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Lezioni per il futuro

La crisi finanziaria del 2008 muterà in radice il nostro mondo o, quando si concluderà, mercati, lavoro, finanza, produzione, assetti geopolitici torneranno al passato? Chi e che cosa hanno innescato la turbolenza prima su Borse e banche poi nella vita di tanti di noi? Quali regole e quali riforme sono necessarie, agli istituti finanziari, alla banche centrali e ai paesi perché la tempesta perfetta non si ripeta? Il Sole 24 Ore apre, in collaborazione con il Financial Times e Foreign Policy, un dibattito sul futuro del nostro mondo e le vie per accelerare la ripresa.

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«Eccesso di diseguaglianza la malattia da guarire adesso»
di Jean-Paul Fitoussi
8 maggio 2009

«È evidente che un processo politico che porti a una vera riforma delle istituzioni di controllo del sistema economico e finanziario internazionale è ovviamente molto complesso. Riuscire ad arrivare a forme di governo globale che non lascino fuori nessuno, che siano davvero inclusive, è un obiettivo che incontra resistenze anche fra quelle istituzioni, come l'Fmi o la Banca Mondiale, che non hanno fatto bene il loro lavoro».

Per Jean-Paul Fitoussi, professore all'Istitut d'études politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, oltre che presidente dell'Ofce, l'Osservatorio francese delle congiunture economiche, la «Lezione per il futuro», perché una crisi così profonda come quella che stiamo attraversando non si ripeta, è in primo luogo un ripensamento della governance globale. «Mi rendo conto che anche quella portata dallo Shadow Gn è una battaglia donchisciottesca. Anche se l'ostacolo più grande da rimuovere, più ancora di quello rappresentato dalle lobby, è un ostacolo di tipo culturale».

«Idee e regole per il mondo dopo la tempesta» è la proposta di Guido Tabellini. Secondo lei, ora, come si volta pagina?
Occorre acquisire innanzitutto sul piano della dottrina culturale un dato di fatto del mondo attuale. E cioè che ci siamo spinti troppo oltre nel processo d'inasprimento delle diseguaglianze. Diseguaglianza all'interno dei singoli paesi e diseguaglianza a livello globale.

Pensa alle diseguaglianze di reddito o alle diseguaglianze di ricchezza?
Penso ad entrambe. Se c'è qualcosa che questa crisi dimostra, è il fatto che un mondo nel quale le diseguaglianze sono così acute non è sostenibile, va inevitabilmente in crisi, prima o poi.

Lei quindi afferma che la crisi della domanda globale è legata alla mancanza di equità distributiva?
Io dico che non solo i guai dell'economia reale, ma anche la crisi finanziaria dipendono dall'eccessiva sperequazione di reddito e ricchezza. Schematizzando fino a fare quasi una caricatura, possiamo dire che esistono due tipi di popoli: un popolo che spende tutto il suo reddito e un popolo che ha troppo reddito per riuscire a spenderlo. Dunque quello che spende tutto, quando la diseguaglianza aumenta, subisce una riduzione relativa del proprio reddito e per questa strada la domanda scende. Quelli che invece non possono spendere tutto il loro reddito comprano degli asset (finanziari, immobiliari) e cercano una redditività molto alta. In tal modo si creano due problemi: uno è l'insufficienza di domanda, l'altro è un meccanismo che tende sistematicamente a generare bolle speculative. Il problema è che quando le bolle speculative scoppiano si scopre qual è la realtà vera.

E cioè?
Si scopre che la gente per mantenere il proprio tenore di vita ha dovuto contrarre prestiti. E dunque la bolla si è creata perché non c'era più sostenibilità per un debito privato sempre più grande. E quando il debito privato arriva al suo limite, la bolla esplode.

È la situazione nella quale si trovano essenzialmente gli Stati Uniti...
No, adesso ci troviamo con un grosso problema di domanda nel mondo. Più in generale, penso che lo scandalo etico del nostro tempo stia nella globalizzazione della povertà, diffusa ormai anche nei paesi ricchi e ancora più nell'accettazione di un grado insostenibile di perequazione nei paesi democratici.

Però scusi, ma negli ultimi decenni ci sono anche milioni di persone che sono uscite dalla povertà grazie allo sviluppo economico.
Certo. Ad esempio, per via dello sviluppo in Cina centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà e questo ha contribuito a ridurre le diseguaglianze tra i paesi. Però i dati più recenti dell'Fmi indicano anche che le diseguaglianze interne ai paesi sono relativamente importanti e risultano in aumento a partire dal 1990. Se poi consideriamo le ineguaglianze nello sviluppo umano tra i paesi più ricchi e i paesi più poveri, vediamo che da tre decenni domina l'inerzia. Le disuguaglianze nello sviluppo umano fra ricchi e poveri ricordano le posizioni di Achille e della tartaruga nel paradosso di Zenone: la distanza che li separa resta incolmabile.

Avete messo delle raccomandazioni anti-povertà tra quelle inviate dallo Shadow Gn ai governanti del G-8?
C'è un intero set di raccomandazioni, tutte finalizzate a invertire l'attuale tendenza della distribuzione del reddito e al sostegno della domanda aggregata nel medio lungo termine.

