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paroleecose

Ma è vero o è bello?

di Walter Siti

[Nasce L’età del ferro, una nuova rivista (cartacea) diretta da Alfonso Berardinelli, Giorgio Manacorda e Walter Siti, pubblicata da Castelvecchi e disponibile da luglio in libreria. La presentiamo pubblicando il saggio di Siti, Ma è vero o è bello?, sugli attuali rapporti tra giornalismo e letteratura]

2017.09.26 SAYPE 1180x650L’afro-americana Janet Cooke era una giovane di belle speranze nel 1980, quando sentì parlare di un ragazzino, Jimmy, dipendente dall’eroina a otto anni; colpita, ne accennò alla redazione del «Washington Post» dove lavorava, e il capo entusiasta le ordinò di farci sopra un articolo. Un’occasione ottima per mettersi in luce e fare carriera, ma per quanto setacciasse i quartieri degradati della città non riuscì a trovare il ragazzino; quando il capo le confermò che poteva tenere segrete le sue fonti, decise di inventarsi il caso – scrisse un pezzo intitolato Jimmy’s World, così efficace che nel 1981 le fu assegnato il premio Pulitzer per il giornalismo. Senonché nacquero dubbi, ci furono una denuncia e un’inchiesta, si scoprì che la Cooke aveva anche mentito sul proprio curriculum al momento dell’assunzione, alla fine la poveretta ammise che il suo Jimmy era un bambino immaginario. Restituì il Pulitzer, perse il posto al giornale, l’episodio ebbe grande risonanza e fu definito “il Vietnam del giornalismo”; García Márquez, nel leggere la notizia, commentò scherzosamente che certo era ingiusto che Janet avesse vinto il Pultizer per il giornalismo, ma sarebbe stato giusto che le fosse attribuito il Nobel per la letteratura (letteratura non buonissima, a essere sinceri, l’articolo gronda di stereotipi dickensiani sull’infanzia offesa).

La letteratura è una fake news? Secolare problema, il rapporto della letteratura con la verità, fissato in Occidente dalla distinzione aristotelica tra storico e poeta: lo storico racconta ciò che è accaduto, il poeta racconta ciò che potrebbe accadere. Il nostro Manzoni, nel suo bel saggio sul romanzo storico, resta su questo binario parlando di “vero positivo” e “vero poetico”. Nel Settecento, il secolo del giornalismo, alla storia si sostituisce la cronaca; Charles Gildon accusa Robinson Crusoe di essere una fake news, elencando le incongruenze che lo rendono poco attendibile come vero diario di un naufrago; e Defoe, da parte sua, lamenta che l’eccesso di romanzi avventurosi, confondendo le acque, impedisca di leggere Moll Flanders come “una storia vera”.

Il romanzo moderno (novel e non più romance) nasce insieme al trionfo delle news – da allora sono stati e sono moltissimi gli scrittori che hanno esordito come giornalisti e hanno fatto quello di mestiere: da Defoe appunto a Swift, da Prévost a Marivaux, per non parlare di Balzac e Dickens; Zola collaborava coi giornali molto prima dell’affare Dreyfus; e nel Novecento c’è Hemingway, naturalmente, ma ci sono anche Orwell e Camus, e Malraux e Dos Passos e infiniti altri (da noi, si va dalla Serao e Di Giacomo fino a Buzzati e Parise).

