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L’eredità di Rosa Luxemburg

di Giovambattista Vaccaro (Università della Calabria)

rosaluxemburg targa1. Introduzione

Il pensiero di Rosa Luxemburg non ha mai riscosso un particolare interesse nel nostro paese, probabilmente perché, come ha rilevato il suo maggiore studioso e diffusore italiano, Lelio Basso, su di esso hanno pesato due diversi approcci: quello socialdemocratico, che fa della rivoluzionaria polacca il grande avversario di Lenin e il grande difensore della democrazia, e quello comunista, per il quale – specularmente – la Luxemburg aveva sempre torto e Lenin sempre ragione1. Così, nonostante si sia visto in lei uno dei migliori esegeti e volgarizzatori del marxismo2 e l’esponente di un marxismo creativo e ricco di contributi originali3, il giudizio che ha prevalso è stato quello per cui il suo pensiero rimane caratterizzato da un economicismo4 in cui l’analisi slitta dal piano economico a quello geografico, producendo così «acrobazie in materia economica»5 e argomentazioni economiche deboli. Un pensiero che non contribuisce a una teoria politica della rivoluzione, inoltre, perché manca in esso l’attenzione per l’aspetto politico-istituzionale della rivoluzione e la distinzione tra avanguardia e masse6. Questo giudizio non è sostanzialmente cambiato negli anni del ripensamento del marxismo e della strategia del movimento comunista successivi alla catastrofe del ’56, anche se sulla base di argomentazioni diverse, come ad esempio quella, tipica dell’operaismo italiano, che chiama in causa il tramonto della figura dell’operaio professionalizzato e il parallelo sorgere dell’operaio-massa; una novità che avrebbe reso del tutto inattuale e astratta l’ipotesi politica dei consigli operai formulata dalla Luxemburg e ripresa da tutto il Linkscommunismus tedesco degli anni Venti, incapace di scorgere nella ristrutturazione del ciclo capitalistico che modificava l’assetto della forza- lavoro la risposta del capitale all’insubordinazione operaia7.

Questa tendenza sembra essersi invertita negli ultimi anni, durante i quali, probabilmente anche sotto lo stimolo di alcune ricorrenze come il centenario dell’assassinio della rivoluzionaria polacca e il centocinquantesimo anniversario della nascita, l’editoria italiana ha registrato una serie di iniziative: monografie, biografie, antologie di scritti e raccolte di lettere, riedizioni dell’Accumulazione del capitale ed edizioni separate dei suoi scritti più importanti, tutte cose che testimoniano una rinascita – o forse sarebbe meglio dire una nascita, che non si può che auspicare di lunga durata – dell’interesse per la figura e il pensiero della Luxemburg8.

Il problema che a questo punto però sorge, se si vuole evitare che questo interesse rimanga confinato al semplice ambito della storia delle idee e far sì che contribuisca a una ripresa del dibattito teorico-politico e più nello specifico ad un rilancio degli studi sul marxismo, è quale senso possa avere il pensiero della Luxemburg per noi oggi, in un contesto storico segnato da una ricomposizione capitalistica che ha caratteristiche del tutto nuove ma allo stesso tempo tali da riproporre aspetti del ciclo capitalistico antecedenti a quelli che erano stati dominanti dagli anni Venti alla fine del secolo scorso. C’è infatti una globalizzazione che ha rimesso al centro della valorizzazione del capitale la finanza, cioè il capitale nella sua forma immediata di denaro. C’è, di contro, una frantumazione sociale che tende a una proletarizzazione generalizzata a fronte di una “metamorfosi del lavoro” che tende a sopprimere anche la figura dell’operaio-massa per affidare la valorizzazione non più al tempo di lavoro ma al sapere accumulato9, che diventa ora la vera controparte dello scambio ineguale col capitale che si esprime nel salario. E cioè, nuovamente, all’intelligenza tecnica e alla professionalità, la nuova protagonista di quella che viene chiamata la Terza rivoluzione industriale, legata allo sviluppo dell’informatica e all’automazione. Contestualmente, il terreno delle lotte sociali si sposta dai luoghi di lavoro all’ambiente complessivo della vita dei soggetti e anche le organizzazioni politiche tradizionali, cioè i partiti, tendono a trasformarsi perdendo i loro apparati ideologici e organizzativi, o a cedere le loro funzioni a nuovi movimenti di base come quello ambientalista, o quello femminista, o quello no- global, o come il recente Black Lives Matter. Per tentare di abbozzare una risposta a questo problema bisogna però tornare alla posizione del pensiero della Luxemburg di fronte al paradigma teorico dominante nel marxismo e nel movimento operaio ai suoi tempi e attraverso la loro storia: quello, incentrato sul proletariato industriale e sul suo partito, che si è formato durante la Seconda Internazionale ed è stato poi ereditato dal leninismo, e che oggi è ritenuto tramontato insieme alla composizione organica del capitale tipica del Novecento.

