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Mutamenti dello scenario geopolitico e geoeconomico

Giuseppe Molinari intervista Andrea Fumagalli

NHDK 73 A61 600x400Con l’intervista a Raffaele Sciortino abbiamo avviato una riflessione sui mutamenti degli scenari geopolitici e geoeconomici mondiali che si stanno determinando. L’interesse è quello di ricomprendere le mosse di breve periodo in un piano di lungo corso e inscrivere le tattiche adoperate dagli attori globali in una strategia complessiva. La partita che si sta giocando è molto più profonda di quello che può sembrare ad un occhio non attento: ad essere in palio, infatti, sono le stesse gerarchie capitalistiche. Questa volta ne parliamo con Andrea Fumagalli, a partire dai passaggi che si sono definiti negli ultimi tempi.

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Che scenario si sta dando sul piano mondiale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico? Pensi che il dominio economico e finanziario statunitense stia giungendo al termine? E’ possibile immaginare un processo di “de-dollarizzazione” considerato anche il sempre maggior peso che sta assumendo il renmimbi cinese?

Io credo che siamo di fronte ad una fase di passaggio nella definizione degli equilibri geoeconomici e geopolitici. Ma, oggi più che mai, a mutare sono i secondi, visto che la messa in discussione delle gerarchie geoeconomiche è già avvenuta nel corso degli ultimi 15 anni, con il cambiamento dei rapporti economici tra Occidente (impersonato soprattutto dagli U.S.A. dopo il grande sviluppo tecnologico della Net Economy e della Silicon Valley) ed Oriente (essenzialmente Cina ed India). Da questo punto di vista, oggi possiamo dire che l’economia cinese ha una dinamica sicuramente più efficiente rispetto a quella statunitense, anche per via delle caratteristiche del sistema cinese, che utilizza un misto di elementi di modernità e di antichità. La modernità sta nella capacità di assumere la leadership nella dinamica tecnologica: le statistiche dell’Ocse ci rivelano come, sin dal 2007/2008, la Cina sia il paese che investe di più nel mondo in R&S e come, dal 2010/2011, l’economia cinese sia trainata dai settori a più alto impiego di tecnologia.

Il settore hi-tech in Cina pesa molto di più che negli Stati Uniti, per intenderci. L’elemento che apparentemente sembra non moderno, ma lo è in quanto costante della dinamica capitalistica, è la pervasività e la penetrazione dell’economia cinese nel mondo attraverso il controllo delle rotte di trasporto. La logistica oggi ha un ruolo determinante nei processi di valorizzazione delle filiere produttive e la Cina ha sviluppato una forte capacità di penetrazione per fini neo-coloniali – ad essere determinante, oggi, non è tanto il controllo del territorio ma il controllo delle rotte, soprattutto dell’asse australe, ovvero Africa e Sudamerica. Per fare un esempio: il ciclo di produzione della carta, deriva dall’abbattimento delle piante in Amazzonia, il legno, poi, viene caricato nei principali porti dell’attività estrattiva dell’Amazzonia che è Vitoria e, come ci descrive Sergio Bologna, viene trasportato in grandi navi cargo in Cina, dove viene prodotta la carta che sarà poi venduta in Europa e negli Stati Uniti. Il ciclo è abbastanza complesso e sembra uno spreco ma dipende esclusivamente dal controllo delle rotte.

Rimane invece aperto il controllo dei flussi finanziari. Se l’economia cinese controlla le rotte di trasporto e domina nel campo tecnologico - quindi ha il predominio nella cosiddetta “economia reale”, ammesso che oggi sia possibile applicare una siffatta definizione -, la parte finanziaria – ovvero la produzione di merci immateriali, essenzialmente Big Data etc. - è ancora sottoposta all’egemonia statunitense. Basti un esempio: sono americane le cosiddette “Big Five” (Apple, Alphabet, Microsoft, Amazon, Facebook), ovvero le aziende maggiormente capitalizzate, con un valore in borsa di oltre 3 mila miliardi di dollari e incrementi di plusvalenze e di utili tra il 20% e il 35%. Sono aziende che godono di una salute invidiabile dal punto di vista capitalistico, per la capacità di valorizzazione e di profittabilità - dove il profitto è considerato come la crescita del valore del capitale sociale dell’azienda: un profitto finanziarizzato in pratica.

