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il rasoio di occam

Psicanalisi e rivoluzione

di Felice Cimatti

Nell'ambito del suo meritorio progetto di pubblicazione delle opere di Enzo Melandri, la casa editrice Quodlibet ha recentemente rimesso in circolazione un aureo libriccino, L'inconscio e la dialettica, originariamente uscito per Cappelli nel 1983. La nuova edizione del testo è accompagnata da una “Postfazione” di Felice Cimatti, che qui pubblichiamo per gentile concessione della casa editrice

freud psicanalisi e rivoluzione 499Credere che il prendere coscienza, la
“consapevolizzazione” corticalmente intesa,
sia un atto spontaneo, positivo, tale
da non richiedere spiegazioni, e anzi da
approvarsi senza restrizioni – tutto questo
non è che un pregiudizio spiritualistico
[…]. In tal modo si rischia di rendere
gratuito […] il suo complemento: l’atto
del non voler prendere coscienza, che è
ben altrimenti significativo[i].

Il problema che Melandri affronta in questo saggio è in prima battuta di tipo conoscitivo, cioè ha a che fare non direttamente con un particolare problema empirico, bensì con due questioni connesse: a) il problema di come si possa venire a conoscenza di quel problema e b) come si possa, eventualmente, trattarlo. In seconda battuta Melandri solleva un problema etico, come vedremo nella parte finale di questa postfazione. Il saggio si apre con la formulazione esplicita della questione: «Un problema centrale della dialettica è la questione se l’oggetto del discorso possa essere contraddittorio o no». La dialettica, scrive Melandri nella Linea e il circolo, è il pensiero la cui «formula generale […] potrebbe essere: “né A, né B”» (LC, p. 798). Un oggetto del discorso contraddittorio è invece un oggetto che è contemporaneamente A e non-A. Un oggetto del genere non sembra pensabile in modo sensato. Se però lo si pensa dialetticamente, allora diventa «possibile scappare “tra le corna” del dilemma». In effetti il tentativo di evitare la contraddizione “paralizza” il pensiero, perché appunto lo immobilizza o sulla posizione A o su quella non-A. Sostenere invece «né A, né B» significa, in realtà, che «A e B possono ben rappresentare dei contrari. Ma i contrari […] non sono mai direttamente contraddittori» (LC, p. 802), e questo permette al pensiero di non congelarsi nella contraddizione.

Cerchiamo di capire qual è, propriamente, il problema posto da un oggetto del discorso contraddittorio. Per dire qualcosa di un certo oggetto del discorso, occorre sapere, preliminarmente, se sia possibile parlarne in modo sensato. Se l’oggetto del discorso, infatti, è intrinsecamente contraddittorio, se ne potrebbe dire contemporaneamente sia A che non A. Il problema sollevato da Melandri è particolarmente significativo se applicato alla psicoanalisi, e al suo concetto principale, quello di inconscio. Per Freud infatti l’inconscio ha caratteristiche peculiari:

Il nucleo dell’Inc è costituito da rappresentanze pulsionali che aspirano a scaricare il proprio investimento, dunque da moti di desiderio. Questi moti pulsionali sono fra loro coordinati, esistono gli uni accanto agli altri senza influenzarsi, e non si pongono in contraddizione reciproca. Se sono attivati contemporaneamente due moti di desiderio le cui mete non possono non apparirci incompatibili, questi due impulsi non si riducono né si elidono a vicenda, ma procedono insieme alla formazione di una meta intermedia, di un compromesso. In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto solo dal lavoro della censura fra l’Inc e il Prec [Preconscio]. La negazione è un sostituto della rimozione ad un più alto livello. Nell’Inc ci sono solo contenuti forniti di un investimento più o meno forte. […]

I processi del sistema Inc [Inconscio] sono atemporali, e cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dallo scorrere del tempo, non hanno, insomma, alcun rapporto con il tempo. Anche la relazione temporale è legata al lavoro del processo C [Cosciente]. Parimenti, i processi inc non tengono in considerazione neppure la realtà. Sono soggetti al principio di piacere; il loro destino dipende soltanto dalla loro forza e dal fatto che soddisfino o meno alle richieste del meccanismo che regola il rapporto piacere-dispiacere.

