Esiste in Marx una teoria generale e unitaria della crisi?
di Ascanio Bernardeschi
1. Premessa
La coincidenza fra gli importanti studi filologici attorno all’edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels1 e l’avanzare di una importante crisi del capitalismo mondiale, ha determinato una ripresa dell’interesse verso la teoria della crisi economica all’interno del sistema di analisi di Marx.
Se ormai resta diffìcile per chiunque disconoscere l’importanza del lascito marxiano su questo argomento, gli stessi estimatori di Marx si dividono fra di loro su questioni interpretative rilevanti. Ne è esempio il pregevole numero monografico sulla crisi in Marx della rivista «Pagine inattuali»2.
Per esempio Giovanni Sgro’, curatore del numero della rivista, nella sua analisi dei Quaderni di Londra3, sostiene che in Marx non «vi sia un’unica teoria della crisi» ma «diversi approcci teorici per l’analisi e la spiegazione delle crisi»4.
Stefano Breda da parte sua sostiene - se abbiamo ben capito - che non esista, e non possa esistere all’interno del livello di astrazione cui giunse Marx, una teoria della crisi in quanto la spiegazione di tali fenomeni deve avere le caratteristiche di teoria cuscinetto5 frapposta fra il cielo della teoria della struttura del modo di produzione capitalistico e la terra dell’analisi dei fenomeni contingenti che caratterizzano le diverse crisi6.
Con il presente lavoro, pur astenendoci dall’entrare nel merito delle interpretazioni, per la qual cosa non siamo attrezzati, vorremmo discutere della coerenza logica dell’elaborazione marxiana e della sua utilità per comprendere la “terra” della crisi attuale.
È nostra opinione infatti che, nonostante la sua incompiutezza, il Capitale e i relativi lavori preparatori ci forniscano tutti gli elementi necessari per una teoria coerente e unitaria della crisi, in quanto quelli ciò che Sgro’ considera «diversi approcci» non sono altro che le esposizioni delle diverse contraddizioni del modo di produzione capitalistico, tutte componenti essenziali di una spiegazione unitaria.
Cercheremo inoltre di argomentare come anche al livello di astrazione del Capitale questa struttura analitica possa guidarci a interpretare correttamente i fenomeni contingenti. Le necessarie teorie cuscinetto si rendono invece necessarie per elaborare strategie politiche spendibili nelle situazioni contingenti. Tuttavia la specificità delle diverse crisi non sarebbe adeguatamente indagabile senza una teoria generale basata sulle contraddizioni di fondo, comuni alle diverse situazioni, del modo di produzione capitalistico.
In appendice vengono infine proposti alcuni spunti in merito alla discussione sulla validità della marxiana legge della caduta tendenziale del saggio del profitto.
2. La possibilità astratta della crisi
Ai tempi di Marx, secondo l’ortodossia degli economisti borghesi la crisi non doveva esistere. Non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi, grandi economisti classici.
Secondo Adam Smith, per esempio, i meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale l’istruzione, la difesa ecc. astenendosi dall’interferire nell’economia.
David Ricardo, da parte sua, aderì alla cosiddetta legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta7.
Certamente anche a quei tempi non mancarono gli eretici più dubbiosi, quali Sismondi e Malthus. Ma si trattò appunto di eresie contro l’egemonia schiacciante dei negazionisti.
Figuriamoci poi cosa poterono dire gli apologeti. Qualcuno ebbe modo perfino di studiare le macchie solari8, tanto per escludere che le crisi potessero essere causate da contraddizioni insite al modo di produzione capitalistico.
Insomma la crisi o non esiste, o è il prodotto di cause “esogene”, o frutto di comportamenti di operatori irrazionali, o troppo egoisti (capita a volte di esagerare), oppure è il risultato di politiche sbagliate. Comunque si tratta di uno spiacevole inconveniente, di un evento patologico estraneo alla fisiologia del capitalismo.
Marx ha confutato la legge degli sbocchi, partendo dall'incipit del Capitale: il duplice carattere della merce9.
Questa «cellula elementare» del capitalismo è già in sé una contraddizione in quanto è sia un bene utile a soddisfare bisogni umani che una depositaria di ricchezza sociale astratta, di lavoro umano sociale astratto occorrente per la sua produzione. Per il produttore la sua utilità è solo quella di essere un potenziale involucro di ricchezza sociale ma non ha un valore d'uso immediato, altrimenti non la scambierebbe; è un valore di scambio potenziale che per realizzarsi come effettivo valore di scambio deve incontrare nel mercato qualcuno che le consideri un buon valore d'uso.
Con l'introduzione del denaro il valore si polarizza in quest'ultimo, più appropriato, contenitore, la cui utilità sta solo nel conferire al possessore il potere di acquistare merci utili, mentre al polo opposto, specularmente, le merci sono valori d'uso che possono realizzare il loro valore solo scambiandosi con denaro.
Il denaro separa in due atti distinti la metamorfosi della merce (M-D-M') a differenza di quanto avviene con lo scambio immediato o baratto (M-M'). Nel baratto colui che vende è nello stesso istante colui che acquista l'altra merce e viceversa, vendita e acquisto coincidono, per cui in questo contesto vale la legge degli sbocchi. Se invece lo scambio viene spezzato in due fasi (vendita e acquisto) esiste la possibilità che, dopo la prima, il venditore preferisca non spendere subito il suo denaro, ma tesaurizzarlo o spenderlo in altri mercati, togliendolo quindi dalla circolazione senza mettere in atto la domanda corrispondente. In tal modo ci sarà da qualche parte un potenziale venditore che non troverà il suo acquirente, che non riuscirà a trasformare la sua merce in denaro10.
