completata l’elettrificazione dell’industria e dell’agricoltura e, con essa, saranno completamente sradicati (подрезаны все корни) gli interi comparti della piccola imprenditoria e del commercio. Da ciò discende che, allo stato attuale, NON POSSIAMO IN ALCUN MODO ESIMERCI DAL LOTTARE SCIOPERANDO, e NEPPURE CONSENTIRE LA PROMULGAZIONE DI UNA LEGGE che LO SOSTITUISCA OBBLIGATORIAMENTE con un TAVOLO DI MEDIAZIONE STATALE.
D’altro canto, è evidente che l’obbiettivo finale della lotta tramite sciopero nel capitalismo è la distruzione dell’apparato statale e il rovesciamento di quel potere statale in mano alla borghesia. IN UNO STATO PROLETARIO DI TRANSIZIONE come il nostro, invece, L’OBBIETTIVO FINALE DELLA LOTTA TRAMITE SCIOPERO non può che essere il RAFFORZAMENTO DELLO STATO PROLETARIO ovvero DEL POTERE STATALE IN MANO AL PROLETARIATO, per mezzo di una LOTTA SERRATA CONTRO LE DISTORSIONI BUROCRATICHE DI TALE STATO, CONTRO I SUOI ERRORI, LE SUE DEBOLEZZE, GLI APPETITI DI CLASSE DEI CAPITALISTI CHE SFUGGONO AL SUO CONTROLLO, ECCETERA1.
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Cane pazzo
di Enrico Tomaselli
Sono gli Stati Uniti a guidare Israele, che ne è il docile strumento per il controllo del Medio Oriente, o viceversa è Israele a controllare di fatto gli USA, anche grazie alla capillare azione dell’AIPAC [1], che tra finanziamenti e ostracismi ad hoc tiene in pugno l’intero Congresso?
C’è da lunghissimo tempo un acceso dibattito sulla relazione tra Stati Uniti e Israele, sulla natura di questo rapporto – che certamente non può essere semplicemente riassunto in termini geopolitici. L’opinione prevalente, quantomeno negli ambienti del cosiddetto dissenso, sembra essere che siano gli USA a tenere le redini del comando, e come sempre in questi casi, una volta assunta una tesi si finisce per leggere ogni fatto come coerente con la tesi stessa.
La mia personale opinione, in merito, è che la natura di questa relazione sia in effetti assai più complessa di quanto possa essere riassunto nella scelta binaria, A o B. E che, in ultima analisi, entrambe abbiano potenti leve per condizionare le scelte dell’altro, così come – conseguentemente – entrambe abbiano bisogno l’uno dell’altro. Il recente conflitto con l’Iran, la cosiddetta guerra dei 12 giorni, è un’ottima occasione per verificare queste diverse tesi.
Quello che possiamo dare per certo, è che Washington sapeva che Tel Aviv stava preparando l’attacco. E, ovviamente, questo può essere letto in modi diversi. Può significare che il negoziato avviato da Witkoff con la mediazione del Qatar era, sin dall’inizio, null’altro che una cortina fumogena per coprire l’attacco stesso. O, viceversa, poiché la fermezza iraniana stava bloccando le trattative, Trump ha pensato che l’azione israeliana potesse indurre Teheran a più miti consigli. In entrambe i casi, però, la vera domanda è: tenuto conto del fatto che sia a Washington che a Tel Aviv non potevano non essere consapevoli dei limiti strutturali dell’operazione Rising Lion, qual’era il vero obiettivo?
Ovviamente quella del nucleare militare iraniano è una favoletta per il pubblico occidentale, che oltretutto se la beve pari pari da trent’anni [2], quindi ciò che si voleva conseguire non era la distruzione del programma nucleare di Teheran.
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Perché Netanyahu non batterà l’Iran
di Pino Arlacchi
Il cessate il fuoco tra Israele e Iran è più l’inizio di una nuova fase del conflitto che la sua conclusione. Gli Stati Uniti sono intervenuti per impedire che il fallimento dell’attacco israeliano diventasse troppo evidente e producesse danni più profondi.
I due obiettivi dell’aggressione israeliana – la distruzione delle installazioni nucleari iraniane e il crollo del regime – erano stati platealmente mancati, ed era meglio ripiegare usando il classico espediente del face saving: salvare la faccia e ritirarsi urlando di avere vinto, e invitando l’Iran a fare altrettanto. Teheran ha accettato perché aveva anch’essa, comunque, subito molti danni, e aveva anch’essa bisogno di ricaricare il fucile.