Le interazioni benefiche sono state (e sono) certe e innegabili: la letteratura impara dal giornalismo la velocità e la sobrietà del ritmo e del lessico, oltre che il gusto della documentazione; il giornalismo impara dalla letteratura a strutturare il racconto, a non accontentarsi della prima frase che capita, a delineare i personaggi. Altrettanto ovvio è, da sempre, il malanimo reciproco: il giornalismo accusa la letteratura di vacuità, di retorica paludata, di guardarsi l’ombelico in una torre d’avorio (o d’altro meno nobile materiale), mentre la letteratura accusa i giornalisti di essere degli scrittori mancati, o peggio dei lestofanti e arrampicatori che usano la cronaca come una clava a scopo di lusinga e ricatto (bastino, per tutti, Le illusioni perdute e Bel Ami). In margine a un tema così imponente, qui vorrei soltanto azzardare qualche riflessione sullo stato attuale dei rapporti, nell’orizzonte dei mutamenti registrati in entrambi i campi con l’affermazione del giornalismo online e con la “romanzizzazione” di ogni ambito d’esperienza culturale (l’alluvione pervasiva dello storytelling, concepito ormai come parte integrante della realtà e quindi sganciato in teoria dalla narrativa in senso letterario, ma ad essa di fatto associato sotto il proditorio ed euforico comun denominatore del “raccontare storie”). Nei sottopancia dei talk televisivi, ormai, la qualifica di “giornalista e scrittore” non si nega a nessuno. Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso il new journalism da un lato e il non-fiction novel dall’altro avevano avvicinato i lembi delle due sponde opposte – A sangue freddo e Il duca nel suo dominio (l’intervista di Capote a Marlon Brando) vengono con evidenza dalla stessa mano. Il “gonzo journalism” di Thompson e compagnia aveva fatto saltare il dogma del giornalista oggettivo ed era arrivato all’estremo di raccontare un evento senza sostanzialmente avervi partecipato; la “microstoria” aveva sgretolato il discrimine (a cui ancora si appoggiava il vecchio Manzoni) tra “carta geografica” propria dello storico e “carta topografica” adatta al romanziere. Insomma, tutto congiurava negli anni Zero di questo secolo perché la barriera saltasse definitivamente, e tutti riconoscessero per esempio in Kapuscinski un grande scrittore, nella Aleksievic una degna vincitrice del Nobel per la letteratura e nel Carrère di Limonov uno straordinario giornalista e biografo. Il romanzo si aggrappa ai fatti veri per riscattare l’inoffensività che ormai si è incollata al genere, mentre i giornalisti liberati dai complessi d’inferiorità si sentono quasi in dovere di “lanciarsi” nel romanzo. Se ciò che importa è “raccontare una storia interessante nel miglior modo possibile”, perché non relegare nel ripostiglio del robivecchi (o negli anfratti burocratici del sindacato e della Siae) una distinzione diventata ormai obsoleta? La tesi che vorrei proporre qui è invece che la distinzione sia più che mai utile oggi; la confusione imperante rischia di danneggiare e impoverire sia il giornalismo che la letteratura, a causa di una mancanza di riflessione teorica. A forza di trascurarla, la teoria della letteratura ci ripiomba addosso come caos.

Trasferiamoci nella redazione di un quotidiano online, o nel sito online di qualche noto quotidiano cartaceo (i quali per altro, i giornali cartacei, tendono sempre più a mimare i loro parenti digitali). Partecipiamo a una di quelle news room a cui sono presenti tutte le componenti del giornale, comprese quelle che si occupano degli aspetti economici, e dove si discutono i trending topics, cioè gli argomenti che assicurano al sito il massimo di visualizzazioni; molti contenuti, e non dei meno cliccati, non sono scritti-filmati da redattori incardinati da un contratto ma sono user generated contents, cioè prodotti da giornalisti improvvisati e free-lance: collaboratori da una botta e via o giovani in cerca di collocamento più stabile. Mettiamo che uno di questi autopromossi giornalisti sia uno studente, e che a scuola uno dei suoi professori abbia un attacco di cuore e si accasci al suolo mentre spiega alla lavagna; nella news room arriva, in tempo reale, il video del professore che si preme il petto e fatica a respirare – questo video certo avrà molte più visualizzazioni (e dunque produrrà molti più introiti pubblicitari) del semplice video di qualcuno che soccorre il professore e chiama un’ambulanza; in redazione si sarà tentati di indurre lo studente a prolungare il video invece di lasciare subito il telefonino per soccorrere il professore. Già è accaduto che il «National Geographic» sia stato accusato di attardarsi a filmare un orso bianco moribondo per fame invece che affrettarsi a sfamare l’orso – la difesa è stata che si preferiva il potenziale collettivo (cioè una vasta presa di coscienza dei mutamenti climatici) al concreto singolo; la comunicazione prevale sul fatto, il possibile diventa più importante di ciò che ci accade sotto gli occhi.