Parafrasando il brano di Ricardo riportato nella nota 7, Marx afferma: «Nessuno può vendere senza che un altro compri, ma nessuno ha bisogno di comprare subito per il solo fatto di aver venduto». E poi prosegue: «La circolazione spezza i limiti cronologici, spaziali ed individuali dello scambio dei prodotti [...]. L'opposizione immanente alla merce di valore d'uso e valore, di lavoro privato che si deve allo stesso tempo presentare come lavoro immediatamente sociale, di lavoro concreto particolare che allo stesso tempo vale solo come lavoro astrattamente generale [...], questa contraddizione immanente riceve le sue forme sviluppate di movimento nelle opposizioni della metamorfosi della merce». Questa è la forma più astratta, la possibilità della crisi11.
Tale possibilità si accentua in presenza della circolazione del capitale. Non solo perché con il capitale si ha l’espansione e la generalizzazione della produzione di merci, ma anche perché fra la prima fase, l’acquisto dei mezzi di produzione e della forza lavoro, e la seconda, la vendita del prodotto, si incunea la produzione e il tempo di produzione, nel corso del quale sono possibili rivolgimenti del mercato tali da non consentire la completa realizzazione del valore prodotto.
Poiché in questo lasso di tempo [il tempo intercorrente fra l’acquisto dei fattori produttivi e la vendita del prodotto] nel mercato si verificano grandi rivolgimenti e modificazioni, poiché si verificano notevoli variazioni nella produttività del lavoro, e quindi anche nel valore reale delle merci, è evidente che dal punto di partenza - dal capitale presupposto - fino al suo ritorno devono verificarsi grandi catastrofi e devono ammassarsi e svilupparsi elementi di crisi che non si eliminano con la miserevole frase che i prodotti si scambiano contro prodotti. Il confronto fra i valori di una medesima merce in due epoche successive [...] costituisce il principio fondamentale del processo di circolazione del capitale12.
È da considerare, inoltre, che il movente predominante del capitale è l’accumulazione di ricchezza astratta, a prescindere dall’utilità dei prodotti. La crisi sopraggiunge per far ritornare alla memoria la necessità di un rapporto coi bisogni, per rimediare allo scollamento di un modo di produzione che tende a farne astrazione e che tuttavia si deve misurare a posteriori con essi.
Anche la funzione del denaro come mezzo di pagamento e il credito, che si dirama e si interconnette tra vari produttori, amplifica la possibilità di crisi, in quanto tende a permettere, per un po’, di continuare a produrre prescindendo dalla validazione nel mercato dell’utilità sociale del prodotto, rendendo così più violenta la “resa dei conti”: il fallimento di un debitore può provocare, con la sua insolvenza, il fallimento del suo creditore, il quale a sua volta non potrà onorare i suoi debiti nei confronti di terzi, innescando una reazione a catena. Anche per questo motivo le crisi si manifestano come crisi finanziarie, provocando, in chi vede solo la superficie delle cose, l’illusione che esse siano causate nella sfera della finanza e del credito13.
I marxiani schemi di produzione14 sono lo strumento per stabilire le condizioni necessarie perché il valore prodotto possa incontrare la domanda necessaria alla sua realizzazione. Ciò avviene se i capitalisti nel loro complesso spendono interamente il plusvalore sia per il loro consumo che per ampliare la scala della produzione, acquistando nuovi mezzi di produzione e assumendo nuova forza-lavoro. Quindi la parte non consumata improduttivamente (risparmio) deve eguagliare l’investimento per ampliare i fattori produttivi, posto che sia possibile e sia avvenuto il reintegro di quelli consumati nel processo produttivo.
Si tratta dell’uguaglianza tra risparmi e investimenti ben nota ai moderni “macroeconomisti”, che in Marx è arricchita da un’analisi dei rapporti necessari tra i vari settori produttivi: tralasciando per comodità i consumi dei capitalisti, il surplus di merci dei settori che producono beni di consumo deve essere in parte destinato ai nuovi lavoratori impiegati nei settori stessi e in parte venduto per i consumi dei nuovi lavoratori impiegati nei settori che producono mezzi di produzione, di modo che anche questi ultimi settori possano assumere nuova forza-lavoro ed espandersi; analogamente il surplus di mezzi di produzione deve essere in parte utilizzato all’interno dei settori in cui è prodotto e in parte scambiato con gli altri settori di modo che anche questi ultimi possano espandere la scala della produzione.
Perché gli scambi intersettoriali (beni di consumo contro mezzi di produzione, in questo caso non solo per l’allargamento della produzione, ma anche per i reintegri dei fattori produttivi consumati) possano verificarsi, occorre che essi si bilancino anche in valore. Sono determinabili così i rapporti di scambio necessari ad assicurare la riproduzione allargata ottimale e che solo per caso possono coincidere con i prezzi di mercato. Da tali rapporti si può derogare solo temporaneamente, grazie al credito15.
In un modo di produzione governato dagli interessi di capitalisti isolati, non coordinati fra di loro, niente può assicurarci che la condizione si equilibrio si realizzi. Inoltre il carattere dinamico del capitalismo, le innovazioni tecnologiche e la tendenza a modificare la composizione del capitale, tendono a mutare continuamente tali condizioni. Si verificherà quindi un continuo aggiustamento, per tentativi, errori e oscillazioni più o meno importanti, verso una situazione ideale che, come la tartaruga di Achille, si sposta continuamente e diviene raggiungibile solo per caso.
