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Il potere di un dollaro
di Milford Bateman
“Il microcredito non è altro che un modo socialmente accettabile con cui le élite finanziarie sfruttano i poveri”. Una lapidaria affermazione che riassume questa analisi di un’idea, pubblicizzata come una panacea per alleviare la povertà nel mondo, che si è però rivelata essere l’ennesima beffa ai danni dei più poveri e disperati. E difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, trattandosi in realtà di un’interpretazione in chiave neoliberista dell’economia dello sviluppo. Fortemente voluta e promossa dagli stessi attori economici che hanno causato e continuano a perpetuare le diseguaglianze nel mondo, il microcredito continua, nonostante plateali fallimenti e scandali spettacolari, ad essere una delle strategie favorite dalla Banca Mondiale e dal complesso industriale della filantropia — con effetti catastrofici nei paesi in via di sviluppo
Trent’anni fa la comunità internazionale per lo sviluppo era in estasi. Credeva di aver trovato la perfetta soluzione in linea con il mercato alla povertà nei paesi in via di sviluppo: il microcredito.
Il divulgatore di questa nuova strategia — che consisteva nell’offrire piccoli prestiti per permettere ai poveri di avviare attività di lavoro autonomo — era l’economista del Bangladesh educato in America Muhammad Yunus, che dipingeva il microcredito come una panacea in grado di creare in breve tempo un numero illimitato di posti di lavoro e di eradicare la povertà endemica.
L’idea di Yunus di “portare il capitalismo ai poveri” fece rapidamente di lui l’esperto assoluto della povertà mondiale. Nel 1983, avendo ormai fatto il pieno di donazioni, soprattutto da parte di agenzie di cooperazione e fondazioni private americane, Yunus fondò la sua “banca dei poveri” — l’oramai emblematica Grameen Bank.
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Spesa in deficit, debito pubblico e mercati finanziari
di Biagio Bossone
Ho molto apprezzato il recente intervento di Andrea Terzi su economiaepolitica.it riguardo all’esigenza di ripensare la politica fiscale, considerandola come il solo vero strumento in grado di immettere attività finanziarie direttamente nel sistema economico e proponendone una rilettura in chiave di nuova reinterpretazione della relazione fra debito e risparmio. Ho anche molto apprezzato la disponibilità di Terzi a dialogare su alcuni aspetti del suo intervento per me non chiari, da cui è scaturito il mini-dibattito che la rivista riporta in calce all’intervento di Terzi.
Sento tuttavia di dover tornare su una delle tesi principali di Terzi, che non ritengo di poter condividere, soprattutto a causa delle conseguenze critiche che da essa potrebbero derivare nel caso di un’azione sostenuta di politica fiscale espansiva.
Obsolescenza del vincolo intertemporale di bilancio
Terzi contesta la scelta di sottoporre la spesa pubblica al vincolo intertemporale delle entrate fiscali, secondo lui motivata, in teoria come nella prassi, dal timore di ‘monetizzazione’ del debito pubblico cui il governo farebbe ricorso nel caso si trovasse in assenza di sottoscrittori.
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Quattro Futuri
Una cosa di cui possiamo esser certi è che il capitalismo finirà
di Peter Frase
Il testo che segue, di Peter Frase, è la traduzione dell'articolo originale, scritto nel 2011 e pubblicato su Jacobin, che poi servirà per il libro del 2016, dello stesso autore, dal titolo "Quattro futuri: la vita dopo il capitalismo"
Nel suo discorso, all'accampamento di Occupy Wall Street a Zuccotti Park, Slavoj Žižek si lamentava del fatto che «È facile immaginare la fine del mondo, ma non riusciamo ad immaginare la fine del capitalismo.» Si tratta della parafrasi di una commento fatto da Fredric Jameson alcuni anni fa, quando ancora l'egemonia del neoliberismo appariva essere assoluta. Eppure l'esistenza stessa di Occupy Wall Street suggerisce che ultimamente la fine del capitalismo è diventata un po' più facile da essere immaginata. Dapprima, quest'immaginazione aveva preso una forma piuttosto tetra e distopica: all'altezza della crisi finanziaria, con l'economia globale che sembra essere apparentemente arrivata al collasso, la fine del capitalismo sembrava che potesse essere l'inizio di un periodo di anarchia, di violenza e di miseria. E potrebbe esserlo ancora adesso, con l'Eurozona che vacilla al limite del collasso mentre scrivo. Ma più recentemente, la diffusione della protesta globale, da Cairo a Madrid a Madison a Wall Street, ha dato alla sinistra qualche ragione per aver qualche speranza in più in un futuro migliore dopo il capitalismo.