Spesso nella news room arrivano notizie dall’attendibilità sospetta, ma molto attrattive; sui social, si sa, funziona il meccanismo delle echo chambers – si creano cioè delle casse di risonanza in cui chi vede o legge preferisce le notizie che lo rafforzano in ciò che crede già di sapere (a dirla rozza, lo conferma nei propri pregiudizi). Così una fake news ha tante più possibilità di diffondersi quanto più va incontro alle aspettative di un certo ambiente; stando così le cose, la redazione avrà un vantaggio economico nel lasciar parcheggiata sul sito la notizia sospetta ma gradita agli orientamenti del suo pubblico (il feedback si può controllare minuto per minuto), salvo poi smentirla con tutto comodo. E in ogni caso, una menzogna che diventi virale si trasforma essa stessa in un fatto; e ci sono mille sfumature dietro cui giustificarsi – tra la satira, per esempio, che spara la bufala per demistificare e irridere (“Il Male” che proclama Ugo Tognazzi capo delle Brigate Rosse) e la notizia falsa che titilla la pancia dell’odio politico (la Boldrini ai funerali di Totò Riina) molte sono le posizioni intermedie; se sparo lo scoop che Mariastella Gelmini aspetta un figlio da un migrante clandestino, sarà satira o fake news? Insomma ci si barcamena, si fa i pesci in barile, e intanto i fatti si polverizzano, si consumano vorticosamente e tutto si riduce a comunicazione1. Le parole sono rafforzate da immagini che spesso provengono dall’aver illustrato altri fatti, i testi multimediali non hanno un autore ma molti, ogni articolo può essere aggiornato da chiunque senza fare il refresh, cioè senza doverlo riscrivere per intero; in quella redazione si è perso completamente il senso dell’unità e della coerenza (per non dire della verità) di qualunque testo, l’unico aspetto apprezzato è l’efficacia.

Sbaglierò, ma una redazione del genere mi pare che assomigli terribilmente a quei luoghi delle case editrici letterarie in cui si “cucinano” i romanzi, soprattutto dei giovani alle prime armi: stessa attenzione ai trending topics e all’esito commerciale, stessa indifferenza all’unità indivisibile dello stile, stessi affanno e confusione nei rapporti tra vero e verosimile. L’aria che si respira dove si fabbrica la letteratura è la stessa che frastorna Leopold Bloom quando entra nella redazione del «Freeman’s Journal», nel capitolo dell’Ulisse dedicato a Eolo re dei venti. Ambienti analoghi danno analoghi risultati; quando la letteratura si “giornalistizza” perde la fiducia in se stessa e nella propria autonomia, ha l’impressione di dover essere integrata da altro, si vuole interattiva ed efficace subito, minuto per minuto – invidia le serie televisive, si abbandona al mostro della comunicazione e del-l’infotainment. Invoca per sé non il giudizio esperto del critico o l’amore del lettore appassionato, ma il clamore contenutistico delle gazzette o l’ombrellone da spiaggia.

Non si tratta, ovviamente, di negare valore letterario a testi che si appoggiano sul nudo e verificabile tessuto dei fatti, riducendo al minimo l’apporto di invenzione. Molti dei libri che ho amato di più negli ultimi vent’anni, e proprio da un punto di vista letterario, appartengono a questa categoria: da Compulsion di Meyer Levin a Limonov, da Ragazzi di zinco della Alecsievic ad Africo di Stajano e Point Lenana dei Wu Ming, dall’Abusivo di Franchini all’Impostore di Javier Cercas, da Mistero napoletano di Ermanno Rea a La figlia di Clara Usón. E anzi, penso che il valore letterario di molti giornalisti stia più negli articoli che di volta in volta hanno scritto sui giornali (secchi, acuti, coraggiosi o ironici) che nei loro “romanzi d’invenzione”. Come penso che Saviano sia più romanziere in Gomorra che nel più classicamente “inventato” Bacio feroce. Cosa dunque rende “letterari” questi libri?

