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L’imperialismo e la trasformazione dei valori in prezzi

di Torkil Lauesen e Zak Cope

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Con questo articolo, ci proponiamo di dimostrare che i bassi prezzi dei beni prodotti nel Sud globale, ed il concomitante modesto contributo delle sue esportazioni al prodotto interno lordo del Nord, occultano la reale dipendenza delle economie di quest’ultimo dal lavoro a basso costo del Sud. Dunque, sosteniamo che la delocalizzazione  dell’industria nel Sud globale, nel corso dei tre decenni passati, ha condotto ad un massiccio incremento del valore trasferito al Nord. I principali meccanismi di tale processo consistono nel rimpatrio del plusvalore tramite investimenti diretti esteri, lo scambio ineguale di prodotti incorporanti differenti quantità di valore e l’estorsione per mezzo del servizio del debito.

L’assorbimento di enormi economie del Sud all’interno del sistema capitalistico mondiale, dominato da multinazionali e istituzioni finanziarie con base nel Nord globale, ha posto le prime nella condizione di dipendenze socialmente disarticolate votate all’esportazione. I miseramente bassi livelli dei salari di tali economie trovano fondamento (1) nella pressione imposta dalle loro esportazioni al fine di competere per limitate porzioni del mercato, in larga parte metropolitano, dei consumatori;

(2) il drenaggio di valore e risorse naturali, che altrimenti potrebbero essere utilizzati per costruire le forze produttive necessarie all’economia nazionale; (3) l’irrisolta questione agraria sfociante in una sovra offerta di lavoro; (4) governi compradori repressivi, i quali accettano, traendone beneficio, l’ordine neoliberista e sono quindi incapaci e non disposti a concedere aumenti salariali, per timore di stimolare rivendicazioni di maggior potere politico da parte dei lavoratori; e infine (5) frontiere militarizzate così da prevenire la circolazione dei lavoratori verso il Nord globale, e di conseguenza, un equalizzazione dei rendimenti da lavoro.

 

La globalizzazione imperialista della produzione

Il dibattito circa il trasferimento di valore e lo scambio ineguale non è certo nuovo. Oggi, tuttavia, la produzione di sempre più crescenti porzioni dei beni consumati nel mondo avviene nel Sud globale. La produzione non è, come negli anni Settanta, limitata a semplici e primari beni industriali, come petrolio, minerali, caffè o giocattoli. Piuttosto, malgrado un relativamente basso “valore aggiunto” manifatturiero, praticamente ogni tipo di input e output industriali vengono prodotti nel Sud globale: questi includono prodotti chimici, beni in metallo lavorati, macchinari, prodotti elettronici, mobili e attrezzature di trasporto per tessili, scarpe, indumenti, tabacco e carburanti [1]. Ma perché, e come, è avvenuto un simile cambiamento nella dislocazione della produzione?

Il mutamento nella divisione internazionale del lavoro è il prodotto dell perenne ricerca di maggiori profitti da parte dei capitali, e si basa, in primo luogo, sull’enorme crescita nel numero di proletari integrati nel sistema capitalistico globale, in secondo luogo, sulla sostanziale industrializzazione  del Sud nei tre decenni passati. Ciò è stato reso possibile dalla dissoluzione delle economie del “socialismo realmente esistente” nell’Europa sovietica e dell’est, dall’apertura della Cina al capitalismo globale e dall’esternalizzazione della produzione in India, Indonesia, Vietnam, Brasile, Messico e altri paesi di recente industrializzazione. Il risultato è consistito in un incremento pari ad almeno un miliardo di proletari a basso salario all’interno del capitalismo globale. Oggi oltre l’80 percento dei lavoratori industriali del mondo si trovano nel Sud globale, mentre la proporzione scende costantemente nel Nord (figura 1). Si potrebbe anche parlare di società post-industriale per quanto riguarda il Nord, ma il mondo nel suo complesso è più industriale che mai.

Figura 1. La forza lavoro industriale globale, 1950-2010

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Fonte: John Smith “Imperialism and the Law of Value” Global Discourse 2, no. 1 (2011): 20, https://globaldiscourse.files.wordpress.com. Il dato del 2010 sulla forza industriale è stato estrapolato dalla distribuzione settoriale della forza lavoro, per il 2008, nel Key Indicators of the Labor Market (KILM) dell’International Labor Organization (ILO), 6° edizione (ILO, 2010); popolazione economicamente attiva (EAP), dal database dell’ILO Laborsta, http://laborsta.ilo.org/default.html; le proiezioni circa la forza lavoro industriale nelle “regioni più sviluppate” includono le stime dell’ILO riguardo il declino dovuto alla recessione. Le categorie dell’ILO di regioni “più” o “meno” sviluppate corrispondono, rispettivamente e approssimativamente, a quelle di economie “sviluppate” e “in via di sviluppo”.