La Cina, però, è in grado di aumentare il suo peso per quanto riguarda la gestione dei flussi finanziari: da un lato perché aumentano le riserve valutarie di yuan nelle banche occidentali – come ha fatto la Bundesbank nello scorso gennaio -, dall’altra parte per la gestione del debito estero. La Cina, come la Germania, ha un elevato surplus commerciale, mentre l’economia statunitense è strutturalmente in deficit nella bilancia commerciale: c’è uno squilibrio nel saldo della bilancia dei pagamenti favorevole alla Cina, soprattutto nel saldo delle partite correnti, che viene coperto con l’avanzo degli aumenti di capitale statunitensi. Gli U.S.A., infatti, sono in grado di garantire dei rendimenti abbastanza elevati in termini di plusvalenze – da qui la necessità delle politiche di quantitative easing, per sostenere i mercati finanziari – , fattore che determina il rapporto di dipendenza debitoria nei confronti della stessa Cina e della Germania, fattore da tenere presente perché ha a che fare con la questione dei dazi.

In un G2O di qualche anno fa è stata proposta la costituzione di una moneta di riferimento che fosse costituita da un paniere che comprende anche lo yuan, idea in un certo senso simile all’idea del Bancor di Keynes e che avrebbe permesso l’entrata a piene mani della Cina nei mercati finanziari. Tentativo che fu rigettato, anche dalla BCE. Se dovesse riproporsi una nuova crisi finanziaria – ad oggi la dinamica sui mercati è tale da preconfigurare una bolla pronta a scoppiare - c’è possibilità che questa governance interdipendente dei mercati finanziari possa diventare necessaria. Ma siamo nel campo delle ipotesi. Questo per rispondere alla tua domanda sulla de-dollarizzazione.

Quindi abbiamo una situazione per cui l’aspetto geoeconomico si sta ridefinendo su basi diverse rispetto alla fine della Guerra Fredda: Stati Uniti ed Europa, soprattutto l’Inghilterra, hanno perso il controllo tecnologico e fanno fatica a mantenere il controllo finanziario. Da qui nasce una serie di tensioni sul lato geopolitico, all’interno del quale penso si possa leggere la guerra commerciale. Se andiamo a parlare di questo, il discorso può essere fatto su due livelli. Sul piano geopolitico mi sembra di ravvedere la ridefinizione di un rapporto Nord – Sud ma non sotto la forma classica sviluppo-sottosviluppo, come descrivevano Wallerstein o Arrighi: si è creata una “cintura australe” che lega Sudamerica - in particolar modo il Brasile - Sud Africa, India e Cina, aggregazione che si è potenziata negli ultimi dieci anni intorno ad alcune contraddizioni, su delle politiche sviluppiste molto forti; in Sudafrica, India e in Cina queste sono state controllate da una governance politica, cosa non avvenuta in America Latina, soprattutto in Argentina e Brasile – tali politiche di forte incremento della produttività del reddito e di monocolture volte all’esportazione hanno avuto un impatto decisivo sulla politica interna, determinando lo scenario odierno che conosciamo.

Molti analisti credevano che la Russia potesse essere ricompresa in questa cintura australe – per questo motivo si è parlato molto di “BRICS”. In effetti essa nei primi anni del secolo ha avuto una dinamica simile agli altri paesi: un’economia trainata dal prezzo del petrolio e politiche di espansione e controllo delle linee di commercio, soprattutto per quello che riguarda il gas.

Ultimamente la Russia si è un po’ staccata: possiamo dire che i BRICS si sono trasformati in BICS e, negli ultimi anni, mi pare di ravvedere una convergenza di interessi con l’America di Trump e la Gran Bretagna della Brexit, ipotesi tuttavia da verificare. Il rapporto tra U.S.A. e Putin sembra conflittuale ma, secondo me, i due paesi hanno interessi convergenti. E questo asse nordico è essenzialmente in funzione anticinese: c’è perciò una nuova conflittualità intercapitalistica che non riguarda più sviluppo e sottosviluppo – in parte è ancora così però questo processo di rapina, di devastazione e saccheggio è guidato dai paesi dell’asse australe, più dalla Cina e dal Brasile che dalle vecchie potenze coloniali, soprattutto in Africa; anche se multinazionali come la Shell in Nigeria non hanno smesso di fare quello che erano abituati a fare.

I rapporti, dunque, si sono modificati e mi sembra che la nuova configurazione si stia definendo in questi termini, con connotazioni nuove rispetto allo scenario post coloniale.

 

Qual è il ruolo dell’Unione Europea in questo scenario? La mancanza di una coordinazione interna, di una minima condivisione di fini, di una progettualità di medio e lungo periodo la stringono tra i poli in competizione sul piano globale. Di più: sembra sia schiacciata su problemi interni, nel trovare una quadra tra gli interessi tedeschi e le richieste dei paesi mediterranei. Si è lungamente parlato di Europa a due velocità, probabilmente conseguenza e non causa del cattivo funzionamento dell’Euro. Come pensi si possa evolvere la situazione internamente, anche per quanto riguarda il futuro della moneta unica?