Una cosa di cui possiamo esser certi circa il capitalismo è che esso finirà.
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La democrazia è un concetto ambiguo*
Red Notebook e Ενθέματα της Αυγής intervistano Giorgio Agamben
Il filosofo Giorgio Agamben era ad Atene invitato dai giovani di SYRIZA e dall’istituto Nikos Pulantzas. Il suo intervento, nell’aula gremita di Technopoli, dal titolo Una teoria sul potere della spoliazione e del sovvertimento, è stato dedicato al compimento dei quarant’anni dalla rivolta del Politecnico. Domenica 17 novembre, dopo il corteo del Politecnico, l’hanno incontrato e hanno conversato con lui Anastasia Giamali, per l’Alba, e Dimosthenis Papadatos-Anagnostopulos per RedNotebook. Il testo che segue è la conversazione completa, mentre negli Ενθέματα της Αυγής e sul loro blog troverete una versione accorciata.
Ha cominciato il suo intervento ad Atene dicendo che la società nella quale viviamo non è semplicemente non democratica, ma, in ultima analisi, non politica, dal momento che lo status di cittadino non è più se non una categoria del diritto. È però conseguibile il cambiamento politico nella direzione di una società politica?
Quel che volevo evidenziare è l’aspetto del tutto nuovo della situazione. Credo che, per capire ciò che ci siamo abituati a chiamare “situazione politica”, dobbiamo tenere a mente il fatto che la società nella quale viviamo forse non è più una società politica. Un fatto simile ci obbliga a cambiare completamente la nostra semantica. Ho provato allora a mostrare come, nell’Atene del quinto secolo a.C., la democrazia inizi con una politicizzazione dello status di cittadino. L’essere cittadino ad Atene è un modo attivo di vita. Oggi, in molti paesi d’Europa, come anche negli USA, dove la gente non va a votare, l’essere cittadino è qualcosa di indifferente. Forse in Grecia questo vale in misura minore; per quanto ne so, qui esiste ancora qualcosa che somiglia a una vita politica. Il potere oggi tende a una depoliticizzazione dello status di cittadino. La cosa interessante in una situazione talmente depoliticizzata è la possibilità di un nuovo approccio alla politica. Non si può stare attaccati alle vecchie categorie del pensiero politico. Bisogna rischiare, proporre categorie nuove. Così, se alla fine si verificherà un cambiamento politico, forse sarà più radicale di prima.
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Tecno-scienza e tardo-capitalismo
Otto Tesi per una discussione inattuale
di Franco Piperno
Per una nuova scienza, libera e autonoma dal complesso militare-industriale
Nella nostra epoca, quella del tardo-capitalismo, pressoché tutte le forme dei saperi propriamente scientifici sono stravolte: l'originaria «filosofia della natura» coltivata nelle università da piccoli gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via via dislocata all'interno del complesso militare-industriale, divenendo appunto Big Science: una vera e propria fabbrica di innovazioni tecnologiche caratterizzata dai costi immani e da decine e decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un regime di fabbrica di tipo fordista. Si può affermare che il Progetto Manhattan, ovvero la costruzione della bomba atomica americana, costituisca il punto di non ritorno che separa la scienza moderna da quella tardo-moderna, la Big Science appunto. A dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non esiste né può esistere un «capitalismo cognitivo»; semmai v'è, in formazione, un “capitalismo tecnologico”, un modo di produzione che promuove una furiosa applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale – applicazione che genera continue innovazioni di processo e di prodotto, ma queste non hanno alcun significativo rapporto con l'accumularsi delle conoscenze. Infatti, per loro natura, le scoperte scientifiche non possono essere né promosse né tanto meno programmate, perché esse sono in verità risposte a domande mai formulate – come accade nei viaggi o nei giochi.
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Gli squilibri dell’eurozona e le guerre commerciali globali
di Stefan Kawalec
È passato più di un anno dalla pubblicazione di European House of Cards, ma tutte le cause strutturali del fallimento dell’eurozona e le previsioni descritte in questo articolo di Stefan Kawalec rimangono tutt’ora in piedi, ugualmente inascoltate dai decisori politici europei. Sicché, mentre si materializzano le paventate guerre valutarie e commerciali causate dagli squilibri globali innescati dall’euro, e il dollaro americano continua a svalutarsi sulla moneta unica, l’eurozona rimane intrappolata nelle sue false speranze, di volta in volta artatamente rinvigorite o sgonfiate nel dibattito pubblico con l’intento strumentale di portare avanti le politiche deflazionarie che favoriscono i paesi più forti, quelli creditori, e le classi sociali vincenti, i rentier della finanza con i loro sostenitori. Fino a che il gioco potrà andare avanti.
