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Il fantasma del“New Deal”

Alessandro Riccini

Si dovrà pur partire da un punto nel descrivere questo fenomeno che curiosamente molti si ostinano a definire “crisi finanziaria” o “crisi dei mercati”. Dove è il peccato originale? Il germe del problema, l'origine? La retorica dominante tenderebbe a distinguere il mondo dell'economia in due settori: il settore dell'economia reale e quello della finanza. Si è cercato, un po' ovunque, di far passare questa crisi come una problematica esclusivamente finanziaria. Finché si è potuto, si è  fatto finta di ignorare la paralisi economica mondiale, in nome dei mitici “fondamentali sani”. Poi, quando proprio non se ne è potuto fare a meno, si è ammesso che la crisi “finanziaria” ha “contagiato” la mitica “economia reale”. Il 19 ottobre, un articolo su “Repubblica” di Paul Krugman (mutuato dal NY Times) dice finalmente come stanno le cose: l'articolo si intitola tutti al capezzale dell'economia: “Mentre il mercato azionario in fase maniaco-depressiva domina sulle prime pagine dei giornali, l'avvenimento più importante è la deprimente notizia che riguarda l'economia reale. È chiaro ormai che il salvataggio delle banche non è che l'inizio: l'economia non finanziaria è anch'essa in disperato bisogno di aiuto”.

L'aiuto è l'aiuto dello Stato. Politiche neo-keynesiane in grado di ridare fiducia a mercati: gigantesche redistribuzioni di reddito dal lavoro salariato al capitale tramite la “mano morta”  del governo e mediante le tasse e il taglio dei servizi pubblici. Come in “ Delitto e castigo” di Dostoevskij, sveliamo prima il nome dell'assassino: la crisi in atto sarà “curata” con un massiccio scambio tra debito privato e debito pubblico. Un attentato al lavoro salariato. Ma non basta: questa crisi permetterà, in nome della ben nota retorica dell'emergenza, di tagliare stato sociale e di effettuare politiche dei redditi depauperanti per la classe lavoratrice, spuntando le già inadeguate armi di chi tenterà di opporsi. Già abbiamo assistito a non pochi utilizzi strumentali della fase di crisi: un esempio è il rifiuto italiano di aderire al piano “20-20-20” per il controllo del “global warming”. Ma non basta: gli industriali hanno chiesto incentivi alla rottamazione di tutto sempre in nome della “crisi”. Rottamazione, ossia droga per il mercato delle merci, ossia ancora doping per il processo di riproduzione da merce a denaro. Si parte dai pezzi di carta e si arriva sempre li: alla crisi da sovrapproduzione. La torta della produzione non cresce, e allora si cerca di ottenere una fetta più ampia della stessa torta. A danno dei soliti noti. Gli incentivi statali alla rottamazione delle vetture o degli elttrodomestici sono, in pratica, l'assunzione di una parte dei costi del bene nuovo acquistato da parte dello Stato: le esigenze ecologiche in molti casi non sono che paravento per mascherare quello che, altrimenti, non si potrebbe fare per vincolo UE: l'aiuto di Stato. L'effetto immediato è l'aumento della domanda dei beni oggetto dell'incentivo: ci si indebita per comprare una macchina o un elettrodomestico perchè lo Stato regala all'azienda prodruttirice un bel po' di soldi (800 euro per le automobili negli incentivi del gennaio di quest'anno) pagati però da tutti i contribuenti (quelli che non possono/vogliono ricorrere all'evasione fiscale): inizia a delinersi quella che è la costante di queste brevi note: lo spostamento di reddito dalla clesse lavoratrice verso i possessori dei mezzi di produzione. Quando, infatti, la cosiddetta “economia reale” entra in sovrapproduzione, il mondo viene inondato di merci che non si riesce a vendere: i profitti si contraggono, e  le imprese, non sapendo che inventarsi, cercano artifici per aumentare la domanda di beni e servizi: insomma, per rilanciare i consumi; la “droga” della rottamazione aveva esattamente questo scopo, e la controindicazione di una brusca contrazione del mercato “incentivato” quando la festa finisce. Un’altra strategia è quella di agire non sul lato dell’offerta (facendo costare di meno le auto con la rottamazione) ma su quello della domanda, creando con un gioco di prestigio una disponibilità liquida da parte dei consumatori che, in realtà, non esiste. Così  negli USA è così nata la pratica di fare debiti ipotecando la propria casa:  l'epopea dei  cosiddetti “mutui subprime”: per “subprime”, la cui locuzione va intesa come “seconda scelta”, si intende un prestito concesso a un debitore il cui “curriculum” da adito a qualche dubbio sulla sua solvibilità (è il debitore ad essere di “seconda scelta” dal punto di vista della banca): il prestito è pertanto rischioso, e viene concesso a tassi di interesse normalmente più elevati rispetto a quelli di mercato: il tasso più elevato, a sua volta, concorre ad aumentare le probabilità di mancato rimborso. Focalizziamoci un attimo su questo punto: l'istituto che concede mutui subprime ricava un rendimento molto alto dall'operazione che compie: questo ha consentito ai manager di rientrare negli obbiettivi di rendimento che venivano ad essi assegnati volta per volta: tuttavia vi era piena consapevolezza che il credito fosse rischioso: tra chi rientra nella clientela subprime c'è, ad esempio, chi ha alle spalle una bancarotta negli ultimi cinque anni, o l'insolvenza di un mutuo negli ultimi due anni: questi soggetti offrivano a garanzia la propria abitazione, in tempi di bolla immobiliare, la cui valutazione era però spesso gonfiata dagli stessi istituti al fine di portare comunque a termine l'istruttoria.