Riassumiamo: assenza di reciproca contraddizione, processo primario (mobilità degli investimenti), atemporalità e sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica sono i caratteri che possiamo aspettarci di riscontrare nei processi appartenenti al sistema Inc[ii].

Una qualunque asserzione, ad esempio «A è p», dice di A che possiede la caratteristica p. Se si accetta il principio della bivalenza (A ∨ ¬A) dire «A è p» significa anche, implicitamente, sostenere che non è vero che nello stesso momento «A non è p», perché o A ha la caratteristica p o non ha questa caratteristica. Se parlare in modo “scientifico” significa asserire qualcosa che si presume vero del mondo, allora non si può asserire contemporaneamente dello stesso oggetto che possiede e non possiede una certa caratteristica. Tutto questo è noto almeno da Aristotele, e anche Freud ne era a conoscenza[iii]: «È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione»[iv]. In questo caso il problema nasce però non dal fatto che qualcuno dica che A ha e non ha la proprietà p; il problema è dovuto al fatto che l’oggetto di cui si sta parlando – in questo caso l’inconscio per Freud – sarebbe intrinsecamente illogico. Lo strumento logico-linguistico con cui proviamo a pensare l’inconscio si basa sulla esclusione della contraddizione e sulla negazione. Ma se le cose stanno così, come è possibile anche solo parlare di qualcosa come l’inconscio? Come fa Freud a sapere che può esistere qualcosa come l’inconscio, se il modo scientifico di conoscere qualunque oggetto si basa su operazioni logico-linguistiche affatto incompatibili con le (presunte) caratteristiche di quello stesso oggetto?

Il problema di Freud, e con lui di quella psicoanalisi che più o meno esplicitamente si richiama alla sua metapsicologia, è che a rigore non si potrebbe nemmeno distinguere fra «processo primario», quello inconscio, e «processo secondario», quello cosciente. A rigore l’unico sistema che conosciamo è quello che si basa sull’esclusione della contraddizione e sulla negazione, cioè appunto sul «processo secondario». In questo senso vale piuttosto il contrario di quanto sostiene Freud: il sistema primario è quello cosciente (il «secondario» di Freud), mentre quello che per lui è il sistema «primario», il sistema inconscio, è in realtà quello secondario. È secondario perché può. essere pensato (vedremo poi a quali condizioni) solo come il contrario (in senso non tecnico) dell’unico sistema che possiamo dire di conoscere, quello logico-linguistico. Più propriamente, le capacità conoscitive esplicite dell’animale umano coincidono sostanzialmente con l’apparato logico-linguistico, dal momento che la conoscenza è possibile proprio perché strettamente intrecciata con l’abilità di parlare e pensare in una lingua[v]. Come è  possibile, allora, pensare ciò che in un certo senso sfugge costitutivamente al “naturale” apparato cognitivo umano?

Lo spunto per le analisi di Melandri è rappresentato da una discussione del libro sulla logica dell’inconscio di Ignacio Matte Blanco[vi]. Melandri apprezza, del libro dello psicoanalista cileno, soprattutto le parti sulle emozioni, mentre sembra essere piuttosto scettico sulle parti in cui viene proposta una sorta di sistemazione logico-matematica del funzionamento dell’apparato inconscio: «La semplice formulazione matematica […] non è affatto ancora una formalizzazione; […] nozione, quest’ultima, che è vincolata in senso lato a un calcolo, inteso a sua volta come condizione necessaria di un’applicabilità in accezione forte della matematica al reale». Si tratta di una precisazione importante, che vale per Matte Blanco, e ancor di più per coloro che prendono sul serio l’uso di Jacques Lacan di quelli che lui chiamava «algoritmi», e che evidentemente non vanno in nessun senso considerati dei veri algoritmi in senso logico-matematico. Il problema generale affrontato da Melandri è quindi cercare «di mantenere un minimo di sensatezza alla questione di che cosa si debba intendere allorché Freud finisce con dire che l’inconscio è illogico».

