Le forme della contraddizione
di Eros Barone
1. Il principio logico di non-contraddizione e il principio ontologico di contraddizione secondo Hegel
Parecchi importanti pensatori contemporanei, di orientamento analitico ma anche trascendentale, hanno preteso di confutare il sistema hegeliano appellandosi semplicemente al fatto che il metodo di Hegel, ossia la dialettica, negherebbe il principio di non-contraddizione. Tale negazione, secondo questi pensatori, tra i quali occupa un posto di primo piano Popper, vanificherebbe ogni possibilità di critica, in quanto, in base al punto di vista dell’autentico dialettico, la reductio ad absurdum non può mai essere assunta come procedimento valido. Questo modo di vedere si ritorcerebbe, comunque, contro lo stesso dialettico, poiché anch’egli non potrebbe confutare chi asserisse idee opposte alle sue, ma parimenti contraddittorie. Il principio di non-contraddizione, però, deve conservare la sua validità, anche perché dalla sua negazione può conseguire qualsiasi proposizione e in tal modo si potrebbe dimostrare tutto.1 Orbene, Popper e chi la pensa come lui hanno certamente ragione nel sostenere che una teoria che non si consideri confutata allorché se ne dimostri il carattere autocontraddittorio vanifica ogni possibilità di critica immanente. Teorie del genere vanno quindi respinte a priori come non scientifiche e bisogna considerare con la massima diffidenza quelle difese della dialettica che non lo ammettono.2
La verità è che Hegel non ha mai contestato il principio di non-contraddizione. Sennonché si potrebbe obiettare che Hegel ha addirittura incluso la contraddizione in quanto categoria nella logica e che ha sostenuto in vari passi che ogni ente si contraddice. Questo è vero, ma ciò non significa ancora violare il principio di non-contraddizione, che è la condizione di possibilità di qualsiasi critica dotata di senso. Per convincersene occorre, innanzitutto, stabilire che il principio di non-contraddizione, in quanto presiede alla consistenza e coerenza di qualsiasi argomentazione logica, deve essere così formulato: una teoria è sicuramente falsa, se incorre in contraddizioni. E ci si trova in presenza di tali contraddizioni, se una teoria asserisce qualcosa come vero, ma nel contempo dai suoi presupposti consegue che tale asserzione è necessariamente falsa.
Si può scoprire una contraddizione di questo tipo sia nella deduzione dagli assiomi e dai teoremi stabiliti sia riflettendo sulle pretese implicite di verità della teoria in questione: così, per esempio, la proposizione che asserisce che la verità non esiste presuppone necessariamente di essere, essa stessa, vera, ragione per cui si contraddice ed è perciò falsa.
Vi è poi un’altra versione, più specifica, del principio di non-contraddizione, che dichiara false in linea di principio proposizioni della struttura “A e non-A”. Qui si deve obiettare che, se proposizioni della struttura “A e non-A” fossero vere, sarebbero vere anche le proposizioni “A” e “non-A”, il che significa che tutte le possibili asserzioni su un determinato àmbito di oggetti sono vere, e anche la critica diventa impossibile. L’argomentazione appena sviluppata vale tuttavia solo sulla base di una logica a due valori; sono infatti pensabili calcoli logici consistenti, in cui proposizioni della struttura “A e non-A” siano vere. Una logica del genere dovrebbe però avere almeno tre valori, due dei quali rappresenterebbero tipi diversi di unilateralità (e quindi enunciati non veri), mentre il terzo valore, quello della verità, corrisponderebbe a quella proposizione che potesse essere intesa come congiunzione delle due proposizioni parziali. 3 Questo richiamo a un altro sistema di logica posto al servizio della dialettica e della sua formalizzazione può essere utile, poiché in Hegel si trovano effettivamente, quantunque sporadicamente, proposizioni con la struttura “A e non-A”: bisogna, tuttavia, precisare che Hegel intende la “e” che connette le due proposizioni parziali in modo tale che vera è soltanto la loro connessione, mentre non sono vere le due proposizioni parziali isolate. 4
Ciò nondimeno, nell’àmbito di una logica a due valori ci si deve attenere alla regola per cui proposizioni della struttura “A e non-A” sono necessariamente false. Ma ciò non vuol dire considerare falsa la convinzione di Hegel secondo cui ci sono enti che si contraddicono. In effetti, già al livello del linguaggio familiare è usuale affermare, per esempio, che un uomo, una forma sociale, una teoria si contraddicono. È chiaro che asserzioni del genere non saranno formalizzate nell’àmbito di una logica a due valori con “A e non-A”, ma si farà riferimento, di volta in volta, al fatto che si tratta di due aspetti di una cosa reale, che si contraddicono reciprocamente: così in una determinata società princìpi e realtà non si trovano in accordo. Ciò nondimeno, la differenza degli aspetti non modifica il fatto che si tratta di aspetti di un “qualcosa di unitario”, la cui unità è minacciata da questa contraddizione. Che ci siano enti che si contraddicono in questo senso è però una concezione che viene, anch’essa, respinta come equivoca, se non inconsistente; in tal modo viene formulata una ulteriore versione del principio di non-contraddizione: non può esserci nulla che si contraddica. Ma è semplice riconoscere che questo principio di non-contraddizione, essendo di natura ontologica, non è equivalente alla versione principale, quella di natura logico-argomentativa, del principio stesso; non solo, ma da quest’ultima consegue anche la sua falsità. Infatti, se quel principio ha un senso, deve essere applicabile, devono esserci, in altri termini, teorie false, false perché si contraddicono. Questo, per un verso, è banale; per un altro verso, da ciò segue che la polemica contro la teoria di Hegel, che sostiene l’esistenza di enti che si contraddicono, non può richiamarsi alla versione logico-argomentativa del principio di non-contraddizione. Chi afferma che una teoria è falsa perché si contraddice, non elimina in nessun modo la possibilità di critica – a differenza di chi non ritiene le autocontraddizioni preclusive di un discorso logico -, anzi non si contraddice affatto (benché nello stesso istante riconosca la validità della versione logico-argomentativa del principio di non-contraddizione e respinga come non valida la versione ontologica). 5
Dal fatto che esistono almeno alcuni enti (teorie) che si contraddicono non segue peraltro in alcun modo che tutto si contraddice. Infatti il principio corrispondente a quest’ultima proposizione dovrebbe (di necessità) anch’esso contraddirsi, e sarebbe quindi falso sulla base del principio logico-argomentativo di non-contraddizione. Deve dunque esistere una teoria, proprio quella che parla delle altre teorie, cui si deve riconoscere la legittima pretesa di non essere contraddittoria. In conclusione, solo se Hegel abbandonasse questa pretesa, potremmo e dovremmo rimproverargli di abbandonare il terreno della razionalità, ossia quel principio di non-contraddizione che è effettivamente condizione di possibilità dell’argomentazione filosofica.