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«Il gigantismo bancario ha intaccato il modello Usa»
di Joseph Stiglitz
8 maggio 2009


Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia nel 2001 insieme a George Akerlof e Michael Spence, è considerato uno dei fondatori dell'economia dell'informazione grazie ai suoi studi sulle "asimmetrie informative". Ma è anche una "voce fuori dal coro" nel mondo degli economisti, oltre che un intellettuale impegnato (ieri era alla Luiss di Roma per stilare insieme al gruppo di esperti di fama mondiale dello Shadow Gn una serie di raccomandazioni da presentare al prossimo G-8 dell'Aquila). E se gli si chiede un'analisi sulla «Lezione per il futuro» di Guido Tabellini pubblicata ieri, risponde di avere un gran timore che finiscano con il prevalere quelli che vorrebbero semplicemente il ripristino dello statu quo ante. Crisi di sistema o incidente temporaneo? «Intanto – precisa – non sappiamo ancora se sia davvero terminata la parte peggiore della tempesta finanziaria, quella che si è scatenata il 15 settembre 2008, con il fallimento di Lehman. E in ogni caso, dopo l'attuale turmoil, ritengo che dovremo fare i conti con un lungo periodo di crescita dell'economia reale nel mondo e in particolare negli Stati Uniti, piuttosto debole. Dunque, se dobbiamo provare a immaginare come sarà il dopo, dobbiamo parlare di quel che accadrà fra cinque o sei anni».

Un lungo tunnel, quindi. Che cosa troviamo all'uscita?
Ci sono cose di cui possiamo essere già ragionevolmente sicuri, ma ce ne sono anche molte altre ancora avvolte nell'incertezza. Sono convinto, ad esempio, che si verificherà in una certa misura un ribilanciamento del potere economico globale. Certamente il modello americano non sarà più considerato con la stessa deferenza del passato. Ci sarà una maggiore "contestabilità", ci sarà più dibattito su quale sia il miglior modello economico, ad esempio all'interno dei paesi in via di sviluppo. Ma anche in Europa, prima, negli anni 90, molti dicevano: dobbiamo imitare tout court l'America se vogliamo avere successo. Penso che già oggi in questi termini non si esprima più nessuno. Adesso si dice: dobbiamo capire come si fa a produrre le grandi innovazioni che hanno introdotto gli Usa, evitando, però, i loro errori.

Già, che cosa è andato storto, a suo parere?
Ovviamente, è questo è già stato messo sotto la lente d'ingrandimento, ci sono state cose che non hanno funzionato nella normativa finanziaria e nella politica monetaria. Nel campo della regulation, oggi sappiamo che per funzionare deve essere onnicomprensiva e abbracciare l'intero sistema bancario e finanziario. Conosciamo, ormai, i guasti prodotti dall'eccesso d'ingegneria contabile, come l'enorme mole di transazioni finanziarie avvenute fuori dai bilanci. Sappiamo che sono stati concessi forti incentivi a comportamenti sbagliati. Sappiamo che l'era delle cartolarizzazioni ha finito con l'introdurre nuove asimmetrie informative. Poi, ci sono interrogativi più profondi, sul perché si sia creato un problema di domanda aggregata globale, oppure perché le Banche centrali abbiano adottato politiche monetarie così carenti. Insomma, per valutare la profondità di questa crisi bisogna considerare sia il funzionamento delle forze economiche, sia quali sono state le carenze di tipo intellettuale e culturale. In ogni caso, oggi negli Stati Uniti ci sono molti soggetti appartenenti alla comunità finanziaria, che vorrebbero con tutte le loro forze tornare allo statu quo ante, al mondo com'era prima del 2007 per avere lo stesso sistema finanziario, eccettuati i collassi e i fallimenti.

A chi si riferisce?
Mi riferisco a quelle grandi, grandissime banche, di cui si pensava che fossero troppo grandi per fallire; il loro gigantismo è una delle cause principali della crisi. Ma il modo nel quale hanno agito sia Obama, sia Paulson, con i rispettivi piani finanziari, in fin dei conti attraverso il consolidamento creditizio non fa che accrescere ancora queste istituzioni finanziarie, nel momento in cui le ristruttura. In altri termini, io non vedo ancora proposte serie di riforma della struttura finanziaria, ma solo una serie d'interventi cosmetici, perché le banche resistono con forza al cambiamento e non hanno la benché minima intenzione di lasciarsi ridimensionare. In sostanza, nonostante i loro fallimenti, le grandi banche continuano a esercitare una forte influenza politica negli Stati Uniti e hanno il potere di fermare il processo di riforma delle regole. In definitiva, alla domanda "come sarà il mondo una volta usciti dalla crisi?", io non posso che rispondere che non lo so, perché ciò che ancora non conosciamo esattamente è l'intensità e la profondità delle ripercussioni della crisi sulle banche. L'area dell'incertezza è qui.

