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La guerra e l’alternanza dei partiti

di Federico Dezzani

Mentre in Europa infuria la guerra russo-ucraina, Cina e Iran rafforzano la cooperazione strategica in vista delle prossime sfide. Entrambe le potenze asiatiche hanno già vissuto momenti di forte tensione sotto l’amministrazione Trump: tutto lascia supporre che la pressione si sposterà nuovamente su di loro dopo le prossime presidenziali americane. Alternando democratici e repubblicani, gli USA spostano infatti il focus bellico su una o l’altra zona dell’Eurasia.

 

“Whighs” anti-russi e “tories” anti-cinesi

Uno dei segreti alla base della potenza inglese tra il Settecento e l’inizio del Novecento, fu l’alternanza dei governi. I due principi della politica inglese, l’uno “conservatore” ed espressione dell’aristocrazia e della grande proprietà terriera (i tories), l’altro “progressista” ed espressione della borghesia e dei ceti legati alla finanza e ai commerci transoceanici (i whighs) non rispecchiavano solo gli interessi della politica interna inglese, ma avevano anche precisi obiettivi di politica estera.

Facendo cadere un governo e creandone un altro, l’oligarchia britannica poteva aprire o chiudere un conflitto, inasprire le ostilità contro un nemico o sospenderle, favorire o combattere le rivoluzioni sul continente: il tutto, sempre e comunque, per accrescere la potenza dell’impero britannico. L’ingenua Italia fascista, ad esempio, sperimentò questa insidiosa tattica britannica nel 1937 quando, l’avvento di Neville Chamberlain a Downing Street, aprì un effimero ravvicinamento italo-britannico chiusosi, appena tre anni dopo, con l’uscita di scena dello stesso Chamberlain e l’avvio delle ostilità tra Italia ed Inghilterra, nonostante la volontà di Mussolini di conservare l’allenza con Londra.

I due principi, “conservatore” e “progressista”, sono quindi storicamente dosati dalle potenze marittime anglosassoni per condurre la propria politica di potenza. Man mano che il sistema internazionale si avvicina alla guerra egemonica, questo fenomeno deve essere compreso e messo in luce, per evitare di subire inganni vecchi ormai di diversi secoli. Da una parte ci sono le potenze marittime anglosassoni, dall’altra l’Eurasia: questo è l’elemento cardine di qualsiasi analisi geopolitica. Le apparenti “suddivisioni” o “correnti” all’interno dell’establishment angloamericano servono solo a condurre più agevolmente la guerra contro l’Eurasia, ammiccando ora a uno ora all’altro nemico, così da non dover affrontare all’unisono una coalizione che sarebbe troppo forte per essere vinta. Questo punto deve essere evidenziato: come già evidenziato da Nicholas Spykman nel suo lavoro del 1943, gli anglosassoni non hanno mai combattuto nella loro storia un conflitto terra-mare puro, che non sarebbero in grado di vincere, ma hanno sempre trovato un “alleato”, volente o nolente, sul continente euroasiatico. L’alleanza tra Cina, Russia ed Iran è troppo forte per essere sconfitta dagli anglosassoni, avvalendosi solo di qualche alleato periferico e di dubbio valore come la Francia, Israele, la Corea del sud od il Giappone. Gli anglosassoni devono pertanto cercare di dividere la coalizione euroasiatica o, quantomeno, affrontare un avversario alla volta, evitando un catastrofico “showdown” con russi, iraniani e cinesi che dilagherebbero contemporaneamente in tutto il Rimland euroasiatico.

Giunti nell’aprile 2022, c’è ormai sufficiente materiale per dimostrare la validità della nostra tesi e, soprattutto, cercare di dedurne gli sviluppi con una buona approssimazione.