Al di là degli sviluppi a breve (nuovi bombardamenti da entrambi i lati, qualche ulteriore barbaro assassinio di scienziati e civili) è probabile che questo conflitto assuma gradualmente il profilo di una vera e propria guerra di posizione, la cui posta può essere la sconfitta storica del nemico, l’azzeramento definitivo della sua capacità di minaccia e di distruzione. Questo tipo di guerra è radicalmente diversa da quelle che Israele è abituata a fare. E a vincere grazie alla sua tecnologia militare avanzata, alla sua possibilità di scaricare in poco tempo il massimo della sua potenza offensiva, e grazie all’appoggio senza riserve degli Stati Uniti.
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I limiti della dottrina della sicurezza indivisibile
di comidad
I media si sono soffermati un po’ troppo sulla frase di Guido Crosetto secondo cui la NATO, così com’è, non avrebbe più ragione di esistere. La dichiarazione più significativa del ministro della Difesa era invece un’altra, e cioè che, comunque, la NATO se la voleva tenere stretta. Il motivo dell’affettuoso abbraccio di Crosetto (consulente di Leonardo SpA) nei confronti della NATO è facilmente spiegabile, se si considera che nello stabilimento Leonardo di Cameri in Piemonte vengono assemblati i caccia F-35 della Lockheed Martin. Il business del caccia più costoso di tutti i tempi si è rivelato talmente lucroso per Leonardo che il governo tedesco ha deciso di non acquistare i caccia prodotti nello stabilimento di Cameri e di costruirne uno proprio per assemblare gli F-35.
Il business della “difesa” è una partita di giro nella quale la lobby delle armi occupa i governi, i quali a loro volta drenano il denaro pubblico verso la lobby delle armi. Ovviamente tutto ciò va benissimo per le cosche di affari, ma non ha niente a che vedere con la “sicurezza”; anzi, è molto più probabile che un’alleanza tra trentadue paesi diversi finisca per comportarsi come una baby gang dominata non solo dal bullo più violento del gruppo, ma anche dalla cerchia di adulatori che manipola il bullo. Il fallimento dei blocchi militari come la NATO in termini di sicurezza è il punto di partenza della nota dottrina, enunciata da Xi Jinping, della cosiddetta “sicurezza indivisibile”. Tutto il discorso è molto bello, molto confuciano: se cerco la mia sicurezza a scapito di quella degli altri, è inevitabile che ciò mi ritorni indietro come aumentata insicurezza.
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La controrivoluzione del presidente
di Michele Paris
La gigantesca legge di spesa voluta da Donald Trump è vicina all’approvazione definitiva del Congresso di Washington dopo che il Senato l’ha licenziata con il più ristretto dei margini nella notte di martedì. Nota come “Grande e Bellissima Legge”, quest’ultima farà aumentare ancora di più un debito pubblico già fuori controllo negli Stati Uniti, con implicazioni enormi sia sul fronte interno sia su quello internazionale. Nel concreto, si tratta di uno dei più imponenti trasferimenti di ricchezza dal basso verso l’alto della piramide sociale e segna un punto di rottura probabilmente definitivo nel processo già ben avviato di smantellamento del sistema di welfare americano uscito dalle battaglie e rivendicazioni del “New Deal” e degli anni Sessanta del secolo scorso.
Il pacchetto di spese e tagli aveva già ottenuto il via libera della Camera dei Rappresentanti nel mese di maggio e al Senato è stato al centro di accesissime discussioni, in particolare per le possibili conseguenze politiche degli attacchi a popolari programmi di assistenza sociale. La versione approvata tra martedì e mercoledì è stata alla fine anche più estrema rispetto a quella della Camera, riflettendosi su una votazione in aula tiratissima che ha costretto il vice-presidente J. D. Vance, il cui incarico include costituzionalmente anche quello di presidente del Senato, a esprimere il voto decisivo per il passaggio della legge (51-50).
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Presidente firmatutto e i quattro, o cinque, cialtroni dell’Apocalisse
di Fulvio Grimaldi
“Mondocane video”, canale Youtube
https://www.youtube.com/watch?v=XelW90k7hf0&t=559s
https://youtu.be/XelW90k7hf0
Settant’anni di terrorismo di Stato e mafia con manovalanza fascista ha prodotto la palude da cui è sorto l’attuale governance (dire “governo” è troppo), che ha sancito (Decreto Sicurezza) che chi protesta, rivendica giustizia, difende la nuda vita, commette reati da carcere. Che chi si oppone a speculazioni ladronesche e militaristiche che devastano territorio, ambiente, cultura, società, commette reati da carcere. Che chi dice la verità, istiga il terrorismo, diffonde fake news e commette reati da carcere. Che chi occupa una casa, perché vive sotto i ponti, od occupa un’aula piuttosto che cederla alle smargiassate di un generale invitato a illustrare opportunità e splendori della guerra, commette reati da carcere.