2. «Portare la guerra nel paese nemico»: la critica immanente
Sulla base delle considerazioni svolte finora, è allora possibile affermare che Hegel accetta la versione logico-argomentativa del principio di non-contraddizione e respinge la versione ontologica di questo principio: è convinto, cioè, che vi sono enti che si contraddicono. Hegel va tuttavia criticato per aver usato il termine “contraddizione” in modo polisemico e non di rado equivoco. Che Hegel accetti la versione logico-argomentativa del principio di non-contraddizione risulta invece chiaramente dal fatto che lo presuppone di continuo nelle sue critiche alle altre filosofie. Così nella Fenomenologia dello Spirito addebita alla filosofia morale di Kant di essere «un vespaio di contraddizioni prive di pensiero». 6 Con ciò egli non intende dire che il carattere distintivo della filosofia morale kantiana sia costituito proprio da queste contraddizioni, ma vuole piuttosto confutare la teoria di Kant facendo leva sulle stesse tesi formulate da Kant. Non per nulla nelle lezioni di storia della filosofia il metodo confutatorio hegeliano consiste nel dimostrare la presenza di contraddizioni nei suoi predecessori. In tal senso, ad esempio, il sistema di Leibniz viene criticato per la contraddizione che in esso sussisterebbe tra la funzione di Dio come causa assoluta e le monadi come entità autonome: «C’è quindi una contraddizione, che resta in sé insoluta, tra l’unica monade sostanziale e le molte monadi, che dovrebbero essere indipendenti, perché la loro essenza consiste nel non essere in relazione l’una con l’altra». 7 Alla fine del capitolo su Leibniz si dice poi con un’immagine icastica che «Dio dunque diventa per così dire il rigagnolo, in cui confluiscono tutte le contraddizioni». 8 Hegel, inoltre, considera il metodo di rilevazione delle contraddizioni come una significativa scoperta filosofica di Zenone al procedere ingenuo di Parmenide, che in parte si limita ad asserire le sue tesi e in parte le giustifica, ma in ogni caso non riesce ancora a dimostrare contraddizioni nelle tesi dei suoi avversari. In Zenone invece si vede la dialettica «irrobustit[a], porta[re] la guerra nel paese nemico». 9 Hegel intende dire che Zenone confuta in modo immanente, che è quanto dire che non si limita a constatare una contraddizione tra le sue concezioni e quelle dei suoi avversari – da cui potrebbe discendere la falsità tanto della sua tesi quanto di quella dell’avversario -, ma scopre piuttosto una contraddizione interna nelle concezioni diverse dalla sua. A questo proposito, viene in mente il circolo vizioso del traghelafo che Hegel riprende dallo scetticismo antico: se non è capro sarà cervo, ma se non è cervo sarà capro… Ohibò, è sia l’uno che l’altro (anche se non esiste, visto che si tratta, secondo la mitologia greca e latina, di un animale favoloso che unisce in sé i caratteri del caproa e del cervo)! 10
3. La contraddizione oggettiva opera tra le diverse teorie così come tra le diverse categorie
Le lezioni sulla storia della filosofia dimostrano che Hegel, oltre a riconoscere la versione logico-argomentativa del principio di non-contraddizione, sostiene che la maggior parte delle filosofie si contraddicano. In altri termini, vi sono, secondo Hegel, delle entità (le teorie filosofiche) a cui la contraddizione appartiene come determinazione oggettiva. 11 Sennonché, oltre a ciò, egli sostiene la concezione sicuramente peculiare (concezione che si trova di frequente nei suoi scritti), secondo cui si contraddicono non soltanto le teorie, bensì anche le categorie logiche e gli oggetti reali del mondo naturale e spirituale, anzi che tutto ciò che è si contraddice. Si può allora obiettare che questa negazione contraria del principio ontologico di non-contraddizione è altrettanto inconsistente del principio stesso, poiché ci deve essere almeno qualcosa che non si contraddice, ossia la teoria che sostiene l’universalità della contraddizione. Il principio secondo cui tutto ciò che è si contraddice va dunque reinterpretato e limitato agli enti finiti, siano essi cose o pensieri, considerando perciò la contraddittorietà come una caratteristica della finitezza: 12 caratteristica che, come bisogna dire invertendo questo rapporto, non può essere riferita ad almeno due categorie del sistema hegeliano: all’idea assoluta e, all’interno dello spirito assoluto, alla filosofia assoluta, ossia alla filosofia hegeliana.
Una delle più importanti innovazioni della dialettica hegeliana è costituita dalla trasposizione del principio di contraddizione dalle teorie alle categorie. In questo senso, la contraddittorietà della maggior parte delle categorie logiche consiste proprio nella loro unilateralità. Il finito che non è un momento ideale dell’infinito è contraddittorio; e lo è parimenti l’infinito che viene contrapposto al finito. Esente da contraddizioni è, invece, il vero infinito, che è unità di finitezza e infinità. Ciò si oppone però al sano intelletto umano che, quando si pronuncia in modo spontaneo e senza soverchia riflessione, è portato piuttosto a ritenere inconsistente una concezione in cui finitezza e infinità siano unite, e al quale, viceversa, le categorie di una pura finitezza e di una infinità trascendente sembrano del tutto prive di contraddizioni. Ma se l’argomentazione di Hegel è corretta, questa concezione del sano intelletto umano è ingannevole. Scrive Hegel: «Se l’intelletto mostra che l’idea contraddice se stessa, perché, per esempio, il soggettivo è qualcosa di soltanto soggettivo, e l’oggettivo gli è piuttosto opposto, perché l’essere è qualcosa di completamente diverso dal concetto, e perciò non può venirne ricavato, e, ancora, perché il finito è soltanto finito, ed è proprio il contrario dell’infinito, e, quindi, non identico ad esso, […] la logica [s’intende: la logica dialettica – n. d. a.] mostra piuttosto l’opposto, e cioè che il soggettivo che deve essere soltanto soggettivo, che il finito che deve essere soltanto finito, l’infinito che deve essere soltanto infinito e così via, non hanno alcuna verità, si contraddicono e passano nel loro contrario, sicché questo passare e l’unità nella quale gli estremi sono come superati, come un apparire o come momenti, si rivelano come la loro verità». 13
Ma qual è l’origine di questo pervicace inganno dell’intelletto? Essa risiede nel fatto che la contraddizione presente nelle singole categorie non consiste, a livello immediato, in ciò che esse significano, bensì sussiste piuttosto tra ciò che esse significano e ciò che esse sono. La categoria della “finitezza” avanza, infatti, in quanto categoria, una pretesa di verità, ma la mette subito in questione affermando ciò che essa afferma: se effettivamente tutto fosse finito, non potrebbe esserci alcuna verità. Il concetto dell’infinito, viceversa, si trova in contraddizione con la forma in cui viene espresso, secondo la quale esso è contrapposto al finito: in quanto contrapposto al finito, l’infinito sarebbe esso stesso finito.
