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Michèa, “Il vicolo cieco dell’economia”

di Alessandro Visalli

michea mysteres gaucheQuesto libro di Michèa reca come sottotitolo “sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo”, e rappresenta un tentativo di sviluppare una critica che vada alle radici del capitalismo stesso. Michéa, in circa 100 pagine, produce una serrata ricostruzione sulla stessa linea de “I misteri della sinistra”, volta a mettere in luce la profonda integrazione della sinistra con il liberalismo, che a volte dice di combattere, e di questo con il razionalismo occidentale e l’illuminismo.

Nulla di particolarmente nuovo, dunque.

L’orgogliosa tesi, così come nel libro letto precedentemente, ma di ben 11 anni successivo, è che il socialismo ben inteso si differenzia dal movimento politico liberale “di sinistra”, in modo diretto ed esplicito. Come dirà nel 2013, il movimento socialista non è, e non è mai stato “di sinistra”. L’alleanza contro il tradizionalismo reazionario, cementata nel 1800, è oggi da superare, per il filosofo francese, perché la modernità contemporanea ha ormai da tempo passato il segno dopo il quale lo sradicare ed il mobilitare diventa distruttivo. Il ruolo progressista del capitalismo (contro la reazione) è, insomma, venuto meno.

Il capitalismo esprime infatti una pulsione all’acritica esaltazione dell’efficienza e della competitività individuale, ad esso connaturata, ovvero del progresso come mobilitazione costante dei potenziali (ma, più, profondamente della iscrizione come potenziale nello sviluppo quantitativo di ogni dimensione di vita, concepita come “risorsa”), che è profondamente problematico per l’ispirazione del socialismo (che come dice la parola stessa, parte all’opposto dal fatto della vita sociale).

Nel suo libro successivo Michèa attacca quindi la “metafisica del progresso”, radice di ogni concezione borghese del mondo (come la sociologia vede bene, da Sombart a Weber in poi), ma anche presente profondamente in Marx (soprattutto quando scrive semplice) e nei marxisti, da Plekhanov a Kautsky. La sinistra ha, si può dire, questo tratto fisiognomico: per essa qualsiasi incremento della dotazione quantitativa di beni, o della tecnica, è “per definizione un passo nella giusta direzione” (“I misteri”, p.27). La direzione della Storia è sempre e comunque apprendimento ed emancipazione. In “La costruzione dell’Europa come ‘sentiero di progresso’ o come ‘cespuglio di problemi’” avevamo tentato ad esempio una lettura dell’applicazione di questa idea nello sviluppo storico del sogno europeo, in particolare alla luce di alcune influenti interpretazioni di Habermas.

In una recente intervista per La Repubblica, Michéa, tra l’altro citando Andrè Gorz che abbiamo appena letto e va nella stessa direzione, dice: “Da quando la sinistra è convinta che l'unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent'anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli ‘agenti dominati della dominazione’, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i ‘tabù’ del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è ‘un fatto sociale’ totale. E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di ‘produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto’ (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o ‘madri in affitto’), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani ‘nelle acque ghiacciate del calcolo egoista’”.

Qui si aprirebbero diverse possibili ipotesi di lavoro, ad esempio: si potrebbe trattare di “pensare con gli illuministi contro gli illuministi” (sulla linea della prima scuola di Francoforte, ad esempio, e del pensiero negativo di Adorno, ripreso oggi da alcuni allievi di Honneth, come vedremo); oppure rimemorare la differenza tra il “cosmopolitismo borghese” ed il “internazionalismo proletario”; o anche recuperare da Hegel contra Kant, l’ideale della “fraternità”, in posizione dialettica con la “libertà” (Honneth, appunto).

La conclusione del 2013 Michéa è che il ‘significante principale’ intorno al quale schierare un fronte avverso al selvaggio liberalismo trionfante dei nostri tempi non può limitarsi alla “sinistra”, ma deve riprendere quelle che chiama “bandiere a priori” molto più larghe ed unificanti. Che abbiano senso per tutte le classi popolari e per i loro alleati: la questione del “populismo”, dunque. Cercheremo di guardarla ancora attraverso un’altra piccola serie di letture (Laclau, Formenti, e sull’altra sponda Merker, Jan-Werner Muller, Habermas, Urbinati).

Ma ora veniamo al testo del 2002.

Procederemo alla lettura del denso libro di Michéa in cinque passi:

-        le radici della postura teorico-pratica liberale nella metafisica scientista sei-settecentesca;

-        la relazione dell’assiomatica illuminista con la sistemazione di Smith come mobilitazione perpetua;

-        la “sinistra” come sostituto della religione, nel quadro del problema reso aperto dalla secolarizzazione;

-        il fatto che in sostanza la sinistra si alimenta alla stessa fonte del liberalismo;

-        l’alternativa socialista in alcuni suoi esponenti.