Ma soprattutto…
…coloro che in questi ottant’anni di un dopoguerra di guerre NATO hanno condotto la guerra interna contro il proprio popolo a forza di attentati stragisti utilizzando servizi segreti, mafie, fascisti, provando malamente a mascherarsi da custodi dell’ordine democratico, col Decreto Sicurezza sono autorizzati a uscire allo scoperto e operare in piena legalità: “I servizi potranno creare e dirigere organizzazioni criminali e terroristiche”.
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Iraq: prossima tappa del “riassetto sionista” del Medio Oriente?
di Enrico Vigna
Dopo l’ultima aggressione armata all’Iran, conclusasi con una rapida tregua dopo aver decapitato i più alti e validi esponenti militari e scientifici del paese, molti analisti militari arabi e internazionali, focalizzano nell’Iraq, la prossima mossa di Israele, in quanto, quello iracheno “è l’ultimo fronte rimasto”, al momento non coinvolto degli obbiettivi sionisti.
Infatti, mentre stanno compiendo il genocidio e la pulizia etnica in Gaza, mentre stanno destrutturando militarmente e territorialmente la Cisgiordania e i Territori occupati palestinesi, dopo aver sfibrato militarmente e politicamente Hezbollah e le forze della Resistenza in Libano, dopo aver partecipato alla distruzione della Siria araba e sovrana, occupandone poi grandi aree e mentre continua la conflittualità militare a distanza, per ora, con lo Yemen di Sana’a, molti analisti stanno riflettendo e valutando se il prossimo tassello, per finire il lavoro di destabilizzazione regionale, sia quello di mettere in ginocchio l’Iraq, destrutturandolo a proprio interesse strategico.
Questo perché lì è presente il PMF, le “Forze di Mobilitazione Popolari”, l’ultima forza consistente dell’”Asse della resistenza”, quest’ultima alleanza al momento gravemente sfibrata.
Le PMF, sono una coalizione di milizie, in gran parte sciite irachene di circa 136.000 uomini, che diventano circa 170.000, sommata ad altre forze resistenti locali, tra cui Kata’ib Hezbollah, Nujabaa, Kataib Sayyed al-Shuhada, Ansarullah al-Awfiyaa. l'Organizzazione Badr ed a una minoranza di brigate sunnite, cristiane, yazide e shabak, tutte unificatesi per combattere contro le forze statunitensi durante l'invasione USA dell'Iraq.
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Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria
di Fabio Vighi
Non sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo. E il costo e le minacce per l’America e il mondo continuano ad aumentare’. Da qui la richiesta di nuovi miliardi di dollari in pacchetti di emergenza destinati sia all’Ucraina che a Israele (ma anche alla sicurezza delle frontiere con il Messico e altre “crisi internazionali”). È un po’ come se ci stessero vendendo due guerre al prezzo di una – Joe Biden in versione Vanna Marchi.
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Tripolarità senza catastrofe
di Salvatore Minolfi
Storditi da un trentennio di monocultura unipolare, ci siamo largamente disabituati a ragionare di potere, il cui perimetro definitorio è andato sempre più sfumando negli ampi e rilevanti territori circostanti, per confondersi, di volta in volta, con la potenza industriale, la ricchezza finanziaria, la forza commerciale, l’esuberanza demografica, l’innovazione high tech, il fascino ideologico, ecc. Disabitudine insostenibile se rapportata a un tempo storico la cui cifra dominante è rappresentata da una crisi conclamata dell’ordine internazionale, la cui severità è testimoniata non solo dai sorprendenti sviluppi che pure la punteggiano, ma anche dai sempre più vistosi disaccordi che emergono quando si discute della forma che il mondo stesso oggi presenta o va tendenzialmente assumendo in conseguenza di questa crisi. In breve, l’incertezza investe non solo i tradizionali parametri di analisi, ma la realtà stessa, poiché fornisce spesso indicazioni contraddittorie e ci costringe a fare i conti con l’elusività che sembra avvolgere il potere nella sua forma più alta e distillata. È su questo livello che ha senso avventurarci, rinunciando per ciò stesso alle più diffuse e confortevoli semplificazioni.
Negli Stati Uniti – l’unico paese dove l’analisi del potere e la riflessione strategica non si sono mai interrotte – le divergenze sono tali da coprire pressoché l’intero spettro delle rappresentazioni possibili, ciascuna delle quali porta con sé, inevitabilmente, orientamenti e prescrizioni differenti per l’agire politico delle classi dirigenti.