Kawalec si sofferma anche sulla inevitabilità della riduzione del surplus commerciale tedesco, e sulla necessità che ciò avvenga in modo graduale. Come dimostrano precedenti storici, un surplus di questo tipo è segno di debolezza anziché di solidità: l’economia tedesca non è in grado di sfruttare le proprie risorse senza attingere alla domanda estera, e quando questa dovesse venire a mancare sarà inevitabile un periodo di recessione e alta disoccupazione.
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Syriza, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare lo status quo
di George Souvlis e Leandros Fischer
Sono passati ormai due anni da quando il governo greco formato da Syriza e dalla destra dei “Greci Indipendenti” si è piegato alle pressioni delle “istituzioni” europee, a seguito di un referendum in cui la stragrande maggioranza del popolo greco si è espressa contro l’imposizione di ulteriori misure di austerità da parte della UE. Riteniamo che questi due anni siano una distanza di tempo sufficiente per elaborare una riflessione seria sull’esperienza greca durante il tumultuoso periodo intercorso tra il gennaio e il luglio 2015, oltre che sul significato di quel referendum e sull’operato del governo greco fino ad oggi.
Oggi possiamo senz’altro dire che il tentativo di Syriza di ottenere cambiamenti reali non solo si è rivelato un fallimento totale, ma ha anche inflitto un duro colpo alla credibilità della sinistra su scala internazionale. Prima di iniziare una valutazione dell’operato di Syriza al governo dall’estate 2015 a oggi è però importante riportare alcuni dei fatti per come si sono svolti; è importante, cioè, mettere in pratica il classico metodo marxista del confronto tra discorso pubblico e realtà storica.
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Flat tax, la tassa che piace ai ricchi
di Leonardo Mazzei
Uno studio scientifico con cui Mazzei svela chi ci guadagnerebbe veramente con la "tassa piatta", ovvero le cifre che i liberisti Matteo Salvini, Armando Siri e Nicola Rossi non vi faranno vedere mai
Ci siamo già occupati di flat tax un paio di settimane fa. Lo abbiamo fatto per denunciarne l'effetto di scardinamento che essa avrebbe sull'intero impianto costituzionale. Ci torniamo sopra oggi per dare la parola ai numeri, per dimostrare cioè quale sarebbe l'effetto concreto della "tassa piatta" sia in termini di redistribuzione della ricchezza a favore delle fasce di reddito più alte, sia per quanto riguarda la cancellazione di ogni diritto sociale che ne deriverebbe.
Gli imbroglioni sono infatti all'opera. Per loro con la flat tax tutti ci guadagnerebbero. Un'idea win win quindi, che avrebbe anche il grande pregio di semplificare il sistema fiscale. Come se le complicazioni del fisco dipendessero dal numero delle aliquote
dell'Irpef. Aliquote che dal 1974, quando l'Imposta sul reddito delle persone fisiche entrò in vigore, sono passate da 32 a 5. Chissà com'era complicato il sistema fiscale negli anni '70!
Un po' di storia
La verità è che il principio costituzionale, fissato nell'articolo 53 - «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» - è stato gradatamente attaccato già a partire dal 1983.
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Gli interventi umanitari: la dottrina dell'imperialismo
di Petar Djolic*
"L'inferno è colmo di buone speranze
e desideri" (S. Bernardo di Clairvaux).
Definire il concetto di intervento umanitario è problematico e, quindi, l'implementazione della sua concettualizzazione è controversa. Da una parte, l'intervento umanitario è di regola inteso come un'azione di ultima spiaggia presa da uno stato o da un gruppo di stati per alleviare o far terminare palesi violazioni dei diritti umani per conto ed in favore di cittadini di una minoranza etnica dello stato-bersaglio, attraverso l'uso della forza militare. Dall'altra parte, l'intervento umanitario è percepito come una delle più sottili e nascoste forme di esercizio del potere nei sistemi geopolitici contemporanei. Vale a dire che le strutture ideologiche che provvedono a dare e sostenere la legittimazione per un più aperto e dichiarato esercizio del potere politico ed economico sono manifestate attraverso la retorica dell'interventismo umanitario.
Conseguentemente, il fenomeno dell'intervento umanitario è stato uno degli argomenti più controversi nel diritto internazionale, nella scienza politica e nella filosofia morale. Tuttavia, esaminando l'evoluzione del concetto, si può concludere che le motivazioni per l'intervento umanitario sono moralmente e giuridicamente intollerabili, agendo quest'ultimo come una forza dell'imperialismo liberista.
