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sinistra

Le sinistre ai tempi del colera1

(promemoria per populisti smemorati)

di Daniele Benzi

f12ea0b9 29b6 4546 bfa3 6c35f38bf22d large…però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni, da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni (Fabrizio De André, Storia di un impiegato)

Sono arrivato in America Latina dieci anni fa cercando di sottrarmi alla penosa situazione di disoccupazione e precariato che è toccata alla maggior parte della mia generazione. Ma anche per sfuggire alla sgradevole sensazione di frustrazione ed impotenza che, soprattutto dopo le legnate prese al G8 di Genova nel 2001, mi provocava l’insignificanza politica e l’enorme frammentazione delle sinistre radicali in Europa e in particolare nel mio paese. Molti europei, in effetti, precari e frustrati come me, non certo grandi scienziati o strateghi della rivoluzione come a volte si sono presentati in Venezuela, Bolivia o Ecuador, sono arrivati in America Latina richiamati, o più spesso incantati, dalle sirene della “svolta a sinistra”.

Per formazione e interessi di ricerca, nel bene e nel male ho sempre guardato alla “marea rosa” da un punto di vista regionale e globale, non come una somma di processi e casi nazionali. Ciò mi ha permesso di osservare quotidianamente, specialmente vivendo abbastanza a lungo in un paese periferico nell’economia mondiale come l’Ecuador, certi condizionamenti strutturali e le complessità geopolitiche in cui si sono trovati i governi “progressisti” che spesso sfuggono ai movimenti dal “basso”. Non per questo, tuttavia, la mia posizione e il mio giudizio sono stati più indulgenti o meno critici sui loro limiti, incoerenze e contraddizioni che li hanno condotti alla situazione penosa in cui ci troviamo oggi.

In questo senso, secondo me il dibattito sulla “fine del ciclo” progressista che l’anno scorso e quest’anno ha infiammato inutilmente, credo, molti intellettuali e militanti, intrecciandosi purtroppo con i fatti tragici in Venezuela, è un dibattito chiuso.

Anzi, fin dall’inizio è stato un “non dibattito” che, in realtà, ha solo messo in evidenza ancora di più le profonde divisioni e la scarsa capacità di autocritica delle sinistre dopo dieci o quindici anni di progressismo. Attenzione, quando parlo di sinistre non mi riferisco solamente a quelle che sono (o erano) al governo, ma anche all’ampio spettro movimentista che è critico e perfino all’opposizione dei governi “progressisti”.

In base a questa premessa, credo che la domanda necessaria da porsi oggi sia questa: che fare dopo la “svolta a sinistra”? C’è vita dopo il progressismo? Come pensare, cioè, le sinistre dopo la “svolta a sinistra” senza ripiegamenti nazionali, vittimismi tattici o esistenziali? Ovviamente non ho risposte esaustive da offrire. Tuttavia, facendo ricerca su uno dei temi chiave dell’agenda delle sinistre latinoamericane, l’integrazione regionale, e in particolare su quell’integrazione che è stata chiamata “alternativa” e dei “popoli”, molto presto mi sono trovato di fronte a degli scogli che, presi insieme, secondo me spiegano buona parte delle divisioni che ci stanno conducendo a un vicolo cieco simile alla scoraggiante frammentazione da cui provengo.

È chiaro che date le circostanze attuali non sono contrario al ritorno di un Lula o alla continuità del chavismo al potere in Venezuela. Ma ciò non invertirà la rotta, anzi, la potrebbe persino peggiorare. Il punto di partenza necessariamente lucido e realista è che, parafrasando Perry Anderson2 , un’“eccezione globale” è finita senza che vi siano segnali positivi all’orizzonte. In che cosa è consistita questa eccezione globale? Come sostiene Anderson, qui si sono coniugate una grande riserva e accumulazione di forze nella lotta al neoliberismo con il boom delle commodity e il relativo allontanamento degli Stati Uniti, dando come risultato la convivenza per dieci o quindici anni di movimenti sociali più o meno ribelli con governi nazionali più o meno eterodossi. Perché tale convivenza si è indebolita o spezzata presto o tardi a seconda del paese e praticamente subito, dopo le formidabili giornate del 2005 a Mar del Plata, per quanto riguarda l’integrazione regionale?

Secondo me ci sono tre punti di divergenza e di conflitto che naturalmente già sono stati oggetto di analisi, ma che alla luce di questi quindici anni di esperienze molto intense forse meritano un esame più ampio, approfondito e soprattutto integrato per arricchire la tradizione del pensiero critico latinoamericano che ci riunisce in questi giorni.