Il giochetto è andato bene fino al 2006 (dal 2004 al 2006 l'incidenza della clientela subprime sul totale dei mutui USA è passata dal 4 al 21%) rendendo possibile l'accesso al credito anche a categorie che altrimenti ne sarebbero state escluse, e dunque gonfiando la domanda di beni e servizi. Del resto, il beneficiario del mutuo, in caso di insolvenza, poteva restituire la casa, incassare il controvalore e tentare un altro mutuo acquistando una casa diversa: purtroppo per loro, e per gli istituti, dal 2006 in poi il giocattolo si è rotto: l'aumento dei tassi di interesse da una parte e l'inflazione importata dall'altro, che ha fatto aumentare il prezzo di benzina e generi di prima necessità) hanno reso sempre più complicato da parte di chi contraeva il mutuo l'onorare il debito: si è perciò riversata sul mercato una pletora di abitazioni il cui valore, con la “bolla immobiliare” già in fase morente,  cominciava a non essere in più in linea con il debito insoluto che andavano a coprire: di qui il fallimento degli istituti bancari americani che avevano stipulato i mutui subprime, cui ha fatto da volano anche il fenomeno della cartolarizzazione: il meccanismo della cartolarizzazione è estremamente semplice: i crediti in mano all'istituto che li ha erogati (originator) vengono da questi ceduti ad una società-veicolo (ossia società nate appositamente per lo scopo) che emette dei titoli obbligazionari il cui rimborso, in estrema sintesi, è collegato al rimborso dei debiti sottostanti: questi titoli, a loro volta, sono stati incorporati nei portafogli delle banche: come mai le banche d'oltreoceano hanno preferito acquisire obbligazioni emesse a fronte di crediti invece di avere, come sarebbe normale, i crediti stessi in portafoglio? la spiegazione ci può essere fornita dalle dichiarazioni del Direttore Generale di Intesa Sanpaolo, Pietro Modiano, che commentando la crisi americana dei mutui subprime ha dichiarato:

