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L’Italia cieca

di Nicola Lagioia   

La prima volta che sono andato in crisi riflettendo sul fascismo è stato davanti alle pagine di Piero Gobetti. Mi ero appena iscritto a giurisprudenza, galvanizzato come tanti altri studenti dal vento euforico di Mani Pulite, e fino a quel momento (complice la mia ignoranza e la retorica di una sinistra la cui crisi identitaria non era ancora così tanto conclamata) avevo considerato il Ventennio come qualcosa che – storicamente, eticamente, antropologicamente – riguardava sempre gli altri.

Ma quando lessi per la prima volta il famoso Elogio della ghigliottina, in cui il fascismo veniva definito da Gobetti come “autobiografia della nazione” ne fui spiazzato. E quando tre o quattro settimane più tardi mi sorpresi inattivo, e dunque complice, davanti a uno dei tanti abusi di potere che si consumavano quotidianamente in seno alla facoltà di legge di Bari (un professore aveva interrotto un esame per andare a ricevere un cliente importante nel suo studio d’avvocato), le parole di Gobetti mi tornarono in mente rivelando tutta la potenza del loro significato, e poi mi si piantarono davanti agli occhi come il peggiore e il più giusto dei rimproveri che avessi mai ricevuto. Il che, tra l’altro, la dice lunga sul valore dei maestri in carne e ossa che mi era capitato di incontrare nei miei primi diciannove anni di vita.

Una sensazione molto simile si può ricevere dalla lettura del nuovo libro di Guido Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale (Donzelli). Dopo l’interessantissima ricognizione del nostro passato recente operata nei suoi libri precedenti (Storia del miracolo italiano, dedicato alle speranze degli anni cinquanta e a quel vertice e bivio del boom che fu la prima metà dei sessanta, e Il paese mancato, dove invece si racconta la crisi della repubblica attraverso la sua capacità di perdere continuamente l’occasione di un’inversione di tendenza), il processo di avvicinamento di Crainz al cuore – vivo e marcio contemporaneamente, “non morto” direbbe forse George Romero – della nostra quotidianità tocca un primo importante punto d’arrivo con questo breve e lucido saggio. Utilizzando lo stile polifonico che è ormai diventato un suo segno distintivo, Crainz analizza l’attuale disastro italiano (politico, civile, ma soprattutto identitario) prestando continuamente la voce a tutti gli attori capaci di restituire una forma al pozzo nero in cui siamo stati capaci di infilarci, contrappuntando dunque la propria ricostruzione dei fatti con fonti che vanno dalle bibliografie degli altri storici ai dati degli istituti di statistica, dal giornalismo alla letteratura, dal preciso termometro sociale che spesso è stata la musica leggera al terrificante apparecchio radiografico rappresentato dalla pubblicità.

Dalla lettura del libro è difficile uscire indenni, dal momento che – pur negando ogni teoria determinista –, Crainz dimostra come nulla o poco nella nostra discesa verso il peggio sia stato casuale. Citando e rovesciando, da destra verso sinistra, una celebre strofa del cantautore che meglio ha saputo leggere nella coscienza politica del nostro paese, potremmo ad esempio rivolgerci alla sinistra italiana davanti al berlusconismo nello stesso modo con cui De Andrè si rivolgeva alla piccola borghesia democristiana davanti al Sessantotto: “per quanto voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. O, per rimanere nello stesso ambito e dirla con Gaber: “quello che mi spaventa non è Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me”.

Non fenomeno, insomma, ma epifenomeno... Vale a dire: non sarebbe la forza di pochi (l’attuale classe dirigente, l’attuale establishment politico) ad aver trascinato un intero Paese verso le soglie del Secondo mondo, ma la debolezza e l’irresponsabilità di moltissimi ad aver creato o quantomeno reso possibile l’arrivo sulla scena degli attuali pessimi condottieri. Crainz mette a fuoco le rovinose eredità che hanno reso sempre più difficile per l’Italia diventare un paese normale – una serie di lasciti passati per effetto cascata di generazione in generazione come tante bombe dalla miccia sempre più corta e mai disinnescate in via definitiva: lo Stato avvertito come nemico già all’alba dell’Unità, il servilismo e l’abdicazione dalle proprie responsabilità di individui adulti consolidatisi durante il fascismo, l’incapacità di saper sfruttare in maniera virtuosa sul lungo periodo le congiunture favorevoli come accadde negli anni sessanta, l’individualismo protetto, il familismo amorale, e infine l’amore per l’anarchia a basso costo e per i bassi istinti di un razzismo strisciante e della prevaricazione intesa come normale strumento di sopravvivenza di cui l’attuale compagine governativa sembrerebbe lo specchio più fedele mai forgiato fino a ora e, insieme, lo sbocco tutto sommato naturale di questo lungo processo degenerativo.