Potere e influenza
Mi riferisco, innanzitutto, al fatto che la riflessione sul potere oscilla (ormai da più di mezzo secolo) tra due diversi campi semantici: il potere come “capacità” e il potere come “influenza”.
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È giunto il momento di una pace globale in Medio Oriente
di Jeffrey D. Sachs
La soluzione è chiara: è ora che gli Stati Uniti riconoscano che i propri interessi strategici richiedono una rottura decisiva con la strategia distruttiva di Israele
L’attacco di Israele e degli Stati Uniti all’Iran ha avuto due effetti significativi. In primo luogo, ha messo ancora una volta in luce la causa principale dei disordini nella regione: il progetto di Israele di “rimodellare il Medio Oriente” attraverso un cambio di regime, con l’obiettivo di mantenere il proprio dominio e impedire la creazione di uno Stato palestinese. In secondo luogo, ha evidenziato l’inutilità e l’incoscienza di questa strategia. L’unica via per la pace è un accordo globale che affronti la questione della statualità della Palestina, la sicurezza di Israele, il programma nucleare pacifico dell’Iran e la ripresa economica della regione.
Israele vuole rovesciare il governo iraniano perché l’Iran ha sostenuto i suoi alleati e attori non statali schierati con i palestinesi. Israele ha anche costantemente minato la diplomazia tra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare iraniano.
Invece di guerre infinite, la sicurezza di Israele può essere garantita da due misure diplomatiche fondamentali: porre fine alla militanza istituendo uno Stato palestinese con le garanzie del Consiglio di sicurezza dell’ONU e revocare le sanzioni contro l’Iran in cambio di un programma nucleare pacifico e verificabile.
Il rifiuto del governo israeliano di estrema destra di accettare uno Stato palestinese è alla radice del problema.
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Guerra e austerità, il nuovo sogno europeo
di coniarerivolta
Con la decisione assunta nel vertice NATO del 25 giugno a L’Aia, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord si impegnano ad aumentare le spese militari e connesse alla difesa al 5% del PIL annuo entro il 2035.
Tale decisione risponde all’esigenza di aumentare del 30% la capacità militare dell’Alleanza e renderla “più letale”, nelle parole del Segretario Generale Mark Rutte. In applicazione dell’articolo 3 del Trattato fondativo della NATO, tutti gli Stati membri sono impegnati a mantenere e accrescere la loro capacità bellica.
In attuazione di questo orientamento strategico, la NATO definisce periodicamente gli “Obiettivi di capacità”, che stabiliscono operativamente cosa un Paese debba essere in grado di fare in caso di guerra – andando ben oltre la definizione quantitativa delle risorse materiali necessarie. Proprio perché questa metrica è qualitativa e non si traduce in un impegno finanziario puntuale, è maturata in seno alla NATO la decisione di passare dalla mera indicazione di un aumento degli “Obiettivi di capacità” all’impegno finanziario sancito a L’Aia in termini di spesa.
Nella Dichiarazione de L’Aia, vengono chiariti i motivi di questa vera e propria corsa al riarmo: l’impegno al drastico incremento della spesa militare è giustificato dalle “profonde minacce alla sicurezza e sfide, in particolare la minaccia di lungo termine posta dalla Russia alla sicurezza Euro-Atlantica e la persistente minaccia del terrorismo.
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Haaretz: Gaza, un campo di sterminio
di Davide Malacaria
“Israele sta perpetrando un genocidio a Gaza? Ora c’è una prova indiscutibile”. Inizia così un articolo di Gideon Levy su Haaretz a commento del dossier, pubblicato sullo stesso giornale, che ha svelato le perverse dinamiche degli omicidi intenzionali dei gazawi che si affollano nei pressi dei centri di aiuto per cercare qualcosa di cui sfamarsi.
“Non si può definire in altro modo ciò che sta accadendo in quei posti da diverse settimane se non come genocidio”, prosegue Levy. “Genocidio come intento, genocidio come obiettivo, genocidio nella portata, genocidio per il gusto del genocidio”.
“Se Israele non pone fine a tutto ciò immediatamente – non domani, oggi – non potrà più godere del beneficio del dubbio. Dal punto di vista legale, ovviamente, dobbiamo attendere la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che sta ritardando a tal punto che c’è da temere che non ci saranno molti palestinesi ancora vivi a Gaza quando si deciderà a pronunciarsi”.
“[…] I soldati delle Forze di Difesa Israeliane ricevono l’ordine di sparare per uccidere in massa delle persone affamate. Folle che si ammassano a motivo di un mix di follia e perversione, che ha portato Israele a rimuovere le agenzie ONU dedite a tale scopo ed esperte per sostituirle con una misteriosa quanto mostruosa organizzazione americano-israeliana con inclinazioni evangeliche” [a guidarla è il pastore evangelico Johnnie Moore, entusiasta sostenitore della Grande Israele messianica ndr.].