Nella categoria sintetica, nell’unità di finitezza e infinità, non si può invece generare nessuna contraddizione del genere, nonostante tale categoria abbia una struttura tale da unificare ciò che è opposto. Piuttosto, proprio in virtù di questa struttura la categoria sintetica elimina le contraddizioni presenti nelle determinazioni singole: essa pone in modo esplicito l’unità che quelle determinazioni presuppongono, pur negandola. Hegel, infatti, sottolinea di continuo che un’unità di finitezza e infinità va individuata anche nel finito e nel cattivo infinito: il finito è «imperituro e assoluto», quindi infinito; il cattivo infinito è «un infinito il quale è esso stesso finito». 14 Ma è chiaro che questa unità deve essere distinta da quella del vero infinito; in caso contrario, quest’ultimo non potrebbe essere esente da contraddizioni, mentre sono le determinazioni singole che sono di necessità contraddittorie. In che consiste questa differenza? Hegel scrive: «In ciascuno dei due [nel finito e nel cattivo infinito – n. d. a.] sta quindi la determinatezza dell’altro, mentre nel senso del progresso infinito essi dovrebbero restare esclusi l’uno dall’altro, e solo seguirsi l’un l’altro alternativamente. Nessuno dei due può esser posto e compreso senza l’altro, né l’infinito senza il finito, né il finito senza l’infinito. Quando si dice che cos’è l’infinito, cioè la negazione del finito, con ciò si enuncia insieme anche il finito; non se ne può fare a meno, quando si tratta di determinare l’infinito. Occorre soltanto sapere quel che si dice, 15 per trovare la determinazione del finito nell’infinito. Del finito, dal canto suo, si concede subito che sia il nullo; ma appunto la sua nullità è l’infinità, dalla quale è quindi anch’esso inseparabile». 16 Hegel intende dire quanto segue: è vero che le singole determinazioni non sono pensabili, di volta in volta, l’una senza l’altra, e sono quindi già l’unità dell’una e dell’altra. Ma esse sono questa unità solo implicitamente, poiché la loro unità diventa palese solo a chi sviluppa la loro dialettica e si manifesta pertanto solo ad un livello più elevato.
Alla fine del “Concetto preliminare” della logica dell’Enciclopedia Hegel spiega che la logicità ha tre lati, che non vanno però separati, bensì considerati come momenti «di ogni concetto e di ogni vero in generale». Il primo è quello astratto o intellettivo, il secondo quello dialettico o negativamente razionale, il terzo quello speculativo o positivamente razionale. Per il pensiero astratto le determinazioni sono valide proprio nella loro singolarità; se l’intelletto pensa, per esempio, il rapporto tra finitezza e infinità, considera ugualmente vere entrambe le categorie nella loro relazione esterna. Il momento dialettico, invece, dimostra la presenza di contraddizioni nelle categorie isolate; esso svela la finitezza del finito, che consiste nel «superare se stesso». Operando in tal modo, la dialettica procede in maniera assolutamente oggettiva; la contraddittorietà interna è dunque «la natura propria, vera, delle determinazioni dell’intelletto, delle cose e del finito in generale»: il risultato è tuttavia, in un primo tempo, solo negativo. Soltanto il momento speculativo sviluppa una concezione esaustiva, che afferma ovvero “scioglie” la contraddizione, perché «concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione». 17
4. Diversità, differenza, opposizione e contraddizione
Per comprendere gli sviluppi che avrà in Marx la classica indagine antica su contraddizione, opposizione e divenire, 18 occorre muovere da Aristotele, il quale distingue tra diversità e differenza. «Il diverso in un certo senso è opposto all’identico», 19 essendo ogni cosa o identica o, quando non si indica un termine medio, diversa. Se allora si dice che un certo ente è diverso da un altro ente, la diversità dell’uno è opposta all’identità con se stesso dell’altro, ma non si può dire che l’uno è non-l’altro (tu sei diverso dal tuo vicino, ma non sei definibile come il tuo non-vicino), sicché il diverso non è il contraddittorio dell’identico, mancando un termine medio per cui la negazione dell’uno affermi l’altro. Le cose differenti sono invece tali per qualche cosa, «tanto che necessariamente ci deve essere qualcosa di identico, per cui sono differenti»: 20 il genere o la specie. Contraddizione ed opposizione in senso proprio si hanno quindi soltanto nell’àmbito delle differenze. Queste ultime possono essere minori o maggiori; la contrarietà è la differenza massima: «Contrarie sono le cose che differiscono di più tra quelle che appartengono allo stesso genere» o «che sono nello stesso ricettacolo, e infatti la materia è identica per i contrari». 21
Il contrapporsi delle differenze si articola in quattro modi: un prima forma è quella dei correlativi (ad esempio, il doppio è definito rispetto alla metà); una seconda è quella dei contrari od opposti in senso stretto (ad esempio, il bene si oppone al male); una terza è quella che sussiste fra privazione e possesso (come la cecità e la vista); una quarta intercede tra affermazione e negazione (“sta seduto – non sta seduto”). Inoltre, i quattro modi si possono ordinare per estensione: il più esteso è il modo della contraddizione, poiché tra la proposizione “Socrate sta seduto” e “non sta seduto” manca, sotto il rispetto e il tempo dello “star seduto”, 22 un termine medio, che è invece presente nelle altre forme meno estese. Nelle altre tre forme, non sussistendo la limitazione del “rispetto” e del “tempo”, il medio è invece presente: infatti la cecità (privazione) è sì una sorta di contraddizione della vista (possesso), ma è attivo un medio (l’appartenenza al genere animale), sia che si tratti di un animale che per natura non può aver la vista (talpa) sia di uno che, pur potendola avere per natura, non l’ha (ad esempio, un uomo che ha perso la vista per via di un incidente). Ancora meno estesa è l’opposizione, che è una privazione più limitata di uno dei contrari: il vizio è il contrario della virtù, ma tale opposizione è limitata a certe circostanze, ad esempio a una certa età. Nei correlativi l’estensione è minima, poiché si implicano l’un l’altro nella definizione (il doppio è definito rispetto alla metà).
Tuttavia, il principio di non contraddizione non significa affatto che gli opposti non possano inerire alla medesima cosa, se non si pongono le «condizioni limitative» 23 che ciò non avvenga “nello stesso tempo” e “nello stesso rispetto”. Con queste limitazioni si astrae infatti dallo svolgimento potenziale che Socrate, come ricettacolo dei due estremi, potrebbe avere, sicché in certo modo viene a mancare il medio, che nondimeno continua a esistere, fuori dalle limitazioni, come sostanza capace di svolgimento. La contraddizione è dunque un modo dell’opposizione in generale, poiché Socrate può sedersi quando non lo è e viceversa, dando così luogo a un mutamento fra contrari (che è reale e può essere enunciato nel discorso) di cui Socrate stesso è il ricettacolo o, se si preferisce, il sostrato materiale. Se invece due giudizi contraddittori fossero veri insieme, entrambi gli estremi opposti sarebbero contemporaneamente in atto, impedendo ogni svolgimento della sostanza che fa da sostrato. Sotto le condizioni limitative, per così dire, “istantanee” (il “tempo” e il “rispetto”) si fa chiaramente astrazione dall’insieme dello svolgimento, e l’opposizione ha una funzione soprattutto confutatoria, poiché la verità di una predicazione determina la falsità di quella contraddittoria; per dirla con Mao Tse-tung, 24 impedisce all’avversario che sia stato inchiodato sulla base delle sue stesse premesse di cambiare il bianco in nero, voltando gabbana (come si è cercato di chiarire nei primi due paragrafi del presente articolo, si tratta del metodo della critica immanente praticato da Hegel e ripreso da Marx).