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Crisi: nella discarica del capitale
di Alessandro Visalli
Ancora alcuni interventi degli esponenti del “Gruppo Krisis”, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, dopo quelli del 2008 e 2012, sulla crisi finanziaria ed il “capitale fittizio”, rispettivamente, che avevamo letto qui.
Del “Gruppo Krisis” abbiamo parlato nel post, citato; dalla fine degli anni ottanta esso è attivo, intorno alla omonima rivista, nello sviluppo della critica marxista, in particolare concentrandosi sulla teoria del valore e del denaro. Questo tema è di tale importanza che conviene tornare su alcuni brevi testi, dei quali due sono antecedenti alla rottura teorica con Robert Kurz (nel 2004), che abbiamo letto in “Le crepe del capitalismo”, e uno è successivo. Nel testo in esame Robert Trenkle si interroga, nel 1998, sul concetto di “valore” nella teoria marxista, e Lohoff, nel 2000, sulla teoria delle crisi. Quindi nel saggio del 2012, che firmano insieme, ridescrive il ciclo della crisi del 2008.
Uno dei punti di differenza nell’analisi è che prima della rottura tra Krisis e Exit la “teoria del valore” del Gruppo è imperniata sul concetto di capitale “fittizio”, in quanto in sostanza anticipazione di valore futuro (il punto è certamente fondato, rintracciandosi anche nelle analisi di scuole molto diverse e distanti, come il keynesismo radicare di Amato e Fantacci e persino il liberismo temperato di Mervyn King), mentre dopo di essa l’analisi del Gruppo Krisis rimanente attenua questo piano di critica, per evidenziare la funzione sistemica della creazione di denaro a partire da una funzionalizzazione del tempo, e quindi in qualche senso riconosce la sua “realtà” (fin che dura la giostra). Viene messa a fuoco quindi la nozione di “merci del secondo ordine”.
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La contestazione del decreto Lorenzin
di Guido Viale
La contestazione del decreto Lorenzin, diventato legge il 28 luglio, sui 12 vaccini (poi “solo” 10) obbligatori per l’ammissione dei bambini ai nidi e alla scuola pubblica ha suscitato un movimento di massa – due manifestazioni nazionali di 40mila persone a Roma, una a Pesaro di 60 mila, un presidio di parecchi giorni davanti al parlamento, decine di cortei e fiaccolate con migliaia di partecipanti in tutta Italia – intorno a cui media e stampa hanno eretto un muro di silenzio, fino a che due calci contro l’auto di tre deputati del PD non hanno permesso loro di gridare alla violenza e al fanatismo (Michele Serra), riempiendo pagine e schermi di editoriali e deprecazioni. Non entro nel merito tecnico della contestazione – non ne ho le competenze – ma alla dimensione sociale e politica di questa vicenda non solo è lecito, ma doveroso prestare attenzione. Partiamo dagli schieramenti in campo.
A sostegno del decreto troviamo in prima linea Beatrice Lorenzin, ministra che non ha fatto niente per la salute degli italiani, ma si è messa in evidenza con la promozione del fertility-day e l’accusa alle popolazioni della Terra dei fuochi, massacrate dai rifiuti, di essere loro la causa dei propri malanni per abuso di alcol e fumo. La ministra ha anche raccontato fandonie, come una epidemia di morbillo a Londra completamente inventata.
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Non chiamatela crisi: è una guerra
di Thomas Fazi
Le post-democrazie odierne sono il risultato di un processo quarantennale di ridimensionamento della sovranità popolare e del movimento operaio che in Europa ha trovato la sua applicazione più radicale
La crisi – economica, politica, sociale e istituzionale – che stanno vivendo le democrazie occidentali, in particolar modo quelle europee, non inizia nel 2008, e neppure nei primi anni duemila, con l’introduzione dell’euro, come recita la vulgata. È una crisi che ha origini molto più lontane, che risalgono almeno alla metà degli anni Settanta. È a quel punto che il cosiddetto modello keynesiano, che aveva dominato le economie occidentali fin dal dopoguerra, entra in crisi. Come sappiamo, si trattava di un modello basato su una forte presenza dello Stato nell’economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno agli investimenti e alla domanda eccetera), un welfare molto sviluppato, politiche del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei salari (più o meno in linea con la crescita della produttività) e l’istituzionalizzazione dei sindacati e della concertazione come strumento di mediazione tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese.
A livello internazionale si basava su un regime di cambi fissi (il cosiddetto “regime di Bretton Woods”) – sistema che ruotava sostanzialmente intorno al dollaro come valuta di riserva internazionale, convertibile in oro a un tasso di cambio fisso – e su un ferreo controllo dei movimenti di capitale.