Da qui la possibilità della crisi.
3. Le cause della crisi
In un sistema in cui il movente degli agenti economici è la valorizzazione del capitale, la causa fondamentale degli inceppamenti della produzione è riscontrabile nell’insufficiente valorizzazione. Tale circostanza può verificarsi o perché la massa del pluslavoro estraibile dai lavoratori impiegati non è sufficiente a remunerare il capitale impiegato oppure perché tale plusvalore, anche essendo prodotto in misura sufficiente allo scopo, non è interamente realizzabile nel mercato. In entrambi i casi il capitalista, dopo aver esaurito tutti i margini per un maggiore sfruttamento della forza-lavoro, deve arrestare o ridurre la produzione. In alternativa può mettere in atto innovazioni di processo o di prodotto che lo possano ricollocare sul mercato ai danni dei capitalisti concorrenti. Pertanto, pur avendo ciascuna crisi proprie specifiche caratteristiche, le cause possono essere classificate in due categorie principali, tra le quali c’è sempre nella realtà una interazione: 3.1. crisi di realizzo, o da domanda, e 3.2. crisi legata all’andamento del saggio del profitto.
3.1. Crisi di realizzo
Gli schemi di riproduzione dimostrano che il sistema può riprodursi armonicamente, solo a patto che vengano mantenute determinate proporzioni fra i settori e fra gli scambi intersettoriali. Qualsiasi sproporzione significativa può causare una crisi. Tale sproporzione non si riferisce solo ai rapporti tra i diversi rami produttivi: una eccessiva o insufficiente capacità produttiva di un’industria rispetto alle necessità delle altre. Esiste anche la sproporzione tra produzione e consumo. La domanda di beni di consumo può essere insufficiente ad assorbire completamente la produzione a causa della distribuzione del reddito, del fatto che ai lavoratori va solo una parte del valore da essi aggiunto nel processo produttivo e che quindi possono acquistare solo una parte del corrispondente prodotto che viene messo sul mercato.
Visto che il valore corrispondente al lavoro non pagato va ai profitti e alle rendite, il capitale tende ininterrottamente ad accrescerlo comprimendo i salari. Con lo sviluppo tecnologico si possono produrre i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice con meno dispendio di lavoro. Così una frazione sempre più piccola della ricchezza prodotta va ai lavoratori e una sempre più grande costituisce il plusvalore. Cosa succede del plusvalore prodotto, cioè del valore eccedente la capacità di spesa dei lavoratori? I capitalisti potrebbero spenderlo in beni di lusso ma, per quanto ingenti siano tali consumi, il consumo improduttivo contraddice la stessa natura del capitalista, che è un funzionario, la personificazione del capitale, la cui vocazione è l’accumulazione. Debbono quindi spenderla in buona parte per accrescere la capacità produttiva.
Ma a chi vendere il prodotto di questa nuova capacità? Certo il mercato di mezzi di produzione fra capitalisti assume un’importanza crescente, ma è assurdo ritenere che si possano produrre sempre più mezzi di produzione per venderli ad altri capitalisti che i quali li acquistano per poter produrre ancor più mezzi di produzione e così via. Il capitalista può tendere ad astrarre dai bisogni reali per concentrarsi sul profitto, ma può farlo solo entro certi limiti. A lungo andare la crisi gli ricorderà che non si può produrre senza un rapporto col consumo e con i bisogni. E in questo caso i bisogni che contano sono quelli “solvibili”16, non quelli che le classi impoverite non riescono a soddisfare.
In sostanza il capitale tende a limitare la capacità di consumo dei lavoratori e nello stesso tempo a espandere il livello della produzione, di conseguenza ad accrescere la massa di prodotti che non possono entrare nella circolazione.
Riguardo al suo operaio ciascun capitalista [...] desidera restringere il più possibile il suo consumo [...] Egli si augura naturalmente che gli operai degli altri capitalisti siano il più possibile grandi consumatori della sua merce .
3.2. Caduta tendenziale del saggio del profitto
Un altro motivo per cui è improbabile un’accumulazione indisturbata consiste nel fatto che i capitalisti investono, e quindi comprano mezzi di produzione e forza-lavoro, solo se prevedono un sufficiente ritorno del capitale investito, se si aspettano di poter fare profitti a sufficienza. Altrimenti arrestano il processo di accumulazione e con esso la loro domanda di mezzi di produzione e la domanda di mezzi di consumo da parte dei propri lavoratori.
La convenienza a investire si verifica quando l’importo del plusvalore determina una sufficiente aliquota del capitale anticipato, cioè in un ragionevole saggio del profitto, in base alle condizioni sociali e tecniche vigenti in quel determinato momento, saggio del profitto, definito come il rapporto tra plusvalore e capitale anticipato sia per retribuire la forza-lavoro (capitale variabile) che per acquistare mezzi di produzione quali macchinari, materie prime e semilavorati, energia, brevetti ecc. (capitale costante).
r=pv/c+v
(1)
(r = saggio del profitto; pv = plusvalore; c = capitale costante; v = capitale variabile)
La tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è una caratteristica del modo di produzione capitalistico, rilevata in moltissimi studi empirici18. Già gli economisti classici, di fronte all’evidenza, avevano cercato di individuarne le cause. Ricardo, ad esempio, la spiegò con la necessità di mettere a coltura terre sempre nuove e sempre meno fertili19. Marx la spiega col progressivo aumento della composizione del capitale (c/v) e del valore complessivo del capitale per addetto o, che è la stessa cosa, con tendenza a sostituire lavoratori con macchine, con la conseguenza che il numeratore della (1), il plusvalore, viene a rapportarsi con un denominatore, il capitale, sempre più grande.