 

2. Rosa Luxemburg e il marxismo

Il primo punto qualificante di questa posizione è la concezione stessa del marxismo. Per la Luxemburg, infatti, esso non è una dottrina e tanto meno un sistema, a cui imputare di aver chiuso entro i limiti molto rigidi di un’ortodossia i movimenti autonomi dello spirito. Di conseguenza, benché ritenga che «non si può negare un certo opprimente influsso di Marx sulla libertà di movimento teorico di parecchi suoi scolari», Luxemburg critica come «fatale per il lavoro concettuale» «la penosa angoscia per rimanere, pur in una attività indipendente di pensiero, “sul terreno del marxismo”»10. Il marxismo, piuttosto, è stato reso un sistema in ambienti proletari, ai quali interessavano ai fini della lotta di classe i fondamenti scientifici della trasformazione socialista contenuti nel primo libro del Capitale. Invece «l’anima […] di tutta la dottrina di Marx, la sua radice, è il metodo dialettico-materialistico nell’esame dei problemi della vita reale», che prende corpo «in due fondamentali principi»: un approccio alla storia che sfocia nella teoria della lotta di classe e l’analisi dello sviluppo dell’economia capitalistica, che «è essa stessa soltanto una geniale applicazione della dialettica e del materialismo storico all’epoca dell’economia borghese»11. Da questi due principi la Luxemburg deduce poi i «due elementi essenziali» del marxismo: «l’elemento dell’analisi, della critica, e l’elemento della volontà attiva della classe operaia come fattore rivoluzionario»12, che, come si vedrà, hanno i loro depositari nel partito e nell’azione delle masse. Si tratta comunque di un aspetto del pensiero della Luxemburg non particolarmente decisivo per la sua posizione nei confronti del marxismo ufficiale e che non ha meritato un’attenzione particolare tra i suoi studiosi, benché consonante con la sensibilità teorica antidogmatica del marxismo occidentale dei decenni successivi e, tutto sommato, anche con la nostra. Esso contiene tuttavia in nuce gli elementi più pregnanti del pensiero della rivoluzionaria polacca.

Abbiamo visto in precedenza la Luxemburg accennare ai fondamenti scientifici della transizione al socialismo indicati da Marx nel primo libro del Capitale. In Riforma sociale o rivoluzione? essa ritorna su di essi, in polemica con Bernstein, indicandoli espressamente in quelli che per lei sono i tre risultati dello sviluppo capitalistico, cioè la «crescente anarchia dell’economia capitalistica, che porta inevitabilmente alla sua scomparsa»; la «progressiva socializzazione del processo produttivo, che crea le condizioni positive del futuro ordine sociale»; e la «crescente organizzazione e coscienza di classe del proletariato che costituisce il fattore attivo del rivolgimento immanente»13. Se sul secondo punto il consenso tra i teorici marxisti è stato sempre unanime, gli altri due rimandano invece agli aspetti più tipici, e più contestati, del marxismo di Rosa Luxemburg: la teoria del crollo e lo spontaneismo.