5. Contraddizioni logiche e contraddizioni reali
Il termine “contraddizione” è uno degli strumenti verbali più usati per gettare “fumo negli occhi”. Eppure è altrettanto chiaro che spesso dietro l’uso di questo termine si nasconde l'esigenza di dire qualcosa che non si può dire altrimenti, e qualcosa — per di più — di estrema importanza perché legata al modo peculiare di sviluppo degli organismi e dei sistemi. È possibile annoverare Marx fra coloro che hanno usato e abusato acriticamente di questo termine? Molti hanno sostenuto di sì. 25 Eppure un’analisi accurata dei testi ci rivela che Marx è uno dei pochi autori che hanno tentato di dare un contenuto preciso al termine. Il chiarimento del significato preciso che questo termine ha per Marx è, comunque, un passaggio obbligato per comprendere le peculiarità fondamentali del suo metodo e della sua teoria. 26
Orbene, la concezione marxiana della contraddizione sottolinea energicamente il carattere secondario della conoscenza razionale e quindi la indeducibilità delle determinazioni reali. «Il mio metodo dialettico», afferma Marx, è tale perché descrive opposizioni e contraddizioni reali; «concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento» e descrive «il movimento contraddittorio della società capitalistica» traducendo «l’elemento materiale… nel cervello degli uomini»; infine opera una ricapitolazione razionale unitaria di questo movimento, «perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso». 27 Nella concezione materialistica di Marx quindi le opposizioni reali non sono dei tiri alla fune che sfociano nella stasi (kantianamente: A – B = 0), bensì delle contraddizioni reali: tutta la realtà di un estremo implica tutta la realtà dell’altro estremo, che in pari tempo esclude, talché non vi è mai stasi. In tale concezione, come in Aristotele ed Hegel, ciò che unifica gli estremi è il fondamento comune ed il divenire; come in Aristotele, è sottolineato il carattere esterno del fondamento; come in Hegel, è valorizzato il divenire e le differenti forme di esso (differenza, identità, diversità, opposizione, contraddizione ecc.) sono fuse, radicalizzando il movimento; altrimenti che in Hegel e come in Aristotele, il movimento si basa non sull’unità simmetrica e omogenea di ragione e realtà, ma sulla dipendenza asimmetrica ed eterogenea del pensiero dalla realtà; 28 altrimenti che in entrambi, il realismo materialistico marxiano sviluppa in forma estremamente radicale il concetto che il pensare è sempre intriso di materia: lo sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme della produzione è il fattore determinante, che riconduce sotto di sé tutti gli altri fattori (forma politica dello Stato, produzione culturale ecc.).
Il rapporto ragione/realtà appare quindi eterogeneo e asimmetrico; anche quando l’analisi individui categorie “eterne” (come il lavoro), solo astrattamente queste sono metastoriche. Quando una qualsiasi totalità concreta e reale è ricapitolata «come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, [allora] è in fact un prodotto del pensare, del comprendere; ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione [della realtà materiale esterna – n. d. a.], bensì dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e della rappresentazione. L’insieme, il tutto, come esso appare nel cervello quale un tutto del pensiero, è un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile… Il soggetto reale rimane, sia prima sia dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente… Anche nel metodo teorico, perciò, il soggetto, la società, deve essere presente alla mente come presupposto». 29
6. L’analisi dialettica della merce
«La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci”», 30 cioè di prodotti che hanno particolari qualità fisiche che soddisfano determinati bisogni (il grano nutre: valore d’uso) e si possono scambiare con altri in rapporti quantitativamente determinati (valore di scambio) secondo una proporzione che varia continuamente: x grano si scambia ora con y, ora con 2y, y/2 ecc. ferro. Il rapporto è quindi «puramente relativo», e il valore di scambio si presenta «come una contradictio in adiecto»: è quantitativo e inerisce a una cosa qualitativa; non è intrinseco alla merce, perché la qualità è invariante mentre il rapporto di scambio è altamente variabile; inoltre con x grano si scambia non solo y ferro, ma anche z seta ecc.: tutti questi infiniti rapporti di valore nello scambio sono «sostituibili l’un con l’altro o di grandezza eguale fra loro. Perciò ne consegue: in primo luogo, che i valori di scambio validi della stessa merce esprimono la stessa cosa. Ma, in secondo luogo: il valore di scambio può essere in generale solo il modo di espressione, la “forma fenomenica” di un contenuto distinguibile da esso». L’equazione «un quarter di grano = un quintale di ferro» enuncia che «in due cose diverse (verschieden)… esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l’uno e l’altro sono eguali a un terzo (Dritte), che in sé e per sé non è né l’uno né l’altro»: 31 valore, cioè coagulo di lavoro umano quantitativo astratto (ossia indifferente dalle qualità di lavoro agricolo, metallurgico, serico ecc.). Questa «medesima spettrale oggettività» 32 è sottesa a entrambi gli estremi e fonda l’“uguale” ( = ) dell’equazione: «Merci [qualitativamente diverse] nelle quali sono contenute eguali quantità di lavoro [“sostanza valorificante” 33]… hanno quindi la stessa grandezza di valore». 34 Ma anche: un estremo esclude l’altro; cedendo grano contro ferro, nell’estremo grano il valore d’uso è del tutto assente; il possessore lo cede (ed quindi non lo usa) per avere ferro da usare; lo cede come valore di scambio, che in quanto tale non contiene «nemmeno un atomo di valore d’uso». 35 Ma anche: niente è valore di scambio se in primo luogo non è utile: «Le merci vengono al mondo in forma di valori d’uso», 36 e quando questo primo «substrato materiale» 37 diviene merce, questa è «qualcosa di duplice»: gli oggetti «posseggono la forma di merci soltanto in quanto posseggono una duplice forma: la forma naturale e la forma di valore». Ma anche: pur duplicandosi, le due forme si escludono («nemmeno un atomo…»), e il corpo resta uno solo, sicché «potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile»: 38 il valore è oggettivo, ma si manifesta solo nello scambio, cioè in una relazione. Così, in x merce A = y merce B, le due merci cessano di essere degli indifferenti (nel senso di “diversi”), e giungono ad assumere relazioni di contraddizione, opposizione, privazione/possesso e correlazione. 39
La relazione di contraddizione consiste nel fatto che i due estremi (valore d’uso e valore di scambio) si escludono l’un l’altro sotto il medesimo rispetto in cui si implicano: ognuno dei due estremi si trova in un nesso di dipendenza/indipendenza dall’altro, e quindi sono contraddittori. D’altro canto, essi sono opposti in senso proprio, ed hanno un terzo (sostanza valorificante) comune, che fonda e spiega l’opposizione fra valore d’uso e valore di scambio. Gli estremi hanno inoltre una relazione di privazione/possesso, poiché «nemmeno un atomo» d’uso passa nel valore di scambio, e questo è privazione di quello e viceversa. Infine, essi sono vincolati da una relazione di correlazione, poiché A (forma relativa di valore) dice relativamente a B il proprio valore di scambio, B (forma di equivalente) è corpo materiale che fa da equivalente: sono dunque correlativi, sia perché membri di una medesima equazione sia perché l’equazione può essere invertita, cioè letta da destra verso sinistra, ed allora s’invertono i ruoli, che sono appunto correlativi.