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Susan Neiman: “L’ideologia woke non è di sinistra”
di Gerardo Lisco
Ci siamo sbagliati la cultura woke è di destra. La sinistra torni universale cosi esordisce Susan Neiman nell’intervista sul suo recente saggio dal titolo La sinistra non è woke. Un antimanifesto pubblicato in Italia a maggio per la UTET. Le interviste rilasciate da Susan Neiman, a la Repubblica e al supplemento “Donna” allegato al quotidiano, hanno anticipato la pubblicazione del suo in italiano. Su “Donna”, intervistata a febbraio, la Neiman affermava: Siamo nell’era Post – Woke, e non dobbiamo dare nulla per scontato. Nell’intervista si spinge molto oltre nella sua critica all’ideologia woke fino ad affermare che ha spianato la strada a Trump e più in generale alla destra. La Neiman , filosofa americana che si dichiara in modo esplicito Socialista non fa sconti alla sinistra woke e post moderna. Prima di entrare nel merito di quanto scrive due sono le cose che mi hanno particolarmente colpito. La prima è che il saggio non ha l’introduzione di nessun filosofo, politologo, sociologo italiano; la seconda è che a parte il quotidiano sopra citato ad avere trattato il saggio sul proprio canale YouTube è stato Diego Fusaro. Eppure potenzialmente potrebbe aprire un confronto non indifferente. Pur essendo un saggio di filosofia, come dichiara la stessa autrice, ha uno scopo divulgativo per cui il linguaggio utilizzato lo rende comprensibile ad un pubblico che va molto oltre gli specialisti del settore. A riprova di quanto il variegato mondo di sinistra, deliberatamente, censuri il saggio della Neiman, è l’enfasi di questi giorni per il gay pride di Budapest.
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La verità sulla "resistenza" della Spagna
di Carlos X. Blanco
Incredibile. In alcuni media europei, Sánchez viene presentato come un eroe antimilitarista.
In questi giorni ho letto articoli e opinioni di amici, soprattutto stranieri, che a mio parere sono fondamentalmente sbagliati. Sono amici intelligenti, che generalmente concordano con le mie diagnosi, ma su questo tema sbagliano e cadono a terra. È vero che l'Europa sta affondando, e con il famoso "riarmo" sta affondando rapidamente e miseramente. È giusto che si levino voci che dicono "basta!". Ma la voce di Pedro Sánchez è come il gracchiare di un corvo, e annuncia solo altra morte.
Non molto tempo fa, un anno fa, la NATO chiese ai paesi europei un fermo impegno a spendere il 2% per le "esigenze di difesa". Era già molto. Il contesto di "crescente insicurezza", ci dissero, era causato dalla guerra in Ucraina e dalla presunta "minaccia russa alle porte dell'Europa occidentale".
Nessuna minaccia russa è mai stata giustificata. La Russia ha già abbastanza da fare solo per assicurarsi il suo (enorme) spazio. La Russia non invaderà la Germania, la Francia, la Spagna... Si può maledire il vento quando ci soffia addosso, ma poi l'aria viene diretta in faccia, ed è allora, quando si riceve ciò che ci si è attirato addosso, il momento preciso per maledirsi, esclamando: "Stupido!".
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I russi accelerano mentre crollano le forniture di armi occidentali all’Ucraina
di Gianandrea Gaiani
(Aggiornato alle ore 23,55 del 3.7.25)
L’esercito russo ha compiuto a giugno la sua più grande avanzata in territorio ucraino dal novembre 2024 e ha accelerato la sua avanzata per il terzo mese consecutivo.
Nonostante i commenti scettici sull’incremento dei progressi russi espressi nei giorni scorsi da diversi osservatori in Occidente, ispirati dall’articolo di Michael Carpenter su Foreign Affairs dal titolo perentorio “L’Ucraina può ancora vincere”), sono i dati provenienti da fonti russe, ucraine (come il sito Deep State) e dall’Institute for the Study of War (ISW), think-tank neocon smaccatamente filo-ucraino con sede negli Stati Uniti, a confermare l’accelerazione delle forze di Mosca su tutti i fronti, come Analisi Difesa ha evidenziato già nell’articolo sul conflitto ucraino del 30 giugno.
Secondo l’ISW le truppe russe hanno conquistato in giugno 588 km² di territorio ucraino (556 secondo Deep State), ne avevano conquistati 507 km² a maggio (449 secondo deep State), 379 km² ad aprile e 240 km² in marzo.