In questo senso il saggio di Melandri è un lavoro sulla epistemologia della psicoanalisi, cioè sulle condizioni di possibilità di un discorso sensato sull’inconscio[vii]. In particolare, sull’inconscio come lo presenta Freud. Vedremo più avanti che questa precisazione è rilevante, perchè le osservazioni critiche di Melandri non si applicano al modo molto più rigoroso in cui Lacan definisce la nozione di inconscio. Fatta questa precisazione, vediamo intanto come Melandri definisca la psicoanalisi: come un «nuovo campo (o “continente”) aperto all’interpretazione dei simboli, sintomi o manifestazioni neurotiche mediante il solo ausilio di una peculiare “logo”-terapia, un trattamento affidato al solo effetto (suggestivo, anamnestico, provocativo) dell’atto di parola». Se questa è la psicoanalisi, continua Melandri, allora, «pur non coltivando in cuore indebite “resistenze”, oggi ci si ritrova sempre pi. In molti a giudicare la psicoanalisi non solo assai poco convincente, ma anche e soprattutto noiosa». Un’attività che è da un lato «assai poco convincente» – per le ragioni appena esposte, perché non è in alcun modo chiaro come sia possibile parlare di qualcosa che viene definito come affatto impensabile e indicibile – e dall’altro è «soprattutto noiosa». Infatti, se lo psicoanalista fosse qualcuno che spiega un sogno, o interpreta un atto mancato, è abbastanza evidente che questo “gioco” è privo di fondamento, e viene presto a noia. Ma la psicoanalisi è davvero una attività logico-linguistica?[viii] L’analista “interpreta” le «manifestazioni neurotiche«» dell’analizzato?

Prima di provare a rispondere a questa domanda torniamo all’oggetto della psicoanalisi, quell’inconscio dallo statuto “ontologico” così incerto. Il problema, come abbiamo visto, è che se davvero è “illogico” allora il ragionamento scientifico – che si basa sulla logica – non lo può afferrare, e a rigore neppure pensare. Quindi propriamente non si può nemmeno sostenere in modo sensato che l’inconscio abbia determinate caratteristiche. Di conseguenza, prosegue Melandri, l’inconscio «non può nemmeno darsi a intendere quale “oggetto”». Ma che diventa allora l’inconscio, se non è né conoscibile né pensabile in modo sensato? Per Melandri è una specie di idea regolativa, una supposizione in negativo che la psicoanalisi deve postulare, per rendere conto di certi fenomeni che altrimenti non saprebbe non spiegare – perché non li spiega affatto – ma nemmeno pensare come fenomeni. Il lapsus, ad esempio, diventa un fenomeno psichico solo alla luce dell’ipotesi dell’inconscio. Senza questa ipotesi si potrebbe spiegare in altro modo, ad esempio come un fenomeno legato alla stanchezza dei muscoli articolatori. Di conseguenza diventa plausibile:

[…] trattare, senza contraddizioni da parte nostra e quindi pure di Freud, di un «obiettivo» anche in sé autocontraddittorio, poco importa se inesistente; conta solo che, allora, non sia assunto né come un corpo esistente in quanto oggetto del mondo, e nemmeno come un’essenza reale o un obiettivo identificabile nel suo «esser così», unicamente lo stesso e non altrimenti. Prendiamo dunque l’inconscio come l’obiettivo di un certo sistema di incongruenze, comprendente al limite anche le più incorreggibili contraddizioni[ix].