 

3. La teoria del crollo

Il crollo del capitalismo è per la Luxemburg «una pietra angolare del socialismo scientifico»14, tanto che lei stessa, come è noto, ne fornisce le motivazioni economiche nell’Accumulazione del capitale. Qui, attraverso una disamina (secondo alcuni non corretta) degli schemi della riproduzione allargata del secondo libro del Capitale e delle difficoltà incontrate da Marx su questo problema, la Luxemburg giunge alla conclusione che la riproduzione allargata è impossibile in un sistema capitalistico puro, perché tale ipotesi in realtà «esclude […] il profondo e fondamentale conflitto fra capacità produttiva e capacità di consumo della società capitalistica»15, e cioè fra la crescita continua della prima e l’incapacità del secondo di starle dietro, un gap che impone un’estensione del mercato oltre i limiti del consumo dei capitalisti e dei lavoratori. Questa estensione è resa possibile dal fatto che «in realtà non è mai esistita e non esiste una società capitalistica autosufficiente con predominio esclusivo della produzione capitalistica»16, ma «il processo di accumulazione del capitale è legato alle forme di produzione non- capitalistica» che «formano l’ambiente storico dato in cui quel processo si svolge»17 e che assorbe i prodotti eccedenti della società capitalistica e le fornisce forza-lavoro. Anche questo mercato allargato all’esterno del capitalismo è destinato però a incepparsi, poiché «il processo di accumulazione tende a sostituire ovunque all’economia naturale l’economia mercantile semplice» finché «l’accumulazione diventa impossibile», così che la sua impossibilità «significa […] l’impossibilità di un’ulteriore espansione delle forze produttive, e perciò la necessità storica obiettiva del tramonto del capitalismo»18. A questa erosione degli ambienti non capitalistici ogni potenza capitalistica cerca di reagire con l’ulteriore ricerca di sempre nuove aree non capitalistiche a danno o delle economie “naturali” ancora esistenti o delle aree di influenza di altre potenze: è la tendenza del capitalismo all’imperialismo e alla guerra, che fa ulteriormente precipitare la crisi del sistema19.

Contro questa teoria sono state mosse le critiche più diverse: di essere un «prodotto dell’imbarazzo»20, irrilevante ai fini del crollo del capitalismo – del tutto interno all’orizzonte di quei teorici dell’accumulazione illimitata, da Tugan-Baranowsky a Kautsky, contro cui voleva combattere – e basato su un fraintendimento metodologico del Capitale che porta la Luxemburg a dedurre il crollo da cause esterne alla teoria marxiana e non dall’interno di essa, cioè dalla legge del valore21; di «incoerenza intrinseca»22, per aver trascurato molti altri fattori che interferiscono con una produzione capitalistica pura e per non aver tenuto conto della categoria di capitale in generale23; di essere condizionata da un limite politico, cioè dal rifiuto di ammettere la possibilità dell’espansione continua del sistema proprio attraverso un ampliamento del mercato interno reso possibile da un aumento dei redditi dei lavoratori24; infine, di non riuscire a compiere il passaggio dalla teoria alla pratica, collegando la teoria dell’imperialismo con le concrete esigenze della lotta quotidiana e con le questioni politiche attuali25.

Certamente ormai c’è poco da rispondere alle obiezioni che prendono le mosse dalla volontà di ribadire un’ortodossia marxista che non esiste più, mentre alle altre si può ricordare che l’obiettivo del lavoro della Luxemburg non è una teoria della rivoluzione ma una teoria della crisi e della guerra, ormai percepita come imminente da tutta la Seconda Internazionale. Inoltre, il vero limite dell’Accumulazione del capitale non è neanche politico, ma piuttosto storico: la Luxemburg, come tutta la Seconda Internazionale, crede ancora all’impoverimento progressivo del proletariato, che sottrarrebbe al capitale il proprio mercato interno e quindi lo sbocco di una produzione sempre crescente di merci, perché non ha ancora visto le strategie che il capitalismo metterà in atto qualche decennio dopo per ampliare tale mercato, dal miglioramento delle condizioni di vita del proletariato alla manipolazione pubblicitaria della coscienza del consumatore, dalla pianificazione dell’obsolescenza del prodotto alle politiche commerciali di sconti, incentivi ed acquisti rateali, che saranno fatte oggetto di studio dalla generazione a lei successiva.

