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Poco prima che sia troppo tardi

di Pierluigi Fagan

Recensione del libro di K. Mahbubani “Has the West Lost it? A provocation.” Penguin, London, 2018

9788815239983 0 0 814 75Kishore Mahbubani, nato a Singapore ma di origine indiana, laureato in filosofia,  è stato funzionario del Ministero degli Esteri, poi diplomatico rappresentante il suo paese all’ONU per 10 anni e per due addirittura presidente del Consiglio di Sicurezza. Professore di politica a Singapore ma anche membro del Centro per gli affari internazionali di Harvard e del Consiglio di Amministrazione della Bocconi. Accanto a questa rilevante carriera, ha sviluppato un pari percorso di pensatore di rilievo geopolitico e culturale, ospitato nel tempo da Foreign Affairs e Foreign Policy, American Interest e Time, Newsweek e Financial Times, ripetutamente premiato come uno degli intellettuali più influenti del mondo e conosciuto nel dibattito pubblico per un libro -The Great Convergence- che si potrebbe dire il seguito del ben famoso -La Grande Divergenza- di Kenneth Pomeranz[1].

Ci siamo soffermati su i suoi  aspetti biografici, primo per familiarizzare con quello che è uno dei più rilevanti pensatori asiatici (politico, geopolitico, naturalmente ben formato su gli aspetti economico-finanziari ma di origine “culturale” data la sua laurea in filosofia ma anche successivi approfondimenti in psicologia che gli danno una certa lucidità nel trattare le “mentalità”), secondo perché pur appartenendo alla élite mondiali lo fa ribadendo il suo specifico d’origine e le caratteristiche ed interessi specifici del quadrante asiatico (che vede imperniato sulla triplice Cina, India, Indonesia con ovviamente Singapore come perno), terzo perché risulterà interessante mettere cotanta sostanza da peso massimo del primo girone intellettuale del mondialismo (non nella versione One World global-liberal-anglosassone ma in quella più oggettiva della stretta interdipendenza e convivenza di tanti mondi su un unico pianeta) in rapporto alla tesi che andremo a riassumere.

Se non si conoscesse la sua bio, leggendo il libricino di cui a questa recensione, Mahbubani potrebbe esser scambiato per uno scalmanato anti-imperialista ipercritico dell’hybris americana e del relativo servilismo europeo. E’ cioè interessante notare che il suo punto di vista non ha base in una ideologia ma nell’ interesse del suo paese e della sua area geo-storica di riferimento. Non è una coscienza infelice occidentale marxista o anti-colonialista che usa gli Altri per criticare il potere dominante del proprio sistema, è la voce autonoma ed indipendente che ci parla come Altro in prima persona. Altresì, Mahbubani risulta un po’ più spesso e problematico del suo conterraneo Parag Khanna di cui ci siamo più volte occupati, lì dove la formazione filosofica si fa sentire dando profondità all’altrimenti stucchevole global-entusiasmo del più giovane geopolitico delle reti della città –Stato che abbiamo in precedenza recensito qui.

Il titolo dell’agile “Has the West Lost it? A provocation.” ha l’aggiunta di “A provocation” che si spiega col fatto che il singaporiano, pur sempre membro delle élite mondiali, ha amici stimati e benvoluti in Occidente, ma almeno dove non specifica diversamente, “Occidente” s’intende United States of America. Poiché Joseph Nye jr gli ha dedicato questa recensione un po’ piccata, per molti versi, si potrebbe intendere il pamphlet come una risposta al precedente “Fine del secolo americano?” (il Mulino 2016) a cui l’americano già inventore del “soft power” (inventore di seconda mano, l’inventore primo fu Gramsci col concetto di egemonia), rispondeva con un “No” tanto stentoreo, quanto problematico da sostenere. La sua, quindi  è una perorazione senza reticenze, ma affettuosa.