In questo scenario l’Unione europea gioca il classico ruolo di vaso di coccio all’interno dei vasi di ferro. La costruzione dell’Europa economica, basata solo sulla moneta unica e non su un processo di unificazione di politica fiscale, tecnologica, valutaria etc., ha ridotto la possibilità di vederla protagonista nel contesto globale, anche se essa rappresenta un mercato di 300 milioni di persone, in maniera simile agli U.S.A. E rischia di essere stritolata in questa morsa, per questo ci sono una serie di fughe verso contesti extraeuropei: da una parte chi strizza l’occhio a Trump, come l’Inghilterra della Brexit, dall’altra chi guarda a Putin, pensiamo al gruppo di Visegrad. E credo che anche l’esito del G7 tenuto in Canada confermi questa nuova riconfigurazione, con il consolidamento di una nuova situazione geoeconomica ed una potenziale dinamica geopolitica ancora da definire: per questo motivo il G7 non può essere più la governance capace di gestire questi processi. Penso sia significativa la richiesta di Trump di riaccogliere Putin nel gruppo delle grandi potenze. E’ notevole considerare il silenzio della Gran Bretagna nell’assise, mentre Macron e la Merkel sono stati i grandi protagonisti. Questo silenzio fa pensare che ci siano in atto dei contatti: mi sembra che il caso Skripal sia uno specchietto per le allodole per nascondere quello che sta realmente succedendo.

Ritornando all’Euro: il modo in cui è stata costruita la moneta unica grida vendetta. La moneta unica è l’ultimo passaggio di omogeneizzazione dei territori e non viceversa. Un tempo l’omogeneizzazione era militare, oggi è economica – intendendo, con questo, una sorta di uniformità nell’ organizzazione produttiva, nelle politiche del lavoro, nel fisco.

Questo è stato fatto per scelte politiche ben precise: stabilire un rapporto capitale – lavoro favorevole al primo. L’euro ha avuto una funzione anti-lavoro e da questo punto di vista ha funzionato perfettamente. Anzi meglio: quando è comparsa la crisi finanziaria, le politiche di austerity sono state perfette per ricalibrare ancor di più il rapporto in funzione anti-lavoro. Quindi il fatto che l’Europa si muova a più velocità è un dato strutturale. Quindi, secondo me, ci possono essere tre opzioni: la prima è una regolazione dall’alto, che prenda atto della mancata omogeneità dell’euro e che costituisce due monete. Questo può portare anche ad una vera e propria suddivisione territoriale, cosa che i mercati non vogliono perché preferiscono un’area instabile su cui sviluppare capacità speculative.

La seconda opzione può prevedere il distacco dall’Ue di alcuni paesi. Questo può avvenire in due modi: può farlo la Germania oppure quei paesi che stanno a Nord. Questo implicherebbe un’implosione dell’Europa, su tendenze corporative, nazionalistiche e così via.

La terza possibilità, anche se non si pone nel breve periodo a differenza delle altre due, è quella di creare unione economica a partire da politiche fiscali, di welfare e lavoro condivise.

La Germania, paradossalmente, spinge sugli accordi di carattere fiscale perché teme l’implosione: gli altri paesi, infatti, sono utili alla governance tedesca perché è da essi che proviene il loro surplus commerciale. La più contraria a questa ipotesi è stata la Francia di Sarkozy, per fattori sostanzialmente nazionalistici. E’ la soluzione a cui dovrebbero guardare i paesi mediterranei: degli spazi si sono aperti con l’affaire greco, però la Grecia è stata abbandonata dagli altri possibili alleati. Proprio in quel caso si è dimostrata l’incapacità regolativa dell’Europa, si è comprovato come essa non riesca ad avere un ruolo autonomo.

 

Anche la Gran Bretagna si trova in difficoltà: non è facile da gestire l’uscita dall’Ue per una serie di fattori, soprattutto in questo momento...

Sta montando una consapevolezza sul suo ruolo, perché in questo asse Nord-Sud rischia di fare il vaso di coccio. Inoltre i legami con l’Ue sono particolarmente potenti. Il voto della Brexit poi ha avuto queste caratteristiche: oligarchie finanziarie per il no, ceti popolari pro-Brexit, perché pensano che l’uscita possa garantire migliori condizioni. Io ho seri dubbi su questo perché l’euro è solo uno strumento, e come tale è stato usato in funzione antilavoro: la reale questione da porre è chi usa l’euro, non l’euro in sé. Riesci a mettere in discussione i mercati finanziari con l’uscita dall’euro? Ho dubbi a riguardo.

 

La paventata guerra commerciale, che si è già parzialmente ridefinita rispetto ai proclami iniziali di Trump, che finalità ha? Pensi che i dazi possano essere estesi ad altri settori, riconfigurando così l’ intera economia mondiale, oppure hanno una finalità di breve periodo?

