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laboratorio

La natura della UE e la sua immodificabilità

di Domenico Moro

Relazione al Convegno UE: riforma o uscita, Udine 30 marzo 2019

La piramide del sistema capitalistaIl capitalismo può trionfare
solo quando si identifica con lo stato,
quando è lo stato.
Braudel

Per capire se la Ue sia riformabile o meno è necessario capirne la natura, cioè quale ne sia la funzione e la ragione d’essere storica. Per rispondere a questa domanda, è necessario fare quello che raccomandava Arrighi, uno dei maggiori sociologi italiani del XX secolo. Marx scriveva che, per capire il capitalismo, bisognava scendere di un livello al di sotto del mercato, seguendo il capitalista nel “laboratorio segreto” dove entra in contatto con il detentore forza lavoro allo scopo di produrre il profitto. Allo studio di questo laboratorio, la fabbrica, Marx dedica capitoli importanti de Il capitale. Arrighi, parafrasando Marx, dice che per capire pienamente il capitalismo è necessario penetrare in un altro “laboratorio segreto”, situato però al piano superiore rispetto al mercato, lì dove il possessore di denaro, ossia il capitalista, incontra un altro attore, il possessore del potere politico[1].

Il piano inferiore al mercato è quello che il marxismo chiama struttura, vale a dire i rapporti di produzione, mentre quello superiore è la sovrastruttura, ossia i rapporti giuridici e politici, in una parola lo Stato. Senza quest’ultimo, il mercato non potrebbe neanche esistere. Se, quindi, vogliamo capire la Ue, anche noi dobbiamo guardare sia al di sotto sia al di sopra del mercato unico, cioè ai rapporti tra struttura e sovrastruttura. La Ue e l’euro non eliminano lo Stato, ma lo rimodulano in base alle trasformazioni della struttura dei rapporti di produzione.

Sul piano della struttura la fase attuale è caratterizzata dalla tendenza alla caduta del saggio di profitto. Contro tale tendenza il capitale mette in atto delle “cause antagonistiche”, come le chiama Marx: la riduzione del salario, l’aumento dello sfruttamento, l’esercito industriale di riserva, la finanziarizzazione e, soprattutto, l’esportazione di merci e capitali.

La centralizzazione proprietaria e il mercato mondiale sono il prodotto del processo dialettico in cui la caduta del saggio di profitto si intreccia alle cause antagonistiche[2]. Che c’entrano la Ue e l’euro? C’entrano perché esse facilitano o permettono l’attivazione delle “cause antagonistiche”, rimuovendo le misure di difesa del lavoro, i limiti alla circolazione delle merci e del capitale, le politiche espansive di bilancio, ecc.

Tutto ciò non si sarebbe potuto perseguire senza ribaltare i rapporti di forza politici tra capitale e forza lavoro che, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine degli anni ’70, si erano modificati a favore delle classi subalterne. In sostanza, la riorganizzazione a livello di sovrastruttura, cioè al livello del funzionamento dello Stato, è il presupposto per la riorganizzazione a livello di struttura. L’obiettivo strategico è annullare la capacità delle classi subalterne, e in particolare del lavoro salariato, di incidere sul processo decisionale per quanto riguarda il bilancio pubblico e le politiche economiche e sociali. In una parola, la riduzione e finanche l’annullamento della sovranità democratica. Ciò avviene mediante l’alienazione di alcune funzioni dello Stato agli organismi europei in modo da realizzare la “governabilità”, cioè l’aggiramento dei parlamenti e il rafforzamento degli esecutivi, cioè dei governi.

Infatti, la natura della Ue è quella, duplice, di un organismo intergovernativo e di mercato. A dominare è, però, contrariamente all’apparenza, il primo aspetto. L’organismo centrale dell’Europa è il Consiglio europeo, composto dai capi di governo e di Stato, che, oltre a delineare gli orientamenti generali e di politica estera, nomina ed elegge i membri della Commissione europea e della Bce. Se la natura della Ue non fosse fondamentalmente intergovernativa, Francia e Germania non avrebbero potuto firmare il recente Trattato di Aquisgrana né il manifesto franco-tedesco per una politica industriale europea[3], che rappresentano accordi a due, che, da una parte, sovradeterminano il processo decisionale europeo e, dall’altra, realizzano una “duplice intesa” tra due Stati nazionali sul piano militare e di politica estera.