La tesi è preso detta: con la fine dello scorso secolo e l’inizio del ventunesimo secolo, l’ era del dominio occidentale ha iniziato la sua inesorabile china calante. Non è affatto detto che la per altro certa previsione di una futura leadership nei volumi complessivi di ricchezza da parte di Cina ed India, corrisponderà a pari leadership geopolitica. L’Autore censura -giustamente- l’applicazione meccanica di vecchie impostazioni, un mondo a 10 miliardi sarà multipolare che ci piaccia o meno, trattasi di semplice principio di auto-organizzazione di aggregati molto complessi, non potrà esser altrimenti, anche volendolo. Se però, l’Occidente non accetta il verdetto storico che è frutto di semplici dinamiche che poi spiegheremo, se l’Occidente avendo martelli continuerà a pensare che ogni problema è un chiodo, il futuro del pianeta è a rischio per tutti. Questa letterina-preghiera da civiltà (orientale) a civiltà (occidentale), avvisa che la gloriosa storia della civiltà occidentale, faro pur nella sua contraddittorietà di emancipazione dalla fame, dal disagio, dalle malattie e dall’ignoranza, in assenza di adattamento al mondo nuovo, chiuderà la sua altrimenti gloriosa parabola scrivendo su i libri di storia un finale di triste e clamoroso, definitivo fallimento.

Le ultime righe dell’ultima pagina del volumetto, consigliano invece di riprender in mano il pensiero del genio politico occidentale, Niccolò Machiavelli[2].  Ed è proprio del fiorentino l’esergo che apre il libro, vale la pena riportarlo per intero anche perché ha puntuali risonanze con ciò che sta succedendo qui in Italia:

… non c’è niente di più difficile da padroneggiare,

più pericoloso da condurre, o più incerto nel suo successo,

che il prender la leadership all’introduzione di un nuovo ordine delle cose.[3]

Il “nuovo ordine delle cose” che noi da tempo chiamiamo -mondo nuovo denso e complesso- o anche “Era della Complessità”, è dato con solida evidenza da fatti incontrovertibili. Il punto d’attenzione è fissato proprio su oggi, su quella condizioni iniziali che in complessità portano alla “path dpendence”, alla dipendenza dal percorso.  La dipendenza dal percorso spiega “come l’insieme delle decisioni che si prendono per ogni data circostanza è limitato dalle decisioni prese nel passato o dagli eventi che si sono verificati, anche se le circostanze passate potrebbero non essere più presenti e rilevanti”. Ciò porta a ritenere decisive le prime decisioni che si prendono, le famose “condizioni iniziali”.

Un argomento classico dell’analisi geopolitica recente è riassunta nel format “West vs the Rest”, impostazione decisamente occidental-centrata (pensate un attimo di vivere in quello che altri chiamano “the Rest”), sulla quale il singaporiano si è già più volte espresso ma specificatamente nel “The Great Convergence: Asia, the West, and the Logic f One World” (PublicAffairs 2014). In accordo con le evidenze del famoso lavoro di Pomeranz, la percentuale di Pil occidentale subisce una repentina dilatazione schiacciando il resto del mondo, a partire dalla rivoluzione industriale del 1850-70 ma dal crollo del Muro di Berlino, inizia il movimento contrario. Se nel 1995, il Pil aggregato dei G7 era il doppio degli E7 (Cina, India, Indonesia, Brasile, Messico, Russia, Turchia), oggi è pari e tra trenta anni sarà la metà. Il Pil americano sul mondo era il 50% nel dopoguerra, è la metà oggi, è destinato a contrarsi vistosamente nei prossimi trenta anni e peggio andrà all’Europa. Nel 2050, saranno solo tre le economia occidentali top10 per Pil PPP: gli USA, la Germania e l’UK (forse) rispettivamente però solo al 3°, 9° e 10° posto, l’Italia è stimata 22a.