In quest’analisi materialistica della realtà della merce vengono sintetizzate la diversità, l’identità e le forme (progressive) di opposizione (per contraddittorietà, per contrarietà, per privazione/possesso e per correlazione) già studiate da Aristotele, laddove lo strumento di questa sintesi è la radicalizzazione del divenire (storia): la tela, per esemplificare, non nasce come valore, in un periodo protostorico, ma diviene storicamente valore con lo sviluppo della divisione sociale del lavoro e delle forze produttive. Il divenire storico porta tutte le opposizioni a coesistere ed a manifestarsi nei rapporti sociali: «Mediante il rapporto di valore la forma naturale della merce B diventa forma di valore della merce A, ossia il corpo della merce B diventa lo specchio di valore della merce A». 40 Analoghi rapporti tra contraddizione, opposizione ed identità si manifestano in tutto ciò che ha storia e relazione, a cominciare dal soggetto della storia: l’uomo. «L’uomo Pietro si riferisce a se stesso come a uomo soltanto mediante la relazione all’uomo Paolo come proprio simile. Ma così anche Paolo in carne ed ossa, nella sua corporeità paolina, conta per lui come forma fenomenica del genus uomo». 41
B è quindi la forma di equivalente di una merce, «di conseguenza la forma della sua immediata scambiabilità con altra merce». 42 «La prima peculiarità che colpisce nella considerazione della forma di equivalente è la seguente: il valore d’uso diventa forma fenomenica del suo contrario, del valore». Tale divenire (di relazioni storicamente determinate) è estremamente radicale: «Si noti bene, questo quid pro quo si verifica per una merce B (abito o grano o ferro ecc.) soltanto all’interno del rapporto di valore nel quale una qualsiasi altra merce A (tela ecc.) entra con essa, e soltanto entro questa relazione». 43 Ed estremamente radicali sono tutte le opposizioni: un estremo (privazione/possesso) si converte nell’altro (possesso/privazione) o, se si preferisce, un estremo mantiene la sua naturalità (A) mentre l’altro se ne priva (B), ed in tal modo emerge l’identità del sostrato. Così, riducendo all’identità della sostanza valorificante, ossia al lavoro. «non è misterioso» che la fatica del tessitore sia equiparata a quella del sarto, giacché entrambe possiedono l’identica «qualità generale di lavoro umano». Ma anche questa identità fondamentale appare come un’opposizione per contrarietà: «Seconda peculiarità della forma di equivalente è che lavoro concreto [ad esempio, sartoria] diventa forma fenomenica del suo opposto, di lavoro astrattamente umano». Tutto questo è radicato ancora e sempre nella dinamica storicamente concreta della divisione sociale del lavoro, in virtù della quale i sarti o i calzolai che lavorano privatamente nelle botteghe giungono a scambiare socialmente i loro prodotti sul mercato: la «terza peculiarità della forma di equivalente [è] che lavoro privato diventi forma del suo opposto, diventi lavoro in forma immediatamente sociale». 44
7. Valore d’uso senza valore di scambio: realtà del passato e possibilità del futuro
Il complesso delle forme di valore relativo e di equivalente mostra che solo «parlando alla spiccia» 45 la merce è valore d’uso e valore di scambio, e che in realtà essa «è valore d’uso, ossia oggetto d’uso, e “valore”», e che il valore di scambio è l’espressione fenomenica di questa (più profonda) duplicità, Ciò pone ancora di più in risalto sia il carattere storico di questa realtà sia che essa consta di relazioni materiali: la merce, duplice in sé, «non possiede mai questa forma [fenomenica] se considerata isolatamente, ma sempre e soltanto nel rapporto di valore o di scambio con una seconda merce». 46 Il risultato dell’analisi è che una realtà contraddittoria (la merce è, sotto il medesimo tempo e rispetto, uso e valore) è stata compendiata in categorie che assumono in sé tale contraddizione, e la spiegano mediante le altre differenze (opposizione per contrarietà, per privazione/possesso ecc.), facendo poggiare tutto sul divenire: «L’opposizione interna fra valore d’uso e valore, rinchiusa nella merce, viene dunque rappresentata da una opposizione esterna, cioè dal rapporto fra due merci, nel quale la merce, il cui valore d’uso dev’essere espresso, viene espressa immediatamente solo come valore d’uso, e invece l’altra merce, in cui viene espresso valore, conta immediatamente solo come valore di scambio». 47
Riflettendo sulle tre peculiarità del rapporto tra forme di valore e di equivalente, si vede che il terzo (lavoro = sostanza valorificante) è sotteso ai due estremi: come valore spiega la prima peculiarità, come lavoro le altre due, sintetizzando nel divenire tutte le opposizioni. Ma il terzo non è solo un simmetrico sostrato che diviene; anzi, diviene perché è asimmetrico: infatti l’uso (qualità) sta sotto il valore (quantità) nel senso che ne è il presupposto: se non c’è corpo di merce, non c’è né valore né scambio; invece l’esistenza del valore d’uso senza il valore di scambio (famiglia, altre comunità ecc.) non solo è possibile, ma è stata storicamente reale a livello sociale esteso (comunismo primitivo) e, se la lotta contro lo sfruttamento sarà vittoriosa, potrà tornare a esserlo nel comunismo, quando a ognuno sarà dato secondo i suoi bisogni.
Del resto, tutte le relazioni del complesso della forma semplice di valore sono asimmetriche: la correlazione (lo scambio implica l’uso, ma non viceversa), la privazione/possesso (abolendo, nel comunismo, la forma di merce, cade la distribuzione di uso e scambio sui due estremi), l’ opposizione (abolendo la forma di merce, viene meno la polarità fra i due estremi) e la contraddizione (dipendenza e indipendenza della merce). Questa asimmetria è il vero fondamento del divenire, e indica che la storia entra in modo più radicale che mai nella definizione della realtà degli oggetti e delle relazioni. Se un estremo che può sussistere anche in sé accoglie poi il suo contrario, ciò avviene tramite uno svolgimento che trasforma le cose in ciò che per natura non sono: merci. Pertanto, se la ragione ultima dello sviluppo è l’asimmetria che si manifesta nella terza peculiarità, nel futuro potrà estinguersi anche il frutto storico di questa asimmetria: la forma di merce.
8. La logica del divenire nella fisica quantistica: oggettività, identità e cambiamento
L’analisi delle forme della contraddizione, sia pure limitata ad alcuni autori particolarmente rappresentativi e ad alcuni momenti fondamentali di tale problematica, non può omettere come termine essenziale di confronto, per la sua portata storica sia in senso scientifico che filosofico, la fisica quantistica. La relazione da cui occorre prendere le mosse nella disamina è quindi quella che intercede fra il soggetto e l’oggetto. La domanda, per così dire, protologica che va formulata secondo una direttrice di carattere realistico è allora la seguente: che cos’è l’oggetto?