Quindi, anche se alcune funzioni statali (moneta e bilancio) vengono delegate a organismi sovrastatali, altre funzioni (politica estera e militare) vengono rafforzate in capo ai singoli Stati. Qual è il nesso che tiene insieme una tale contraddizione? Il nesso è l’interesse di classe del settore apicale del capitale, quello più internazionalizzato, che richiede politiche diverse per lo stesso obiettivo: realizzare profitto su scala mondiale. All’interno, il capitale richiede la contrazione del salario diretto, differito (pensioni) e indiretto (welfare), che può essere perseguita soltanto grazie ai vincoli esterni imposti dalla Ue e dall’euro. All’esterno, invece, il capitale richiede il sostegno diretto dello Stato nazionale, a livello economico, diplomatico, e militare. Il tracollo del mercato interno nei Paesi europei a causa dell’austerity e il conseguente aumento della concorrenza globale tra imprese hanno spinto verso un rinnovato intervento dello Stato a favore della “propria” frazione di capitale. La Francia è, in tal senso, un esempio da manuale: contrazione all’interno e espansione all’esterno. Durante la fase peggiore della crisi (2009-2015), le imprese francesi hanno aumentato il fatturato all’estero del 5,6 per cento medio annuo, all’interno dell’1,7 per cento[4]; inoltre, gli addetti all’estero sono aumentati del 2,7 per cento medio annuo mentre all’interno sono diminuiti dello 0,6 per cento[5]. A sostegno del “suo” capitale, lo Stato francese ha intensificato negli ultimi anni sia gli interventi militari in Africa, sua area d’espansione storica, sia la sua presenza nel capitale delle multinazionali strategiche. Tutto ciò avviene contro gli interessi di altri Stati, sia pure appartenenti alla Ue e all’euro, come nel caso dell’attacco alla Libia, una sorta di protettorato economico italiano, e come nel caso di Airfrance ai danni della partner KLM, partecipata dallo Stato olandese[6].

Come abbiamo visto, non solo una vera Europa, per lo meno come la intendono alcuni, non esiste, ma soprattutto non esistono le condizioni per riformarla in senso democratico. In primo luogo, perché la Ue è strutturata come organismo non democratico, essendo una organizzazione intergovernativa, nel quale il Parlamento non conta. Del resto, anche se contasse, il peso demografico dei due Paesi maggiori, Germania e Francia, sarebbe determinante nella creazione delle maggioranze. In secondo luogo, il Trattato di funzionamento della Ue all’articolo 48 prevede che le modifiche ai trattati debbano essere ratificate da tutti gli stati membri. Nel caso in cui anche uno solo degli Stati membri non le ratifichi, la questione è demandata al Consiglio europeo, il quale decide all’unanimità. Basterebbe, quindi, che il Lussemburgo fosse contrario affinché l’eventuale modifica non sia adottata. Nel caso, invece, in cui un governo cercasse di forzare la mano al Consiglio o cercasse di disobbedire ai vincoli di bilancio, entrerebbe in gioco il vincolo rappresentato dall’euro, che forza al rispetto dei trattati. Senza la possibilità di manovrare sui tassi di cambio e di interesse e senza la possibilità di emettere moneta, il tentativo sarebbe destinato al fallimento. Ne sono esempi sia il caso della Grecia, che fu costretta ad accettare l’accordo con i creditori a dispetto dell’esito contrario del referendum popolare, sia quello dell’Italia, che ha visto lo spread impennarsi al momento in cui pareva che il governo stesse per adottare misure lievemente espansive.

Dunque, attaccare l’integrazione europea significa attaccare il nodo centrale della riorganizzazione su scala europea dei rapporti economici e politici a favore delle élites capitalistiche. L’integrazione europea è per il capitale sia un punto di forza, perché grazie ad essa gode di un vantaggio strategico sulle classi subalterne, sia un punto di debolezza, perché indebolisce la presa egemonica del capitale sulle masse, irrigidendo il sistema di mediazione politica e rendendo l’economia più vulnerabile agli shock economici mondiali. L’uscita dall’euro e dalla Ue non è la soluzione salvifica a tutti i problemi dei lavoratori salariati, ma è certo che, all’interno di Ue e euro, non si possono neanche porre le basi per risolverli. Infatti, il tema posto dalla Ue e dall’euro, prima ancora che economico, è politico: è quello della democrazia o, detto in altri termini, il tema di dove risiede la sovranità. Ciò che l’Europa mette in discussione non è la sovranità nazionale, bensì quella democratica e popolare. Il punto è che la sovranità è delegata a organismi che esprimono in modo diretto e senza intermediazione gli interessi del grande capitale multinazionale. In questa fase storica e in Europa non si può concepire un anticapitalismo e neanche una lotta per il lavoro, il welfare, il salario e per uno sviluppo equilibrato se non collegata al superamento dell’integrazione economica e monetaria.


Note
[1] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 1994.
[2] Karl Marx, Il capitale, Libro III, Cap. XIII, XIV e XV, Editori riuniti, Roma 1980.
[3] http://www.laboratorio-21.it/il-trattato-di-aquisgrana-e-la-fine-delleuropa-politica/
[4] La variazione si riferisce al fatturato a prezzi correnti. Quindi, tenendo conto dell’inflazione, non si è registrata quasi alcuna variazione del fatturato delle imprese residenti in Francia nel periodo di riferimento.
[5] Domenico Moro, “Le imprese multinazionali: caratteri strutturali e rapporti con l’estero”, in Istat, Rapporto sulla competitività dei settori produttivi, 2019, pp. 40-43.
[6] http://www.laboratorio-21.it/il-capitale-globalizzato-e-la-ripresa-dello-stato/

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