In questa prospettiva l’inconscio propriamente non c’è, ma non c’è nemmeno il bisogno che ci sia, perché un discorso sensato non ha bisogno per essere sensato di attaccarsi ad una cosa, tanto più se questa cosa è una sfuggente entità psichica. Il discorso psicoanalitico in questo modo non perde di efficacia, anzi, diventa più coerente ed elegante, perché non ha più bisogno di supporre l’esistenza di entità misteriose e inafferrabili. Melandri prosegue nel suo lavoro di chiarificazione – allo stesso tempo ontologica e concettuale – mostrando che l’inconscio non è illogico, quanto piuttosto irrazionale: «L’irrazionalità non è di per sé illogica, nel senso che non include una contraddizione interna». Irrazionale significa che non si riesce ad afferrare con gli strumenti razionali della logica. Ma irrazionale appunto non significa che questo presunto oggetto sia in sé illogico. Non confondere illogicità e irrazionalità permette di garantire la sensatezza del discorso psicoanalitico, senza renderlo del tutto incoerente. Al contrario, prosegue in modo impietoso Melandri, «nella psicoanalisi sembra proprio che, per convincerci che l’inconscio è di per sé illogico, noi dobbiamo anzitutto rinunciare ad ogni logica». Ma rinunciare ad ogni logica, ossia postulare l’esistenza di un oggetto in sé illogico, significa «rinunciare alla conoscenza». Se, al contrario, non si rinuncia alla possibilità della conoscenza, ne consegue che i fenomeni psicoanalitici, ad esempio il sogno, possono essere oggetto di una comprensione sui generis proprio perché non sono fenomeni illogici. Il problema della (presunta) assenza di logica dei fenomeni psichici diventa, a questo punto, il problema di come i consueti dispositivi logici proiettano su questi stessi fenomeni le loro caratteristiche. È la logica discorsiva che rende, paradossalmente, incomprensibile il sogno, perché il sogno, di per sé, non ha nulla in comune con quella logica. Ma questo significa che lo rende anche in qualche misura comprensibile, nella misura in cui lo adatta alle proprie esigenze. Melandri ci tiene a preservare l’autonomia del fenomeno psichico sia dalla logica che dalla assenza di logica.

Questa analisi di Melandri ottiene due primi risultati: l’inconscio non può essere illogico; l’inconscio è qualcosa come l’«obiettivo di un certo sistema di incongruenze». Nella Linea e il circolo verrebbe definito come un «paradigma» che ha una funzione allo stesso tempo «pragmatica, operativa e tecnica» (LC, p. 328). Si tratta ora di provare a rispondere alla seconda domanda iniziale: come si può conoscere l’inconscio? A questo punto entra in campo la dialettica. Nella Linea e il circolo la dialettica viene presentata come quel sapere analogico che «occupa una posizione intermedia fra il pensiero puramente formale e quello contenutistico» (lc, p. 14). Criticando la definizione di Freud dell’inconscio come qualcosa di contraddittorio, Melandri critica la sua implicita riduzione ad un fenomeno linguistico. In effetti l’inconscio freudiano è definito come il campo complementare a quello del linguaggio, e quindi della negazione e della assenza di negazione. Si tratta, invece, di delinguisticizzare lo psichico: «Il sogno dunque non è linguaggio, se non nel senso tutt’affatto metaforico con cui per esempio si dice che attraverso l’analisi elettroscopica della luce proveniente da una lontana stella noi siamo in grado di leggere il messaggio che essa ci invia». È  questo il punto che sta a cuore a Melandri. Se la psicoanalisi, la talking cure, è un’attività inseparabile dalla parola e dal ragionamento, non per questo la psiche è fatta di linguaggio. Anche se Melandri non lo cita esplicitamente qui sembra avere in mente la celebre formula di Lacan secondo cui «l’inconscio è strutturato come un linguaggio»[x]. In questo senso sostenere che la psiche è illogica sarebbe comunque un modo per prenderla in considerazione dal punto di vista del linguaggio, come il contrario (logico) del linguaggio; sarebbe un modo per attirarla nell’orbita del linguaggio. Al contrario, insiste Melandri, è necessario tenere fermo il «carattere linguisticamente estrinseco dell’interpretazione rispetto all’oggetto di cui tratta». Il campo della psiche non coincide con quello del linguaggio. Di conseguenza, «c’è il più che fondato sospetto che si tacci l’inconscio di una colpa, l’illogicità, pertinente anzitutto al nostro modo di procedere». L’illogicità dell’inconscio è solo il riflesso dell’incapacità del pensiero discorsivo di pensarlo ed articolarlo; di conseguenza si proietta questa incapacità sull’oggetto che non si riesce ad afferrare, addebitandogli una “colpa” che spetta invece al pensiero logico-discorsivo.

Infatti, una volta stabilito che l’oggetto è autocontraddittorio, esso non risulta individuabile se non negativamente: possiamo solo dire che cosa esso non è. E da ciò deriva la conseguenza, epistemologicamente deleteria, per cui non abbiamo più alcun criterio per mantenere libero da contraddizioni il nostro rapporto conoscitivo con un oggetto del genere[xi].