L’industrializzazione del Sud non è stata prevista dalla teoria della dipendenza negli anni Sessanta e Settanta. In essa si riteneva che il centro capitalista avrebbe bloccato qualsiasi sviluppo industriale avanzato nella cosiddetta periferia, lasciando quest’ultima nella condizione di fornitrice di materie prime, prodotti agricoli tropicali e semplici produzioni industriali ad alta intensità di lavoro, da scambiare con i più avanzati prodotti industriali del centro stesso. Pochi analisti hanno previsto l’industrializzazione del Sud come guidata dal commercio col capitalismo metropolitano, nonché dagli investimenti di quest’ultimo.

Tuttavia, l’industrializzazione del Sud ha fornito una soluzione (temporanea) al malessere economico e politico che ha colpito il capitalismo negli anni Settanta, evidenziato, da un lato, dal declinante tasso di profitto, dalla crisi petrolifera e dalla pressione proveniente dal movimento dei lavoratori, nel Nord, per salari ancor più alti, dall’altro, dalle lotte di liberazione nazionale nel Sud. Eppure, l’industrializzazione del Sud non è stata una concessione alle sue rivendicazioni; tutto il contrario. Anziché un passo verso un mondo più equo, ne è conseguito un’aggravarsi dei rapporti imperialisti su scala globale.

Questa nuova economia politica imperialista poggia su due pilastri. Primo, lo sviluppo di nuove forze produttive nell’elettronica, nelle comunicazioni, nei trasporti, nella logistica e nella gestione: i computer, l’Internet, i cellulari, il trasporto tramite container e lo sviluppo di una catena di produzione globalizzata caratterizzata da regimi di gestione inediti. Secondo, lo sviluppo del neoliberismo con la rimozione delle barriere nazionali alla circolazione di capitali e beni, la privatizzazione della sfera del pubblico e dei beni comuni, la costituzione di nuove istituzioni quali l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), i G8 ed altre forme di gestione politica globale, oltreché nuove strategie militari finalizzate al contenimento e all’arretramento della diffusione delle politiche sviluppiste nazionali e socialiste.

In tale nuovo regime di accumulazione, non sono esclusivamente il capitale ed il commercio di beni finiti ad esser divenuti transnazionali; la produzione stessa si è globalizzata in catene di valore. I sotto-processi nella catena di produzione sono situati nei luoghi in cui costi di produzione, infrastrutture e legislazione in materia fiscale sono ottimali per il capitale. Un’automobile o un computer richiedono input e componenti da centinaia di imprese, distribuite in numerosi paesi, e il prodotto può essere assemblato in differenti parti del mondo.

Il neoliberismo ha comportato una nuova divisione del lavoro, nella quale il  Sud globale è diventato “la fabbrica del mondo”. Dunque, il capitalismo globale polarizza sempre più il mondo in “economie di produzione” al Sud ed “economie di consumo” al Nord. Volano principale di questo processo è senza alcun dubbio il basso livello dei salari riscontrabile nel Sud. In quanto tale, la struttura dell’economia globale odierna è stata profondamente modellata dall’allocazione del lavoro per settori industriali sulla base di differenti tassi di sfruttamento a livello internazionale.

La prospettiva per le grandi imprese di esternalizzare la produzione o  di investimenti greenfield nel Sud è non poco allettante. La differenza nei livelli salariali non è solo di uno a due, ma speso di uno a dieci, o addirittura quindici [2]. Di fatto, nel 2010, data una forza lavoro mondiale di tre miliardi di unità, approssimativamente 942 milioni sono stati classificati dall’Organizzazione internazionale del lavoro come “lavoratori poveri” (uno su tre lavoratori in tutto il mondo vive con meno di due dollari al giorno) [3].

Secondo l’economista della Banca mondiale Branko Milanović (figura 2), nel 1870 la disuguaglianza a livello globale tra cittadini del mondo era considerevolmente inferiore rispetto  ad oggi. Ancor più sorprendente, l’ineguaglianza è passata dall’essere dettata prevalentemente dalla classe sociale (ovvero, nella concezione non-marxista di Milanović, dalla quota di reddito nazionale),  all’esserlo quasi interamente dalla posizione geografica, contribuendovi quest’ultima per quasi l’80 percento. Pertanto, scrive sempre Milanović, “è molto più importante nascere in un paese ricco piuttosto che sapere se la classe di reddito cui si appartiene è alta, media, o bassa” [4]. Ciò che non viene detto è che la geografia della disuguaglianza costituisce il prodotto  delle strutture economiche, legali, militari e politiche del colonialismo passato e del neocolonialismo odierno. Questi fattori storici formano le basi della lotta di classe da cui è determinato quello che Marx definisce l’aspetto “storico e morale” dei livelli salariali. 

Figura 2. Livello e composizione della disuguaglianza a livello globale nel 1870 e nel 2000 (scomposizione dell’indice Gini)

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Fonte: Branko Milanović, Chi ha e chi non ha, storie di disuguaglianze (Il Mulino, 2014), 127; Francois Bourguignon e Christian Morrison, “The Size Distribution of Income Among World Citizens, 1820–1990,”American Economic Review 92, no. 4 (Settembre 2002): 724–44; Branko Milanović, Mondi divisi, analisi della diseguaglianza globale (Bruno Mondadori, 2007), fig. II. 3.