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La città turistica come messinscena*
di Marco d'Eramo
Il turismo uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana
I geografi distinguono “tre tipi fondamentali di città turistiche: le stazioni (resorts) turistiche ‘costruite espressamente per il consumo dei visitatori’; città turistiche storiche che ‘pretendono un’identità culturale e storica’; e città convertite, luoghi di produzione che devono ricavare uno spazio turistico all’interno di contesti altrimenti ostili ai visitatori”.
Poiché non esiste ormai città al mondo in cui non capiti per sbaglio qualche turista, il termine città turistica va precisato: per esempio, molti stranieri visitano São Paulo, ma quest’enorme megalopoli brasiliana prescinde a tal punto dalla presenza di turisti che è impossibile trovarvi una cartolina da comprare, come si scopre con un sollievo di liberazione.
In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti: in questo senso sono tali non solo Kyoto, Dubrovnik, Bruges, Venezia o Firenze, ma anche centri più grandi come Roma o Barcellona; persino Parigi e Londra sono “città turistiche”, come anche New York, se ci si limita all’isola di Manhattan.
Ma in senso più stretto, il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dell’acciaio (Krupp), Clermont-Ferrand quella della gomma (Michelin), Detroit e Torino erano le città dell’automobile (General Motors e Fiat).
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La grande regressione
di Pierluigi Fagan
AA.VV.: La grande regressione, A cura di H. Geiselberger, Feltrinelli, 2017. Riportiamo un breve sunto dei quattordici interventi sul tema posto a cui faremo seguire un commento finale. Il tema lanciato è lo stato del mondo (migrazioni, terrorismo, stati falliti, incremento delle diseguaglianze, demagoghi autoritari, globale – nazionale, crollo dei sistemi intermedi come partiti – sindacati – media e naturalmente la parabola neo-liberista e globalista) al cui capezzale vengono chiamate alcune menti pensanti per fare il punto
Per Arjun Appadurai, la regressione si legge nella nascente insofferenza verso la democrazia liberale a cui si contrappone una crescente adesione all’autoritarismo populista, il mondo vira a destra (come se la democrazia liberale fosse di sinistra). Di base, c’è l’erosione di struttura operata dalla globalizzazione (ritenuta irreversibile) che depotenzia ogni sovranità nazionale ma i leader autoritari/populisti si guardano bene dall’affrontare questa causa profonda e si presentano come sovranisti solamente sul più comodo piano culturale: sciovinismo culturale, rabbia anti-immigrazione, identità, tradizioni violate. Il fallimento dei tempi lunghi e di una certa sterilità della politica democratica nell’affrontare i problemi fa crescere l’insofferenza ed alimenta la delega a soluzioni imperative che però rimangono di facciata in quanto nessuno veramente sembra intenzionato a discutere i fallimenti del neoliberismo globale. La ricetta dell’indiano è stupefacente: l’opinione pubblica popolare e di élite, liberale ed europea, dovrebbero fare fronte per difendere il liberalismo economico e politico – “… abbiamo bisogno di una moltitudine liberale.”.
Passiamo al da poco scomparso Zygmunt Bauman che conviene sulla lettura dei tempi come perdita completa di ordine e prevedibilità, nonché di messa in discussione della stessa nozione di “progresso”.
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Libertà e proprietà
di Giancarlo Scarpari
La parabola del partito tendenzialmente maggioritario, il progetto ideato dal Pd di Veltroni e rilanciato dal Pd di Renzi, sembra effettivamente giunto alla sua logica conclusione.
Per poter decollare aveva avuto bisogno di iniettare nel partito, a uso e consumo soprattutto del nuovo elettorato da attrarre, una robusta iniezione di propaganda “anticomunista”, ricalcata sui modelli berlusconiani e tradottasi nella “rottamazione” di quel che restava della sua tradizione socialdemocratica, nella guerriglia mediatica condotta contro i dirigenti che la rappresentavano e nello scontro frontale praticato nei confronti del lavoro dipendente.
Il balzo del Pd registrato alle europee col 40% dei voti aveva convinto Renzi a proseguire con decisione per il sentiero tracciato.
Col miraggio di sempre nuove vittorie, la maggioranza del partito, messi da parte o archiviati principi e valori “del passato”, ha seguito il comandante e il cerchio magico che lo applaudiva; la minoranza ha subito per mesi le scelte del capo, sempre incerta sul da farsi, mentre sul carro del vincitore, dopo le giravolte e le retromarce del Cavaliere, erano nel frattempo saliti i “diversamente berlusconiani”.