Non si tratta quindi di un problema del singolo capitalista, ma della classe dei capitalisti nel loro insieme, in quanto si abbassa il saggio medio del profitto, dato dai valori aggregati della (1), che per distinguerli rappresentiamo con la lettera maiuscola.
r=Pv/C+V
(2)
Vediamo come può accadere. Il mercato determina una tendenza al livellamento dei prezzi, cioè all’affermazione, per ogni merce prodotta, di un valore medio di mercato20, dato dal lavoro sociale necessario alla produzione di quella merce sulla base di un livello medio di produttività. Se un capitalista riesce a introdurre nella sua impresa un’innovazione che accresce la produttività e gli permette di produrre a un costo (valore individuale) inferiore a quello prevalente nel mercato (valore sociale), si assicura ugualmente la possibilità di vendere al valore di mercato, o anche a un corrispettivo alquanto inferiore. In questo modo, visti i minori costi, realizzerà un profitto e un saggio del profitto superiori a quello medio. Produrre a costi inferiori al valore di mercato equivale a diminuire la quantità di lavoro impiegata in quella produzione, diminuire il valore individuale di quel prodotto e incrementare il margine di profitto individuale. È questo il movente principale dell’introduzione delle innovazioni.
Prima o poi gli altri capitalisti reagiranno introducendo anch’essi delle innovazioni per annullare il vantaggio competitivo iniziale del concorrente, o addirittura mandarlo “fuori mercato” attraverso tecnologie o trucchi21 ancora più efficaci. Nella incessante corsa della concorrenza, una volta incamerati i vantaggi temporanei da parte di chi è più veloce nell’introdurre l’innovazione, abbiamo come risultato che diminuisce il lavoro complessivo speso per la produzione delle merci, quindi il loro valore, e che uno stesso numero di lavoratori mette in movimento una massa crescente di mezzi di produzione. Detto altrimenti, con la generalizzazione delle innovazioni, in ogni merce sarà inglobata una minore quantità di lavoro, mentre aumenterà il valore complessivo del capitale in rapporto al lavoro vivo speso e il valore del capitale costante in proporzione a quello del capitale variabile.
La tendenza generale sarà quindi verso la diminuzione del saggio del profitto , pur con interruzioni, rimbalzi e fasi - anche prolungate nel tempo - in cui prevale la tendenza opposta.
Non si tratta di una ineluttabile caduta. Marx considera anche l’azione dei fattori, da lui chiamati cause antagonistiche23, che mitigano, e in alcuni casi invertono, questa tendenza. Infatti il capitale mette in atto politiche che ostacolano questa caduta: in primo luogo, un maggiore sfruttamento della forza lavoro. A tale scopo funzionano sia l’intensificazione del lavoro che la riduzione della valore della forza-lavoro, attraverso innovazioni tecnologiche ma anche attraverso l’abbassamento del tenore di vita dei lavoratori. L’ampliamento dell’esercito industriale di riserva può servire per abbassare il livello dei salari al pari dell’attuale tendenza alla delocalizzazione delle produzioni in parti del globo terrestre in cui la forza-lavoro è a più a buon mercato. Tutte queste pratiche tendono però a comprimere la domanda e comunque possono solo parzialmente o temporaneamente, anche se per periodi rilevanti, contrastare la caduta del saggio del profitto.
Quando il livello del saggio del profitto non consente di proseguire convenientemente la produzione, si ha una contrazione della produzione, un arresto degli investimenti e un’interruzione dell’accumulazione. La convenienza viene ripristinata violentemente attraverso una crisi che permette la distruzione del capitale in eccesso, particolarmente quello dei capitalisti “marginali” e l’avvio un nuovo ciclo. Col progressivo accrescimento della produttività, con la sostituzione progressiva del lavoro umano con le macchine, sempre meno il lavoro sarà in grado di valorizzare l’enorme massa di capitale accumulato.
Nel famoso frammento sulle macchine dei Grundrisse, citato a proposito e a sproposito, vi si trova già l’esposizione dei limiti della valorizzazione, ma si ragiona sulle conseguenze più generali di una tale prospettiva, non solo dal punto di vista del capitale24.
Con l’incorporazione della scienza nelle macchine, il lavoratore si riduce a un’appendice delle macchine stesse. La massa di valori d’uso prodotti (di ricchezza reale, di cui il valore è solo un aspetto) dipende più dalle potenze della scienza che dal lavoro vivo.
Perdendo importanza il lavoro vivo nella produzione di valori d’uso, perde importanza anche il tempo di lavoro come misura del valore. E anche il plusvalore prodotto cessa di essere la condizione per lo sviluppo della ricchezza.
Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo [...]. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato25.
Viene in tal modo ribadito il concetto che lo sviluppo capitalistico tende a ridurre il tempo di lavoro necessario ma, contraddittoriamente, pone il tempo di lavoro e l’eccedenza di lavoro come unica fonte di arricchimento e di valorizzazione del capitale. A ben guardare sia la caduta del saggio del profitto che il sottoconsumo sono riconducibili a questo carattere di fondo del capitalismo.