Prendiamone uno che parrebbe estremo: Interrogatorio all’Avana di Enzensberger. Non una parola del testo (a parte la breve premessa, di poche pagine, e qualche scarna didascalia) è stata inventata dall’autore: che si è limitato a trascrivere i dialoghi effettivamente pronunciati (e registrati) durante il processo-lampo che si tenne nell’aprile 1961 allo stadio dell’Avana, dopo la fallita spedizione anticastrista della Baia dei Porci; a pochi giorni dal fallimento dell’impresa, di fronte a una folla partecipe e trasmesso per radio. Dalla grande massa delle trascrizioni Enzensberger taglia e trasceglie, dunque agisce da autore; dispone gli interrogatori nell’ordine che più gli piace e con formidabile intuito drammaturgico colloca alla fine il personaggio più odioso, un noto torturatore già distintosi al servizio di Batista; Maria Elena, la vittima che mostra al boia il proprio pigiama a brandelli, diventa il simbolo di Cuba ferita e insorgente, vittoriosa ma non vendicativa. Soprattutto, emerge dalla lettura un “autoritratto del capitalismo”, o il suo “inconscio collettivo” che va oltre Cuba e quell’occasione specifica; vi si respira l’aria del tempo (il libro è del 1970), la speranza riposta nelle “armi della critica” solo quando siano sostenute dalla “critica delle armi”; l’entusiasmo rivoluzionario è largamente condiviso dall’autore, che pure non ne nasconde debolezze e ingenuità (non sempre il “tribunale del popolo” interrogante ha ragione sui controrivoluzionari interrogati).

Esempio meno riuscito ma interessante, Ghiaccio blu di Pino Corrias: inchiesta on the road sulle tracce di un assassino condannato alla sedia elettrica, il cui cadavere (consapevolmente donato alla scienza) è stato tagliato in fette sottilissime e poi scannerizzato per ottenere il più dettagliato atlante anatomico digitale del corpo umano. I flashback in cui si ripercorre la vita dell’assassino sono i meno convincenti, inquinati da stereotipi “americani” e da uno stile hard boiled; ma l’inchiesta in se stessa, con la ricerca dei testimoni, è avvincente: la madre, che se vuole pregare sul corpo del figlio deve aprire un computer, è un archetipo eterno, Antigone o Niobe al tempo della tecnologia, e tutto il libro vale come intensa commovente requisitoria contro la pena di morte, condotta sul filo metaforico del “ghiaccio” (il gelo dell’inverno in cui si svolge l’inchiesta, la freddezza della giustizia e il ghiaccio reale che protegge il cadavere ibernato prima della “piallatura”).

Testi di valore letterario variabile, o testi che al loro interno possono essere più o meno letterariamente riusciti; nelle Armate della notte di Norman Mailer, per esempio (diario minuzioso della marcia pacifista su Washington per contrastare la guerra in Vietnam nel 1967), la prima parte cronachistica, molto sfacciata e “gonzo”, è decisamente migliore della seconda parte più volutamente storica e “seria”. Né si vuol dire che la scrittura letteraria sia geneticamente superiore o inferiore a quella giornalistica: ha semplicemente uno statuto diverso. Un episodio divertente è accaduto in occasione della pubblicazione in Francia di Merci pour ce moment, il libro scandalistico su Hollande scritto dall’ex compagna Valérie Trierweiler; un libraio di provincia affisse un cartello in vetrina, “non abbiamo il libro della Trierweiler”, e subito se ne fece un emblema dei sani librai di una volta, fedeli al valore e non allo scandalo; poi un giornalista più scrupoloso andò a intervistarlo, e il libraio confessò candidamente che le copie del libro non gli erano arrivate, e che il cartello era nato dal fastidio di dover rispondere negativamente a troppe richieste; se gli fossero arrivate, certo che le avrebbe vendute volentieri. A me pare che la prima fase della vicenda, quella idealizzante, abbia uno statuto letterario, e la seconda (quella della verifica) uno statuto giornalistico: ridiventato letterario nel bel racconto che ho ascoltato in tivù da Alessandro Baricco (anche lui generalizzando, e facendone una comica dimostrazione che lo storytelling spira dove vuole). Proverò a chiarire la spinosa faccenda degli “statuti” nel quarto e ultimo paragrafo, cercherò di spiegare che significa ridurre i fatti a pretesto; per ora do solo un indizio, ricordando che Ermanno Rea, nell’indagare in Mistero napoletano sul suicidio di Francesca Spada, redattrice culturale dell’«Unità», resta folgorato dall’apprendere che, nell’ultima lettera al suo amato Renzo, Francesca aveva riportato una famosa poesia di Rilke su Alcesti.