 

1. Il fantasma dello sviluppo

Nel 2011, tornando dal FSM di Dakar, Immanuel Wallerstein ha scritto, cito testualmente:

Il problema è che rimane una differenza irrisolta tra coloro che vogliono un altro mondo. C’è chi crede che ciò di cui il mondo ha bisogno è più sviluppo, più modernizzazione e quindi la possibilità di una più equa distribuzione delle risorse. E c’è chi crede invece che lo sviluppo e la modernizzazione siano la maledizione della civiltà del capitalismo e che abbiamo bisogno di ripensare le premesse culturali fondamentali di un mondo futuro che chiamano “cambiamento civilizzatorio”.3

Questa affermazione sintetizza il dilemma più visibile e più studiato delle dispute fra sinistre latinoamericane. Dal punto di vista dell’economia politica critica si tratta del problema classico del modello di accumulazione e di sviluppo. Non c’è bisogno di ricordare le discussioni sul “neo-estrattivismo”, il “Consenso delle commodity”, la “ri-primarizzazione” e gli argomenti che i governi “progressisti” e i loro intellettuali organici hanno utilizzato di fronte alle critiche degli ambientalisti, degli indianisti, dei movimenti per l’autonomia, femministi e gli intellettuali decoloniali.

Ciò significa sostanzialmente che divergenze e conflitti fra le sinistre ci sono stati e probabilmente continueranno a esserci sull’idea stessa di “sviluppo”, sulla costellazione semantica incredibilmente potente e le pratiche sociali che questa parola produce da circa settant’anni, come ha già segnalato Gustavo Esteva4 tanto tempo fa. O, piuttosto, che il “fantasma dello sviluppo”, come lo ha denominato Aníbal Quijano, si è trovato di nuovo in tensione – cito ancora testualmente – “tra un consistente riduzionismo economicista e le insistenti rivendicazioni di tutte le altre dimensioni dell’esistenza sociale. Cioè tra interessi di potere molto diversi”.5

Ebbene, pensare le sinistre dopo la “svolta a sinistra” implica pensare anche che la regione effettivamente si è “ri-primarizzata”. Nei termini dell’economia politica globale è possibile visualizzare questo movimento come un brutale processo di “neo-periferizzazione”. Non c’è stata nessuna industrializzazione o, come dicono in Ecuador, “trasformazione della matrice produttiva”. Al contrario. Durante questo ciclo si sono consolidate le dinamiche “rentiste” presenti in maggiore o minor misura in tutte le società latinoamericane dall’epoca della colonia. E sebbene il “rentismo” sia compatibile con certa ridistribuzione e con il ricambio o la formazione di nuove élite negli apparati statali e dintorni per l’appropriazione e ripartizione delle rendite, praticamente non modifica la struttura di classe. Migliora, congiunturalmente, gli indici di povertà ed altri indicatori disegnati dalla Banca Mondiale, però non le disuguaglianze reali. Migliora anche, sebbene sempre congiunturalmente, la posizione delle classi medie e medio-alte legate alla burocrazia statale o che forniscono servizi allo Stato per quanto non lo riconoscano. Soprattutto, però, rinforza gli oligopoli nazionali e transnazionali che si dedicano all’estrazione degli idrocarburi, dei minerali, all’agro-industria, ecc. e tutti quei settori intermedi e parassitari dell’economia dei porti che l’“estrattivismo” genera aprendo spazi molto fecondi per forme intollerabili di corruzione.

In queste condizioni, sembrerebbe che non ci sia stato “neo-sviluppismo” o “neo-strutturalismo” praticabile. Ma nemmeno “socialismo del XXI secolo” naturalmente, mentre il “Buen vivir” o “Sumaq Kawsay”, esaurita tanto la retorica ufficiale quanto le bolle accademiche che ha prodotto, è dovuto ritornare in punta di piedi al suo luogo d’origine e finora unico spazio di sperimentazione possibile: il progetto locale.

 

2. Stato e democrazia

Il secondo asse di conflitto fra sinistre riguarda la concezione dello Stato e della democrazia. Il “ritorno” dello Stato e l’allargamento della democrazia sono state domande di grande convergenza fra movimenti, partiti ed organizzazioni che si sono opposte al neoliberismo. Hanno avuto una enorme diffusione “discorsiva” e sono state raccolte nelle costituzioni di alcuni governi. I risultati sono stati disuguali, ma non sbaglio se dico al di sotto delle aspettative.