Inoltre, non si può non riconoscere alla Luxemburg una notevole lucidità sia in quello spostamento dell’analisi della riproduzione capitalistica dalla produzione al mercato e alla circolazione (che le è sempre stato rimproverato26 ma che le permetteva di porsi dal punto di vista del ciclo complessivo della valorizzazione), sia nell’aver intravisto alcuni aspetti della tendenza del capitalismo a quella che quasi un secolo dopo sarebbe stata chiamata la globalizzazione, quando scrive che «per l’impiego produttivo del plusvalore realizzato è necessario che il capitale abbia sempre più a disposizione l’intero globo in modo da avere una possibilità quantitativamente e qualitativamente illimitata di scelta nei suoi mezzi di produzione»27. Così il rapporto con le aree non capitalistiche per la Luxemburg non prevede solo esportazione di capitali e di prodotti e importazione di materie prime ma implica anche, come si è accennato in precedenza, l’utilizzo di forza-lavoro locale che adombra quella pratica delle delocalizzazioni oggi divenuta così frequente. Ed anche l’ipotesi di un incepparsi del mercato mondiale a causa dell’erosione delle aree non capitalistiche ha trovato una parziale conferma nel caso della Cina, che in pochi decenni si è trasformata da paese del Terzo Mondo sottosviluppato in potenza industriale mondiale capace di competere con i vecchi paesi capitalistici dell’Occidente, tra l’altro anche nel settore delle tecnologie più avanzate.

Ma che cos’è, in definitiva, il crollo del capitalismo per Rosa Luxemburg? O meglio, poiché essa usa il lessico della Seconda Internazionale ma non sempre attribuendo ai termini il significato corrente, che cosa intende essa per crollo del capitalismo? Questa idea matura nel corso della polemica con Bernstein e le serve per ribadire la teoria marxiana della storicità e quindi della superabilità del sistema capitalistico, che Bernstein negava sulla base di una serie di controtendenze come il credito, i cartelli, l’elevamento della condizione della classe operaia (posizione che dopo un dettagliato esame la Luxemburg contesta con l’obiezione che in realtà esse acuiscono le contraddizioni del capitalismo che porteranno al suo sfacelo). Ma «che questo momento sia stato concepito sotto forma di una crisi economica generale e catastrofica non è accaduto naturalmente senza buone ragioni», e però «rimane per l’idea fondamentale un fatto marginale e non essenziale»28, poiché il fatto essenziale è la tendenza dell’economia capitalistica all’anarchia. La teoria del crollo è allora un’ipotesi analitica che esprime la tendenza del capitalismo a funzionare attraverso i suoi colpi a vuoto, le sue crisi, che «sono la forma specifica del movimento dell’economia capitalistica»29 perché rappresentano i soli mezzi possibili, e perciò normalissimi, di risolvere i dissidi interni alla riproduzione capitalistica, la quale, «se progredisse senza “perturbazioni”, andrebbe incontro a pericoli maggiori delle crisi stesse»30, come la caduta del saggio del profitto. Ma per questa via «il predominio borghese di classe cessa di essere portatore del progresso storico per diventare un impedimento ed un pericolo per lo sviluppo ulteriore della società»31. Questo significa per la Luxemburg crollo del capitalismo: la fine della sua funzione storica propulsiva, di sviluppo, di incremento delle forze produttive e quindi di creazione dei presupposti materiali del regno della libertà di cui Marx parla nel terzo libro del Capitale, e l’inizio invece di una fase di distruzione delle forze produttive, di guerre, di miseria, in una parola di barbarie.

Qui entra in scena il proletariato, come soggetto che paga socialmente questo modo di funzionare del capitalismo e che si sviluppa contestualmente ad esso come presenza antagonistica al suo interno e quindi come elemento del suo crollo. Infatti l’acuirsi dell’anarchia economica capitalistica «dovrà provocare la rivolta del proletariato internazionale contro la persistenza della dominazione capitalistica»32. Bisogna dire, comunque, che attraverso gli anni la Luxemburg tende ad usare sempre meno i termini di “proletariato” e “classe operaia” e preferisce ricorrere al concetto di “massa”33, che nel linguaggio politico dei nostri giorni diventerà quello di “moltitudine”34. Con questo termine la Luxemburg esprime un’intuizione della polverizzazione sociale operata dal capitalismo e allo stesso tempo una concezione ampia del proletariato che non limita questo termine alla classe operaia industriale ma vi include i dipendenti statali, come gli impiegati delle ferrovie e delle poste, i lavoratori a domicilio, i lavoratori agricoli, i minatori, in breve tutta quella vasta area dello sfruttamento sistematico e della miseria esclusa, almeno ai suoi tempi, dall’organizzazione sindacale35, che il proletariato industriale deve trascinare con sé nella sua lotta per creare un vasto movimento di popolo.