“troppe banche hanno cessato di essere tali e si sono disfatte dei crediti propri per trasformarsi in giganteschi fondi comuni di crediti concessi da altri, e questo perché un credito diretto assorbe capitale, mentre un derivato di credito in un portafoglio di trading no”. (Il Sole-24 Ore, 12 ottobre 2008).  A ciò si aggiunge la “logica del cerino”: cartolarizzare i crediti il cui rimborso è per lo meno incerto e vendere le relative obbligazioni sul mercato significa, in ultima analisi, cercare di “passare il cerino” a qualcun altro. Il “peccato originale”, vale la pena ricordarlo, consiste nell'aver prestato soldi in condizioni di rischio anomalo. A questo punto, cosa c'è di meglio che andare in borsa con questi titoli e cercare di appiopparli in giro? E' stato così che si è creato un grandissimo castello di carte di titoli obbligazionari collegati a crediti di pessima qualità. Quando poi sono iniziate le insolvenze sui mutui, l'ultima carta del castello, quella della base, è saltata: mutui in default,  ovvero obbligazioni ad essi collegate in default, ovvero pericolo per le banche che avevano tali titoli in pancia, e per gli (spesso) inconsapevoli piccoli risparmiatori che hanno acquistato fondi con titoli-spazzatura in portafoglio, magari per avere la pensione. In un quadro del genere, la tendenza al ribasso delle borse di tutto il mondo si è trasformata in una rotta vera e propria... va specificato, però che l'operatore ribassista, grazie a tecniche quali la vendita allo scoperto, guadagna quando la borsa va male e più cade e più guadagna,  meglio ancora se cade rapidamente. Occorre dunque sgombrare il campo dagli equivoci: la Borsa non “brucia” soldi, come invece non mancano di farci credere i nostri organi di informazione. Più semplicemente, il ribassista ci ha guadagnato e il rialzista ci ha perso. Occorre però fare una riflessione: il cosiddetto “parco buoi” è  il più delle volte rialzista. Chi mette il proprio TFR in un fondo-pensione è per forza di cose “rialzista”: nel senso che le cose per lui andranno bene se, nel corso degli anni, riuscirà a ricavare un guadagno dall'andamento in borsa del fondo in cui il TFR è confluito. Vista sotto questa ottica, la crisi finanziaria assume anche per questa via l'aspetto di un colossale trasferimento di ricchezza dalle categorie subalterne ai signori della speculazione. In un primo momento, quando la borsa “cala” non c'è “smaterializzazione” del denaro. Detta in altri termini: non c'è “combustione” di ricchezza, ma passaggio di essa: la vera “mazzata” arriva in un secondo momento, ossia quando per rimediare ai danni provocati dal crollo di borsa, si avvia il programma di ricapitalizzazione e “salvataggio” di banche e aziende finanziato dalla fiscalità generale, ossia, in massima parte, dalle classi lavoratrici: la vecchia storia dei Robin Hood al contrario, che opera però anche nei momenti di “bolle” speculative fiorenti (come ad esempio la “New Economy” dell'epoca clintoniana), quando i lavoratori vengono indotti (volenti o nolenti) ad investire i propri risparmi nelle borse, la direttiva che i promotori finanziari ricevono sembra essere “vendere tutto a chiunque”: in queste fasi il lavoratori comprano a molto per poi rivendere a poco, o non rivendere affatto, come nel caso, ad esempio, dei “tango bond” argentini o delle obbligazioni Parmalat.  Dovendo tracciare un “filo rosso” che unisce tutte le tematiche fin qui presentate, esso consiste nello spostamento di ricchezza. Prendiamo il caso italiano: tra nel 1960 la quota di prodotto interno lordo destinata ai profitti era il 23% circa: fino al 1983 la situazione è stata simile, poi l'inizio di un escalation che ha portato tale quota ad arrivare al 31% nel 1995 e al 31,34% nel 2005. (fonte: Bri, cit in Repubbilca.it 3 maggio). Dal 1960 al 2005 l'otto per cento del PIL è smottato dai salari verso i profitti e le rendite: a conti fatti, nel grande gioco del capitalismo mondializzato i salariati italiani hanno lasciato sul banco ben 7.000 euro l'anno, tutte a vantaggio di profitti e rendite. Se si guarda all'estero la cosa non è migliore: in Spagna l'incremento della quota spettante ai profitti dal 1983 al 2005  è stato dal 27 al 38%. In Francia dal 24 al 33, come in Giappone. Il salario si contrae mediante diversi percorsi: tali percorsi coinvolgono il salario diretto, quello indiretto e il salario differito.