Torniamo al vecchio Manzoni, e al suo saggio sui componimenti misti di storia e d’invenzione – trattando del “vero poetico” distinto dal “vero positivo”, ne parla come di una “incorruttibile entità”, di una visione interna e “irrevocabile”: una verità coeterna alla mente e che la mente non può scrollarsi di dosso. Ancorato a un’estetica fondamentalmente platonica, questo “vero ideale” entra in una contraddizione insanabile con le brutture della storia (platonico sì don Alessandro, ma pur sempre giansenista), al punto da fargli dichiarare impossibile in punta di principio lo stesso romanzo storico e tutte le mescolanze di realtà e fiction. L’autore del più grande romanzo storico italiano rinnega la propria opera (e già negli stessi Promessi sposi l’appendice sulla Colonna infame strideva non poco).

Ma forse c’è un altro modo, meno distruttivo, di affrontare la questione; forse si può ipotizzare che la verità fattuale (storica o giornalistica) e la verità letteraria funzionino secondo due logiche differenti. Qui si entrerebbe in un ginepraio filosofico e neurofisiologico, ma per il nostro scopo basta farla più semplice: la scrittura storica (e giornalistica) usa la logica comune di tutti i giorni, deve verificare quello che dice e correggersi ogni volta che le si fa notare un’imprecisione o un errore di fatto; deve diffidare delle generalizzazioni e usare frasi chiare, il meno ambigue possibile per non essere travisata; deve accusare i colpevoli e difendere gli innocenti, e sentirsi responsabile di un buon funzionamento della vita associata. Per la scrittura letteraria l’ambiguità è fondativa e ineliminabile, il testo letterario è un insieme dove tutto può combinarsi con tutto, ogni parallelismo e suggestione sono leciti; in letteratura i colpevoli sono anche innocenti e gli in-nocenti anche colpevoli, non c’è particolare che non possa essere infinitizzato e generalizzato, diventare metaforico, simbolico, emblematico o mitico. Si confronti, per esempio, la descrizione delle isole Galapagos fatta da Darwin nel Voyage of the Beagle con quella che ne fa Melville nelle Encantadas; o gli articoli impegnati e polemici di Camus contro le disfunzioni del sistema giudiziario algerino con lo Straniero.

Horacio Verbitski, il grande giornalista argentino accusatore del regime di Videla e autore delle più scioccanti rivelazioni sul destino dei desaparecidos, ha dato del giornalismo una definizione radicale: «Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda». Si potrebbe sostenere, con un po’ di impudenza, che ciò che il giornalismo militante fa contro la repressione, la letteratura lo fa contro la rimozione inconscia («letteratura è esprimere ciò che l’io non vuole che si sappia…») – intendendo per “io”, naturalmente, anche l’io sociale e collettivo. La verità letteraria è la verità del desiderio, cioè non è verità logica né ideologica: è un campo di tensioni in cui ogni asserzione può essere rovesciata, ogni no può valere come un sì, dietro ogni oggetto può apparire la sua derisione, il mito più sanguinario può essere salvifico o viceversa, ogni minima procedura può trasformarsi in un rito, il tempo può ristagnare o cessare di esistere. Tutto questo si ottiene con la Forma, ovverossia con la Bellezza – che non è estetismo ma quasi il suo contrario, attacco a qualunque Bellezza precedente, ricerca di una parola (o di una struttura, o di una figura) profonda, plurivalente, muscolare; una lingua che non può ospitare nessun luogo comune, se non “mettendolo in situazione” e sfruttandolo narrativamente. Nonostante l’equazione ipnotica di Keats, e la disperata opposizione di Leopardi, forse bisogna ragionevolmente concludere che Vero e Bello né coincidono né si oppongono: stanno su piani logici inconfrontabili, hanno due “statuti” diversi. Il Bello non ha a che fare col Vero, e nemmeno col Bene – la letteratura può dare cittadinanza a Satana, mentre il giornalismo non può permetterselo.