Il basso livello dei salari nel Sud non solo crea un tasso di profitto globale superiore a quello che si otterrebbe in circostanze diverse, ma influenza anche il prezzo  dei beni lì prodotti. Nell’economia mainstream, la formazione dei prezzi di mercato per un personal computer, attraverso la catena di produzione, può essere descritta come una “curva a sorriso” per “valore” (sic) aggiunto (figura 3) [5]. Il “valore aggiunto” – che nella teoria mainstream è semplicemente equivalente al nuovo reddito aggiunto misurato in termini di prezzo convenzionali – appare alto nella prima parte della catena, con ricerca e sviluppo ben pagati, progettazione e gestione finanziaria, tutti situati nel Nord; laddove nel mezzo la curva invece cade, col lavoro a basso salario nel Sud che fabbrica il prodotto fisico. il valore aggiunto /prezzo sale nuovamente verso la fine della curva con le operazioni di branding, marketing e vendita che si svolgono nel Nord, nonostante i salari dei lavoratori della vendita al dettaglio siano tra i più bassi nei paesi di quest’area.

Figura 3. Salari, valore e formazione del prezzo lungo la catena della produzione globale

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Nella logica della “curva a sorriso”, la parte principale del valore viene aggiunta nel Nord, mentre il lavoro al Sud, il quale produce le merci, vi contribuisce solo in minima parte. Secondo tale punto di vista, le multinazionali svolgono un servizio pubblico riducendo il prezzo dei beni di consumo. In realtà, i bassi prezzi di mercato di questi beni occultano il fatto che i lavoratori si trovano a vivere in condizioni miserevoli, a causa dei bassi salari e delle estenuanti condizioni di lavoro nella parte sud della catena di produzione.

In termini marxisti, al contrario, il valore è la somma del tempo di lavoro socialmente necessario, diretto ed indiretto, speso nella produzione di una merce (nelle forme, rispettivamente, di attività presentemente svolta o “lavoro vivo”, e di capitale o “lavoro morto”). Sebbene, come avremo modo di vedere, il prezzo di mercato di una merce diverga regolarmente dal suo valore, in ultima analisi esso è determinato dal valore. così se si dovesse tracciare la curva per il concetto marxista di valore aggiunto, in una catena di produzione per computer, si otterrebbe più o meno la forma opposta della curva a sorriso – una sorta di “sorriso triste” (figura 3). Ma se vi è un rapporto tra il valore in senso marxista ed il prezzo di mercato, come avviene la trasformazione dal sorriso amaro del primo a quello felice del secondo?

 

La trasformazione valori-prezzi

Al di là delle molte differenze tra le teorie economiche, queste tendono a concordare nel sostenere che il prezzo di produzione di una merce è uguale al prezzo degli input materiali più la remunerazione di coloro che affermano un diritto su parte del valore di detta produzione. Questa seconda porzione è suddivisa fra la parte spettante ai salari  e quella destinata ad altre pretese: profitto, rendita, interessi, ecc.

Ma quale variabile indipendente dell’economia determina i prezzi? Nell’economia neoclassica, il fattore determinante, in ultima analisi, è costituito dal “mercato”, vale a dire, i bisogni e le preferenze soggettivi del consumatore. Tali bisogni e preferenze determinano il prezzo dei beni finali, i quali, a loro volta,  determinano il costo del lavoro ed il livello dei profitti. Di conseguenza, i prezzi hanno lo scopo di misurare la domanda sul mercato ed emergono attraverso lo scambio tra operatori in competizione.

Al contrario, la teoria marxista del valore colloca la determinazione dei prezzi nell’ambito della produzione. Il costo di produzione, o prezzo di costo, rappresenta la pietra miliare nella transizione dal valore al prezzo di mercato. Il prezzo di costo di un bene consiste del costo del capitale “costante” (materie prime, macchinari, fabbricati, impianti fissi, ecc.) e di quello del capitale “variabile” (ovvero, i salari). Oltre al prezzo di costo, il prezzo di mercato deve quantomeno coprire il tasso medio di profitto. Ciò perché le merci necessitano di essere prodotte e riprodotte in continuazione, e se  i capitalisti non recuperano, nel momento della vendita, il costo di produzione più un profitto, la (ri)produzione si arresta. Pertanto, nell’economia marxista il prezzo di mercato riflette il costo di (ri)produzione.