L’oggetto è ciò che si trova di fronte al soggetto: ha quindi un’esistenza e delle proprietà indipendenti dal soggetto. Questa definizione non gode di un consenso universale ed è ben noto il dibattito sul concetto di oggettività. Di certo, oggi il problema è più complesso di quanto non apparisse quando, nella prima età moderna (per tacere dell’antichità e del medioevo), gli oggetti microscopici erano identificati con le particelle compatte, dure e prive di struttura della fisica meccanicistica. Combattendo, sulle orme di Berkeley, 48 questa concezione materialista, Heisenberg arriverà alla conclusione che «gli atomi e le particelle elementari non sono reali» e che «essi formano un mondo di potenzialità o di possibilità piuttosto che un mondo di cose o di avvenimenti». Sennonché, non potendo trincerarsi in un mondo di pure potenzialità per spiegare i fenomeni analizzati dalla fisica classica, fu costretto ad ammettere, secondo una logica piuttosto incoerente, che almeno gli oggetti macroscopici avessero un’esistenza oggettiva. 49 Considerare però il mondo macroscopico come reale e il microscopico come una semplice potenzialità, o addirittura come un’idealità matematica, significava avvolgersi nella stessa contraddizione contro cui, senza riuscire a superarla, urtò Platone. Sennonché, a partire dall’inizio del ventesimo secolo, riconoscendo che l’oggetto si è rivelato un concetto multiforme, l’analisi microfisica ha abbandonato la concezione meccanicista di oggetto fisico. Al dinamismo proprio degli oggetti è stata allora associata la relazione, anch’essa dinamica, tra oggetto e apparato di misura. La conseguenza è che, sottoposto a certi tipi di misurazione, l’oggetto si trasforma: elementi di realtà preesistenti scompaiono, mentre altri appaiono in séguito alla trasformazione di elementi caratterizzanti lo stato precedente alla misurazione.
L’interpretazione positivista delle relazioni tra potenziale e reale ha dominato la fisica nel corso del XX secolo, ma non è l’unica interpretazione possibile, come dimostra il lungo dibattito scientifico, epistemologico e sperimentale scandito dai Congressi Solvay, 50 al quale hanno partecipato i più eminenti scienziati e filosofi della nostra epoca. La microfisica ha costituito pertanto il punto di partenza di una nuova corrente soggettivistica, legata alla scuola di Copenaghen. 51 Dal punto di vista del realismo materialistico, alla tesi soggettivistica enunciata da questa corrente si deve tuttavia obiettare che l’indubbia specificità degli oggetti microfisici non implica la negazione dell’oggettività. In effetti, il mondo microfisico non è né il mondo delle relazioni matematiche (tesi del neopitagorismo) né il mondo delle forme di Heisenberg, bensì un mondo oggettivo, ontologicamente autonomo, descritto da formalismi astratti, che riflettono le sue proprietà. 52
Che cos’è allora un oggetto fisico? Il problema non è nuovo, ma è sempre attuale. E allora, se gli oggetti esistono, come si può definire la loro identità? Possono l’oggettività e la permanenza essere compatibili con il cambiamento? Eraclito postula l’unità dell’essere e del non-essere, considerando il divenire come il modo di esistere dell’essere; i pitagorici, al contrario, e soprattutto gli Eleati, hanno postulato l’esistenza dell’essere immobile, identico a se stesso, «ingenerato e imperituro». L’idea stessa di generazione e di distruzione è impensabile per Parmenide, che sostituisce il formale «è o non è» alla dialettica eraclitea che afferma «è e non è». 53 Sennonché, malgrado i suoi meriti storici e teoretici, il Logos di Eraclito è ancora una realtà dialettica vaga, un discorso che non trae origine dal concreto né vi ritorna, mentre solo una dialettica concreta, il cui modello è senza dubbio aristotelico, è in grado di cogliere la natura dinamica degli oggetti fisici. Non a caso, dopo Eraclito e Aristotele, è soprattutto Hegel a considerare il divenire, in quanto autosviluppo dell’Idea, come il modo di esistenza del reale. 54 La scienza si definisce pertanto come lo studio del movimento nel senso più ampio del termine (= cambiamento). Per il pensiero metafisico – dalla scuola eleatica agli odierni epistemologi formalisti -, l’esistenza si identifica invece con la permanenza. Essendo la permanenza considerata condizione necessaria per l’oggettività, questi epistemologi e fisici arrivano a negare l’oggettività delle particelle elementari, in quanto queste ultime in condizioni opportune si trasformano. Ciò che cambia non è reale! Tuttavia, la trasformazione è proprio il modo di esistere dell’essere, e di ciò forniscono ampie prove le analisi di Aristotele, di Hegel e di Marx, che sono state ricostruite nei paragrafi precedenti di questo elaborato. Il cambiamento nella fisica non è incompatibile con la conservazione, proprio come dimostrano le leggi di conservazione che si manifestano solo attraverso il cambiamento. 55
La trasformazione è la conseguenza delle interazioni tra gli oggetti fisici; questi interagiscono tra loro, si influenzano reciprocamente e mutano. Tuttavia, trasformazione non significa negazione di ciò che è. La negazione è concreta e possiede un contenuto determinato, che richiede uno studio specifico in linea con la specificità dell’oggetto. Questo studio deve basarsi su ciò che cambia e su ciò che si conserva, ma anche sui modi e sulle cause del cambiamento. D’altra parte, in natura non vi sono solo cambiamenti “spontanei”: l’intervento dello scienziato può modificare l’oggetto per mezzo degli apparati di ricerca. Come stabilire dunque l’oggettività dei dati e quindi della conoscenza?
9. “Contraria sunt complementaria”? 56
L’oggetto, come osserva Hegel, non è «in sé»; esso è, in generale, in relazione ad «un’altra cosa»: questo è vero in particolare per le entità microscopiche. Orbene, è legittimo parlare di esistenza e di proprietà «in sé» per gli enti spesso effimeri che sono le particelle elementari e, nella fattispecie, parlare di proprietà indipendentemente dagli apparati di misurazione? Bohr, analizzando la differenza tra oggetto classico e oggetto quantistico, avanzò l’ipotesi secondo la quale l’oggetto è inseparabile dall’apparato e dall’osservatore. 57 La non-separabilità, che contraddice il principio relativistico della trasmissione delle interazioni a velocità finita, costituì quindi la base per respingere l’oggettività delle particelle quantistiche. Secondo questa concezione è l’apparato a generare la grandezza misurata e, di conseguenza, la particella, identificata dal pensiero positivista con l’insieme delle grandezze in atto. Parlare dunque di particella come «entità in sé», è sconfinare nella metafisica. Dopodiché, Heisenberg, seguendo Bridgman, ha introdotto in fisica il postulato operazionista, secondo cui una grandezza non osservata non esiste. 58 Dalla formulazione metodologica di questo principio discende la conseguenza per cui una proposizione che conferisce al microsistema una proprietà è vera, se e soltanto se è possibile una verifica sperimentale della proposizione. Questa affermazione sembra formalmente corretta, ma la tesi che esprime è stata in séguito eretta a principio epistemologico e persino ontologico, ragione per cui le grandezze che non sono osservate non esistono. Elevato a criterio metodologico, tale principio conduce così a talune conclusioni perlomeno paradossali: una particella quantistica non può avere una posizione e un impulso definiti (se ha una velocità definita, non è in nessun luogo!), in quanto le due grandezze non sono simultaneamente osservabili. Altri fisici si sono spinti ancora più lontano, negando l’esistenza oggettiva delle particelle elementari, che vengono così ridotte all’insieme delle loro relazioni 59 e, con un ribaltamento ontologico, all’insieme delle formule matematiche che esprimono tali relazioni: l’oggetto in tal modo è “prodotto”, come ritenevano Pitagora e Platone, a partire dal concetto.