Il campo psichico, che per Melandri precede il linguaggio, «avviene nel passaggio dalla fenomenologia all’ermeneutica/semiologia» (lc, p. 765). Va ricordato che per Melandri non è affatto vero, come sostiene Barthes in Elementi di semiologia, che la semiologia sia una specie del genere linguaggio[xii]. Vale piuttosto il contrario. Da un lato «l’ermeneutica interpreta il fenomeno, dall’altro la semiologia produce la frantumazione del fenomeno, il suo taglio o découpage in un insieme finito di segni discreti e semplici». L’esperienza sensibile consiste in questa doppia operazione congiunta. E tutto questo non ha nulla a che fare con il linguaggio:

Per riassumere: l’applicazione della fenomenologia al mondo fenomenico, che inizialmente si può concepire come bidimensionale, a parte una certa curvatura concava, arricchisce questo di due nuove dimensioni e lo costituisce in piano di simmetria fra l’oggettività e la soggettività, che lo trascendono rispettivamente verso l’esterno e verso l’interno. Esteriorità e interiorità sono gi. date insieme con il mondo fenomenico e la sua iniziale curvatura. Questo fatto, di origine esistenziale, fa sì che il piano di simmetria sia non un piano euclideo, ma una superficie complessivamente concava (lc, p. 767).

Ecco perché, in conclusione, per Melandri «il mondo fenomenico, non quello noumenico, è la sorgente delle idee» (ibid.), ed ecco la ragione della sua contrarietà sia al «pan-logicismo» che al «pan-linguismo».

Più sopra avevamo detto che le osservazioni critiche di Melandri non si applicano, propriamente, a Lacan. Nel Seminario dedicato agli Scritti tecnici di Freud Lacan descrive in termini molto precisi, e crudi, il processo di formazione dell’inconscio in un essere umano. Lacan sta commentando un celebre caso di Melanie Klein, il caso di Dick, un bambino profondamente disturbato. La terapia di Klein consiste nel parafrasare da presso il comportamento del bambino, che non parla, ma si limita a giocare con dei giocattoli che trova nel suo studio. Per Lacan non è importante analizzare il contenuto esatto dell’intervento verbale di Melanie Klein, quanto proprio il fatto che sta fornendo al bambino un modo – Melandri direbbe delle analogie – per pensarsi: «il bambino», osserva Lacan, «simbolizza la realtà attorno a lui a partire da quel nucleo, da quella piccola cellula palpitante di simbolismo che Melanie Klein gli ha dato». Di fatto, con questi veri e propri impianti verbali, «apre le porte del suo inconscio»[xiii]. L’inconscio di Dick comincia a formarsi attraverso questo intervento verbale. In questo senso più sopra osservavamo che il cosiddetto «processo primario», cioè l’inconscio, in realtà è secondario, perché viene dopo e come effetto interno del «processo secondario», cioè dei discorsi esterni nell’ambiente sociale in cui il piccolo umano cresce e si forma. Le parole di Melanie Klein entrano nel cranio di Dick attraverso le orecchie, e letteralmente cominciano ad organizzare il suo apparato psichico interno. In questo senso, prosegue Lacan, «l’inconscio è il discorso dell’altro»[xiv]. Per Lacan l’essere umano nasce senza inconscio[xv]: «Ecco un caso dove è assolutamente evidente». Prima dell’intervento di Melanie Klein «non vi è alcuna traccia di inconscio nel soggetto»; è il suo «discorso che innesta brutalmente sull’inerzia egoica iniziale del bambino le prime simbolizzazioni della situazione edipica»[xvi]. L’Edipo è impiantato nel corpo di ogni umano. Ossia, quello che diventerà l’inconscio del soggetto entra nel suo corpo dall’esterno. Una prospettiva del genere non ha nulla a che fare con la tesi, di moda al tempo della scrittura della Linea e il circolo, secondo cui «tutto è linguaggio» (lc, p. 118).