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Gramsci e l’egemonia. Complessità e trasformazione sociale
Alexander Hobel
Qual è, tra gli altri, il fattore forse decisivo della popolarità del pensiero e dell’opera di Gramsci presso un vasto pubblico, che va ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e consente di parlare di una sorta di “ricezione di massa” della sua elaborazione? Qual è insomma “il segreto” della sua “egemonia” - relativa, certo - tra i pensatori politici della contemporaneità?
Certamente l’onda lunga della salvaguardia e valorizzazione del suo contributo teorico, dovuta in primo luogo a Palmiro Togliatti, al Pci, alle sue strutture di ricerca e ai suoi intellettuali, è tuttora alla base di questo successo, costituendo una sorta di rivincita postuma, a 25 anni dalla Bolognina, rispetto alla sciagurata liquidazione di quel grande partito.
Ma il motivo determinante mi pare stia proprio nella natura del pensiero di Gramsci che, più che come teorico della “rivoluzione in Occidente”, può essere definito un teorico della complessità dei processi di transizione, e dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate. In questo senso la sua elaborazione costituisce davvero una pagina decisiva nell’evoluzione del marxismo; è tutta interna a quella concezione del mondo e della storia, e ne rappresenta - direi al pari del pensiero di Lenin - uno sviluppo fondamentale nel XX secolo.
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Insostenibilità finanziaria delle pensioni: fallacia logica e metafore sbagliate
Enrico Turco e Marcello Spanò
Il Presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha recentemente dichiarato che mantenere l’età pensionabile a 67 anni, anziché alzarla a 70, come requisito di pensionamento comporterebbe un costo di 141 miliardi che metterebbe a serio rischio i conti dell’ente pubblico. La dichiarazione è da leggere congiuntamente alle proposte in discussione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera di modifica dell’art. 38 della Carta costituzionale in materia di diritto alla pensione. Tra le varie proposte vi è quella firmata dai deputati Pd che precisa che “il sistema previdenziale è improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la sostenibilità finanziaria”.
Siamo dunque tornati a parlare di pensioni, e ne parliamo seguendo l’ormai logora logica dell’austerità, quella che subordina la garanzia dei diritti ad una presunta sostenibilità finanziaria e che, camuffata da una fasulla solidarietà intergenerazionale, si appresta a definire la base ideologica per l’ennesimo giro di vite regressivo del nostro sistema pensionistico.
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Ritornare a Westfalia?
di Sandro Moiso
Andrew Spannaus, LA RIVOLTA DEGLI ELETTORI. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa, Mimesis Edizioni 2017, pp. 110, € 10, 00
Occorre ripartire dal Trattato di Westfalia, l’intesa che mise fine alla guerra dei trent’anni nel 1648, e che pose le basi del diritto internazionale per secoli, per comprendere il testo di Andrew Spannaus recentemente edito da Mimesis.
Già autore di un testo sulla prevedibile vittoria di Trump, pubblicato lo scorso anno dallo stesso editore e recensito all’epoca su Carmilla (“Perché vince Trump”), l’autore prosegue nella sua ricostruzione dei motivi e delle ragioni che hanno portato al successo (relativo) dei cosiddetti movimenti populisti al di qua e al di là dell’Atlantico. Con un attenzione particolare, come si deduce dal titolo, alle contraddizioni venutesi a sviluppare in Europa tra governati e governanti.
Per l’autore “L’idea di Westfalia è semplice: «gli Stati sono responsabili per il proprio territorio e i propri cittadini, e altri Stati non dovrebbero interferire con nessuno dei due». È stato il principio guida nelle relazioni tra le nazioni occidentali per tre secoli, anche se ignorato abbondantemente nei confronti di altre aree del mondo, con l’imperialismo coloniale.”
Proprio dall’abbandono di tale principio governativo ed organizzativo egli fa derivare le attuali tendenze populiste o, come dichiara il titolo stesso, la rivolta degli elettori nei confronti delle élite.
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Ha vinto Lascienza
di Il Pedante
Venerdì 28 luglio è stato approvato alla Camera il «decreto vaccini» che porta il nome del ministro Lorenzin. Come previsto su questo blog, il testo convertito in legge si è ammorbidito nel passaggio parlamentare con la riduzione del numero delle vaccinazioni obbligatorie e delle pene per gli inadempienti. E, come previsto, la sua applicazione si sta già scontrando con difficoltà di diverso ordine che lasciano presagire una situazione di incertezza del diritto ormai tipica di ogni riforma contemporanea: dalla carenza di organici delle aziende sanitarie che non riusciranno a vaccinare tutti gli obbligati nei tempi previsti, agli oneri burocratici a carico delle scuole, nelle cui aule non si raggiungerà comunque l'«immunità di gregge» non essendo vaccinati i docenti e il personale, né potendoli vaccinare per mancanza di fondi.