La pulsione del capitalismo di accrescere il pluslavoro diminuendo il lavoro necessario attraverso le macchine, crea le condizioni per aumentare il tempo di non lavoro disponibile per l’umanità. Da un lato, quindi, si ampliano le potenzialità per sviluppare la ricchezza materiale, moltiplicare i beni utili prodotti a prescindere dall’accumulazione di valore e di ridurre il tempo di lavoro per tutti. Dall’altro, la forma capitalistica della produzione e dell’appropriazione tende invece a bloccare queste potenzialità. L’accumulazione di plusvalore a prescindere dai valori d’uso genera una sovrapproduzione di capitale e di merci, una crisi e un’interruzione dell’accumulazione stessa. La contraddizione si risolve positivamente solo se la crescita delle forze produttive non viene subordinata all’estorsione di pluslavoro, se i lavoratori divengono padroni del loro prodotto e regolano l’attività economica sulla base dei bisogni e dell’obiettivo di liberare progressivamente gli uomini dal lavoro. La vera misura della ricchezza sarà appunto questo tempo liberato e non il tempo di lavoro. Ma questa possibilità di sviluppo umano presuppone il superamento del capitalismo.
Detto con le parole di Marx,
il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la riduzione del lavoro necessario alla società ad un minimo, a cui poi corrisponde la formazione artistica, scientifica, umana degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per essi tutti26.
Nell’ambito del capitalismo, invece, la contraddizione si supera con la distruzione di capitale e con la crisi.
4. L’operare congiunto delle contraddizioni 3.1. e 3.2
La mancanza di un ritorno adeguato blocca il processo di investimento e l’occupazione dei lavoratori e quindi compromette lo sbocco delle produzioni delle industrie che vendono mezzi di produzione e di quelle che vendono beni di consumo dei lavoratori, le quali a loro volta domanderanno meno mezzi di produzione e meno forza lavoro, innescando una spirale perversa27.
Quindi nella realtà la contraddizione derivante dall’insufficienza degli sbocchi e quella derivante dalla caduta del saggio del profitto - riconducibili entrambe, come si è visto, alla scissione fra utilità sociale e arricchimento privato - spesso convivono, agiscono in simbiosi e danno luogo a interazioni importanti. Per questo, dovendo analizzare una situazione concreta, è assai difficile isolare e misurare empiricamente i due aspetti in maniera distinta.
La crisi, in estrema sintesi, ha il suo fondamento nella contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Se da un lato il capitale viene spinto ad espandersi sempre di più, dall’altro lato i rapporti di produzione e di proprietà si frappongono a questo sviluppo creando sovrapproduzione di capitale, cioè un capitale che non riesce a valorizzarsi adeguatamente e una sovrapproduzione di merci, cioè merci che non riescono a essere vendute a un prezzo remunerativo.
Le cause quindi possono essere molteplici: espansione non armonica tra i vari settori produttivi, scarsa valorizzazione del capitale investito, scarsità di domanda solvibile. Nella pratica esse quasi sempre coesistono e concorrono a trasformare la potenzialità in crisi reale che interrompe l’accumulazione di capitale, producendo scossoni e inceppamenti della produzione discontinui nel tempo.
Non solo. Se è agevole rilevare empiricamente una tendenza, pur fra grandi oscillazioni, anche di lunga durata, alla diminuzione del saggio del profitto, molto più complesso è stabilire in che misura questa caduta sia da attribuire a una sovrapproduzione di capitale, quindi a una insufficiente estrazione di pluslavoro rispetto al lavoro “morto”, o a una carenza della domanda che impedisce di vendere a prezzi che consentano di realizzare tutto il valore prodotto, concorrendo i due fattori a determinare tale caduta28.
Detto ciò, non troviamo spiegazione delle ragioni di una disputa fra marxisti per individuare la vera teoria di Marx, se essa sia legata ai problemi dello sbocco o alla caduta del saggio del profitto. Marx in un passo delle Teorie sul plusvalore ebbe ad affermare che la crisi è «la compensazione violenta di tutte le contraddizioni dell’economia borghese»29, che possono essere ricondotte alla contraddizione tra il carattere sociale della produzione, che si è imposto con lo sviluppo del capitalismo, e il carattere privato dell’appropriazione.
Quello appena citato è solo di uno dei tanti passi in questo senso all’interno di un abbozzo di critica a Ricardo, ma è curioso che ciò non sia bastato a prevenire questa disputa. Le crisi ci dicono che tale modo di produzione non è né naturale né eterno ed è destinato a fare spazio, pena l’arretramento della nostra civiltà, a un modo superiore di produrre, in cui le scelte vengano effettuate dai produttori associati su base consapevole, con riguardo ai bisogni umani e non demandate alla spontaneità del mercato e guidate dalla brama di arricchimento privato.
Per questo lascia perplessi anche una recente affermazione di Vladimiro Giacché, secondo cui la caduta del saggio del profitto «non è una spiegazione delle singole crisi, ma un’interpretazione delle tendenze di lungo periodo del modo di produzione capitalistico»30. Invece è l’una non meno dell’altra. Non solo perché la stessa teoria della crisi in Marx è uno strumento efficace per sostenere l’esigenza di superare il modo di produzione capitalistico e non solo per spiegare il “ciclo” economico, ma anche in quanto la crisi si sviluppa proprio nel rapporto dialettico fra le diverse contraddizioni di questo modo di produzione, dal momento che la legge non agisce isolatamente fino a compromettere le prospettive di lungo periodo, scontrandosi quotidianamente con gli altri problemi dell’economia borghese.