Come misurare il costo di produzione, vale a dire, gli input necessari alla produzione di una merce? Non possiamo ricorrere ai prezzi in generale per calcolare gli input, poiché i prezzi sono proprio ciò che stiamo tentando di spiegare. Un fattore, tuttavia, è comune a tutti gli input a una merce: il lavoro umano. Tutti i prezzi di mercato in un’economia capitalistica sono legati, in ultima istanza, all’entità del dispendio di lavoro. Quello che Marx definiva “lavoro vivo”, o forza lavoro, non è un prodotto ordinario. Il suo prezzo – il salario – è determinato non solo dai costi di riproduzione (il suo costo di produzione stesso: cibo, alloggio, istruzione e così via), ma anche dalle lotte politiche – la lotta di classe – riflettenti i rapporti di potere tra classi e gruppi della società. Così, mentre l’offerta e la domanda possono dare il tocco finale, il fattore fondamentale alla base del prezzo di mercato è il costo di (ri)produzione, e con esso il prezzo della forza lavoro.

Per Marx i prezzi delle merci standard sono determinati dai loro valori. In competizione con per i profitti, le aziende si trovano a dover ridurre il tempo di lavoro necessario, richiesto dalla produzione di merci, tramite l’introduzione delle tecnologie più recenti. La competizione all’interno di un settore conduce alla formazione di prezzi standard per merci standard, laddove quella fra settori industriali sfocia nell’appropriazione di un tasso medio di profitto da parte dei produttori di ciascun comparto. Aggiunto al costo di produzione, questo tasso medio di profitto genera i prezzi di produzione come valori di mercato “modificati” [6].

Il prezzo di produzione di una merce specifica, ciò nonostante, non equivale al suo valore, sebbene il prezzo aggregato di tutte le merci corrisponda al valore aggregato. I lavoratori di aziende diverse pagati allo steso tasso salariale, a lavoro per lo stesso numero di ore al giorno creano la medesima somma di plusvalore, ossia, la differenza tra il tempo speso dai lavoratori per riprodurre la propria forza lavoro ed il tempo totale durante il quale sono impiegati. Dunque, ci si potrebbe aspettare che le imprese a più alta intensità di lavoro creino maggior plusvalore. Il movimento di capitali tra aziende e fra settori industriali, ed i conseguenti mutamenti dell’offerta e della domanda, tuttavia, garantiscono  che il livello dei prezzi, in definitiva, si stabilisca attorno al punto in cui il tasso di profitto è lo stesso in tutte le industrie.

Nel momento in cui il capitale viene ritirato dalle industrie con bassi tassi di profitto e investito in quelle con tassi più elevati, l’output (offerta) delle prime declina ed i suoi prezzi crescono al di sopra della reale somma di valore e plusvalore prodotto dall’industria specifica, e viceversa. In tal modo, capitali con una differente composizione organica (il rapporto tra capitale costante e variabile), in ultima analisi, vendono merci a prezzi medi ed il plusvalore si distribuisce più o meno uniformemente attraverso le branche della produzione, sulla base del capitale totale – costante e variabile – anticipato [7]. Un tasso medio di profitto viene formato dalla continua ricerca, da parte di capitali in competizione, di maggiori profitti e dalla fuga verso e da quei settori industriali che producono merci ad alta o bassa domanda. Nel complesso, quando una merce si vende a meno del suo valore vi una corrispondente vendita di un’altra merce al di sopra del suo valore.

È grazie alla loro trasformazione in prezzi di mercato che valore e plusvalore vengono distribuiti tra i capitalisti all’interno di uno steso settore e fra diversi settori. La distribuzione ineguale del valore si verifica a causa dell’alta/bassa composizione organica e di valore del capitale, della rendita estratta sia tramite monopolio che monopsonio, della produttività relativa e della tendenza all’equalizzazione dei tassi di profitto. Si verifica tra capitale e lavoro attraverso le rispettive quote – profitti e salari  – ricevute come esito dei rapporti di classe prevalenti. Fondamentalmente, accade anche tra nazioni a seguito delle differenze tra il prezzo di mercato nazionale della capacità lavorativa (il salario) ed il prezzo di mercato dei beni consumati dal lavoro.

 

Il quadro globale

Oggi, i prezzi di produzione sono determinati su scala globale, nella misura in cui il capitale ha la capacità di circolare a livello transnazionale al fine di assicurarsi il massimo del profitto sui propri investimenti. La mobilità del capitale attraverso i confini nazionali e la tendenza verso l’equalizzazione del tasso di profitto, malgrado massicce divergenze nei tassi di sfruttamento (il rapporto tra il tempo di lavoro necessario a produrre la capacità di lavoro ed il dispendio di lavoro concreto), costituiscono il presupposto per la formazione di prezzi globali di produzione. Come osservato dall’economista marxista Henryk Grossmann:

E questo in rapporto alla formazione del prezzo sul mercato mondiale, è il medesimo principio che regola i prezzi all’interno del capitalismo concepito come isolato. Quest’ultimo è però soltanto una costruzione teorica ausiliaria, e soltanto il mercato mondiale come unità di economie nazionali differenti è un fenomeno concreto reale, perché la formazione del prezzo delle più importanti materie di partenza e dei prodotti finali è determinato oggi sul piano economico mondiale, internazionale, non semplicemente nazionale, e noi non abbiamo un livello nazionale dei prezzi ma un livello di mercato mondiale [8]