Un approccio alternativo al paradigma idealistico è invece il principio del realismo secondo cui l’oggetto esiste indipendentemente dal soggetto. 60 Esiste, cioè, una certa “sostanza” espressa in forma di grandezze fisiche (massa, carica, spin, ecc.), portatrice di proprietà oggettive. La “sostanza” si manifesta attraverso i fenomeni, che sono l’esteriorizzazione e il rivestimento di strutture e relazioni nascoste ed essenziali. Ogni oggetto si presenta quindi sotto una data forma, perché si tratta di un contenuto che esiste solo sotto quella forma. Hegel asseriva che il contenuto porta la sua forma in se stesso e che solo grazie ad essa è un contenuto vivo e animato. 61 Sennonché da questo tutto unitario viene isolato uno solo dei due aspetti indissolubili per proclamare la forma unica “realtà” ontologicamente legittima. Oggi non si parla più di “sostanza”, almeno nel campo delle scienze. Si parla però di elementi di realtà (Einstein), di grandezze e di relazioni come parti costituenti di una realtà indipendente dal soggetto. Questa realtà è costituita da parti infinitesime, quasi nulle. Le particelle che sono il “quasi-nulla”, costituiscono il mondo microscopico e il mondo su scala cosmica, ma, qualunque sia la differenza di scala o qualitativa tra il “micro” e il “macro”, nulla può giustificare la dicotomia tra i due domini del reale, nulla può giustificare il soggettivismo che presume di essere fondato sulle particolarità del mondo microfisico.
10. La legge generale dello sviluppo ineguale
Ogni oggetto possiede una certa autonomia e appare spesso omogeneo, senza strutture e contraddizioni. Tuttavia l’identità è un’illusione, in quanto ogni oggetto è eterogeneo e contraddittorio. Strutture e contraddizioni si manifestano in condizioni opportune e caratterizzano anche le particelle cosiddette elementari, considerate un tempo come i costituenti “ultimi” della materia. Le particelle appaiono oggi delle entità complesse e manifestano alle alte energie un dinamismo multiforme, espressione della loro eterogeneità. Così, a questo livello di organizzazione del reale si pone nuovamente il grande problema filosofico delle relazioni tra la parte e il tutto. Da ciò consegue che ogni oggetto possiede un dinamismo interno che si oppone dialetticamente alle condizioni esterne. L’oggetto si configura come una totalità all’interno della quale autodeterminazione e determinazione si oppongono e si completano, talché l’una non può esistere senza il suo opposto.
Ma l’autonomia è relativa e la contraddizione tra le determinazioni interne e le determinazioni esterne scompare nell’azione reciproca; questa però non dà luogo né alla simmetria né all’equivalenza né all’equilibrio. Esiste sempre una asimmetria, uno squilibrio, una tendenza dominante. La differenziazione e il cambiamento si affermano attraverso i processi irreversibili che si realizzano in natura. In tal senso, cambiamento e permanenza sono categorie dialetticamente opposte: benché gli oggetti sembrino avere un’identità sfuggente (sono e nel contempo non sono), si può andare oltre la nozione di un generico cambiamento di tipo eracliteo, salvaguardandone il nucleo dialettico. L’oggetto cambia in certe condizioni concrete e in un senso ben determinato proprio per il gioco interno/esterno, e se si potesse immaginare una funzione che rappresentasse l’oggetto con un numero enorme di variabili, ci sarebbe in ogni istante un certo numero di derivate parziali diverse da zero.
D’altro canto, durante il cambiamento un certo numero di grandezze si conserva, così come si conserva la stessa forma dell’oggetto. Le leggi di conservazione esprimono sia la permanenza quantitativa durante il cambiamento qualitativo sia la permanenza di qualità o la loro scomparsa nella fusione dei contrari sia la loro ricomparsa in condizioni favorevoli. L’oggetto che cambia si autonomizza rispetto all’ambiente, così come alcune sue parti si autonomizzano rispetto ad altre. Ciò che si pone si oppone, di conseguenza, a un’altra cosa: diviene una nuova totalità che possiede un’autonomia relativa e un nuovo nucleo di organizzazione e di differenziazione. Le sue strutture subiscono determinazioni esterne e la sua presenza modifica, in senso inverso, l’ambiente circostante.
È quindi evidente che le leggi di conservazione e quelle di cambiamento non sono in genere opposte, ma si condizionano a vicenda. Come nota Hegel, «la negazione, in quanto è negazione determinata, ha un contenuto». 62 Il cambiamento e la conservazione sono tra loro connessi; in senso inverso, anche la riproduzione di un oggetto è una riproduzione differenziata: la natura non fa mai due volte la stessa cosa. Nonostante l’affermazione contraria, non vi sono serie di fenomeni posti su una circonferenza, ma processi evolutivi che descrivono una spirale, ossia un movimento con un senso determinato dal tempo. In natura non esiste l’“eterno ritorno”, tanto esaltato dalle filosofie mistiche: in altri termini, non vi è ritorno al punto di partenza, poiché ogni ritorno è allo stesso tempo un passo in avanti (o indietro). Lo sviluppo ineguale non è solo una legge economica; è una legge generale che si verifica in natura con un’evidenza spesso spettacolare (nelle specie animali o vegetali, ad esempio). Ogni ripetizione è allo stesso tempo un progresso, sia pure lento o momentaneamente impercettibile, cioè una ripetizione differenziata. Da questo punto di vista, per valutare le differenze epistemologiche intervenute nel corso della storia del pensiero scientifico occorre considerare che nel passato le scienze erano descrittive, nel periodo della loro maturità hanno cercato di spiegare ciò che è, oggi si sforzano di descrivere ciò che si fa nel tempo. Pertanto, le leggi integrali che descrivono degli stati vengono sempre più sostituite da leggi differenziali che descrivono dei processi.
11. Interazione e determinazione
L’oggetto si trasforma dunque attraverso l’azione reciproca, anche se spesso la teoria di tale trasformazione è stata ridotta a una concezione quantitativa del cambiamento ed il progresso è stato concepito come un’accumulazione continua. Secondo il punto di vista opposto, il cambiamento è invece segnato da interruzioni e rotture, e il nuovo risulta essere una pura negazione dell’antico. 63 La trasformazione è invece un ‘mixtum compositum’ di continuità e discontinuità: continuità in quanto ci sono forme e grandezze che si conservano ed il cambiamento avviene nel tempo; discontinuità perché ci sono forme e grandezze che scompaiono e altre che si realizzano come negazioni di elementi reali precedenti. In tal modo, alla fine del processo il nuovo appare come un oggetto reale, prodotto di una trasformazione che non è istantanea ma che possiede uno spessore temporale.