Le conquiste territoriali sono il frutto anche di una crescente superiorità qualitativa e numerica delle truppe e dei mezzi russi. Nella prima metà del 2025 oltre 210.000 russi si sono arruolati a contratto nelle forze armate nella prima metà del 2025, e altri 18.000 si sono uniti alle “unità di volontari”. Come ha detto ieri il vice segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale, Dmitry Medvedev.
Lo stesso Medvedev lo scorso gennaio aveva detto che nel 2024 i contrattisti arruolati erano stati 450.000 e quelli entrati nelle formazioni di volontari 40.000. Mentre nel 2023, secondo quanto affermato lo scorso anno dal presidente Vladimir Putin, i contrattisti arruolati erano stati 486.000.
Alla fine del 2023 Putin aveva detto che due terzi dei militari impiegati a quel tempo in Ucraina erano contrattisti e un terzo riservisti richiamati alle armi. Lo scorso anno la testata Moscow Time aveva scritto che lo stipendio mensile minimo di un soldato a contratto in Russia era di 210.000 rubli (oltre 2.000 euro), vale a dire tre volte di più del reddito medio del Paese, a cui andavano aggiunti una serie di corposi benefit.
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L’Europa dei camerati e il suo cuore battente. HEIL MERZ
di Fulvio Grimaldi
Die Fahne Hoch / die Reihen fest geschlossen…”, Alta la bandiera, le fila ben serrate…”
https://www.youtube.com/watch?v=D7pw9_EMGfI (In tedesco)
https://www.youtube.com/watch?v=j05dg8a4iWU ( Milva, italiano)
Era l’inno delle SA, le milizie naziste, versione tedesca delle squadracce nere nostrane, che imperversavano fino a quando non dettero ombra al partito e furono soffocate nel sangue e nel carcere. Poi divenne l’inno del partito. Ho titoli per parlarne, a proposito di allora e di adesso. Perché c’ero e, alla faccia di Merz, ci sono.
Friedrich Merz, neocancelliere tedesco, e Marc Rutte, neosegretario della NATO, si fanno vedere spesso insieme. Manifestano quella gioiosa comunanza che gli psichiatri definiscono “sindrome del delirio condiviso” e considerano una grave patologia. A Friedrich Merz deve essere intimamente gradito il motto “repetita juvant”. E non pare essere l’unico, se uno fa caso a quanto va succedendo nelle istituzioni in una parte significativa del nostro continente, a partire dalla nostra che molto si è portata avanti col lavoro: l’”Europa dei camerati”, qualcuno va azzardando.
Mi rendo conto che su questo tema e i suoi rapidi sviluppi ci sia poco da scherzare, ma per adesso e per stavolta prendiamola così. Anche perché i due figuri si prestano: uno che in casa, fin da piccolo l’hanno chiamato “Birnkopf”, testa di pera, e non si sa se abbiano fatto del bodyshaming, o dei riferimenti al modo di ragionare. L’altro che, pur di non far trasparire nulla di umano e non militarizzato, si rivolge al mondo con occhi e labbra talmente strizzati da parere feritoie di carro armato.
Quanto alla passione di Merz per il citato insegnamento dei padri latini sulla ripetizione degli eventi positivi e delle cose ben fatte, il pensiero corre a quanto il suo antecedente bavarese rispettasse la costituzione del suo Stato, la Repubblica di Weimar, inanellando un putsch dopo l’altro, fino a quello riuscito tramite regolari elezioni (1933).
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Ecco le prove che Israele ha perso la guerra
(e i segni che il conflitto sta per riprendere)
di Mike Whitney - unz.com
Al popolo americano non viene detto perché Israele ha accettato il cessate il fuoco con l’Iran. Sì, Israele stava rapidamente esaurendo gli intercettori della difesa aerea (rendendosi più vulnerabile agli attacchi iraniani), ma questa questione è solo di secondaria importanza. Il vero motivo per cui volevano un cessate il fuoco era che stavano venendo sistematicamente polverizzati e avevano bisogno di fermare l’emorragia in fretta. Ecco perché Israele ha “gettato la spugna” meno di due settimane dopo la salva iniziale, perché l’Iran stava polverizzando un bersaglio dopo l’altro senza che ci fosse alcuna fine in vista. Quindi, Israele ha capitolato.
Naturalmente, questa non è la storia che abbiamo letto sui media occidentali, dove non si parla della vasta distruzione di obiettivi strategici israeliani (da parte dei missili balistici iraniani); questa notizia è stata completamente omessa dalla copertura mainstream. Ma è per questo che Israele ha convinto Trump a trovare una via d’uscita diplomatica, perché le perdite stavano cominciando ad aumentare e l’Iran non stava “mollando”.