L’accumulazione del capitale ha luogo su scala mondiale nella misura in cui non esistono impedimenti legali o politici alla libertà di commercio e investimento. Con l’avanzare dei rapporti di produzione capitalistici, il valore creato dal lavoro a livello mondiale è connesso al grado “medio” di sviluppo delle forze produttive su scala globale. Secondo Nicholas:

Per Marx, non appena un bene diventa parte integrante della riproduzione di un sistema economico basato sullo scambio, il lavoro speso nella sua produzione diviene parte del lavoro richiesto ai fini della riproduzione dell’intero sistema, e qualitativamente equivalente ad ogni altro lavoro speso nella creazione  di tutti gli altri beni, i quali sono similarmente integrati nella riproduzione del sistema economico [9]

Questo vale sia per le economie nazionali che internazionali. Tuttavia, il prezzo della forza lavoro – il salario – differisce enormemente, a livello globale, tra Nord e Sud.

In un mondo nel quale il prezzo di mercato dei beni tende ad essere globale, mentre il prezzo di mercato della capacità di lavoro varia a causa della lotta di classe – sia storica che contemporanea – il risultato consiste in una redistribuzione del valore da paesi con un basso prezzo di mercato per la capacità di lavoro ad altri in cui è più alto. Dunque, l’imperialismo deve essere spiegato nel contesto della trasformazione del valore in prezzo. Affermare che ciò sposta il concetto di sfruttamento dalla sfera della produzione a quella della circolazione, tuttavia, è scorretto.

Il lavoro umano crea il valore ed il pluslavoro genera il plusvalore. Tuttavia, il (plus)valore non è una proprietà fisica che viene aggiunta dal lavoro ai beni, come fosse una sorta di molecola incorporata, immagazzinata nel prodotto. Piuttosto, il valore e la sua trasformazione in prezzi di mercato sono il frutto dei rapporti sociali tra lavoro e capitale, nonché tra differenti capitali. È la trasformazione del valore in prezzo di mercato a garantire la continuità del processo di accumulazione su  scala espansa. Il circuito allargato del capitale comporta la trasformazione del valore e del plusvalore in profitto, ed il trasferimento del valore dal Sud al Nord, come esito dei bassi prezzi pagati da quest’ultimo per i beni prodotti nel primo. Lo sfruttamento, per tanto, non avviene in un particolare settore della produzione o dell’economia nazionale; esso costituisce il risultato del complessivo processo di accumulazione del capitale globale.

Da queste considerazione teoriche possiamo ora passare ad un esempio specifico di tale dinamica, ovvero, la produzione globalizzata dell’onnipresente iPad Apple.

 

Il nucleo della Apple

Sulla scorta dell’approfondita ricerca condotta da Kraemer, Linden e Dedrich [10] sulle catene di produzione della Apple, Donald A. Clelland ha analizzato l’ampiezza ed i trasferimenti di valore, all’interno del sistema mondiale, attraverso il meccanismo dei prezzi di mercato [11].

L’iPad viene prodotto dalla Apple, una società con sede negli Stati Uniti. Tra la metà del 2010 e quella del 2011, Apple ha venduto poco più di 100 milioni di iPad. Apple rappresenta il caso esemplare di azienda “fabless” – fabricationless. Infatti essa sviluppa, progetta, brevetta e vende computer ed apparecchiature di comunicazione mentre esternalizza l’effettivo processo di fabbricazione dei beni. Tutti gli iPad sono assemblati in Cina. Apple ha integrato 748 fornitori di materiali e componenti nella sua catena di produzione, l’82 percento dei quali con sede in Asia – di cui ben 351 in Cina [12].

Ad ogni anello della catena, vi sono gli input dei materiali ai quali si aggiungono i salari, il management, i costi generali ed i profitti. Il prezzo totale di questi fattori, in ogni punto della catena, è uguale al prezzo di vendita. Si tratta di ciò che Clelland definisce “valore luccicante” di una catena della merce [13].

Il prezzo di mercato di un iPad nel 2010-2011 era di 499 dollari, essendo il prezzo di fabbrica 275 dollari. Di quest’ultimo, appena 33 dollari sono andati ai salari di produzione nel Sud, mentre 150 dollari del margine di profitto lordo della Apple sono finiti in design, marketing, stipendi amministrativi, nonché in costi di gestione e ricerca e sviluppo nel Nord globale [14]. La ripartizione di tale “valore” in salari e profitti è ben rappresentata dalla “curva a sorriso”.