A partire da questa analisi la celebre, e criticatissima, formula lacaniana dell’inconscio strutturato come un linguaggio diventa forse più comprensibile. Il punto è che l’inconscio, per Lacan, è l’effetto interno dei discorsi degli adulti. O, per usare i termini di Melandri, è una analogia esterna che diventa il principio di organizzazione interno dell’apparato psichico di un esemplare della specie Homo sapiens in formazione. A queste condizioni non sorprenderà che anche Melandri sia sostanzialmente d’accordo con Lacan. Melandri commenta la tesi lacaniana nel capitolo della Linea e il circolo dedicata al linguaggio. In particolare Melandri sta discutendo i rapporti fra ontologia, linguaggio e metalinguaggio. Riproduciamo qui sotto il suo schema riassuntivo (LC, p. 154):

(i) livello -1 oggetto (ontologia)

(ii) livello 0 linguaggio (semantica in senso stretto)

(iii) livello +1 meta-linguaggio (ermeneutica)

«La semantica», scrive, «deve ammettere almeno tre livelli. C’è il livello 0 del linguaggio-oggetto, quello 1 del linguaggio e quello -1 degli oggetti extralinguistici». Secondo Melandri «il rapporto fra i tre livelli, -1, 0, +1, è triadico; cioè non lineare ma circolare», in base al quale «diventa evidente che un meta-linguaggio è tale solo nella misura in cui è anche un pre-linguaggio» (lc, p. 155). Per parlare di qualcosa occorre averlo già in qualche modo reso dicibile; in questo senso ciò di cui si parla è anche un ciò di cui si sarebbe potuto parlare. Il «meta-linguaggio», in questo schema, è implicito in ogni atto linguistico, che è sempre un dire ma anche un dire la possibilità stessa di un qualunque dire. Questo non significa che tutto è linguaggio, significa che il linguaggio, una volta istituitosi,è sempre anche una precondizione della propria stessa possibilità di dire. Il mondo è il mondo, indipendente dalla nostra conoscenza, ma una volta che il mondo è conosciuto e parlato, ciò di cui si parla è inseparabile dal fatto che se ne parla: «Costituendosi in noologia, la mente umana si comporta per così dire slealmente nei confronti del macrocosmo o mondo esteriore di cui è rispecchiamento, poiché ne fa in effetti un sotto-insieme delle sue totali potenzialità rappresentative«» (lc, p. 782):

Secondo Lacan, qualcosa di simile vale anche per la psicoanalisi. Nella prassi terapeutica, il livello 0 è costituito dalle parole del paziente; il livello -1 dalla sua neurosi o dal risultato della diagnosi; e il livello +1 dalla teoria psicoanalitica che permette di passare da 0 a -1. È in questo senso che l’inconscio può essere equiparato a un linguaggio. […] [I]l linguaggio-oggetto (a livello 0) non è l’inconscio, ma ciò attraverso cui si giunge a esso (situato a livello -1); e la modalità che rende possibile questa lettura semiologica (o semeiotica) è il meta-linguaggio del livello +1, cioè la teoria psicoanalitica usata in funzione ermeneutica (lc, p. 355).

L’inconscio è strutturato come un linguaggio perché è il linguaggio che lo istituisce e lo organizza in modo linguistico. Ma questo appunto significa che di per sé non è un linguaggio. Vale nella situazione analitica quello che succede – come abbiamo visto nel caso di Dick – durante l’ontogenesi della psiche umana. Una analogia esterna che diventa interna. L’originarietà fenomenologico/ermeneutica del campo psichico, quindi non linguistica, non viene messa in discussione da Lacan.