Sapevate che in Israele è illegale pubblicare video o foto di edifici colpiti da missili iraniani? In altre parole, se pubblicate foto di edifici, infrastrutture o basi militari in fiamme, finirete in prigione. È così che il governo controlla la narrazione e convince l’opinione pubblica che sta vincendo una guerra che, in realtà, sta perdendo. Ma non credetemi sulla parola: ecco il video di un giornalista israeliano che spiega come la censura governativa stia influenzando la capacità della popolazione di capire cosa sta succedendo:
⚡️🇮🇱🇮🇷JUST IN: CH13’s Raviv Drucker:
“There were a lot of missile hits in IDF bases, in strategic sites that we still don’t report about…It created a situation where people don’t realize how precise the Iranians were and how much damage they caused”pic.twitter.com/sYVBM8hdOp
— Suppressed News. (@SuppressedNws) June 26, 2025
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Anche oggi Israele ci ha regalato la nostra strage quotidiana...
di Andrea Zhok
Anche oggi Israele ci ha regalato la nostra strage quotidiana. Un attacco aereo ha preso di mira l'Al-Baqa Café sulla spiaggia di Gaza, facendo almeno 21 morti. Si tratta di uno dei pochi luoghi in cui è (era) possibile avere un accesso internet nei prolungati blackout delle comunicazioni in Gaza, e perciò è (era) spesso sede di giornalisti e fotoreporter (almeno tre morti in questo attacco).
Insieme alle lacrime, le parole sono finite da tempo.
È come vivere in un dipartimento dell’inferno emerso per accidente alla superficie terrena, come abitare l’incubo di un pazzo sadico.
È come se la rivolta e il massacro del Ghetto di Varsavia andasse in onda sempre di nuovo, ma moltiplicato per dieci nei numeri, nella durata, nell’efferatezza; ed è come se il tutto venisse trasmesso in mondovisione, e tutt’attorno la buona società del giardino occidentale applaudisse ad ogni nuovo schizzo di sangue, e si guardasse allo specchio soddisfatta.
Questo è il Male.
E in tutto questo orrore c’è un orrore indiretto, nascosto, a scoppio ritardato.
Quest’oscenità morale e umana, infatti, non è solo qualcosa che colpisce le vittime presenti, non è qualcosa che si esprime solo nei confronti di un popolo martoriato e lontano, e che perciò merita la nostra compassione.
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Il Pride di Budapest e gli insegnamenti di Brecht
di Francesco Fustaneo
La presente è un'analisi politica dei fatti connessi al Pride di Budapest che rifugge sia dalle semplificazioni dei delatori della manifestazione, sia dalle critiche strumentali portate avanti da noti esponenti politici europei a Orban per le sue posizioni sul conflitto russo-ucraino e la moderazione nell'approccio europeo con la Russia.
Lo scorso 28 giugno numerose sfilate e manifestazioni correlate ai vari “Pride” si sono tenute un po' in tutta Europa, ma quello che ha fatto più discutere, è stato il Pride di Budapest, sicuramente a questo giro il più politicizzato.
Gli organizzatori parlano della presenza di 200.000 persone, scese in piazza sfidando il divieto di Orban.
Il primo ministro ungherese ha così finito per fare un assist alle opposizioni interne e ai suoi delatori esteri, vietando una manifestazione che nei fatti poco fastidio avrebbe potuto dare al suo governo, se fosse stata invece, autorizzata in partenza.
Il clima di divieto e censura, ha invece finito per fornire un ulteriore motivazione a migliaia di persone provenienti da tutta l'Ungheria e da altre parti d' Europa a scendere in piazza contro misure avvertite come “liberticide”.
Occorre premettere che attualmente nel paese magiaro sono previste multe a partire da 500 euro e fino a un anno di carcere per chi promuove cortei “arcobaleno”.
Lungo il percorso del corteo non autorizzato, la polizia, su disposizione del premier, aveva pure installato decine di telecamere per il riconoscimento facciale dei trasgressori.
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Il massacro censurato: lo studio che Israele e l’Occidente fanno finta di non vedere
di Lavinia Marchetti
377.000 palestinesi “scomparsi” secondo Harvard.
Avrete senz’altro notato che la conta ufficiale dei morti palestinesi, dopo essere salita vertiginosamente nei primi mesi del massacro (20.000 vittime in circa due mesi, poi 30.000), si è arrestata bruscamente intorno ai 50.000. Da allora, da mesi, non si muove.