Il “sentimento del mondo” si sta divaricando nettamente. La psicologia occidentale assume toni impauriti da fine-medioevo, una “fine di mondo” che altro non è che la fine di “un” mondo, di un’epoca. Il resto del mondo non è mai stato meglio, invece. Complessivamente è crollato il numero di guerre, di morti, la povertà e l’estrema povertà. E’ aumentata vistosamente la scolarità, la vita media e l’aspettativa di vita, ed altrettanto vistosamente diminuiti il lavoro infantile, le morti premature, emerge prepotente una voluminosa e stabilizzante classe media. Sono tutte linee di tendenza già ampiamente note ai pochi che si occupano dell’oggetto macro: il mondo. Sono le linee che disegnano il famoso elefante di Branko Milanovic in cui l’Occidente declina in favore del’Oriente ma all’interno del primo una  ristrettissima percentuale di popolazione stranamente aumenta incredibilmente la propri ricchezza in sfavore della stragrande maggioranza della popolazione ricacciata sempre più giù nella scala sociale. Se nel ’65, un AD americano guadagnava venti volte di più del lavoratore medio, oggi siamo all’incredibile trecento volte di più. Vien detta “creazione di valore”, premio per aver mantenuto la promessa fondamentale del mercato finanziario che si è sostituito a quello delle merci e del lavoro/salario: la crescita costante del valore. L’ingente massa di capitale creato dal nulla da dopo il Nixon shock del 1971, cerca vorace la sua riproduzione o finanziando la crescita orientale o lucrando sulla compressione dei costi produttivi in occidente. I CEO sono gli agenti speciali in nome e per conto di questo capitale liquido esuberante e come tali ne ricevono le prebende a compito svolto.

Per la parte asiatica, tutto ciò si è prodotto a cominciare dal risveglio cinese di fine anni ’70 con l’uomo che più di ogni altro esemplifica la plasticità di questo turning point. Deng Xiaoping. Questo è il campione della rinascita orientale mentre Steve Job è il campione occidentale, nell’asimmetria evidente dello spessore storico dei due, l’evidenza del perché della nuova grande convergenza e chissà, forse futura nuova divergenza invertita. Tre rivoluzioni -politica, psicologico-culturale e di governance-, hanno acceso la miccia del nuovo secolo che non sarà cinese ma senz’altro orientale. Null’altro che il contagio del modello occidentale di tecnica, scienza, ragione, realismo materialista, trasferito ed adattato, non semplicemente passivamente copiato, alle potenzialità orientali con a base una demografia davvero voluminosa. Ed ora, anche Africa e Sud America, sono pronte a loro volta a prender quello che ormai è un modello ibrido occidental-orientale ed a loro volta replicarlo con relativo adattamento alle condizioni locali.

Nel mentre si produceva questa svolta storica, l’Occidente si paralizzava in una overdose di hybris auto-compiacente per la fine della guerra fredda e collasso del grande nemico comunista. Ormai è un classico per chi si occupa di queste cose, lo sbeffeggiamento dell’incauto storico americano Francis Fukuyama e la sua profezia delirante di “fine della storia”. Lo è in sé, ma ci si torna sempre volentieri perché nella sua distanza tra fatti ed idee, denota l’ampiezza dello scartamento di mentalità occidentale da allora sempre più narrativamente fuori sync con la realtà. L’imbocco di quel delirio schizofrenico che ha poi portato all’inflazione attuale di bugie, distorsioni, fake news, previsioni sistematicamente fallaci, stupefazioni disarmate ma poco educanti (Brexit, Trump) e soprattutto falsissime narrazioni che chiamerebbero a gran voce uno psicologo delle civiltà a cui spedire preoccupati il paziente deragliato ormai nel suo universo parallelo di negazione e rimozione.

L’imbambolamento occidentale dura poco, arriva l’11 settembre, ma meno notata, anche l’entrata della Cina nel WTO. Ed ecco che allo schiaffo della storia irritata dal prematuro annuncio di morte, gli americani reagiscono mostrando la loro ormai irrecuperabile patologia. Prima l’insensata umiliazione dei russi che pure si erano consegnati speranzosi al nemico per essere reintegrati in una nuova forma di civilizzazione pacificata, il proditorio allargamento della NATO, poi la agghiacciante sequenza: Afghanistan, Iraq, Libia, primavere colorate evidentemente etero-dirette (Yugoslavia, Georgia, Kyrgyzstan, Tunisia, Egitto), Ucraina, Pakistan, Sudan, Siria, Yemen ed oggi l’annunciata ennesima puntata dell’Iran. Accanto, l’emarginazione dei realisti di Washington ormai tutti molto anziani e l’ascesa dei stupefacenti idealisti-liberali che discettano di esportazione della democrazia alleandosi con l’Arabia Saudita, giocherellando col Pakistan, usando nazisti e odi etnici, tollerando oltre l’immaginabile  o magari armeggiando attivamente con l’ascesa dell’ISIS. Conflitti che innescano potenti migrazioni che poi si beccano i pazienti del gerontocomio europeo a cui si dedicano anche vari attentati metropolitani che accendono assurde discussioni su quel mondo che intanto giunge a 1.600.000.000 membri: l’islam. Di pari passo, incredibili sgarbi alle Nazioni Unite che l’ambasciatore diplomatico, racconta trasecolando. Il tutto, tra l’altro, calpestando  le tombe di Sun Tzu, Machiavelli, von Clasewitz, Carr e Morgenthau in una clamorosainfilata di oscenità strategiche, umiliando la regola aurea dell’etica planetaria del principio di reciprocità, avendo pure l’ardire di dettar lezioni con professorale aria di condiscendenza e da ultimo stracciando ogni minimo accordo multilaterale poiché il “sovrano del mondo” è irritato dalle pretese della plebaglia. Davvero un quadro preoccupante della psicopatologia dell’occidente quotidiano a cui noi dovremmo aggiungere i tratti sociologici della post-modernità e del neo-ordo-liberismo farneticante, che viviamo sulla nostra pelle.