Si parta quindi dalla presidenza di Donald Trump (2017-2021). Trump è espressione dell’elemento “conservatore” e dei ceti rurali e impoveriti dell’America interna: un’America che sarebbe stata “distrutta” dalla stessa America che, dal 1991 in avanti, si è fatta paladina della globalizzazione più sfrenata. In virtù di improbabili affinità “autoritarie” o “cristiane”, l’elemento Trump-conservatore vorrebbe stringere un patto strategico con la Russia (si suppone spartendo l’Europa in zone d’influenza), così da avere le mani libere contro gli altri due membri della coalizione euroasiatica: Iran e Cina. In questi tumultuosi tempi c’è pochissima memoria storica, ma è bene ricordare che l’amministrazione Trump è coincisa con la cancellazione dell’accordo sul nucleare iraniano, coll’assassinio del generale Qasem Soleimani, con la prospettiva di un raid contro l’Iran negli ultimi giorni della presidenza, con la guerra commerciale sino-americana e con la prospettiva un raid contro la Nord Corea che, inevitabilmente, avrebbe coinvolto anche la Cina. Si noti che lo spostamento dell’aggressività americana su alcuni membri della coalizione euroasiatica, non implica mai l’abbandono della strategia nel suo complesso: sebbene Trump abbia sondato il terreno per un riavvicinamento russo-americano, sotto la sua presidenza si sono ad esempio moltiplicati i tentativi di affossare il Nord Stream 2, distruggendo i ponti tra Germania e Russia.

Dopo quattro anni di principio “conservatore”, è giunto il momento di una sana alternanza col principio “progressista”, la presidenza di Joe Biden, espressione delle coste e dei ceti urbani abbienti. La strategia risulta ribaltata, o meglio, completata: si sottolinea, completata. Si “lasciano respirare” Cina e Iran e, questa volta, a differenza di quanto fatto dal progressista Barack Obama nel 2014, che si era limitato ad una rivoluzione colorata in Ucraina, si inizia a picchiare duro contro la Russia, scatenando il conflitto armato in Ucraina. Gli obiettivi anglosassoni nella guerra russo-ucraina concernono, come più volte evidenziato nelle nostre analisi, la posizione della Russia all’interno della coalizione euroasiatica. In altre parole, con la guerra in Ucraina, gli angloamericani mirano a indebolire a tal punto la Russia da “renderla inoffensiva nei prossimi anni” (come esplicitamente detto dal capo del Pentagono Lloyd Austin) o, ancor meglio, a rovesciare Putin, favorendo l’avvento di un governo liberal-nazionalista che tagli i legami con Cina e Iran. Questi due Paesi, nel frattempo, rafforzano la cooperazione strategica (come testimonia il recente viaggio del ministero della Difesa cinese a Teheran), in vista del prossimo “ribaltamento” a Washington, che porterà quasi certamente alla Casa Bianca di nuovo il principio “conservatore”, incarnato da Trump o da una figura equipollente.

Proiettiamo così l’analisi nel futuro. Quasi certamente Vladimir Putin supererà indenne la guerra in Ucraina e, al costo di perdite umane e materiali non ancora quantificabili, rafforzerà comunque la posizione della Russia sul piano internazionale, ottenendo l’indiscussa egemonia del Mar Nero ed aumentando così la capacità di proiezione della Russia in Medio Oriente. Di fronte a questo scenario, l’elemento “conservatore” alla Casa Bianca, comporterebbe molteplici vantaggi per gli anglosassoni: consentirebbe di siglare una tregua o di instaurare un momentaneo modus vivendi con la Russia, cosicché le potenze anglosassoni possano spostare il focus militare su Cina e/o Iran, evitando il saldarsi dei vari fronti in un catastrofico fronte euroasiatico esteso dal Mar Baltico allo Stretto di Taiwan, passando per il Mar Arabico. Un fronte unico che comporterebbe la sconfitta certa degli anglosassoni.

La dicotomia è quindi terra-mare. Le “correnti” o i “partiti” negli USA sono solo effimere distinzioni con cui le potenze anglosassoni conducono la propria politica di potenza, che è monolitica e unitaria, interamente concentrata contro l’Eurasia. Di fronte ai prossimi sviluppi, la Russia dovrà semplicemente comportarsi come la Cina si sta ora comportando nei confronti della guerra in Ucraina: massima solidarietà, perché nell’unità sta la forza.

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