Lo sviluppo delle scienze ha reso possibile la scoperta delle forme concrete delle interazioni fisiche, sicché la fisica attuale conosce finora quattro tipi di interazioni fondamentali. 64 Esse rappresentano dei fattori materiali e sono determinate dalle strutture dei corpi e dalle loro reciproche interazioni; gli oggetti interagiscono per mezzo dei campi fisici e si determinano a vicenda. Si conoscono quindi alcune cause dei fenomeni e si comprende meglio il contenuto fisico del principio di causalità. Il principio “esistono cause per i fenomeni” è infatti un principio genetico che stabilisce che certe cause determinano i fenomeni; si definisce determinismo la determinazione dell’effetto da parte delle cause e la forma di questa determinazione (meccanicistica, dinamica, statistica). Nell’ottica del realismo scientifico, le interazioni sono oggettive, così come la causalità e il determinismo: tali categorie sono, di conseguenza, ontologiche e non soltanto gnoseologiche, poiché riguardano l’oggetto e non solo i nostri schemi teorici relativi all’oggetto.
La causalità possiede dunque uno statuto di categoria ontologica. Dire che A produce B significa dire che esistono processi fisici attraverso i quali si realizza questa relazione genetica. In tal senso, si può giustificare l’esistenza non solo del determinismo meccanicistico e dinamico (elettromagnetico e gravitazionale), ma anche del determinismo statistico-quantistico: ciò significa che, a partire dalle ‘stesse’ condizioni, si generano numerosi effetti diversi, statisticamente distribuiti. Si può inoltre isolare – almeno in via teorica – un nesso causale e studiare quindi questo tipo di causalità “semplice”: la causalità lineare. Ma la realtà è complessa: i nessi causali s’intrecciano, si producono cambiamenti qualitativi, eventi necessari ed eventi aleatori, processi in cui tutte queste categorie operano attraverso un movimento globale: il divenire. E la causalità lineare è solo uno dei momenti del divenire.
La corrente positivistica ha definito la legge una relazione comoda, un’utile convenzione, una formula che stabilisce un certo ordine nei dati sensoriali, una relazione formale tra i dati ecc. Ma, come dice Popper, «ciò che cerchiamo nella scienza, sono delle teorie vere, delle affermazioni vere, delle descrizioni vere di certe proprietà strutturali del mondo in cui viviamo». 65 La legge si può allora definire come una relazione interna e necessaria tra due fenomeni; così concepita, essa possiede uno statuto non soltanto gnoseologico, ma anche ontologico. Non ci rivela soltanto «qualcosa» sull’esperienza (sensoriale o relativa agli apparati scientifici), ma esprime e formalizza delle proprietà, delle relazioni e delle trasformazioni. Nelle prime leggi della fisica la causa era legata in modo “semplice” all’effetto: quale la causa, tale l’effetto. Le leggi dell’elettromagnetismo e della relatività si accordano con questo tipo semplice di determinismo. D’altra parte, la fisica statistica classica in quanto tale non ha contestato la causalità e il determinismo: tener conto di parametri nascosti classici potrebbe – in linea di principio – consentire una descrizione “determinista” del movimento, in cui il caso classico non viene considerato né acausale né indeterminato, ma semmai riducibile al tipo di determinazione meccanicistica. La scuola di Copenhagen, al contrario, afferma che le leggi probabilistiche della meccanica quantistica non sono riducibili a leggi dinamiche, spesso ritenendole non solo indeterministiche ma acausali.
La scuola realista, i cui principali rappresentanti sono Einstein e de Broglie, ha cercato di superare tali irriducibili contrapposizioni. Dal canto suo, il pensiero dialettico si pone uno scopo più ampio: dialettizzare le opposizioni della logica formale, tra cui la contraddizione caso/necessità. Se si considera il caso come la negazione dialettica della necessità, allora esso diventa necessario da un altro punto di vista: quello di una descrizione più fine della realtà. 66 D’altra parte, l’interazione, cioè la connessione universale, conduce a diversi tipi di determinazione: le leggi dinamiche esprimono situazioni relativamente semplici, casi in fondo idealizzati, mentre le leggi statistiche esprimono situazioni più complesse, cioè più vicine alla realtà. Di conseguenza, conviene considerare un tipo di legge più generale, che inglobi al limite, come caso particolare (probabilità = 1), la legge dinamica o meccanicistica.
12. Importanza e limiti del principio di identità
Il problema della connessione e della determinazione reciproca degli oggetti fisici è uno dei più antichi e dei più importanti della storia della filosofia e, nella forma problematica della causalità e del determinismo, è legato allo sviluppo delle scienze moderne. Tuttavia, non è difficile constatare che il problema non è stato sempre affrontato né a livello epistemologico né a livello scientifico con una neutra oggettività. I pregiudizi ideologici e la “filosofia spontanea” di cui ogni scienziato è portatore hanno spesso condotto a interpretazioni unilaterali, anche ingenue. 67 Hegel asserisce giustamente che «la verità è l’accordo del pensiero con l’oggetto; e al fine di produrre questo accordo (poiché esso non sussiste in sé e per sé) bisogna che il pensiero si adatti e si conformi all’oggetto». 68 Se esiste una logica della scienza, non deve essere un letto di Procuste, ma si deve adattare alla “logica” dell’oggetto; deve adattare le sue categorie agli imperativi dei dati oggettivi, invece di forzare i fatti affinché rientrino nelle forme inflessibili che corrispondono all’identità, ma che non possono cogliere la differenza, l’opposizione, la contraddizione e il cambiamento.
Il principio di identità, come sottolineava Engels, è un principio fondamentale; tuttavia, «l’identità astratta… è sufficiente solo nell’uso spicciolo quotidiano, là dove vengono presi in considerazione rapporti limitati o brevi intervalli di tempo». 69 Il principio si rivela invece insufficiente non appena ci si proponga di studiare strutture fini e variabili, come quelle scoperte dalle scienze moderne. In questo caso le categorie della logica formale, per dirla con Hegel, non si conformano all’oggetto e il pensiero deve forgiarne altre, conformi alla natura delle cose. 70 Le contraddizioni irriducibili possono allora presentarsi, come si è visto sia in Aristotele che in Marx, come poli o momenti opposti, coppie dialettiche che si determinano reciprocamente e i cui estremi passano l’uno nell’altro in condizioni determinate. 71 La logica formale è la logica dell’identità: un numero elevato di leggi naturali è conforme a questa logica, che si rivela efficace non soltanto nel mondo quotidiano, ma anche nei settori scientifici in cui si studiano situazioni stazionarie. Ciò nondimeno, la logica dell’identità è uno dei momenti della logica della differenza e della contraddizione, cioè della logica dialettica, che diventa indispensabile nel trattamento dei processi. Il senso comune ha sempre contrapposto la logica formale alla logica dialettica. In realtà, si deve riconoscere che stabilire una opposizione di questo tipo fra queste due espressioni del pensiero è una forzatura se non un artificio, in quanto, come si è visto esaminando le forme della contraddizione in Aristotele, Hegel e Marx e la logica del divenire nella fisica quantistica, tali espressioni costituiscono due momenti diversi di una medesima indagine, dove ciascuno ha il suo ruolo in una totalità che comprende entrambi con le rispettive specificità e con il comune obiettivo, ad un tempo rigoroso, determinato e verificabile, della conoscenza della realtà.7