Tutte cose ad alcuni di noi ben note ma fa effetto sentirle dire da un diplomatico singaporiano perché così come sono chiare a lui, sono chiare nella mentalità media degli abitanti del famoso “the Rest”, quelli che vivono fuori della bolla occidentale nella quale noi cerchiamo di resistere, piccolissima minoranza di cassandre incredule e come sempre accade alla cassandre, derise ed emarginate laddove non si partecipa festanti a celebrare i vari vestiti countries by population size 1nuovi dell’imperatore in realtà sempre più nudo e sempre più pazzo. Si tenga conto di un effetto poco considerato: la reputazione. Nella nuova comunità mondiale, la reputazione dell’Occidente è ai minimi, la funzione di guida persa irrimediabilmente, siamo come quei vecchi nonni di cui un po’ ti vergogni perché fanno cose di cui non si rendono conto nell’imbarazzo generale.

Una patologia ormai contagiante anche i cani da guardia intellettuali ed informativi che la narrativa occidentale voleva contro-poteri in realtà embedded ormai al destino manicomiale del sistema: New York Times, Financial Times, Wall Street Journal, the Economist, BBC, CNN e molti opinion leader. Tutti coinvolti in quel “tradimento dei chierici” che depongono la terzietà critica per partecipare alla costruzione dell’enorme bolla di false percezioni ed aperte negazioni in cui intrappolare i popoli occidentali. E dire che PWC, Deloitte, JPMorgan, WEF, Pew, Gallup e molti altri, i dati duri e quelli di percezione, li sfornano regolarmente, così le previsioni a trenta anni, per non parlare dei semplici dati demografici dell’ONU. Niente, nulla di tutto ciò che evidentemente è ben noto su i tavoli delle cancellerie o nei meeting a Davos, diventa opinione pubblica o riflessione di quella ben informata. A noi, danno in pasto, per sbranarci su i social o in tv, concetti sedativi o aporetici come il “populismo”, l’austerity che fa crescere, diritti individuali di secondaria importanza, migrante sì o migrante no. Società aperta o società chiusa, quando il problema oggi è società lunga o corta, stante che è dai tempi di Aristotele che sappiamo che quella più stabile è la società corta.

Ecco allora la nota evidente a cui anche noi spesso ci appelliamo: come fanno gli europei a consentire una gestione così dissennata del patrimonio di civiltà che pur noi abbiamo fondato e portato a sviluppo? Come facciamo a non notare che i deliri Medio orientali, il saccheggio dell’Africa, l’ostracismo ai russi ed ai cinesi con cui condividiamo lo stesso blocco continentale (i “vicini” del condominio planetario), sono tutti attacchi sistematici alle nostre stesse condizioni di possibilità? Cosa faremo nel 2100 quando saremo un decimo della popolazione dell’Africa che avrà una età media di 16 anni mentre noi  ci tireremo su le palpebre dal chirurgo tentando di insaccarci nei jeans con mani tremanti per il parkinson, per sempre giovani davanti ad uno specchio di Dorian Grey che nel frattempo è andato in frantumi come quello dell’Uomo Nero di Esenin, lasciandoci soli, tristi ed in realtà terrorizzati?