Salario diretto
Uno dei più comuni è quello che passa per l'inflazione, che subisce grandi incrementi nei periodi di “bolla speculativa” in borsa (soprattutto per le materie prime, quali grano e petrolio): l'innalzamento dei prezzi distrugge salario reale a favore dei profitti: il risultato viene poi cristallizzato mediante il meccanismo del “drenaggio fiscale” o fiscal drug: in un sistema fiscale progressivo, come quello italiano ad esempio, gli aumenti salariali successivi ad un periodo inflazionistico non coprono mai la percentuale di aumento della RAL, in quanto l'aumento nominale della retribuzione fa scavallare fascia di reddito ad intere categorie di lavoratori dipendenti, che così, “cornuti e mazziati” si trovano con un potere d'acquisto più basso  cui fa fronte un'imposizione fiscale  più aspra.
Ma il salario diretto, in fasi di “crisi finanziaria” come questa, viene colpito anche a seguito delle fusioni, acquisizioni e ristrutturazioni che “pullulano” in questo periodo: le ristrutturazioni aziendali (come l'Alitalia, ma anche molte altre che non fanno notizia) sono la scusa per effettuare accordi al ribasso e aumentare  il ricorso al precariato; inoltre, le ristrutturazioni contengono sempre un ampio ricorso agli ammortizzatori sociali, quali la cassa integrazione e i prepensionamenti, e quindi un ulteriore esborso per le casse pubbliche. Tutti soldi che saranno sottratti al bilancio statale, con conseguente freno all'erogazione di quei servizi pubblici peculiari del salario indiretto.

Salario differito

Il dramma del TFR è un esempio di scuola del cortocircuito tra questa sedicente “crisi finanziaria”: premesso che con la precariarizzazione delle fasce più deboli, il TFR è in via d'estinzione come un uccello rari, per quei fortunati che possono contare su un TFR c'è il rischio di conferimento al fondo: in periodo di ribasso il rendimento dei fondi pensione cala: se guardiamo per esempio ai dati del 2007, il 3,1% di rendimeno del fondo INPS nel 2007 è stato migliore della stragrande maggioranza dei fondi pensione, molti dei quali andati in rosso. Il conferimento del TFR ai fondi pensione, cui le giovani generazioni sono state obbligate, crea una pletora di “rialzisti” in borsa. E, come si è visto, di questi tempi, conviene essere ribassisti.

Salario indiretto

Il salario indiretto è colpito tramite i tagli allo stato sociale: gli interventi di salvataggio o la garanzia sui prestiti interbancari fornita dallo Stato presentano un conto da pagare: il conto può essere saldato in due modi: con il debito pubblico oppure tagliando lo stato sociale, ma sarebbe meglio dire che la scelta è tra tagliare lo stato sociale qui ed ora oppure, tramite la scelta del debito pubblico, tagliarlo alle nuove generazioni. L'aggressione ai servizi pubblici (scuola, sanità, rete idrica) e la loro privatizzazione con la scusa del vincolo di bilancio statale non sono altro che, in ultima analisi, il proseguimento con mezzi diversi dello “smottamento” di reddito dal lavoro al capitale di cui si parlava poc'anzi. Guardando aldilà dell'Atlantico, un colossale “smottamento” ha preso il nome di Piano Paulson, il programma di salvataggio delle banche USA.

Fine del Capitalsmo? Ma per favore!

Il piano Paulson, e con esso tutti i piani europei ed asiatici che si sono succeduti  non è, come è stato detto, “la fine del capitalismo” ma il l'esatto contrario: l'apoteosi del depauperamento delle classi lavoratrici: l'acquisto dei titoli-spazzatura da parte dello Stato o, addirittura, l'acquisto stesso della proprietà delle aziende decotte (da rivendere una volta risanate). Molti organi di informazione hanno presentato come inevitabile e sano questo trasferimento di denaro da parte dello Stato, in pratica una socializzazione delle perdite mantenendo i profitti privati. Su questo dovrebbe riflettere chi parla di fine del modo di produzione capitalistico. E su un altro “dettaglio”, messo i luce dall'economista premio Nobel Paul. A Samuelson in un articolo del Corriere della Sera del 20 ottobre 2008, intitolato “I sette errori dei liberisti senza regole”:“Come fecero il benevolo presidente Roosevelt, e il perfido Adolf Hitler, a riportare i rispettivi Paesi alla soglia della piena occupazione nei sei lunghi anni dopo i fatti del '33? Il grande trucco stava in una colossale spesa in deficit, che fece lievitare il debito pubblico!”
Ecco, nella seconda metà degli anni trenta non finì il capitalismo. Semmai, si preparò “solamente” una guerra mondiale.

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