A ciò si aggiungono le più gravi opposizioni dei governi regionali, cioè di coloro che dovrebbero mettere in pratica la legge. Per toccarla piano, l'assessore all'Istruzione della Valle d'Aosta e la sua collega ligure alla Sanità hanno rispettivamente definito il decreto «nazista» e «fascista», con la promessa di boicottarlo non applicando le sanzioni previste. In giugno il Consiglio provinciale dell'Alto Adige ha approvato all'unanimità un documento contro l'obbligo vaccinale, mentre la Regione Veneto è ricorrente in Corte costituzionale contro la riforma.
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Esistono condizioni di possibilità del comunismo?
di Gianfranco La Grassa
1. Com’è mia abitudine, partirò da alcune affermazioni althusseriane (in Sulla Psiconanalisi, Raffaello Cortina editore, 1994, pagg. 81-84) e poi, dopo essere passato per Marx, concluderò rispondendo alla domanda del titolo. Nel testo appena citato, ad un certo punto, criticando il concetto di genesi, A. parla della formazione del modo di produzione capitalistico che, nell’ambito del marxismo tradizionale, è sempre stato considerato un prodotto necessario dell’evoluzione del precedente modo di produzione feudale; il capitalismo nascerebbe proprio per gestazione interna all’evoluzione del feudalesimo. Vediamo i passi di A.
“….il modo capitalistico di produzione non è stato ‘generato’ dal modo feudale di produzione come un figlio. Non c’è filiazione in senso proprio (preciso) tra il modo feudale di produzione e quello capitalistico. Il modo capitalistico di produzione sorge dall’incontro ….. di un certo numero di elementi molto precisi, e dalla combinazione specifica di questi elementi ….. Il modo feudale di produzione genera (come un padre genera suo figlio……) soltanto questi elementi, alcuni dei quali d’altra parte (l’accumulazione del denaro sotto forma di capitale) risalgono al di qua di esso o possono essere prodotti da altri modi di produzione.
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La lezione di Keynes e i paesi arretrati
Introduzione di Sergio Cesaratto*
In occasione della recente pubblicazione, in lingua inglese (Review of Political Economy, Vol. 27, n. 2, 2015), di parti dello studio di Pierangelo Garegnani dal titolo "Il problema della domanda effettiva nello sviluppo economico italiano (1962), originariamente commissionato dalla SVIMEZ a Garegnani, la SVIMEZ, in collaborazione con il Centro di Ricerche e Documentazione ‘Piero Sraffa’, ha organizzato, il 14 ottobre 2016, l’incontro sul tema "Il ruolo della domanda nello sviluppo: il Mezzogiorno italiano, i Sud del mondo e la crisi dell’Europa."
L’intento è stato quello di realizzare una “rivisitazione” di quel contributo, e tramite esso di sviluppare un suo approfondimento ed un confronto di tesi che sottendono al confronto tra politiche dell’austerità ed economia dello sviluppo.
L’incontro di studio, tenutosi presso la Scuola di Economia e Studi Aziendali dell’Università Roma Tre, è stato aperto dall’Introduzione di Sergio Cesaratto (Università degli Studi di Siena). Hanno fatto seguito gli Interventi di Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Carmelo Petraglia (Università della Basilicata), Franklin Serrano (Università Federale di Rio de Janeiro), Antonella Palumbo (Università degli Studi Roma Tre).
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La matrice psicosociale del soggetto borghese nella crisi
di Leni Wissen
Una lettura della psicoanalisi di Freud dal punto di vista della critica della dissociazione-valore
Introduzione
Questo articolo si basa su due motivazioni. La prima è quella di determinare la matrice psicosociale del soggetto borghese sulla base di una lettura della psicoanalisi di Freud dal punto di vista della critica della dissociazione-valore. Lo sfondo di questa rischiosa scommessa è la visione secondo la quale la società capitalista è realmente prodotta dalla dinamica oggettiva della forma della dissociazione-valore, ma da questo non ne consegue alcun determinismo dello sviluppo sociale, dovuto alla relazione dialettica fra valore e dissociazione. Ciò significa soprattutto che il pensare, l'agire ed il sentire delle persone non possono essere derivati direttamente dalla forma della dissociazione-valore - e tuttavia l'organizzazione capitalista viene prodotta da persone che riproducono quotidianamente nel loro pensare, agire e sentire le categorie astratte della dissociazione-valore, senza che siano coscienti di questo. Il che solleva la questione di come le categorie astratte vengono interiorizzate nel sentire, pensare ed agire delle persone, o, detto in altre parole, come il soggetto in generale diventa soggetto.