Chiudiamo qui questo riassunto, come ogni riassunto pur sempre arbitrario, delle tesi del signor Mahbubani. Molti altri temi egli tocca e sicuramente con prosa e postura più posata e da buon diplomatico, meno indignata della mia. Altresì, egli, dal suo punto di vista, dà consiglio di concentrare una cura per questo deragliamento chissà se recuperabile, argomentando la sua ricetta fatta di minimalismo e cautela, realismo, multilaterialismo e Machiavelli riletto dal vero e non assunto dalle cattive rimasticazioni che ne hanno fatto i liberali anglosassoni che è un po’ come far recensire la Bibbia ad un ateo. Ad ognuno il suo, a lui il compito di dirci cosa pensa “the Rest” del nostro “West”, ricordarci i duri dati di realtà, come rimetterci in sesto nel mondo nuovo, denso e complesso, tocca a noi.

= = =

Poco lo spazio qui per dar corso alle tante riflessioni che questo tema ci stimola. Diamole come menù per prossime riprese.

  • Sebbene molti di noi siano critici militanti degli assetti occidentali, quelli interni come quelli esterni, forse non è ancora ben chiaro anche a noi, cosa sta succedendo. Daworld in 2050 image1 sempre critici acuminati del cosiddetto “capitalismo”, in parte gioiamo sotto i baffi per la evidente disgregazione del sistema, dall’altra rimuoviamo il fatto che noi siamo nel sistema che si sta disgregando. E’ un collasso di civiltà quello che si sta producendo e vincere la battaglia dei giudizi che noi ed i nostri avi già demmo nei tempi passati, non ci salva dal naufragio del Titanic in cui siamo imbarcati. Né è tempo per regolare i conti interni ora che sono quelli esterni a dettar i ritmi della catastrofe.
  • Giungiamo all’appuntamento con al potere una ridicola élite di falliti storici, ma anche con uno sbilancio tra l’ipertrofia del pensiero critico e una ipotrofia di quello costruttivo e progettuale. Pensavamo erroneamente che una qualche antitesi avrebbe lasciato libero il magico processo del divenire di giungere al superamento, ma ci siamo convinti di una regoletta che suona bene dati certi presupposti logico-idealistici ma non corrisponde affatto a quelli realistici.
  • Quanto ad idealismo e mancanza di realismo, il liberalismo delirante ha il suo degno simmetrico inverso nella mentalità critica più importante qui da noi: il marxismo. Da qui, lo smarrimento della cosiddetta sinistra che non sapendo più cosa pensare, certo non può neanche sapere cosa fare.
  • Il “capitalismo” è un termine che cosifica un modo economico, ma il nostro problema è come uscire da una fase della civiltà centrata su i modi economici, non star lì ad inventare in provetta ipotetici nuovi modi economici, quelli verranno dopo, quando avremo iniziato la trasformazione di molte altre variabili del nostro modo di stare al mondo. Le gerarchie sociali non le ha inventate il capitalismo, sono nate ottomila anni fa con la nascita delle prime società complesse. Forse dovremmo tornar daccapo a studiare cos’è la “democrazia”, non quel fake che gira dalle nostre parti millantando nome che non gli è proprio.
  • Dobbiamo concentrarci su questo cambio di paradigma politico perché il nostro modo economico, qui, non funziona più, non perché è pervertito dalle élite o perché è hayekiano e non keynesiano. Funziona e funzionerà per decenni nel resto del mondo, lì dove Muhbabani da ragazzino sognava come massimo raggiungimento di poter consultare 589c0fdc4e7c5ridl’Enciclopedia britannica che oggi tutti hanno a portata di click. Loro debbono portare gente dalla campagna in città, fare case, ponti, strade, porti, darsi una automobilina a testa, portare i pasti da uno a due, innamorarsi delle mode e dei simboli. Noi abbiamo esaurito questa fase. Limiti di raggiunta soddisfazione dei bisogni per quanto mal distribuita, limiti di materie prime e risorse, limiti ambientali, limiti geopolitici, limiti ai frutti della tanto decantata innovazione che mi ha portato a tirar già tutti i santi dal momento che non ho potuto avere questo libricino nel confortante cartaceo ma ho dovuto armeggiate col mio i-pad che taglia le tabelle nel formato e-pub e ti fa diventare idrofobo quando devi andare avanti e dietro nelle pagine o aprire improbabili notes per scrivere un appunto. Ci stiamo prendendo in giro. L’innovazione elettrica, chimica, meccanica, medica e produttiva dei primi Novecento e quella minore ma pur sempre importante del dopoguerra (si pensi solo a cosa ha innescato a cascata l’invenzione del frigorifero come notava giustamente Tony Judt), non tornerà più. La nuova rivoluzione digitale e informatica una cosa sappiamo per certo produrrà e cosa sta già producendo, il taglio secco della domanda di lavoro umano. Il nostro modo di stare la mondo centrato sul produrre cose ha raggiunto il suo fine, le cose necessarie o utili non sono infinite. Dobbiamo inventarci un nuovo contratto sociale, cosa che si fece a gli inizi di questo periodo storico che sta terminando, per sempre.
  • Dobbiamo ribellarci prima che alla divisione del lavoro che per certi versi ha una sua naturalità, a quella dei saperi. Noi non sappiamo più leggere il mondo ora che sta diventando complesso, plurale, non riducibile, non determinabile. La “cosa” è una, i nostri saperi la tagliano con sguardo alternativamente economico, finanziario, politico, sociologico, culturale, psicologico, demografico, ambientale, geopolitico, antropologico, linguistico-culturale, storico ma nessuno è più in grado di far le sintesi e senza sintesi la complessità e la cosa stessa ci sfugge. La filosofia dov’è? Quale microscopico nulla che significa niente sta osservando? Se non sappiamo più fare la diagnosi, come facciamo a dar la prognosi?