Questo obiettivo impone però la centralità della formazione della coscienza delle masse, un tema sul quale la Luxemburg ha sempre insistito, convinta fino alla fine che «la lotta per il socialismo può essere combattuta soltanto dalle masse»36, con le conseguenze, teoriche e pratiche, che si vedranno più avanti. In quest’ottica la lotta sindacale e quella parlamentare si presentano subito come un momento di preparazione del proletariato alla presa del potere, tanto che in questo senso la Luxemburg rifiuta come un prodotto artificiale del periodo parlamentare la distinzione di lotta politica e lotta economica37, poiché la coscienza si forma solo nella lotta e con essa emerge il riconoscimento da parte delle masse della necessità di sopprimere il capitalismo in forza delle sue contraddizioni e dei danni da esse provocati. Si crea quindi un circuito virtuoso tra crisi economiche, lotte suscitate da queste, formazione della coscienza delle masse e rivoluzione socialista, nel quale «la coscienza di classe diventa pratica, attiva», mentre quella «piantata dalla socialdemocrazia è teorica e latente»38. E qui emerge l’altro aspetto caratteristico e controverso del pensiero della Luxemburg: il suo spontaneismo.

 

4. Spontaneismo e coscienza di classe

L’accusa di spontaneismo è stata in generale respinta dagli studiosi che hanno apprezzato il suo pensiero, anche quando le hanno rimproverato una sottovalutazione del ruolo dell’organizzazione39: si è detto che lo spontaneismo della Luxemburg è «un mito fabbricato per scopi politici ben precisi»40 e che in lei non c’è né una teoria della spontaneità né l’espressione di uno spontaneismo ma piuttosto un rapporto dialettico tra partito e classe41. Tale accusa è nata dall’enfasi della Luxemburg sull’iniziativa delle masse tanto nella rivoluzione quanto nella costruzione del socialismo e dalla conseguente e ben nota polemica con Lenin. Ma come il concetto di massa appare adeguato a un’epoca di frantumazione delle differenziazioni sociali e di diffusa proletarizzazione come la nostra, così questa enfasi appare adeguata a un’epoca in cui sembra tramontare la vecchia forma organizzativa del partito centralizzato. Già dal 1904, infatti, in polemica appunto con Lenin, la Luxemburg sosteneva che «il centralismo è una parola d’ordine che è lungi dall’esaurire il contenuto storico e le particolarità del tipo di organizzazione socialdemocratico», sottolineando che «su nessun terreno, neppure su quello dei problemi organizzativi, la concezione marxista del socialismo può essere fissata in formule rigide»42. E in generale ha sempre respinto «la valutazione esagerata […] del ruolo dell’organizzazione nella lotta di classe», poiché essa «viene abitualmente completata con la sottovalutazione della massa proletaria inorganizzata e della sua maturità politica»43, mentre l’organizzazione stessa «da mezzo in vista di uno scopo viene a poco a poco trasformata in un fine a se stesso, in un bene supremo a cui devono essere subordinati gli interessi della lotta»44.

La novità della socialdemocrazia, nella quale la Luxemburg individua la grande differenza rispetto al blanquismo ma che allo stesso tempo vede tradita dal modello organizzativo leninista, sta invece per lei nell’assumere le condizioni della lotta proletaria come più importanti delle esigenze formali di qualunque organizzazione e quindi nel modellare quest’ultima sull’azione diretta e autonoma delle masse. Così «organizzazione, chiarificazione e lotta non sono […] momenti divisi, meccanicamente e anche temporalmente separati […], ma sono soltanto facce diverse di un medesimo processo»45 nel quale non esiste una tattica fissata in anticipo da un comitato centrale e a partire dal quale la lotta stessa crea l’organizzazione e determina una continua oscillazione della sua influenza. Dunque la socialdemocrazia «non è legata all’organizzazione della classe operaia, ma è il movimento specifico della classe operaia», «il momento imperativo in cui si unifica la volontà cosciente e militante della classe operaia», la sua «avanguardia […] cosciente e capace di giudizio autonomo»46, che coniuga lo «spirito della duttilità politica […] con un senso acuto della saldezza dei principi del movimento»47 e che attraverso la lotta fa crescere quella chiarificazione a cui la Luxemburg accennava prima e che consiste nel riconoscimento delle contraddizioni del capitalismo e della necessità del socialismo, dandole espressione. La socialdemocrazia ha quindi un doppio compito: quello di unificatore e coordinatore del movimento stesso e quello di accelerare lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria. E questo non distribuendo parole d’ordine campate in aria bensì «innanzitutto chiarendo ai più vasti strati proletari la venuta inevitabile di questo periodo rivoluzionario»48, quindi svolgendo una funzione educativa delle masse. Ancora una volta per la Luxemburg è la coscienza delle masse, più di qualsiasi crisi economica, ad essere il vettore della transizione al socialismo.