Se ora torniamo al titolo del saggio di Melandri, comincia forse a chiarirsi il senso della coppia del titolo, dialettica (quindi analogia) e inconscio. Per pensare l’inconscio occorre un sapere particolare, che non é né quello logico né quello linguistico. Per questa ragione è importante sbarazzarsi dell’equivoco secondo cui l’inconscio sarebbe illogico. Perché in questo modo si costringe l’inconscio nel campo delle contrapposizioni congelate, o A o non-A. L’inconscio è irrazionale, ma non illogico. Occorre una razionalità specifica, per pensare questo particolare ambito dell’esperienza umana. Il pensiero dialettico, per Melandri, garantisce due prestazioni estremamente significative: «(a) apertura dell’orizzonte teoretico, ciò che vale come assicurazione contro ogni forma di dogmatismo; e (b) la totalizzazione della consapevolezza intorno al medesimo, la quale si ottiene negativamente. Se infatti vale «né A, né B» allora il sapere è aperto verso C, D e così via. Allo stesso tempo è subito evidente ed esplicito che il »«punto (b) […] fa dell’ignoranza il necessario complemento dialettico di ogni conoscenza» (lc, p. 802). Ogni sapere determinato – ad esempio, «x è né A, né B» – esibisce in negativo il campo complementare di quello che non si sa. Il sapere dialettico è per definizione il sapere che sempre di nuovo mostra «l’inadempienza di ogni summa» (LC, p. 803). C’è qualcosa che sfugge, per definizione. Ora questa è esattamente la definizione che Lacan propone quando pensa al peculiare sapere psicoanalitico. Il modello (analogico, ovviamente) di questo sapere è il fatto che la donna, per Lacan, è «non tutta»[xvii]. Mentre l’uomo è completamente sotto il segno della castrazione, ossia è segnato dalla negazione del fallo (¬), la condizione anatomica femminile la preserva dal completo assoggettamento alla logica della castrazione (che per Lacan, seguendo il Freud di Totem e Tabù è il carattere distintivo della civiltà umana). L’uomo, il maschio, esiste come universale UOMO proprio perché non c’è uomo che non sia stato marchiato dalla legge della castrazione. Al contrario «non c’è La donna, con l’articolo definito per designare l’universale. Non c’è La donna perché […] per essenza essa non è tutta»[xviii]. Il fatto che la donna sia «non tutta» significa, prosegue Lacan, che mentre il godimento maschile è inseparabile dalla castrazione (solo accettando il tabù dell’incesto, e quindi appunto la castrazione, l’uomo può accedere al godimento socialmente legittimato) per la donna esiste la possibilità di un «godimento supplementare» che è «al di là del fallo»[xix]; un godimento che non è affatto – precisa subito dopo Lacan – «complementare», nel qual caso invece «ricadremmo nel tutto»[xx], cioè nella contrapposizione in cui vale o A o non-A. L’analista deve assumere la posizione femminile proprio – e qui torniamo a Melandri, che suo malgrado è lacaniano – come «assicurazione contro ogni forma di dogmatismo». Da un lato, l’analista lacaniano deve sempre di nuovo smarcarsi dalla posizione di colui che sarebbe detentore di un sapere speciale (un sapere che farebbe da complemento dell’ignoranza del paziente, con l’effetto di saturare la relazione analitica[xxi]); dall’altro, nel suo farsi da parte, rende possibile al paziente accedere a quel «godimento supplementare» che sfugge al principio di castrazione. Nei termini di Melandri l’analista è l’operatore dialettico che offre al paziente la possibilità di pensarsi al di fuori della coppia congelata fra A e il suo complemento non-A.

Ma come avvicinarsi, infine, all’inconscio? Per Melandri il linguaggio presuppone una «semiologia» ed un’«ermeneutica» (lc, 61), saperi analogici che permettono agli esseri umani (e anche a quelli non umani) di entrare in rapporto con il mondo. Senza un «principio analogico qualunque esperienza sarebbe impossibile» Si tratta allora di cominciare a pensare alla psicoanalisi come ad un particolare sapere ermeneutico ma non propriamente linguistico, dal doppio statuto. Sul lato “teorico” la psicoanalisi è propriamente una «archeologia», cioè una «terapia mirante al recupero dell’inconscio inteso come “rimosso” storico» (lc, p. 66). L’archeologia non cerca l’origine naturale di un fenomeno, ma risale «la genealogia finché non si giunga a monte della biforcazione in conscio e inconscio del fenomeno in questione». L’archeologia non spiega, non razionalizza, non chiarisce: è una «regressione» allo stato intermedio, alla indistinzione fra ciò che è inconscio e ciò che è cosciente, in quello “spazio” incerto «in cui la sindrome patologica rivela il suo reale significato» (ibid.). L’archeologia riporta alla condizione che precede la trasformazione del mobile campo di forze che si stendeva fra A e non A in una contrapposizione reciprocamente esclusiva (A ∨ ¬A). Quando fra A e non A esistevano ancora tutte le indeterminate possibilità intermedie di cui invece la loro ormai ossificata mutua esclusione ha fatto piazza pulita. Per questa ragione, prosegue Melandri, «l’archeologia si fonda sul principio di analogia e non su quello di identità e differenza» (lc, p. 67). Il metodo psicoanalitico è quindi un metodo archeologico, una regressione che è «l’esatto reciproco della razionalizzazione» (lc, p. 66). A questo metodo corrisponde una pratica altrettanto dialettica e analogica. Il compito della psicoanalisi non è quello di “tradurre” l’inconscio in conscio, cioè di razionalizzarlo, bensì quello di proporre analogie che permettano alla coppia analista-paziente di immaginare/pensare in modo alternativo il mondo congelato del paziente. Il quale è congelato proprio perché crede di essere costretto a rimbalzare indefinitamente fra A e non A, senza alternative. Per rompere questa prigione il pensiero dialettico – cioè quello psicoanalitico – propone analogie. Con una precisazione, ovviamente: non tutte le analogie sono buone analogie: «Le analogie buone sono quelle rivoluzionarie. Esse conducono oltre l’analogia, verso un nuovo assetto razionale» (lc, p. 810). In questo senso la psicoanalisi è il sapere analogico per eccellenza, perché il suo scopo specifico è di aiutare il paziente a pensarsi in modo inedito e inaspettato, ossia a pensarsi diversamente da come si è sempre pensato. La psicoanalisi non dà la parola all’inconscio, al contrario, produce nuovo inconscio, e così facendo inevitabilmente lo rivoluziona.