I dazi sono atti di guerriglia all’interno di una guerra più vasta: non deve sorprenderci il fatto che gli U.S.A. hanno iniziato questa campagna protezionista – che appartiene ad una certa cultura economica di Trump e dei conservatori, sullo sviluppo di un’ideologia patriottista, della grandeur americana – rivolgendosi soprattutto nei confronti della Cina che, insieme all’Europa, è il maggior esportatore di acciaio.

La Cina, però, ha fatto capire che tale mossa sarebbe stata sfavorevole agli U.S.A, anche perché possiede degli strumenti di convincimento molto forti, a differenza dell’Europa. Non è un caso, perciò, che i dazi siano sospesi per la Cina mentre sono già operativi per Europa, Canada e Messico, con la minaccia incipiente di estenderli al mercato automobilistico, settore già notevolmente colpito dai dazi sull’acciaio. E questo dimostra il tentativo di Trump di piegare ai suoi interessi la Germania che ha, come dicevamo, un surplus nel bilancio delle partite correnti che viene visto male dagli U.S.A – surplus che, tra l’altro, dovrebbe essere sanzionato dal patto di stabilità europeo. Finora Trump continua a minacciare l’imposizione di dazi alla Cina (lo ha fatto solo qualche giorno fa) ma dalla minaccia all’effettiva operativa il passo non è breve.

L’imposizione di dazi è una politica di breve periodo, ha finalità politiche e non economiche e il WTO dovrebbe intervenire per sospenderli. Cosa che conviene anche agli U.S.A. perché, nonostante l’economia americana si trovi in una congiuntura positiva, a lungo andare essi possono essere deleteri.

Uno dei rischi in cui poteva incorrere Trump è quello di una conflittualità interna tra capitalismo corporativo e capitalismo globale – es. le aziende della Silicon Valley. Sicuramente è stato intelligente nella diminuzione della Corporate Tax e, soprattutto, nella sanatoria per il rientro dei fondi esteri. Ciò ha permesso un’immissione di capitali sui mercati finanziari americani - che hanno portato ad un aumento delle plusvalenze tramite operazioni di “buy-back” – ed ha rappresentato una sorta di compromesso: voi non criticate le politiche corporative, in cambio avete un aiuto dal punto di vista fiscale. Cosa che in parte ha fatto da contraltare alla riduzione delle politiche di alleggerimento quantitativo della Fed.

 

Questa osservazione ci permette di passare ad un’altra domanda: che ruolo giocano le banche centrali in questo contesto? Che fini stanno perseguendo?

Il quantitative easing ha svolto un ruolo fondamentale: quello di assecondare la dinamiche speculative delle oligarchie finanziarie. Di fatto, oggi, nonostante le apparenze, il compito delle banche centrali non è più quello di fare politica monetaria, ma di smussare le dinamiche speculative nei mercati finanziari. Per citare un paradosso europeo: la BCE è autonoma dal potere politico mentre è ancillare rispetto al potere finanziario, quindi l’autonomia delle banche centrali è falsa.

E’ in quest’ottica che la BCE ha preso la decisione di ridurre il quantitative easing sino a dichiarare la sua fine a partire dal prossimo gennaio 2019. Il motivo sta nel fatto che oggi la dinamica finanziaria è in grado di muoversi in piena autonomia, come il trend degli indici finanziari ben evidenzia. Anzi il rischio è che si crei un eccesso di liquidità, come nel caso del mercato americano

La situazione comunque rimane ancora molto incerta, di fronte nuovi scenari che si possono arire sul piano dei conflitti intercapitalistici tra asse Nord e asse Sud del mondo. E gli economisti sono i meno indicati a fare previsioni, visto che raramente le indovinano…

 

Proviamo in chiusura a tirare le fila del discorso: è davvero possibile parlare di fine della globalizzazione, di un possibile “ritorno indietro”?

Innanzitutto diciamo che il sistema capitalistico tende di per sé alla globalizzazione. Ci sono dei meccanismi di compensazione che possono svilupparsi: la globalizzazione crea instabilità, perciò abbiamo avuto delle fasi di ritorno nella crescente spinta che determina. Oggi sono molto più delimitate del passato perché il livello tecnologico e l’interdipendenza finanza-economia non permette facilmente simili ritorni a politiche corporative, che possono avvenire solo sull’economia reale. Ma ciò è incompatibile con il processo di liberalizzazione dei mercati finanziari.

Quindi possiamo dire che la globalizzazione economico finanziaria ha raggiunto i suoi obiettivi perché la Terra è finita: nel momento stesso in cui la spinta rallenta per raggiunti limiti massimi, c’è un riassestamento dal punto di vista politico. Nello scenario di completa conquista di maggiori mercati in un contesto di concentrazione sempre maggiore, nasce la necessità di definire una nuova governance mondiale che sembra essere questo rapporto Nord - Sud.

Comments

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Ernesto Rossi
Monday, 09 July 2018 16:02
Ottimo.
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