Tutto questo è ben lontano da quello che la Luxemburg chiama «lo spirito di guardiano notturno dell’ultracentralismo, raccomandato da Lenin»49, proteso a controllare l’attività del partito più che a fecondarla, a restringere il movimento più che a svilupparlo, a consegnarlo nelle mani di un gruppo di intellettuali. La Luxemburg colpisce così al cuore l’idea leniniana del partito come avanguardia esterna alle masse, o, come direbbe lei, semplicemente legata alle masse, che le comanda a freddo. E le contrappone l’idea di un partito che mantiene il contatto più stretto con la spontaneità delle masse, la cui fondatezza politica sta nel fatto che «le rivoluzioni non si lasciano ammaestrare pedantemente»50, in quanto scaturiscono dal gioco combinato degli elementi più diversi che nessuna intelligenza centrale può controllare (la spontaneità delle masse è anzi già indice di una rivoluzione in corso). Per questa ragione la Luxemburg si esprime contro il modello rivoluzionario bolscevico dell’insurrezione armata, che non va esclusa come conclusione logica della lotta di classe ma che, se progettata a tavolino da un’avanguardia, rimane a suo avviso lontana dal vero marxismo e scade ad avventurismo grossolanamente rivoluzionario, un mezzo primitivo incapace di dirigere movimenti di grandi masse51. E aggancia semmai questo momento a una lunga pratica di scioperi di massa, precisando che questo tipo di sciopero va comunque distinto dallo sciopero generale anarchico – che giudica «una categoria astratta»52 – e deve piuttosto essere uno sciopero politico che «prende le mosse semplicemente da momenti della vita politica quotidiana di significato profondo e stimolante e, nello stesso tempo, per conto proprio, serve da strumento efficace dell’agitazione socialista»53.

Così concepito, allora, «lo sciopero di massa è solo la forma della lotta rivoluzionaria». Una dinamica che riflette lo spostamento dei rapporti delle forze in lotta e quindi «non cessa si può dire neppure un istante» ma «modifica semplicemente le sue forme, la sua estensione, la sua efficacia»54; un movimento spontaneo che cresce col crescere della coscienza delle masse e unifica lotta economica e lotta politica in modo che la prima è l’elemento conduttore da un nodo politico all’altro, e la seconda è l’elemento fecondatore della prima, così che entrambe, «ben lungi dal distinguersi nettamente e addirittura dall’escludersi […], formano piuttosto due facce intrecciate della lotta di classe»55. Di fronte a questo tipo di sciopero non ha più senso lo sciopero dimostrativo proclamato dal partito. Esso impone anzi un nuovo rapporto fra dirigenti del partito e dirigenti del sindacato, i quali, se non vogliono essere esautorati dal movimento, devono ritrovare la loro referenza reciproca e concepirsi non più come titolari professionali della vita delle loro organizzazioni, a cui le masse devono obbedienza, ma come puri organi di attuazione della loro volontà. La rivoluzione si configura allora come un lento processo di progressiva conquista del potere dal basso da parte delle masse56, attraverso la costruzione di quell’organismo di base del potere proletario che sono i consigli operai, nati appunto spontaneamente nel corso della lotta rivoluzionaria del novembre 1918 come espressione della coscienza delle masse e nei quali la Luxemburg ha creduto fino alla fine.