Eppure il genocidio è proseguito, Gaza è stata rasa al suolo in modo più radicale di quanto avvenne a Dresda nel ’45, e la popolazione non ha più ricevuto tregua. La domanda sorge spontanea: com’è possibile che il numero dei morti non cresca, mentre il rumore delle bombe non si ferma?
Già a luglio 2024, The Lancet aveva provato a rispondere. Una lettera firmata da scienziati internazionali avvertiva che il bilancio reale delle vittime, considerando anche i morti indiretti (per fame, malattia, ferite non curate), poteva superare i 186.000. Una cifra rimossa, archiviata, etichettata come eccessiva.
Eppure oggi è uno studio condotto da un ricercatore affiliato a Harvard a confermare che la realtà potrebbe essere ancora più drammatica. Incrociando i dati ufficiali israeliani con l’analisi demografica sul terreno, lo studio mostra che la popolazione della Striscia è passata da 2,227 milioni a circa 1,85 milioni. Mancano all’appello 377.000 persone. La metà, bambini.
Le cifre che non tornano
Già nel primo trimestre di guerra, il bilancio delle vittime cresceva di decine di migliaia a settimana.
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Vertice NATO, la Russia comeminaccia strategica e i 70 miliardi in più di spesa militare italiana
di Domenico Moro
Il recente vertice annuale della Nato, tenutosi all’Aja, rappresenta un salto di qualità rispetto ai precedenti vertici, definendo una Europa e una Ue fortemente orientate alla guerra.
Nel documento finale di cinque punti, i più importanti sono il primo e il quinto. Nel quinto si definisce una questione che sta alla base di tutti gli altri punti, compreso il primo: l’individuazione della Russia non solo come “minaccia più significativa”, come era stata definita nel summit del 2023, ma “una minaccia a lungo termine”. Quindi, la Russia è la minaccia strategica cui si fa riferimento per giustificare l’aumento delle spese militari contenute nel primo punto. Si tratta di una definizione molto grave che implica la rottura definitiva con la Russia, prospettando un confronto militare con quel paese.
Nel primo punto, dunque, si definisce la quota di spese militari sul Pil a cui sono tenuti obbligatoriamente i partner della Nato e che passa dal 2% al 5%. Tale quota dovrà essere raggiunta in non più di dieci anni (entro il 2035) e si divide in un 3,5%, relativo alle spese per capacità militari “core” e un altro 1,5%, relativo alla resilienza e a investimenti per la difesa nazionale e per l’innovazione in campo militare. Alcuni commentatori hanno sottolineato che “solo” il 3,5% sarebbe la spesa effettivamente militare. In realtà, non è così, perché anche quell’1,5% è destinato a spese correlate con il militare e comunque si tratta di spese aggiuntive che prima non erano previste e che, soprattutto, vanno a pesare sul bilancio pubblico, a detrimento degli stanziamenti per la sanità, l’istruzione e il Welfare in generale.
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Il servilismo dell'UE e la profezia (avverata) di Putin
di Clara Statello
Il vertice NATO ha svelato un Occidente totalmente subalterno agli Stati Uniti, che ha abdicato alla propria autonomia strategica e al protagonismo sui nuovi scenari internazionali. Qual è il prezzo che i nostri governanti hanno deciso di pagare a Trump e per quali ragioni?
“Vi assicuro: Trump ristabilirà rapidamente l’ordine. E vedrete che presto tutti loro saranno in ginocchio davanti al loro padrone, scodinzolando dolcemente la coda. Tutto tornerà al suo posto”.
Sono trascorsi poco più di cinque mesi da quando il presidente russo Vladimir Putin pronunciò questa profezia sui leader europei al giornalista Pavel Zaburin.
“Erano felici di obbedire agli ordini di Joe Biden, saranno felici di obbedire agli ordini del nuovo padrone”, prevedeva lucidamente il presidente russo, mentre le élite occidentali erano in scompiglio dopo l'elezione di Donald Trump.
La profezia si è avverata pienamente durante il vertice della NATO a l'Aja. Un vertice che si potrebbe intitolare “Welcome home Daddy”, per utilizzare il termine con cui Mark Rutte si è rivolto al capo della Casa Bianca, mentre quest'ultimo si vantava dell'autoproclamata vittoria in Medio Oriente, paragonando Israele e Iran a due bambini piccoli che litigano.
Addio diplomazia, benvenuto servilismo
Che il vertice dell’Aja si sarebbe trasformato in un festival di tripudio e devozione verso Trump era già chiaro dal messaggio adulatorio inviatogli in privato dal segretario della NATO — e prontamente spiattellato sui social dallo stesso presidente statunitense, poche ore prima del suo arrivo in Europa.
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