Anche il giornalismo, è ovvio, deve utilizzare una logica emotiva per attuare quella che di solito si chiama la “mozione degli affetti” – ma deve controllare bene questa possibilità retorica, per evitare contraccolpi indesiderati. La suggestione è pericolosa sui giornali: se scrivo che Carminati ha telefonato al compagno di Ornella Muti, avvocato, per chiedergli una consulenza che quello per altro ha rifiutato, devo stare attento che una lettura frettolosa, o il passaggio in un sito distratto, non faccia giungere alla conclusione che la Muti è coinvolta in Mafia Capitale. E devo calibrare le parole trattando di cronaca nera, per non incoraggiare fenomeni imitativi e non creare fake characters, surrogati parodici del mito che durano lo spazio di dieci o venti talk show (Bossetti mostro, Brizzi maiale, Stacchio eroe). Altro che eternità e archetipi, stereotipi con la miccia corta; il giornalismo talvolta ha addirittura bisogno dei luoghi comuni linguistici, perché sono il ponte comunicativo più veloce d’intesa coi lettori; ma ai lettori deve dar conto momento per momento, rinnovare i clichés appena quelli vecchi passano di moda; mentre il narratore o il poeta creano personaggi “accompagnati dall’infinito”. Frammenti di giornalismo e frammenti di letteratura possono assomigliarsi, ma la letteratura ha senso solo se la si prende intera. Fermo restando che tra i due campi ci saranno sempre interazioni e scambi anche fruttuosi, aver chiara la differenza di origine e di obiettivo servirà a non cadere nella poltiglia, dove a rimetterci è sempre la scrittura letteraria. Nel “lettero-giornalismo” o nella “giornal-letteratura” siamo di fronte a una parola sgonfia, corriva, accesa da fregole improvvise ma senza sicura direzione, che spara nel mucchio per fare rumore; una parola che non ambisce a durare, imprecisa perché abbagliata da troppe lucette, che slitta sul desiderio (quello sì, estetizzante) di compiacere il pubblico con vicende “troppo belle per es-sere vere”, legate in trame da piano quinquennale dell’ottimismo. Personaggi unidimensionali e scoop spettacolari si incontrano e si mescolano da una parte e dall’altra. «Alla realtà», scrive Thomas Mann nell’illuminante saggetto Bilse e io, «piace che le si parli con frasi sciatte»; e il delirio comunicativo dei nuovi social network non sta riducendosi forse a un ininterrotto chiacchiericcio della realtà con se stessa? Gli ibridi e gli incroci sono interessanti, ma il giornalismo deve e può provare l’orgoglio di non usare i meccanismi della letteratura e di agire iuxta propria principia, così come la letteratura può e deve fare il possibile per salvare la Forma dalle brodaglie verbali che ci minacciano dal web. Sta prendendo piede una forma di illusione che tende a far passare la frammentazione, la polverizzazione del sapere (e dell’espressione) come espandersi della democrazia. In una trasmissione di Santoro su RaiTre, Saviano ha sostenuto l’inquietante metafora dei libri bruciati, che una volta trasformati in cenere «si diffondono su tutti», scavalcando «l’elitarismo culturale»; sarebbe bello se qualcuno con la verve oratoria e l’impegno di Saviano provasse a difendere la parola densa, multistrato, capace di resistere alle fiamme che la attorniano da ogni lato. «In un Paese dove tutti sanno un poco», rifletteva desolato Leopardi, «e si sa poco».

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