Su questo terreno non si sono opposte solo due narrazioni – quella statalista e quella autonomista – ma probabilmente visioni distinte e probabilmente inconciliabili di pensare la “rifondazione” dello Stato neoliberale e il ruolo del governo verso la società, la nazione (o le nazioni), il popolo (o i popoli), e le modalità di esercitare la democrazia al di là delle forme rappresentative e per delega. Le rivendicazioni storiche della sinistra sulla sovranità e sullo Stato pianificatore, agente economico e responsabile delle politiche sociali si sono scontrate spesso con la domanda di autonomia indigena ed afro, quelle plurinazionali, dei movimenti sociali e del sindacalismo indipendente e di base, dei diritti sessuali e di genere che chiedono diverse forme di autogoverno, gestione del territorio e dei corpi. Queste richieste non potevano non entrare in rotta di collisione con la tradizione del nazionalismo rivoluzionario in qualsiasi delle sue varianti e più in generale con una concezione modernizzante dello Stato nazione. Non solo. Tali tematiche sono legate anche alla correlazione di forze ed alle alleanze tattiche che le sinistre hanno fatto in ogni paese con settori economici e forze politiche e sociali di centro e di destra (a volte golpista), e il mondo trasversale e molto spesso opaco ed ambiguo della “società civile” (fondazioni, chiese, ONG). Il paradosso, colto perfettamente da Wallerstein6 due anni fa, è che nell’incapacità o impossibilità di stabilire un dialogo costruttivo e nuovi punti di convergenza, tanto le sinistre al governo quanto quelle fuori dal governo a poco a poco sono scivolate verso posizioni di destra.

Secondo me solo Boaventura de Sousa Santos con la sua idea delle “epistemologie del Sud” ha provato abbastanza seriamente a trovare una sintesi teorica per affrontare queste contraddizioni. Da lì la metafora del 2010 sulla opzione-opposizione fra lo “Stato comunità illusoria” e lo “Stato dalle vene chiuse”.7 Ma è chiaro che non è servita in nessun paese, eccetto che per alcuni movimenti sociali minoritari e alcune nicchie accademiche in competizione con altre nicchie.

D’altra parte, mi pare che l’interpretazione e strategia dominante nella teoria politica latinoamericana, quella del “populismo di sinistra” à la Laclau, nonostante offra degli spunti di analisi interessanti che l’hanno fatta prevalere, per fortuna, nella disputa teorica con la “moltitudine” di Hardt e Negri, non si sia rivelata molto feconda dopo aver captato il momento della rottura tra 1998 e 2006. I pilastri della costruzione soggetto-popolo-nazione si sono rivelati molto fragili e i “significanti vuoti” con cui sono stati rivestiti a seconda dei casi non hanno resistito, al di là del boom delle materie prime, non solo alle condizioni materiali e socioeconomiche del terreno su cui poggiavano, ma anche a quelle istituzionali, culturali e identitarie proprie delle diverse formazioni storiche e strutture sociali latinoamericane.

Quelli ancorati a una visione più classica, leninista dello Stato, come Atilio Borón, Emir Sader o Álvaro García Linera, spesso hanno fatto ricorso a Gramsci per sostenere che è dallo Stato e dal governo che si edifica l’egemonia alternativa al neoliberismo, un nuovo blocco storico o un progetto nazional-popolare. Non ho dubbi sul fatto che nel bene e nel male ci siano stati degli esperimenti di questo tipo. Ma con le stesse lenti gramsciane, Modonesi8 si è chiesto se i progetti “progressisti” non abbiano in realtà le caratteristiche delle “rivoluzione passive”, come trasformismo e cesarismo, studiati da Gramsci in altri tempi e per altre circostanze. Questo, come ha sostenuto André Singer9 già nel 2012 a proposito del “lulismo”, ha creato un punto di fuga per la lotta di classe arbitrata dall’alto al sapore della correlazione di forze.

Da questa angolatura è abbastanza facile criticare i fenomeni di cooptazione, passivizzazione, smobilitazione e depoliticizzazione, così come la riproposizione di una cultura assistenzialista e clientelare in cui sono incorsi tutti i governi “progressisti”. Ma si può anche dubitare del ruolo onnipotente dei leader, delle “grandi personalità eroiche”, perché al di là dei tratti messianici e da caudillo, persino di quelli rivoluzionari, del loro carisma e della loro indispensabile funzione arbitrale, ci siamo resi conto, amaramente, che anche le grandi figure eroiche si ammalano e muoiono, o non riescono ad essere rieletti per sempre o non sono così abili da controllare le transizioni di potere.