Questa lettura ha diversi compagni di strada, alcuni nominati costantemente dallo stesso filosofo francese: George Orwell (che è oggetto di “Orwell anarchiste tory”), Christopher Lasch (si può vedere “Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica”), naturalmente il giovane Marx (Michéa cita la “Questione Ebraica”, che leggeremo), William Morris, Charles Péguy (di cui abbiamo letto lo straordinario “Denaro”), Chesterton, citato e ripreso da Gandhi, Antonio Gramsci in alcuni passaggi sulle culture popolari, ovviamente Pasolini degli “Scritti corsari”, Sahlins, “Un grosso sbaglio”, Sennett (ad esempio “Insieme”), Walter Benjamin, Cornelius Castoriadis, Jaime Semprun, Anselm Jappe, Serge Latouche, Ivan Illich, Ellul, e via dicendo. Una strada affollata.

La sinistra, dunque, è strettamente connessa all’idea di progresso. Cioè dall’entusiasmo per quello che Michéa chiama il pensiero meccanico materiale, la “modernizzazione”, la crescita quantitativa praticamente di tutto. Su questa linea, ad esempio, si registra una profonda contraddizione, segnalata da molti (per un caso davvero esemplare si può leggere “Contro (la) natura” di Chicco Testa che attacca l’enciclica “Laudato sì”), tra il pensiero ambientalista conseguente e la sinistra conseguente.

Questa idea di progresso è del resto connessa strettamente con la rivoluzione scientifica e con l’ipotesi, d’altra parte, che l’armonia si possa ottenere dopo il trauma della fine del collante religioso, attraverso l’equivalente dell’immane semplificazione prodotta da Newton non la sua forza di gravitazione (che non spiega, ma di cui mostra la meccanica matematica). Come individua con chiarezza Hirschman questo principio unificatore è rintracciato ad un certo punto nell’interesse. Cioè proprio in ciò che era visto come problema da tutta la civiltà occidentale: le passioni. Da questo momento la riflessione si sposta su come, venute meno le strutture di autorità e davanti al rischio di dissoluzione del vecchio ordine sociale (anzi, a fronte della volontà di dissolverlo) a causa della forza corrosiva dell’interesse commerciale, si possa creare una “fisica sociale” misurabile, che consenta l’esercizio della ragione.

Quando questa idea arriva ad Adam Smith lo spostamento è sostanzialmente compiuto; questi dirà, infatti: “un accrescimento di beni è il mezzo con il quale la maggioranza degli uomini cerca e desidera migliorare la propria condizione. Esso è il mezzo più comune e più ovvio” (Hirschman, cit., p.35). Allora appare che una categoria d’interessi che fino a quel punto restavano qualificati come avidità, cupidigia, amore del lucro diventano impiegabili per contrastare, e quindi imbrigliare, altre più pericolose come l’ambizione, la brama di potere, la lussuria. Si tratta, cioè, in qualche modo di usare una passione per limitarne una più selvaggia. Come dice “il termine interessi portava – e di conseguenza conferiva al profitto- una connotazione positiva e curativa”.

Ciò che fa muovere il mondo sociale, come la gravità, non è più la ragione (la coppia che regge il discorso politico in Platone è “passioni” verso “ragione”), ma gli interessi individuali. Sono questi a determinare, essendo ovunque (come dirà Hobbes), la meccanica delle cose del mondo. Con questa riduzione di complessità si ottiene lo stesso straordinario effetto della fisica newtoniana: la prevedibilità e la costanza. Questa prevedibilità, data la presunzione della costanza, che è del tutto presa nel circolo della trasformazione matematica. Un grandioso esempio nell’articolo del 1953 di Milton Friedman “La metodologia dell’economia positiva”.

Scriverà Montesquieu “è lo spirito del commercio a convogliare su di sé quello di frugalità, di economia, di moderazione, di laboriosità, di saggezza, di tranquillità, d’ordine e di regola, così, finché questo spirito sussiste, le ricchezze che esso produce non hanno alcun effetto dannoso” (cit., p.56).

L’idea è che il capitalismo mobiliti delle positive tendenze, neutralizzando quelle negative. Che il commercio neutralizzi la guerra (un’idea talmente radicata e centrale che la ritroviamo costantemente ripresentata sotto innumerevoli travestimenti, incluso quelli europei). E che lo faccia esattamente perché tiene sotto controllo la politica: il luogo delle passioni. 

Questa non è tutta la storia, ma è la principale, come è ovvio nell’illuminismo ci sono molte e diverse tradizioni, ed anche nella linea di sviluppo dell’economia, ad esempio Luigino Bruni ricorda (in “Il mercato e il dono”) la quasi dimenticata “economia civile” di Antonio Genovesi, morto nel 1769 e quindi coetaneo di Smith, prima cattedra di economia europea, presso l’allora prestigiosissima Università di Napoli.

Ma quella che prevale è la fredda economia scozzese. E dunque lo spirito del capitalismo protestante.