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La CIA e la controrivoluzione in Venezuela
di Atilio A. Borón*
La società capitalista ha come uno dei suoi tratti principali l’opacità. Se nei vecchi modi di produzione precapitalisti l’oppressione e lo sfruttamento dei popoli saltava all’occhio e persino acquisiva un’espressione formale e istituzionale in gerarchie e poteri, nel capitalismo prevale l’oscurità e, con quella, lo sconcerto e la confusione. Fu Marx che con la scoperta del plusvalore ha stracciato il velo che nascondeva lo sfruttamento a cui erano sottoposti i lavoratori “liberi”, emancipati dal giogo medioevale. Ed è stato sempre lui a denunciare il feticismo delle merci in una società dove tutto diventa merce e quindi tutto si presenta fantasmagoricamente davanti agli occhi della popolazione.
Quanto detto sopra rientra nella negazione del ruolo della CIA nella vita politica dei paesi latinoamericani, ma non solo di quelli. Il suo permanente attivismo è inevitabile e non può passare inosservato ad un occhio minimamente attento. Parlando della crisi in Venezuela – per fare l’esempio che ora ci preoccupa – e le minacce che incombono su questo paese fratello, non si nomina mai l’“Agenzia”, salvo in poche e isolate eccezioni.
La confusione che la sociedad capitalista genera con la sua opacità e il suo feticismo fa nuove vittime nel campo della “sinistra”.
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Teoria marxista della conoscenza e lavoro intellettuale
di Italo Nobile
C’è una teoria marxista della conoscenza? Ci sono brani di Marx che si possono integrare in una teoria della conoscenza, c’è la concezione materialistica della storia (quella espressa ad esempio nell’Ideologia tedesca) che ha anche aspetti rilevanti per una teoria della conoscenza, ci sono gli scritti engelsiani (l’Anti-Duhring e la Dialettica della Natura) ma una vera e propria questione di teoria della conoscenza la abbiamo con la polemica tra il realismo epistemico (conoscitivo) di Lenin (di ispirazione engelsiana), il marxismo di ispirazione neokantiana di Plechanov e l’empiriomonismo di Bogdanov (variante del cosiddetto empiriocriticismo di Mach e Avenarius). A questa polemica hanno fatto riferimento tutta una serie di scritti sia in Urss che in occidente, ma da essa hanno tratto ispirazione anche pensatori del marxismo più o meno eretico (si pensi ad Alfred Sohn Rethel, ad Adam Schaff e di conseguenza agli studi incentrati sul linguaggio, sulla sua natura sociale e sulle sue implicazioni cognitive di Ferruccio Rossi Landi oppure si pensi alla conoscenza come pratica teorica di Althusser). Nell’elaborare una teoria marxista della conoscenza e del lavoro intellettuale bisogna tenere presente questi dibattiti che ci hanno preceduto.
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Chantiers de l’Atlantique/Fincantieri …
di Redazione di “il cuneo rosso”
Fincantieri: arruolati nella guerra alla Francia, o uniti nella lotta internazionalista ai padroni e ai governi di Roma e Parigi? Due note sulla vicenda Fincantieri/Chantiers de l’Atlantique, a partire dai fatti
I fatti sono noti. Macron ha deciso di nazionalizzare “a tempo” i Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire: non vuole che Fincantieri, che li ha appena comprati, abbia il controllo su di essi. Pretende che il controllo sia a metà: 50-50, invece che 67-33 a favore des italiens. Altrimenti, minaccia, non se ne fa nulla.
Immediata la reazione del boss di Fincantieri, Bono: “Siamo italiani ed europei, ma non possiamo accettare di essere trattati da meno dei coreani” (stava dicendo: da meno dei musi gialli, ma si è trattenuto per via dei grossissimi affari in ballo con la Cina). Altrettanto secco il ministro Calenda: “Non accettiamo di ridiscutere sulla base del 50-50”. Intorno, il coro della ‘libera stampa’ a suonare la stessa canzone, stesse note, stesse parole, ritornelli, etc., e gonfiare le vene del nazionalismo italiano, dell’orgoglio nazionale italiano contro lo sciovinismo francese e Macron, fino a ieri il bel salvatore dell’Europa, divenuto ora un secondo orrido Marine Le Pen…
Fin qui, niente di particolare, salvo una rettifica di una certa importanza da fare. Certo: è scontro tra stato-capitale francese/stato-capitale italiano, con la posta primaria delle grandi navi di lusso e, soprattutto, delle maxi-commesse belliche – lo chiarisce bene Bono: “I principali programmi militari sono quelli navali.
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