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Perché serve un po' di distruzione creatrice

di Nouriel Roubini
8 maggio 2009

La famosa definizione di Joseph Schumpeter sosteneva che l'essenza del capitalismo è la creatività distruttiva, il nascere di nuove strutture economiche sulle ceneri di quelle antiche. Gli stress test decisi dal Tesoro americano sulle 19 più importanti banche, i cui risultati sono stati resi noti ieri, avrebbero potuto agevolare questo processo. Invece si tratta probabilmente di un'occasione perduta.
I test misurano come le banche reggerebbero ai colpi di condizioni sfavorevoli ma non hanno la categoria "bocciati", anche se dieci dovranno richiedere capitale aggiuntivo.

Ma poiché il quadro economico già riflette le condizioni più sfavorevoli e dato che le stime recenti del Fondo monetario sulle perdite del settore finanziario americano sono raddoppiate in sei mesi, i risultati dello stress test non saranno interpretati come un segnale della salute delle banche.
Invece, il mercato concluderà che le banche bisognose di nuovi capitali hanno in realtà fallito. E come conseguenza queste non potranno raccogliere capitali sui mercati ma avranno bisogno dell'aiuto governativo.
Ancora una volta il nodo sarà come tenere a galla istituzioni semi-insolventi per evitare rischi sistemici. Ma la questione che dovremmo porci è: perché tenere a galla istituzioni del genere? Riteniamo che non esistano risposte convincenti; dovremmo piuttosto trovare il modo di governare i rischi sistemici derivanti da fallimenti bancari.

Il maggior timore di Schumpeter era che la creatività distruttiva portasse all'implosione del capitalismo, con la società incapace di gestire il caos. Aveva ragione ad avere questi timori. La risposta dei governi alla crisi finanziaria è stata, in tutto il mondo, quella di dare a strutture dedite al profitto privato una crescente impalcatura di sostegno di rischio socializzato. E migliaia di miliardi sono stati gettati nel sistema in modo da evitare il processo naturale di creatività distruttiva che avrebbe colpito i creditori di queste istituzioni.

E perché i creditori non dovrebbero sopportare le perdite? Una risposta potrebbe stare nel "fattore Lehman" - la fuga dalle banche che potrebbe essere la conseguenza di un grande fallimento bancario. Ma abbiamo imparato qualcosa dal caso Lehman e sappiamo come non lasciare il settore a secco quando una istituzione sistemica crolla. Fare totale chiarezza su quali sono le banche che hanno superato bene lo stress test aiuterebbe ad alleviare molti di questi timori.
Un altro fattore è il rischio da controparte, la paura di trovarsi coinvolto in una transazione con una banca che fallisce. Ma a differenza di quanto fatto con Lehman, il governo potrebbe stare a supporto di ogni controparte. Questo sarebbe più facile se nuove regole sull'insolvenza per istituzioni finanziarie sistemiche venissero approvate con procedura d'urgenza dal Congresso. Un problema quindi quasi risolto.

Restano i creditori: depositanti, detentori di debito a breve e a lungo, azioni privilegiate. Per le grandi banche sistemiche circa la metà del credito viene dai depositanti. Per evitare una fuga dei depositi, il governo deve provvedere garanzie. Ma non è chiaro che debba proteggere gli altri creditori, come i casi IndyMac e Washington Mutual attestano.
Se poi rischi sistemici si materializzassero, il governo dovrebbe proteggere il debito (fino a un certo punto) solo delle banche solvibili, non di quelle insolventi. In questo modo il rischio delle insolvenze verrebbe restituito dal settore pubblico a quello privato, dal contribuente al creditore. Il governo potrebbe riuscire a limitare la confusione convincendo i creditori a lungo termine, gli obbligazionisti, a trasformare il loro credito in azioni, con relative perdite. Il fallimento dei recenti sforzi per fare così nei giorni scorsi con Chrysler suggerisce che potrebbe non essere facile. Ma una credibile minaccia di bancarotta potrebbe spingere gli obbligazionisti impauriti in una trattativa, per evitare perdite ancora maggiori.

Ipotizziamo quindi che a questo punto il rischio sistemico sia evitato. L'altro argomento che sconsiglia di lasciare fallire le banche è che dopo forti perdite da parte dei loro creditori nessuno sarebbe più disposto a prestare soldi a una banca, cosa che devasterebbe i mercati del credito. Tuttavia la natura creativa-distruttiva del capitalismo schumpeteriano si prenderebbe cura di questo aspetto. Perché una volta che i detentori del debito non garantito delle banche insolventi hanno registrato le perdite, la disciplina del mercato viene subito reintrodotta nell'intero settore. Questa disciplina obbligherebbe le restanti banche a cambiare il proprio comportamento, e probabilmente a smembrare gli aggregati attuali. E la riforma del rischio sistemico nel mondo finanziario avverrebbe in modo organico, senza l'intervento del governo.

Perché i creditori, prima che la crisi si palesasse, non hanno impedito alle banche di correre rischi eccessivi? Per la stessa ragione per cui adesso i creditori ottengono un traghettamento gratis: si aspettavano di venire salvati. Perché il capitalismo possa progredire, è tempo di un poco di ordinata distruzione creativa.

 

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