Tuttavia, l’economia capitalistica mondiale assume la forma di un iceberg. La parte più studiata – il “valore luccicante” che appare in superficie – è sostenuto da un’enorme struttura non visibile. Ma a differenza di un iceberg, l’economia mondiale è un sistema dinamico basato su flussi di valore che scorrono dalla parte inferiore verso l’alto – dal Sud al Nord. Questi comprendono un drenaggio che assume due forme: flussi di valore monetizzati e visibili e flussi nascosti portatori di un “valore oscuro” generato dal quello del lavoro a basso costo, oltreché dalla riproduzione del lavoro da parte del settore informale – lavoro non salariato – e delle esternalità ecologiche non pagate. Il termine “valore oscuro” si ispira al riconoscimento da parte dei fisici del fatto che l’universo conosciuto è composto solo per il 5 percento da materia ed energia ordinaria, il resto è “matteria oscura” ed “energia oscura”. Proprio come quest’ultime guidano l’espansione dell’universo, il “valore oscuro” è lavoro nascosto non remunerato che guida l’espansione del sistema capitalistico mondiale [15].

Se l’iPad venisse assemblato negli Stati Uniti, il prezzo salariale di produzione non sarebbe di 45 dollari bensì di 442 dollari. E se compiamo un ulteriore passo all’interno della struttura di produzione dell’iPad, nei sub-componenti e nelle materie prime, apprendiamo che molti di questi imput materiali sono anch’essi prodotti nel Sud ad un costo salariale approssimativamente di 35 dollari per iPad. Se anche tale fase della produzione avesse luogo negli Stati Uniti, il suo costo salariale sarebbe all’incirca di 210 dollari.

I lavoratori nelle catene di produzione del’iPad Apple non sono meno pagati perché la loro produttività è inferiore rispetto a quella dei lavoratori del Nord. Probabilmente sono anche più produttivi. I fornitori della Apple sono leader mondiali nell’utilizzo delle ultime tecnologie. Il loro personale manageriale guida i dipendenti ricorrendo a metodi tayloristici e settimane di lavoro lunghe che non verrebbero legalmente tollerate nel Nord. Fornitori che organizzano programmi finalizzati ad intensificare la produttività dei lavoratori, con turni giornalieri di dodici ore ed  una frequente e stretta supervisione divenuta ormai routine. Le settimane lavorative superano le sessanta ore poiché i lavoratori sono tenuti a fare straordinari ben oltre i regolamenti [16]. Per tanto non sorprende  che  nel 2011 Steve Jobs, allora amministratore delegato di Apple, durante una cena alla Casa bianca, alla domanda del presidente Obama “cosa sarebbe necessario affinché Apple riporti a casa la sua produzione?”, abbia risposto: “quei posti di lavoro non torneranno” [17].

Nel momento in cui una merce è passata attraverso numerosi anelli di una catena di produzione globale per giungere alla porta di casa del consumatore, essa ha incorporato non solo gli imput della forza lavoro a basso costo, ma anche enormi quantità di lavoro sottopagato e non pagato, nonché input ecologici. I capitalisti drenano surplus nascosti da attività domestiche e del settore informale. Una lunga ed oscura catena di produttori di cibo e attività del settore informale è necessaria a generare la capacità produttiva e la sopravvivenza di ogni lavoratore salariato. Questo flusso di valore oscuro abbassa i costi di riproduzione del lavoro  periferico e, in tal modo, il livello dei salari pagati dai capitalisti. Settore domestico e informale che non sono al di fuori del capitalismo, bensì costituiscono delle componenti intrinseche delle catene globali di merci.

Il degrado ecologico, l’inquinamento e l’esaurimento comprendono una serie di esternalità tramite le quali i fornitori della Apple estraggono il valore oscuro. Ogni iPad necessita di circa quattordici chili di minerali (alcuni dei quali rari e limitati nelle scorte), 299 litri di acqua e sufficiente elettricità basata su combustibili fossili da generare ventinove chili di anidride carbonica. Inoltre, la produzione di un iPad genera l’emissione di 105 chili di gas serra [18]. Tutti fardelli ecologici che pesano sulle spalle della Cina e di altri paesi asiatici, mentre il prodotto è consumato al Nord. Il degrado ecologico costituisce un’esternalità incorporata nell’iPad come valore oscuro. Considerando solo i costi di inquinamento, Clelland stima che Apple evada i 190 dollari per unità che si sarebbe trovata a dover pagare negli Stati Uniti a causa delle esternalità ecologiche [19]. Il capitalismo è dipendente, persino guidato, da tutte queste forme di valore oscuro. Tali fattori non compaiono mai nella contabilità dei costi di produzione; essi sono “doni” invisibile a favore dei capitalisti e degli acquirenti.