I tasselli di una teoria coerente e unitaria sono costituiti dall’insieme delle contraddizioni individuate da Marx, in quanto è sempre possibile mettere delle pezze quando una singola classe di ostacoli tocca particolarmente il corpo sociale e soprattutto la tasca dei capitalisti, ma non è altrettanto agevole aggredire contemporaneamente l’insieme degli intoppi. Infatti, nel caso di crisi da domanda è possibile farvi fronte con una più equa distribuzione, con il sostegno della spesa pubblica e con altri accorgimenti che anche il buon Keynes ci ha suggerito. Ma queste misure vanno a deprimere il saggio del profitto, in quanto accrescono il costo della forza-lavoro, dato dal salario diretto, indiretto e differito.
Non a caso dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, a seguito di una contrazione del saggio del profitto, queste politiche sono state messe al bando, non solo nella pratica e nelle istituzioni accademiche, ma perfino nel disegno istituzionale dell’Europa. La risposta è stata quindi - dal Cile di Pinochet alla Gran Bretagna della Thatcher, all’America di Reagan e successivamente alla generalità delle economia occidentali - l’introduzione del nuovo vangelo liberista, che, contraendo il reddito dei lavoratori e la spesa pubblica, ha determinato problemi di domanda.
A questi ultimi si è cercato di far fronte con il ricorso al credito. Come ha rilevato acutamente Vladimiro Giacché, si è cercato di realizzare così «il sogno di ogni capitalista»: lavoratori pagati poco ma buoni consumatori31. Per accertare per quanto tempo può funzionare il trucco, è bastato avere la pazienza di attendere lo scoppio della bolla creditizia come nel caso dei mutui subprime e dei loro derivati negli USA32.
Analogamente si può intervenire sul saggio del profitto riducendo i salari diretti, indiretti e differiti, dislocando le produzioni dove i salari sono più bassi, aumentando la velocità di circolazione del capitale, riducendo le scorte e procedendo alla cosiddetta produzione snella ecc. Ma in questo modo si deprime la domanda33.
È come se il sistema economico fosse un vascello che naviga in uno stretto fra due pericolosi scogli: il sottoconsumo e la caduta del saggio del profitto, omettendone per semplicità un terzo, la questione ambientale connessa ai limiti fisiologici dello sfruttamento della natura, per quanto in buona parte dilatabili grazie al progresso della scienza. Con le misure che servono per promuovere la domanda al fine di evitare Scilla si riducono i margini di profitto, in quanto cresce il valore della forza-lavoro e ci si avvicina paurosamente a Cariddi. Cercando di allontanarci da quest’ultima, ripristinando i margini di profitto, sia pure entro i limiti già visti, si deprime la domanda e ci si avvicina pericolosamente a Scilla.
Certo, esistono poi altre politiche che possono aggredire la caduta tendenziale, per esempio le privatizzazioni, cioè la sussunzione sotto il dominio del capitale di attività finora demandate alla socialità pubblica, non mediata dal mercato (istruzione, cultura, previdenza, tutela dell’ambiente, mobilità), oppure alla socialità immediata comunitaria, quali alcune attività domestiche. Infine soccorre lo sfruttamento più intenso dell’ambiente dei beni comuni. Ma anche questa pervasività non può andare oltre il limite del capitale che si impadronisce di tutto, abbracciando ogni aspetto dell’esistenza naturale e sociale.
Possiamo concordare con l’osservazione di Sgro’ che in Marx non vi sia un’unica teoria della crisi, solo nel senso che quest’ultimo non ha individuato un’unica causa ma almeno due. Tuttavia l’intreccio di queste cause permette di comporre un sistema coerente. Si può anche assentire che non esista una teoria marxiana della crisi compiuta, così come invece lo è l’analisi della merce e del denaro, del plusvalore ecc. Nondimeno è altrettanto vero che, nel contesto di una serie di abbozzi in cui non è facile districarsi, emergono con nettezza tutti gli elementi fondamentali che, opportunamente organizzati, possano offrirci una teoria generale unitaria, nel suo insieme robusta, ovviamente nell’ambito di un modello semplificato in cui non intervengono molti altri fattori che devono essere considerati nell’analisi delle crisi reali, tra cui il mercato mondiale, la finanza, il ruolo dello Stato, argomenti che non possiamo trattare in questa sede.
Nel paragrafo precedente abbiamo posto l’evidenza su «tutti» pensando all’articolo di Breda citato in premessa. Infatti ci pare che non ci sia necessità di introdurre teorie cuscinetto per una spiegazione generale della crisi. Certamente ogni crisi fa storia a sé. Se vogliamo esporre come si è verificata, per esempio, la crisi esplosa nel 2007 (ma in realtà avente origine negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso), dobbiamo introdurre tutta una serie di elementi empirici, dati e analisi che ci possano far cogliere le particolarità di questa crisi. Se poi vogliamo intervenire politicamente nel contesto di questa crisi, a maggior ragione devono essere prese in considerazione ulteriori variabili, quali i rapporti di forza, gli strumenti per operare, il contesto istituzionale le possibili alleanze internazionali ecc. Ma solo disponendo di una teoria generale appropriata, anche al livello di astrazione cui è potuto giungere Marx, è possibile valutare adeguatamente questi elementi e isolare le specificità che rendono questa crisi diversa dalle altre. Se la teoria di Marx non fosse coerente, dovremmo invece inventarcene un’altra, per evitare di incorrere in una «descrizione caotica di un insieme» senza pervenire a «una totalità ricca, fatta di determinazioni e relazioni»34.
* * * *
Appendice
Per una discussione sulla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto
La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto è stata oggetto di discussione e di tentativi di confutazione. Ne è un esempio assai citato il teorema di Okishio35, ampiamente citato e pure utilizzato con scopi alquanto diversi da quelli che si prefigurava l’autore. In questa sede mi sottraggo dalla tentazione di entrare nel merito di questo teorema, in quanto ne considero i risultati assolutamente dipendenti dal tipo di teoria del valore utilizzata e non dimostrabili nell’ambito della teoria marxiana. Quello che mi preme invece qui discutere è se la legge ha una sua coerenza e tenuta all’interno del sistema di analisi di Marx.