Non che negli ultimi sessant’anni siano mancate le voci fuori dal coro e i veri tentativi di rinnovamento – ricorda Crainz – ma si è trattato sempre di spinte e vocazioni rivelatesi poi minoritarie ed episodiche, destinate fisiologicamente ad avere vita molto dura in un paese che per esempio non riuscì a compiere quella vera opera palingenetica che forse solo far cadere il fascismo “dal basso” avrebbe reso possibile, una democrazia la cui emancipazione non ha mai avuto la strada totalmente sgombra davanti a sé (basti pensare a come Vaticano, Unione Sovietica e Stati Uniti abbiano vegliato più che idealmente sui suoi primi anni di vita) e il cui progresso economico non ha raggiunto mai la piena maturità: “abbiamo cercato il benessere, non il senso del rischio, dell’iniziativa e della responsabilità individuale”, dice Crainz attraverso le parole di Pietro Scoppola, “le imprese hanno percepito profitti crescenti ma sono state pronte a chiedere la socializzazione delle perdite, favorite in questo dai sindacati in lotta contro i licenziamenti e dalla cultura cattolico-sociale”. E poi ancora, affidandosi al Censis di inizio anni novanta: “La forza dirompente dei comportamenti è strettamente legata all’affermarsi di una sorta di ‘individualismo protetto’: da un lato si vuole la più ampia possibilità e libertà di esplicazione dei comportamenti individuali e collettivi, dall’altro si chiede una totale protezione pubblica (…) il massimo dell’individualismo con il massimo della protezione”.

Non dunque la crudezza del mercato ma la mancanza di mercato, non un vero protagonismo dei singoli ma il sogno vuoto di un successo senza rischi, non una vera classe dirigente ma il suo fantasma, e non i guasti di un’identità nazionale ipertrofica ma la sua latitanza. Insomma, il “paese senza” di cui Arbasino (citato da Crainz) si lamentava alla fine degli anni settanta, e che purtroppo è rimasto tale, trovando però in Berlusconi – ed è questo il vero motivo di preoccupazione persino rispetto all’Italia in pieno incubo terrorista – il suo perfetto correlativo oggettivo, e dunque probabilmente la vera soglia oltre la quale si apre necessariamente la via del non ritorno o il giro di boa.

Se il Fellini di Amarcord aveva avuto l’intuizione geniale di dipingere il fascismo come la rozza, arrogante, turbolenta adolescenza del paese, la sensazione è che – più di sessant’anni dopo – l’Italia aspiri a uno stato neonatale: cieca, priva di morale, pericolosa soprattutto per se stessa come solo i bambini lasciati soli in una stanza possono essere; ma il passo successivo in questo work in regress sarebbe il concepimento, e quello successivo ancora la sparizione.

Prima postilla
In questa Autobiografia di una repubblica ci sono molte immagini forti e toccanti. Ma quella che forse impressiona di più – e che, risalendo dal passato, ben dipinge il nostro presente fin quasi a mutare il proprio status, da allegorico in didascalico – riguarda il funerale di Stato tributato ad Aldo Moro: una cerimonia che si svolse senza il corpo della vittima (sepolto privatamente), e senza la sua famiglia, in S. Giovanni in Laterano (zona extratteritoriale vaticana).

Seconda postilla

Una cultura millenaria innestata in un contesto di arretratezza e debolezza istituzionale, ha spesso fatto dell’Italia un interessantissimo quanto disastroso laboratorio di avanguardia sociale e politica. All’inizio del Novecento, il nostro impatto ritardato con la modernità regalò al mondo il know how del fascismo. Da quasi un ventennio a questa parte, la nostra impreparazione ad accogliere il dopo-moderno della rivoluzione massmediatica ha fatto probabilmente dell’Italia la prima videocrazia veramente compiuta. Sarà pure vero – come dice Montale – che “la storia non è magistra…”, ma non bisogna nemmeno sottovalutare che molto spesso le risate che oggi risuonano dall’estero alla parola “Italia” sono legate a una lieve isteria da temuto contagio. Così, quando Crainz termina il suo volume giungendo a definire anche legittima la scelta del Viaggiatore cerimonioso di Caproni, il quale per “disperazione calma” decide di abbandonare la nave e interrompere il viaggio, starà alla nostra coscienza (al nostro modo di pompare altro vuoto nell’ectoplasma dell’identità nazionale, o al contrario lottare perché questo fantasma trovi finalmente qualcosa di vero in cui incarnarsi) interpretare una simile chiusa come un alibi per noi stessi, o come estrema provocazione.

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