Questo è solo l’inizio del menù riflessivo e già siamo overbooking. Il mio è un appello appassionato a chi mi legge, a coloro che hanno la fortuna di poter dedicare la vita alle attività mentali, a chi ha coscienza di sé e senso di responsabilità se non per gli “estranei con cui viviamo”, almeno per i propri figli. Apriamo una riflessione aperta ed ampia sulla crisi adattiva in cui siamo capitati. Le reazioni che si leggono all’ovviamente contraddittorio inizio della recente transizione italiana non fanno ben sperare. Continuiamo ad insidiare i colpevoli ma prendiamoci anche le responsabilità di reagire. Come diceva il buon Iglesias di Podemos, non lasciamoci la sola magra consolazione di far scrivere dai nostri figli sulla lapide della nostra tomba “Aveva sempre ragione – ma nessuno lo seppe mai”. Ci potrebbe venir negata anche questa se non contribuiamo a salvare le nostre terre dal naufragio occidentale e poi chissà se davvero abbiamo tutta questa ragione che vive nei libri e non lì fuori. Ed attenzione anche solo al pensar di sfruttare la casa che vien giù per edificare finalmente quella ideale che tante volte abbiamo sognato nelle nostre proiezioni fantastiche, semmai davvero possibile e funzionante potrebbero volerci secoli a fare quello che abbiamo in mente ma una cosa è certa, una cosa non abbiamo: il tempo.

L’Occidente siamo anche noi, se non prendiamo noi la leadership del cambiamento cui siamo obbligati e le cui difficoltà così bene tratteggiò il nostro fiorentino, se non selezioniamo le sole contraddizioni principali che già pongono infiniti dubbi sulle possibili soluzioni, finiremo con l’essere storicamente complici del tragico finale che altri si apprestano a scrivere con alterati sgorbi nell’eterno registro della Storia che tante civiltà ha già visto nascere, crescere ed infine morire, in una chiassosa catastrofe o in una lenta agonia in grado di bollire i muscoli di ogni rana.


Note
[1] K. Pomeranz, La grande divergenza, il Mulino, Bologna, 2012
[2] Machiavelli è il patrono dei realisti, tanto quanto invece il sopracitato Jospeh Nye jr è sacerdote del credo dominante in America, quello ideal-liberale. Abbiamo volutamente tagliato tutte le argomentazioni tipicamente liberali sulla mancanza di democrazia in Asia, un tema che non ha alcun rilievo nella faccenda in quanto non siamo al campionato del giusto, del buono e del bello ma in quello che si disputa condizioni di possibilità in un mondo denso ed affollato dove conta solo la potenza. Le regole le fa il campionato, non noi.
[3] N. Machiavelli, Il Principe, Capitolo VI

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