 

3. Il disordine mondiale e l’integrazione latinoamericana

L’ultimo punto che vorrei toccare riguarda il disordine mondiale contemporaneo e l’integrazione latinoamericana. Oggi siamo tutti d’accordo o quasi che ci troviamo nel bel mezzo di una transizione globale gigantesca, un insieme di trasformazioni enormi e imprevedibili nell’economia politica del capitalismo e nella geopolitica mondiale. Sappiamo da dove veniamo, trent’anni di globalizzazione neoliberale e venti circa di esperimenti falliti da parte degli Stati Uniti di trasformarsi in un impero, letteralmente, tanto nella versione democratica e repubblicana quanto in quella neoconservatrice. Però adesso, dopo l’euforia su possibili emergenze o ri-emergenze dello “spirito di Bandung”, dei BRICS e dintorni, in realtà non sappiamo bene verso dove andiamo. Si parla certamente di un nuovo ordine mondiale multipolare e di un secolo asiatico, ma è difficile se non impossibile fare predizioni sulle forme e caratteristiche specifiche che esso potrebbe assumere, soprattutto se non si scarta l’ipotesi che stiamo vivendo anche la fase senile o la crisi strutturale del capitalismo come sistema storico. Ci troviamo in una di quelle epoche che Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein hanno denominato “caos sistemico”. Il vecchio muore e il nuovo non può nascere, ripetendo ancora una volta una delle frasi più saccheggiate di Gramsci. E ciò che appare in questo interregno di fenomeni morbosi più svariati sono l’intensificarsi dei conflitti interstatali e sociali, la concorrenza spietata fra capitali e, soprattutto, da un punto di vista geopolitico, la costituzione incipiente di nuove configurazioni del potere globale. In “occidente” e non solo avanza lo spettro di un qualcosa che in mancanza di una parola migliore si potrebbe tranquillamente definire “neofascismo”. Secondo me tutto ciò implica che le nostre concezioni sull’imperialismo, l’egemonia, l’internazionalismo, le alleanze Sud-Sud o quella cosa impropriamente chiamata “Sud globale” già si trovano a operare in un contesto nuovo, molto fluido, incerto e confuso che genera punti di vista differenti e naturalmente ancora più divisioni fra le sinistre.

La “frustrazione con l’integrazione”, come la chiama Claudio Katz10 , in qualche modo ne rappresenta la prova nel contesto regionale. Sono stati creati nuovi schemi come l’ALBA-TCP, l’UNASUR e la CELAC, e si è cercato di dare un nuovo orientamento al MERCOSUR, però nessuno di essi si è riuscito a consolidare. Abbiamo avuto progetti importanti come quello di una Nuova Architettura Finanziaria Regionale, il Banco del Sud, l’integrazione energetica o il Consiglio di Difesa dell’UNASUR, che però non sono andati oltre la congiuntura. Abbiamo avuto due leadership regionali emergenti, quella del Brasile e del Venezuela, abbastanza cooperative verso l’esterno ma discretamente competitive all’interno e, sebbene con forme molto distinte, con chiare espressioni sub-imperialiste in entrambi i casi. Anche in questo caso nessuna delle due si è consolidata, e in questo momento forse è meglio dimenticarsi di questo tema. Abbiamo avuto anche movimenti sociali verso l’ALBA, però nessuno è riuscito a spiegare in cosa consiste l’integrazione “alternativa” e dei “popoli”.

Mi chiedo: tutto ciò non è stato realizzato per colpa dell’imperialismo “yankee” e dei suoi “lacchè”? Sinceramente mi piacerebbe che fosse così, ma sarebbero delle favole di un semplicismo imbarazzante. Piuttosto, si dovrebbe continuare a fare ricerca per capire perché non si è potuta consolidare una agenda dell’integrazione stile ALBA o tipo UNASUR, o se è un bene o no che il MERCOSUR si dissolva a poco a poco come la CAN. Che ruolo ha giocato lo sbarco cinese nelle frustrazioni con l’integrazione? Che ruolo hanno avuto i capitali nazionali e transnazionali in progetti come l’IIRSA? E i militari, tanto “buoni” quanto “cattivi”? E l’onnipresenza dei leader vs. l’indifferenza quasi assoluta di molte società nazionali verso l’integrazione regionale? Infine, che tipo di integrazione e cooperazione Sud-Sud è possibile oggi, non solo desiderabile, considerata la nostra condizione di fornitori di materie prime per un capitalismo globale in crisi?