Marx pensava che il valore della forza lavoro dove diminuire con l’aumento della produttività del lavoro, e che laddove ciò non si verificasse, la caduta tendenziale del saggio generale del profitto così causata si deve intensificare. Sotto l’imperialismo ed il sistema globale di oppressione nazionale in tal modo stabilito, tuttavia, il capitale monopolistico è in grado di garantire bassi prezzi di costo per i beni di consumo dei lavoratori, beni prodotti nel Sud da lavoro super-sfruttato. Accanto al parallelo deprezzamento del capitale costante tramite l’importazione di prodotti intermedi e materie prime a basso costo, la vendita di beni di consumo a buon mercato importati ai (super-pagati) lavoratori dei paesi imperialisti deprezza il valore della forza lavoro, aumentando il livello del presunto “plusvalore” prodotto localmente. Dunque, i lavoratori del Nord sembrano essere più produttivi in termini di profitti da essi generati. In termini di “produttività”, tuttavia, la principale misura di quest’ultima non è il “valore aggiunto” per ora di lavoro – dipendendo questo da prezzi di vendita gonfiati da monopolio, prezzi di trasferimento, scambio ineguale e dall’intervento statale, militare e poliziesco al fine di reprimere i costi del lavoro all’estero – ma i costi orari del lavoro relativi ai profitti generati a livello globale.

Quindi, contrariamente a quanto sostenuto da molti attivisti della metropoli, non son solo i capitalisti nel Nord a beneficiare materialmente del super-sfruttamento del lavoro a basso salario del Sud. “nel caso dell’iPad, gran parte dl valore oscuro espropriato viene realizzato non come profitto, bensì come surplus del consumatore nella forma di beni a buon mercato. Di conseguenza il cittadino del centro diviene un involontario [?- soggetto] beneficiario di tale sistema di sfruttamento, nel momento in cui utilizza un ora retribuita di lavoro per acquistare un prodotto che incorpora molte più ore di lavoro a basso salario e non pagato, oltreché numerosi fattori materiali ed ecologici sottostimati” [20]

 

La prospettiva politica

La prospettiva politica derivante dalla presente analisi è che il potenziale per il cambiamento rivoluzionario emerge dal Sud. Centinaia di migliaia di nuovi proletari industriali concentrati nelle fabbriche, sottoposti a dure condizioni e pagati con salari incredibilmente bassi, una massiva privatizzazione delle terre sta deprivando milioni di contadini poveri dei terreni e del reddito (costringendoli quindi ad un’estenuante ricerca di lavoro per il più magro dei salari); inoltre, la differenza nella condizione di vita tra Nord e Sud è sotto gli occhi di tutti,  grazie alla globalizzazione dell’informazione e dell’esposizione ai media [21].

Questa contraddizione dovrebbe infine manifestarsi attraverso movimenti anticapitalisti orientati verso il socialismo (e anche oltre). Nel Sud globale le classi che possiedono sia l’interesse oggettivo che la capacità di resistere all’imperialismo globale. Similmente a quella di movimenti anticolonialisti di liberazione nazionale divampati in tutto il Terzo mondo dal 1945 al 1975, è prevedibile la possibilità di una nuova ondata di movimenti anticapitalisti nei prossimi anni.

Grazie alla posizione centrale del nuovo proletariato del Sud, la sua forza nell’economia globale e di gran lunga superiore di quanto non sia stata durante l’ondata di liberazione nazionale che ha travolto il mondo negli anni Sessanta e Settanta. Ciò nonostante, la concretizzazione politica di tale forza non è scontata. Le forze soggettive nono sono schierate né al Sud né al Nord. In proposito, il compito della sinistra globale è enorme. Negli anni Settanta, in milioni hanno lottato e sono morti per il socialismo. Oggi coloro che lottano sono relativamente pochi; il socialismo non rappresenta un “brand” forte. La divisione del globo in Sud e Nord si riflette in quella della classe operaia globale, in modo tale che una parte di essa è provvista di enormi vantaggi economici e politici che hanno contribuito ad assicurarne la fedeltà allo status quo imperialista. Una fedeltà, ovviamente, rafforzata dall’accettazione da parte dei consumatori della propaganda dei media monopolisti di stato e aziende. Si tratta di uno dei maggiori problemi che si trovano oggi a fronteggiare le forze socialiste globali.

Per affrontare simili problemi, è necessario innanzitutto assumere una prospettiva globale riguardo alle lotte, così da confrontarsi con la globalizzazione del capitale. Solo da questo punto di vista globale è possibile lavorare ad una strategia e tattica locali efficaci. Cercare soluzioni redditizie alla crisi attuale attraverso il protezionismo nazionale (quale che sia la variante, socialdemocratica, “verde” o fascista) non è solo antisolidale, ma costituisce anche una strategia perdente – un’inevitabile corsa al ribasso.


