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Bahrain, la repressione ignorata

di Mazzetta

Mentre il “mondo libero” correva alla liberazione dei poveri libici dal tallone di Gheddafi con la benedizione della Lega Araba, in Bahrein si spegneva la luce per l'opposizione e per il movimento non-violento che aveva chiesto una monarchia costituzionale e il licenziamento dello zio del re, primo ministro da quarant'anni. In Bahrein c'è una monarchia assoluta e molto business-friendly, una società fino a ieri abbastanza aperta e cosmopolita, composta di circa mezzo milione di locali e altrettanti lavoratori stranieri.

Come altri emirati, il Bahrein funge da valvola di sfogo per i cittadini sauditi e gli espatriati nel regno dei Saud, che ne alimentano l'economia in cerca di svaghi severamente proibiti e repressi a pochi chilometri di distanza. A rafforzare il legame tra i due paesi c'è il fatto che la dinastia regnante, di origini saudite e imparentata con altre dinastie del Golfo, comanda su una popolazione prevalentemente sciita. E i sauditi considerano gli sciiti una minaccia a prescindere.

I manifestanti però non ne facevano una questione religiosa o settaria e hanno anche respinto con decisione la solidarietà imbarazzante dell'Iran o degli Hezbollah libanesi. Volevano solo maggiori libertà e una monarchia parlamentare. Hanno visto cosa è successo in Egitto e in Tunisia e d erano fermamente convinti di avere buone possibilità di ottenere una riforma del regno.

Ancor di più si sono convinti dopo che gli Stati Uniti hanno fermato la mano assassina degli al Khalifa, che aveva sgomberato l'ormai famosa Rotonda della Perla sparando di notte sui manifestanti inermi, accampati e addormentati. Promesse di riforme, i carri armati rientrati nelle caserme, la Rotonda della Perla occupata in permanenza in una riedizione non solo simbolica della piazza Tahrir al Cairo.

Poi gli Stati Uniti si sono venduti i manifestanti ai sauditi in cambio dell'appoggio della Lega Araba (che ha espresso però solo 9 voti a favore su 22 membri) all'attacco alla Libia. Dalla sera alla mattina il regno è stato invaso da truppe saudite e altre forze provenienti dagli emirati vicini. Come se un corpo di spedizione di duecentoquarantamila uomini entrasse in Italia.

Le monarchie del Golfo non possono permettere che l'autorità reale sia messa in discussione. A parte il Qatar, che ha avviato da tempo riforme abbastanza credibili e un vero trasferimento dei poteri o l'Oman, dove il sovrano sembra aver per ora ceduto alla piazza, la monarchia assoluta di stampo medioevale è il modello comune e non può essere messo in discussione, pena il rischio di un vero e proprio effetto-domino in tutta la penisola. I sauditi sono in prima fila nell'organizzare questa resistenza e non hanno esitato a ricorrere a misure draconiane per prevenire qualsiasi assembramento di scontenti.

Rincuorato dalla presenza delle armate inviate dai parenti e dal via libera di Washington, al Khalifa ha gettato la maschera e ha rivelato una natura spietata, con spiccati tratti isterici, più degna di un Kim nordcoreano che dell'affabile anfitrione che accoglieva nel lusso e nella cordialità il gran mondo della Formula Uno e della finanza. Decine di uccisi, centinaia di feriti, un migliaio d’incarcerati.

Una retata generale cominciata dai villaggi e poi proseguita nella capitale Manama. L'unico giornale d'opposizione chiuso d'imperio e risorto a distanza di due giorni con un editore diverso. Sulla Rotonda della Perla, al Khalifa si è accanito con la stizza di un bimbo indispettito. Ha dichiarato “profanato” il monumento che la decorava e l’ha fatto abbattere d'urgenza, con tale foga che uno dei suoi bracci in cemento armato è caduto su una macchina impegnata nella demolizione e ha ucciso un lavoratore pachistano, ennesima vittima della rivoluzione. Ma ad al Khalifa non è bastato; l'immagine del monumento appare anche sulla moneta da 500 Fils e allora ne ha disposto il ritiro.

Ora al posto dell'enorme monumento, fatto costruire dagli al Khalifa negli anni '80 per celebrare proprio il Consiglio di Cooperazione del Golfo, c'è una distesa di terra brulla e presto la sua immagine sparirà anche dalle tasche dei sudditi; una vera e propria condanna all'oblio, una rimozione della memoria tipica delle peggiori dittature.

Tale è la brutalità della reazione che il panorama si arricchito di posti di controllo, durante i quali gli sciiti passano brutti momenti e anche la tradizionale rilassatezza negli aeroporti è diventata un ricordo. Gli stranieri in arrivo sono sospettati di essere giornalisti in cerca di scandalo, fotografie e riprese nei punti caldi della rivolta sono assolutamente proibite e punite.

Anche i cittadini libanesi, che al regno hanno fornito esperienza e impulso imprenditoriale, sono finiti nella hit parade dei sospettati dopo la solidarietà di Hamas. Un livello di paranoia tipico dei regimi più sanguinari e una serie d'azioni che dovrebbero iscrivere di diritto al Khalifa tra i peggiori dittatori del pianeta. Ma poi qualcuno potrebbe chiedere di bombardare anche lui e questo non si può.

Oggi, mentre la repressione continua e si teme che la polizia metta le mani sulle comunicazioni in rete dei giorni della rivolta per colpirla ancora più a fondo, del Bahrein non parla nessuno. Tace al Jazeera, emanazione del sovrano del Qatar che si è unito ai volenterosi liberatori di libici e che ovviamente sarebbe molto disturbato da servizi che mostrassero le condizioni dei poveri manifestanti massacrati in Bahrein.

Ma soprattutto tacciono tutti, i media come i politici, in Occidente. Nessuno offre solidarietà alle vittime della repressione, nessuno intima al sovrano di rispettare le vite e i diritti dei suoi sudditi, le grandi democrazie le hanno vendute in cambio dell'intervento in Libia e ora appartengono ai sovrani del Golfo.

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