Questo impianto teorico si protende nella concezione luxemburghiana della costruzione del socialismo, che non è a suo avviso qualcosa «per la quale il partito rivoluzionario ha in tasca la ricetta bell’e fatta»57 né qualcosa che «può essere fatta mediante decreti». Al contrario, se non deve diventare la concessione di un gruppo di intellettuali «il socialismo deve essere fatto dalle masse, da ciascun proletario»58. E questo presuppone la partecipazione delle masse e quindi, ancora, una totale trasformazione spirituale che le porti al controllo pubblico come condizione imprescindibile del socialismo, se non si vuole che questo degeneri in uno scambio di esperienze all’interno della ristretta cerchia dei funzionari prendendo la china di un’inevitabile corruzione. Ma questo per la Luxemburg significa essenzialmente una cosa, che lei non si stanca di contrapporre alla «concezione semplicistica» del potere operaio propria dei bolscevichi: significa democrazia, e cioè «libertà di stampa, diritto di associazione e di riunione», senza i quali «è del tutto impossibile concepire il dominio delle grandi masse popolari»59 e si ha «una dittatura certamente, ma non la dittatura del proletariato, bensì la dittatura di un pugno di uomini politici, una dittatura nel significato borghese, nel significato giacobino»60. Nel momento in cui i bolscevichi contrappongono dittatura e democrazia, si pongono sullo stesso terreno di Kautsky capovolgendolo, mentre il proletariato che prende il potere deve «esercitare la dittatura […] della classe, cioè nella più larga pubblicità, con la più attiva e libera partecipazione delle masse popolari in una democrazia senza limiti». Una dittatura, cioè, che è a sua volta un «modo di applicare la democrazia» e «deve sorgere passo passo dalla partecipazione attiva delle masse, deve sottostare al loro diretto influsso, sottostare altresì al controllo di tutto il pubblico, sorgere dalla crescente educazione politica delle masse popolari»61. Che deve consistere, in sostanza, nel potere dei consigli, del tutto in linea con la centralità che l’iniziativa delle masse ha sempre avuto nel suo pensiero.

 

5. Conclusione

Rosa Luxemburg ci lascia un modello di transizione al socialismo basato sull’azione dal basso di grandi masse che si inseriscono come fattore attivo nelle crisi cicliche del capitalismo in vista del suo crollo e della presa del potere, attraverso un processo di lotte generalizzate a tutto il campo sociale che punta alla dissoluzione dello Stato e alla costituzione di un potere popolare gestito direttamente dalle masse stesse. In questo senso, alla distruzione di ricchezza sociale provocata dalle crisi e più in generale dall’entrata del capitalismo nella fase del suo declino non può esserci alternativa che il socialismo, ma non può esserci socialismo se non creato e gestito dalle masse. È un modello che non può non esercitare una rinnovata attrattiva in un’epoca come la nostra, nella quale l’elevato sviluppo delle forze produttive renderebbe possibile il salto qualitativo verso il marxiano regno della libertà ma l’elevato livello di intelligenza professionale della nuova forza-lavoro si scontra con la frequenza delle crisi e ne viene vanificato, così da rendere più che mai attuale l’alternativa tra socialismo e barbarie.


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Ti presento Rosa Luxemburg, Prospettiva Editrice, Civitavecchia.