Note
  1. United Nations Industrial Development Organisation (UNIDO), “Table 8.4. Developing and Developed Countries’ Share of Global Manufacturing Value Added by Industry Sector, Selected Years, 1995–2009 (percent),” Industrial Development Report 2011 (New York: Nazioni Unite, 2011), http://unido.org, 146; si veda anche “Table 8.7. Share of Manufacturing Employment for Developing and Developed Countries, by Industry Sector, Selected Periods Over 1993–2008 (percent),” 151.
  2. Zak Cope, Divided World Divided Class: Global Political Economy and the Stratification of Labor under Capitalism, seconda edizione (Montréal, Quebec: Kersplebedeb, 2015), 378–82.
  3. Benjamin Selwyn, “Twenty-First-Century International Political Economy: A Class-Relational Perspective,”European Journal of International Relations (3 dicembre 2014): 1–25, http://academia.edu.
  4. Branko Milanović, Chi ha e chi non ha: Storie di disuguaglianze (Bologna, Il mulino, 2012), 126.
  5. La cosiddetta curva a sorriso è stata proposta inizialmente da Stan Shih, fondatore intorno al 1992 della Acer. Secondo le sue osservazioni, nell’industria del personal computer, entrambe le estremità della catena del valore richiedono maggiore valore aggiunto al prodotto rispetto alla parte centrale della catena. Se questo fenomeno viene rappresentato  in un grafico con un asse Y per il valore aggiunto ed uno X per la catena di valore (la fase di produzione), la curva risultante ha la forma di un sorriso.
  6. Howard Nicholas,Marx’s Theory of Price and Its Modern Rivals(New York: Palgrave Macmillan, 2011), 30, 39–40.
  7. Marx si riferisce in vario modo alla composizione tecnica del capitale, il valore, o il prezzo, la  composizione del capitale e la composizione organica del capitale. Egli scrive: “chiamerò la composizione del valore del capitale, in quanto sia determinata dalla sua composizione tecnica e in quanto [corsivo aggiunto] rispecchi le variazioni di questa: la composizione organica del capitale“. Come ha scritto Paul Zarembka, tuttavia, l’aggettivo e significativo poiché il valore della forza lavoro (il capitale variabile) “può cambiare con o senza cambiamento nella composizione tecnica in circostanze nelle quali i lavoratori stessi possono ricevere più o meno, pur producendo con la medesima tecnologia”. Si veda Paul Zarembka, “Materialized Composition of Capital and its Stability in the United States: Findings Stimulated by Paitaridis and Tsoulfidis (2012),”Review of Radical Political Economics 47, no. 1 (2015): 106–11. Per Marx , laddove il capitale (lavoro morto) si accumula e viene sempre più impiegato, relativamente al lavoro vivo, la composizione organica del capitale cresce ed il tasso di profitto tende a cadere.
  8. Henryk Grossmann, Il crollo del capitalismo: La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, (Milano – Udine, Mimesis, 2010), 403.
  9. Howard Nicholas, “Marx’s Theory of International Price and Money; An Interpretation,” in Immanuel Ness e Zak Cope, a cura di, Palgrave Encyclopaedia of Imperialism and Anti-Imperialism (New York: Palgrave Macmillan, 2015).
  10. Kenneth L. Kraemer, Greg Linden, e Jason Dedrick, “Capturing Value in the Global Networks: Apple´s iPad and Phone,” University of California, July 2011, http://pcic.merage.uci.edu.
  11. Donald A. Clelland, “The Core of the Apple: Dark Value and Degrees of Monopoly in the Commodity Chains,”Journal of World-Systems Research20, no. 1 (2014): 82–111.
  12. Ibid, 83.
  13. Ibid, 86.
  14. Ibid, 88, con figure tratte dalle analisi dei dati contenute in Kenneth Kraemer, Greg Linden, e Jason Dedrick, “Capturing Value in Global Networks,” Personal Computing Industry Center, University of California–Irvine, 2011, http://pcic.merage.uci.edu.
  15. Clelland, “The Core of the Apple,” 85.
  16. Ibid, 97.
  17. Ibid, 98.
  18. Ibid, 102.
  19. Ibid, 103.
  20. Ibid, 105.
  21. Nel discutere le conclusioni dell’International Labor Organisation Global Wages Report 2014, Ptrick Belser nota: “la crescita dei salari nelle economie sviluppate è quasi pari a zero, ed i salari globali sono in crescita del 2 percento. Se si tiene la Cina fuori dall’equazione, la crescita globale dei salari si ritrova semplicemente tagliata a metà”. Si veda Patrick Belser “Fiscal Redistribution: Yes, but Inequality Starts in the Labor Market: Findings from the ILO Global Wage Report 2014/2015,”Global Labor Column, 2014, http://column.global-labor-university.org. A questo tasso di crescita, possiamo supporre, a voler essere generosi, che i livelli salariali nel Sud globale raggiungeranno quelli del Nord globale, dove sono in media almeno dieci volte superiori, nel giro di circa 500 anni.

Torkil Lauesen è attivista e scrittore antimperialista sin dai tardi anni Sessanta. Le sue pubblicazioni in inglese comprendono “It’s All About Politics” – così come un’intervista, entrambi reperibili in Turning Money into Rebellion, a cura di Gabriel Kuhn (PM Press, 2014).
Zak Cope è autore di Divided World Divided Class: Global Political Economy and the Stratification of Labour under Capitalism (Montréal, Canada: Kersplebedeb, 2012 and 2015) e coeditore con Immanuel Ness della Palgrave Encyclopedia of Imperialism and Anti-Imperialism (Palgrave Macmillan, 2015).
Link all’articolo originale in inglese Monthly Review

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