A questo proposito altre e diffuse obiezioni, anche in ambito “marxista”, si riferiscono agli effetti che le innovazioni producono sul valore degli elementi di capitale, sia costante che variabile. Infatti, nell’ipotesi assolutamente ragionevole che nel tempo le innovazioni andranno a interessare tutti i settori, tenderà a diminuire il valore dei singoli elementi unitari che costituiscono sia c che v, in quanto è possibile produrre spendendo meno ore di lavoro sia i beni di consumo dei lavoratori che i mezzi di produzione, dal che si deduce che la composizione del capitale (c/v) potrebbe non registrare una tendenza alla crescita o comunque registrarla di entità diversa da quella attesa se si considerassero solo le masse di merci e non anche il loro valore. Diminuendo anche il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro aumenterà sia saggio del plusvalore che il plusvalore in termini assoluti. È vero che l’accresciuta produttività farà sì che nello stesso tempo di lavoro aumenti la massa dei mezzi di produzione messi in movimento dal singolo operaio, ma tenendo conto della riduzione dei valori unitari, tale processo si risolve o no in un accrescimento della composizione di valore del capitale (c/v) e in una sostituzione di lavoratori con macchine in misura tale da più che compensare l’aumento del saggio del plusvalore? L’obiezione di fondo è che, a fronte dell’aumento della massa dei mezzi di produzione, considerando la diminuzione del loro valore unitario, non è detto che aumenti il loro valore complessivo o comunque che possa aumentare in una misura tale da non poter essere controbilanciata o superata dall’aumento del plusvalore e del saggio del plusvalore.
Infatti, se dividiamo per V numeratore e denominatore della (2), abbiamo:
(3)
ove pv’ è il saggio del plusvalore Pv/V e c’ la composizione organica del capitale C/V.
Con l’aumento della produttività aumenta il plusvalore e diminuisce il capitale variabile. Pertanto aumenta il saggio del plusvalore posto al numeratore e niente ci dice se il denominatore aumenti più o meno rapidamente del numeratore. Diventa quindi indeterminata la dinamica della relazione (3).
È innegabile che la trattazione marxiana nei manoscritti disponibili sia piuttosto carente, ma è possibile una dimostrazione piuttosto semplice della legge se muoviamo dalle seguenti tre premesse che fanno indubbiamente parte delle assunzioni presenti nel Capitale.
1. Per la natura stessa del capitale, l’accumulazione non è solo accumulazione di masse di merci ma essenzialmente accumulazione di valore. Per di più, incessante e tendenzialmente illimitata («smisurata»). Il capitale non sarebbe capitale se non tendesse all’accumulazione di valore. Anche se, senza dubbio, è fortemente attiva la tendenza al deprezzamento dei singoli elementi, non ci sarebbe più accumulazione se complessivamente il valore del capitale cessasse di aumentare. In questo contesto si deve quindi presupporre che tale aumento non sia limitato. O meglio, il limite è dato solo dall’arresto del processo di accumulazione dovuto alla crisi.
2. Detto valore aumenta non solo in assoluto ma anche in relazione al numero di lavoratori occupati. Cioè il valore del capitale per addetto tende ad aumentare. Questa ipotesi la si può desumere dal capitolo ventitreesimo del libro primo del Capitale sulla legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica36. In base a questa legge, allorquando il capitale impiega troppi lavoratori, e con ciò si contrae l’esercito industriale di riserva, si verifica un aumento della pressione in direzione del rialzo dei salari. Un alto livello di occupazione dà infatti più forza contrattuale ai lavoratori, difficilmente sostituibili. In tali casi devono essere prese misure per ricostruire l’esercito industriale di riserva. La crescita dei lavoratori impiegati, contrariamente all’incessante accumulazione di valore, è soggetta a precise restrizioni. Oggi si potrebbero aggiungere anche dei limiti naturali all’espansione della popolazione in un pianeta assai sovraffollato e sofferente, ma possiamo tralasciare questo argomento.
3. La riduzione del valore della forza-lavoro, pur ipotizzando aumenti spettacolari della produttività, ha un limite. Se anche, nel caso estremo, i lavoratori «campassero d’aria», scrive Marx, e tutto il loro lavoro consistesse di pluslavoro; se anche l’orario di lavoro si protraesse fino agli estremi limiti biologici e si potesse perfino forzare, grazie a una scienza perversa, questi limiti, il plusvalore giornaliero per addetto non potrebbe superare quello che si può ottenere nel corso della giornata lavorativa, di durata comunque non superiore a 24 ore. Quindi l’aumento del plusvalore ha un limite.
Date queste premesse, la relazione (2) può essere trasformata, ponendo Pv = L-V, ove L è la quantità di lavoro vivo impiegato, nella seguente:
(4)
Trascurando V, cioè adottando l’ipotesi estrema che i lavoratori campino d’aria, la relazione diventa
r=L/C
(5)
Ora, in base alla supposizione che L cresca meno rapidamente di C e che la sua crescita abbia un limite, il saggio del profitto non può che decrescere.