Note
1 Cfr. BASSO 1967, p. 127.
2 Cfr. BADIA 1973, p. 235. Ma già LUKÁCS 1967, p. 38 aveva parlato di un mar- xismo genuino della Luxemburg, che nell’Accumulazione del capitale adotta il punto di vista della totalità. Un giudizio non condiviso da Rosdolsky (cfr. RO- SDOLKY 1975), che invece accusa la Luxemburg di non cogliere in Marx l’eredità metodologica di Hegel e di vedere forse solo la categoria di totalità ma non l’astrazione.
3 Cfr. TYCH 1973, p. 259.
4 Cfr. VACCA 1969, p. 171. Per Vacca questo economicismo «vizia anche la pro- spettive più lucide della migliore opera politica della Luxemburg, appunto l’anti- Bernstein».
5 BADIA 1973, p. 246.
6 Cfr. VACCA 1969, pp. 186-187.
7 Cfr. ad es. BOLOGNA 1973 e CACCIARI 1972.
8 Cfr. ad es. tra le antologie di scritti LUXEMBURG 2016, LUXEMBURG 2018, LU- XEMBURG 2019a, LUXEMBURG 2019b e LUXEMBURG 2021; i saggi di ROSSI 2019 e CAPUANO 2018; il volume a carattere introduttivo di ZANELLI 2017; il volume biografico di DALMASSO 2019.
9 Cfr. VERCELLONE 2014 e relativa bibliografia. Per la teoria della metamorfosi del lavoro restano fondamentali gli studi di A. Gorz (cfr. GORZ 1982, 1992 e 1997).
10 LUXEMBURG 1975a, p. 224.
11 LUXEMBURG 1967a, p. 265.
12 LUXEMBURG 1967b, p. 386.
13 LUXEMBURG 1967c, p. 148.
14 Ivi, p. 199.
15 LUXEMBURG 1968a, p. 340.
16 Ivi, p. 341.
17 Ivi, p. 360.
18 Ivi, p. 416.
19 «L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del ca- pitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non-capitali- stici non ancora posti sotto sequestro […] Ma con quanta maggior energia, po- tenza d’urto e sistematicità l’imperialismo opera all’erosione delle civiltà non ca- pitalistiche, tanto più rapidamente toglie il terreno sotto i piedi all’accumula- zione del capitale» (ivi, p. 447). Questo modello verrà riproposto dalla Luxem- burg anche in altre sedi come fulcro di una teoria delle crisi. Cfr. ad es. LUXEM- BURG 1975b, pp. 417 e 423-424.
20 GROSSMANN 1971, p. 265.
21 Cfr. ivi, p. 266.
22 ROSDOLSKY 1975, p. 94.
23 Cfr. ivi, p. 95. Anche Rosdolsky parla di fraintendimento metodologico del
Capitale da parte della Luxemburg (cfr. ivi, p. 99).
24 Cfr. SWEEZY 1968, pp. XXV sgg.
25 Cfr. LUKÁCS 1970, pp. 50-51.
26 Cfr. GROSSMANN 1971, p. 38.
27 LUXEMBURG 1968, p. 352. Ma cfr. anche LUXEMBURG 1975b, p. 418: «La produzione capitalistica si estende su tutti i paesi, non semplicemente configuran- doli economicamente tutti in egual modo, ma collegandoli a un’unica grande economia mondiale capitalistica».
28 LUXEMBURG 1967c, p. 148.
29 LUXEMBURG 1968a, p. 12.
30 LUXEMBURG 1967c, p. 174.
31 LUXEMBURG 1967d, p. 542.
32 LUXEMBURG 1968b, p. 489.
33 Si noti che già in Riforma sociale o rivoluzione?, del 1898, la Luxemburg aveva parlato di «eliminazione del capitalismo per opera della massa popolare» (LU- XEMBURG 1968c, p. 180).
34 Cfr. HARDT, NEGRI 2004.
35 Cfr. LUXEMBURG 1967e, pp. 339 sgg. e 1975c, p. 335.
36 LUXEMBURG 1967f, p. 622.
37 Cfr. LUXEMBURG 1967e, p. 356.
38 LUXEMBURG 1967e, p. 346.
39 Cfr. ad es. LOWY 1976, p. 109, che ritiene che la Luxemburg ha sottovalutato il ruolo dell’organizzazione ma non ha fatto dello spontaneismo un principio.
40 FRÖLICH 1969, p. 178.
41 Cfr. BEDESCHI 1969, pp. 1160-1171.
42 LUXEMBURG 1967g, p. 219.
43 LUXEMBURG 1967e, p. 345.
44 Ivi, p. 363.
45 LUXEMBURG 1967g, p. 222.
46 Ivi, p. 223.
47 Ivi, p. 227.
48 LUXEMBURG 1967e, p. 347.
49 LUXEMBURG 1967g, p. 227.
50 LUXEMBURG 1967e, p. 334.
51 Cfr. LUXEMBURG 1967b, pp. 384-385 e 1967d, p. 530.
52 LUXEMBURG 1975d, p. 203.
53 Ivi, p. 205.
54 LUXEMBURG 1967e, p. 327.
55 Ivi, p. 331.
56 Dice la Luxemburg: «Noi dobbiamo lavorare dal basso e questo corrisponde precisamente al carattere di massa della nostra rivoluzione» (LUXEMBURG 1967f, p. 630).
57 LUXEMBURG 1967h, p. 589.
58 LUXEMBURG 1967f, p. 622.
59 LUXEMBURG 1967h, p. 588.
60 Ivi, p. 591.
61 Ivi, pp. 593-594.

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