NOTE
[i] Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio storico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, 20122, p. 11. D’ora in avanti LC.
[ii] Sigmund Freud, Das Unbewusste, «Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse», 1915, 3(4), pp. 189-203; 5, pp. 257-269 (trad. it. L’inconscio, in Opere. 1915-1917, vol. 8, pp. 49-88, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 70-71).
[iii] È da chiedersi perché Freud, che conosceva così bene la filosofia greca, su questo punto non abbia seguito Aristotele. Probabilmente perché il modello mentale di riferimento di Freud era il darwinismo, inteso come gradualismo, che lo porta a cercare sempre l’antecedente evolutivo di ogni fenomeno; cfr. F. Sulloway, Freud and biology: the hidden legacy, «Acta Psychiatrica Belgica», 86, 1986, pp. 760-788.
[iv] Aristotele, Metafisica, in Opere, vol. 6, Laterza, Bari 2002, p. 94 (1005b, 19-21).
[v] Cfr. Felice Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
[vi] Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come sistemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1981.
[vii] In realtà il saggio di Melandri è molto più ricco, occupandosi anche di questioni attinenti alla teoria sociale, e dell’applicabilità della matematica alla psicologia. In questa Postfazione ci occuperemo per. soltanto del problema epistemologico.
[viii] Cfr. Paul Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud (1965), il Saggiatore, Milano 1967.
[ix] Vedi sopra, p. 24.
[x] Cfr. Jacques Lacan, Conversazione in P. Caruso (a cura di), Conversazioni con Lévi-Strauss Foucault Lacan, Mursia, Milano 1969, pp. 134-182, p. 163.
[xi] Vedi sopra, p. 49.
[xii] Cfr. Roland Barthes, Elementi di semiologia (1964), Einaudi, Torino 1992, p. 13.
[xiii] Jacques Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-1954 (1975), Einaudi, Torino 2014, p. 103.
[xiv] Ivi, p. 104.
[xv] Il che non vuol dire affatto che un piccolo di sapiens non nasca – come ogni animale, ed in particolare come ogni mammifero – con delle capacità innate, percettive e cognitive. Il punto è che questo non è l’inconscio di cui si occupa la psicoanalisi, non è, in particolare, l’inconscio edipico (cfr. Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet, Macerata 2015).
[xvi] Jacques Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-1954, cit., p. 105.
[xvii] Jacques Lacan, Il seminario. Libro xx. Ancora. 1972-1973 (1975), Einaudi, Torino 2011, p. 69.
[xviii] Ibid.
[xix] Ivi, p. 70.
[xx] Ivi, p. 69.
[xxi] Da notare che questo “complemento” ha una funzione contraria rispetto a quello di cui parla Melandri. In quest’ultimo il complemento è l’ignoranza che apre al nuovo, mentre in quello che Lacan critica è un presunto “sapere” dell’analista che inchioda il paziente nella sua condizione di subordinazione.

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