Penso che su questi temi l’esperienza degli ultimi quindici anni abbia evidenziato e continui ad evidenziare numerosi cortocircuiti fra sinistre, limiti teorici e di interpretazione della situazione ed errori di calcolo che ci lasciano un materiale importante di riflessione e di studio per arricchire la tradizione del pensiero critico latinoamericano e per ragionare sul futuro delle sinistre dopo “la svolta a sinistra”. Però è necessario avere il coraggio e l’umiltà di guardare le cose in faccia e riconoscere gli errori cercando di evitare, almeno quando ciò è possibile, le divisioni non necessarie.


Note
1 Traduzione dell’intervento presentato nelle V Jornadas Internacionales de Problemas Latinoamericanos - Los Movimientos sociales frente a la restauración neoliberal: resistencias, oposición y re-construcción de perspectivas teórico-políticas emancipatorias, Cordoba, Argentina, 23-25 novembre 2017. Vale come risposta a un commento piuttosto impreciso e risentito di Carlo Formenti (qui) a un mio precedente articolo (qui).
2 https://www.lrb.co.uk/v38/n08/perry-anderson/crisis-in-brazil.
3 “The problem is that there remains one unresolved difference among those who want another world. There are those who believe that what the world needs is more development, more modernization, and thereby the possibility of more equal distribution of resources. And there are those who believe that development and modernization are the civilizational curse of capitalism and that we need to rethink the basic cultural premises of a future world, which they call civilizational change”. https://www.iwallerstein.com/the-world-social-forum-egypt-and-transformation/.
4 Gustavo Esteva, “Sviluppo”, in Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, EGA, Torino, 1998.
5 http://www.revistadelcesla.com/index.php/revistadelcesla/article/view/369.
6 https://www.cetri.be/The-Latin-American-Left-moves?lang=fr.
7 Boaventura de Sousa Santos, Refundación del Estado en América Latina. Perspectivas desde una epistemología del Sur, Siglo XXI Editores, México, 2010.
8 Massimo Modonesi, Revoluciones pasivas en América Latina, UAM Azcapotzalco, Editorial Itaca, Ciudad de México, 2017.
9 André Singer, Os sentidos do lulismo. Reforma gradual e pacto conservador, Companhia das Letras, São Paulo, 2012.

Comments

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Paolo Selmi
Saturday, 10 November 2018 16:50
Caro Daniele
ho letto con interesse il tuo primo lavoro, la risposta di Carlo e la tua "replica" tramite questo intervento. Per me parlare di America Latina è come parlare di "scale jazz": so cosa sono, mi piace sentirle, ma se mi chiedi di riprodurle su una chitarra ti guardo come la mucca vede passare il treno. Quindi è un argomento che mi affascina tantissimo, ma non metto becco proprio perché mi da l'idea che tanto, troppo, sia da imparare, magari - anzi senza dubbio - sul campo, prima di poter mettere bocca. Se parlo, per esempio, di Cina e di vie commerciali, è perché le esperisco ogni giorno bruciandomi il cervello sulle loro merci, dopo essermi dedicato anima e corpo al loro particolare flusso migratorio, dopo aver passato parte della mia vita a studiare la loro lingua e cultura. Ho quindi troppo rispetto per le competenze di chi le ha sviluppate in altri settori per mettere becco.
Mi permetto tuttavia una nota sul "fantasma dello sviluppo": fra "più sviluppo" e "ritorno alle origini", potrebbe avere diritto di cittadinanza un'altra soluzione? Ovvero: "sviluppo si, ma sostenibile". Non sto riferendomi a un discorso compatibile con questo modo di produzione, ma ovviamente a uno che lo superi, e su cui peraltro sto concentrando le mie (poche) energie. Quindi, una piattaforma se vogliamo "vecchio stile", ovvero proprietà sociale dei mezzi di produzione (che non vuol dire necessariamente statale e basta), pianificazione (perché altrimenti si riprodurrebbe anarchia maggiore di quella del mercato attuale) ma, a differenza della "gestione precedente", la possibilità di coniugare tecnologia e rispetto per l'ambiente (e per la biosfera), valore delle merci e politica dei salari e dei redditi, tessuto produttivo e tessuto sociale, bisogni sociali e prodotto sociale teso alla loro soddisfazione. Questo, ovviamente, in linea teorica perché chi sostiene un superamento del capitalismo sostenendo un'ipotesi socialistica aprendo questo fronte oggi non c'è. Tuttavia, un conto èla possibilità, la fattibilità, la realizzabilità di un progetto di alternativa e un altro la volontà politica di realizzarlo. Argomento, questo, su cui adesso non entro nel merito, per concentrarmi sul primo.
Una buona domenica.
Paolo
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