Un altro modo di vedere la faccenda: dividiamo il numeratore e il denominatore della (5) per il numero dei lavoratori (N) ottenendo
(6)
L/N rappresenta le ore di lavoro messe in moto da un singolo lavoratore, quindi, come abbiamo visto il massimo a cui possono tendere è 24, e C/N il valore del capitale per addetto, che invece tende ad aumentare senza limiti. Di nuovo è evidente la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto.
Né vale l’obiezione che l’accumulazione potrebbe indirizzarsi verso il denaro e la finanza e non verso il capitale produttivo. Certo anche tutto ciò si verifica, ed è un formidabile espediente per alcuni, ma il plusvalore prodotto deriva solo dal lavoro e viene ripartito fra i tutti i capitali, è la fonte di tutti i profitti: quelli industriali, quelli commerciali, quelli bancari, quelli speculativi ecc. Quindi, se consideriamo la finanza, L si contrappone non solo al capitale industriale, ma a tutto il capitale, quello finanziario incluso, ed escluso solo quello fittizio. Con la finanziarizzazione avviene solo una diversa ripartizione del plusvalore fra i capitalisti. Per questo i boom della finanza, come è stato preventivato sempre dagli economisti più accorti, prima o poi si sgonfiano.
Restano naturalmente in piedi tutti i discorsi sulle controtendenze, sulla dinamica effettiva che procede contraddittoriamente e a fasi alterne fra tendenze e controtendenze, sulla non linearità, quindi, dell’andamento. In ogni caso, per salvaguardare il saggio del profitto è necessario interrompere l’accumulazione o distruggere il valore del capitale, quindi la crisi trova anche nella legge una sua spiegazione.
Non posso condividere pertanto l’affermazione di Fineschi il quale, in un pur importante lavoro37, sostiene, in compagnia di molti altri studiosi, che lo sviluppo della produttività consente di produrre le merci che entrano a far parte del capitale costante sempre più a buon mercato e che quindi «non è possibile stabilire la grandezza» del denominatore dell’espressione (1) e di conseguenza «si possono ipotizzare vari rapporti»38, non considerando adeguatamente che l’accumulazione è accumulazione di ricchezza sociale astratta e non solo di valori d’uso.
L’altro elemento del lavoro di Fineschi che non mi trova convinto, è la riconduzione della caduta del saggio del profitto al problema delle difficoltà di realizzazione39.
Il ragionamento di Fineschi è sviluppato nel contesto di un’attenta illustrazione dei vari livelli di astrazione che si susseguono nel Capitale, collocando, giustamente, la trattazione marxiana di questo argomento laddove si introduce la concorrenza fra «molti capitali in azione reciproca», che poi corrisponde al particolare della logica di Hegel. In effetti, le innovazioni sono pensabili nell’ambito della concorrenza, come abbiamo visto illustrandone i motivi. Il livello di astrazione quindi è più basso rispetto alle precedenti pagine dedicate alla circolazione del capitale e con essa ai problemi di realizzazione del plusvalore, che quindi, parrebbe, debbano essere presupposti a questa trattazione.
Tuttavia ho l’impressione che non sia sempre agevole esporre una complessa teoria seguendo linearmente lo sviluppo dall’astratto al concreto. Talvolta può rendersi necessario un passo indietro, astrarre da alcuni elementi già trattati in precedenza per isolare un problema e studiarlo nella sua versione depurata da altre complicazioni. Non propongo qui una tecnica alternativa di interpretare Marx, perché non ne ho gli strumenti. Mi limito a dire che è possibile spiegare la legge astraendo dai problemi della realizzazione, cioè dimostrare che, anche nell’ipotesi in cui tutto il plusvalore sia realizzato, in cui tutte le merci siano vendute al loro valore, il saggio del profitto tende a diminuire. È necessario cioè isolare due problemi che sul piano analitico devono essere distinti, pur dovendo successivamente trattare le loro reciproche ripercussioni che effettivamente si presentano nel mondo reale.
Non a caso già in alcune pagine del primo libro del Capitale, in cui l’autore non è ancora pervenuto al livello di astrazione del libro secondo, dedicato al processo di circolazione del capitale, Marx è in grado di illustrare dinamiche analoghe a quelle indicate nelle tre premesse contenute in questa appendice. Essendo la stesura del libro primo posteriore a quella dei manoscritti per i successivi libri, questi brani suonano quasi come un’anticipazione dei presupposti 1., 2. e 3. che potevano quindi essere esposti già in quella sede e a quel livello di astrazione40.
Ciò conforta l’opinione che per gli scopi analitici sia utile distinguere e isolare due ordini di problemi: quello della produzione di un insufficiente plusvalore e quello di una sua insufficiente realizzazione, fermi restanti gli indubbi rapporti fra le due questioni e la dialettica del loro contemporaneo movimento nell’economia reale.
Un’ultima notazione. A me pare che la tesi di Fineschi sia speculare al suo ragionamento sul problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, laddove egli riduce tale problema alla formazione dei valori di mercato e, vedendo in Marx «due teorie della “trasformazione”», rigetta quella che presuppone l’inesistenza dei problemi di realizzazione41.
Anche in questo caso senz’altro il processo reale passa attraverso la variazione dei prezzi conseguenti alla concorrenza (questa volta fra i capitali di distinti settori) e quindi è corretta la collocazione dell’argomento nel terzo libro del Capitale. Ma non per questo può essere elusa la necessità di dimostrare la coerenza di una teoria a livello macro dimostrando che gli aggregati Pv, C e V in termine di valori corrispondono a quelli in termini di prezzo nel presupposto che tutto il valore prodotto sia realizzato. Anche in questo caso, quindi, è utile fare un passo indietro, verso un più alto livello di astrazione, per dimostrarlo.