La connessione è quindi tra un’antropologia negativa (cfr Sahlins), l’individualismo liberale fondato sull’interesse, e su una assiomatica che fonda se stessa sulla mera “utilità” e si giustifica con la capacità di previsione del linguaggio matematico (a cui lavorano instancabilmente dal 1800 da Walras a Nash e Debreu). Il circolo tra il linguaggio matematico, l’austera ed economica concezione dell’uomo come macchina guidata da passioni ed interessi e l’utilità è quindi fondativo del liberalismo e di ogni visione di progresso progressivo e necessario.

Ma questa antropologia negativa, che riduce l’uomo ad una sola dimensione, nella logica sistemica messa in piedi dallo stesso capitalismo, con l’accettazione del principio assoluto della concorrenza (vero punto meccanico del sistema) costruisce un mondo che crea a sua volta delle macchine-umane, ingranaggi della più complessiva megamacchina economica. Come sottolinea Marx nella prefazione alla prima stesura del Capitale, le persone sono incarnazione di rapporti, e sono costrette da questo spirito che incarnano, indipendentemente dalle loro inclinazioni o volontà, a funzionare secondo come il sistema si aspetta. Ad essere cioè utili, ed a costringere gli altri alle loro strutture di ruolo, meccanicamente incardinate in catene di utilità ordinate. Ordinate, precisamente, dalla logica valorizzante del capitale stesso. Cioè dalla logica autopoietica del costante accrescimento del valore di scambio, rappresentato dalla forma del denaro.

Certo, come già Smith vedeva benissimo, questa meccanica che programmaticamente, attraverso la trasformazione matematica, esclude dal suo orizzonte ciò che non è misurabile, ne dipende. Dipende dalle qualità umane della fiducia reciproca e della onestà, cioè dell’onore. Questa era la linea enfatizzata da Genovesi. Ma contemporaneamente lavora a dissolverla, questa è la profonda faglia che allargandosi sta inghiottendo oggi il mondo.

Non aver riflettuto su questo snodo impedisce alla “sinistra”, che segue Hobbes, di percepire davvero il senso di insicurezza che, come dice Michéa “pervade inevitabilmente le classi popolari man mano che l’atomizzazione liberale del mondo smantella le precedenti condizioni di esistenza” (p.44). La sinistra, allontanatasi inesorabilmente dall’ispirazione socialista, che con queste era sintonizzata, vede invece nella sfera dell’egoismo una necessaria immagine della guerra di tutti contro tutti (Tucidide riletto da Hobbes), ma anche ne individua il motore del progresso, della creazione di utilità dalla meccanica dello scontro degli interessi (esattamente come la dinamica dei gravi produce l’ordine del sistema solare per Newton).

Tutto è qui.

Al terzo passo della nostra lettura bisogna ricordare che tutto ciò è un potente sostituto della religione, una vera e propria teologia applicata al problema di quali basi rendano ancora possibile la cooperazione umana, quando si dissolve l’ordine fondato sull’onore (Max Weber). Questa lettura austera, parsimoniosa e sostanzialmente puritana, ci appare come “realista”. E quindi come “scientifica”. Ecco perché la “scienza economica” ha bisogno, per la sua stessa assiomatica, di rappresentare l’uomo, ma poi di crearlo, come solo attraverso gli interessi. L’uomo razionale ed egoista, è naturalmente una “robinsonata” (come diceva Marx), ma è la radice dell’ordine capitalista e della sua capacità di essere, insieme, emancipante ed alienante.

Questa ambivalenza intrinseca spiega perché in effetti la “sinistra” si alimenta alla stessa base filosofica di ogni liberalismo, anche di quello di Hayek e Milton Friedman.

Ma, andiamo alla conclusione, quale è, invece, la sensibilità propria del socialismo per Michèa? Il progetto socialista, come vede Polanyi, è orientato sin dalla nascita alla protezione da parte dei lavoratori, cioè degli ingranaggi, dagli effetti disumanizzanti dell’industrialismo liberale. Una aspirazione tesa a conservare o creare un “mondo comune” (come dice Hannah Arendt) che non significa affatto il ritorno alle gerarchie dell’ancienne regime.

Il socialismo prende, a suo termine, l’ideale dell’eguaglianza nato dalla modernità.

I punti di riferimento di Michéa sono il vecchio Engels (p.34), ma soprattutto Orwell che punta ad una società di individui liberi ed uguali, fondata su un uomo più largo, che trovi la capacità di rapportarsi l’un con l’altro anche attraverso la logica del dono (Mauss) l’aiuto reciproco (“Il mutuo appoggio” di Petr Kropotkin), il senso civico. Cioè su quella che Orwell chiama la “common decency” (p.63): un sentimento intuitivo che porta a non cercare di dominare i propri simili, ma di riconoscerli come eguali e degni di rispetto. Nessuna società di liberi ed eguali è possibile senza common decency.

In ultima analisi nessuna società del tutto.

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