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Siamo sicuri che l’Italia abbia, oggi, una vera costituzione?

di Mario Dogliani

Una riflessione del vicepresidente del CRS Mario Dogliani sugli orizzonti politico-costituzionali del nostro Paese nella fase post-referendum

016 bansky1. “Che ne è stato, e che ne è ora, della Costituzione?” Avrebbe dovuto essere questa la prima domanda che una degna élite politica e intellettuale si sarebbe dovuta porre dopo il referendum del 4 dicembre. E invece questa domanda è stata rimossa. E’ evidente che il voto referendario segnalava uno sconvolgimento, una frattura del rapporto tra la politica della classe politica di governo e la politica desiderata dall’elettorato. Una frattura tra due immagini di società, e dunque, in ultima analisi, una frattura tra due modi diversi di concepire la costituzione, che di quella società dovrebbe essere la spina dorsale. E invece abbiamo assistito solo a una impennata del chiacchericcio sulle sorti del governo e sulla durata della legislatura. Tutto è stato ridotto alla politique politicienne.

 

2. Ma perché quell’elementare domanda relativa agli effetti della riforma così come motivata e progettata e argomentata, così come approvata in Parlamento, così come dibattuta nella campagna referendaria e, infine, così come clamorosamente (e inaspettatamente, almeno quanto alle dimensioni) bocciata, nessuno se l’è esplicitamente posta? Non si tratta, evidentemente, solo di un voto negativo che respinge una proposta della maggioranza parlamentare. Per come si è svolta storicamente la lunga vicenda, si tratta di una “esperienza costituzionale”, analoga a quella che il popolo italiano ha vissuto tra il 1944 e il 1947.

 

Per porsela, quella domanda, sarebbe stato di grande aiuto che i rappresentanti del popolo avessero letto – invece di tanti pamphlet scritti sulla sabbia – queste poche parole di Franz Kafka (da Il ponte [1]):

«Ero rigido e freddo, ero un ponte, stavo sopra un abisso.

Di qua avevo le punte dei piedi, di là avevo confitto le mani, e mi tenevo rabbiosamente aggrappato all’argilla friabile. Da una parte e dall’altra mi si agitavano le falde della giacca. In fondo rumoreggiava il gelido torrente popolato di trote. Nessun turista si smarriva fino a quelle impervie altezze, il ponte non era ancora registrato nelle carte topografiche. Così me ne stavo e aspettavo. Dovevo aspettare. Un ponte, una volta costruito, non può cessare di essere ponte senza precipitare.

Una volta, era verso sera – la prima? la millesima? non so – i miei pensieri erano sempre confusi e giravano in tondo. Verso sera, d’estate, il torrente scrosciava più buio, udii un passo d’uomo. A me, a me! Stenditi, ponte, mettiti in posizione, trave senza spalletta, reggi colui che ti è affidato. Pareggia insensibilmente il suo passo incerto, ma se vacilla, fatti conoscere e come una divinità montana scaglialo a terra.

Quello venne, mi percosse con la punta ferrata del bastone, sollevò con essa le mie falde e me le aggiustò addosso. Infilò la punta nei miei capelli folti e ve la lasciò a lungo, probabilmente guardandosi ansiosamente intorno. Ma poi – stavo appunto seguendolo nel sogno per monti e valli – mi balzò in mezzo al corpo a piedi pari. Rabbrividii per un dolore lancinante, ignaro di tutto. Chi era? Un bambino? Un sogno? Un bandito? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi girai per vederlo.

Un ponte che si volta! Non mi ero ancora voltato che già precipitavo e già ero straziato e infilzato sui sassi aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacifici dall’acqua impetuosa».

Il ponte crolla perché si pone una domanda sbagliata, che non avrebbe mai dovuto porsi, e che lo fa voltare. Molte sono le formulazioni/interpretazioni possibili di questa domanda e del suo perché; ma quella che qui interessa ipotizzare è: «Chi è di preciso quello che mi sta utilizzando in questo momento? Quello che si sta facendo portare? Quello che sto servendo? Mi piace o non mi piace?»

Un ponte che si volta! Non può accadere! E infatti non si era ancora voltato che già precipitava.

Amo questo brano [2] perché secondo una definizione pressoché unanimemente accettata, le Costituzioni democratiche sono il minimo comun denominatore che rende possibile l’esistenza di un corpo politico, cioè di un popolo. Basta guardare Israele, la Siria, la Libia, l’Iraq, lo Yemen … per capire che cos’è una moltitudine (installata su un territorio), che non ha una costituzione che la trasformi in un popolo.

Questa definizione della costituzione come ciò che fa esistere un popolo viene rappresentata con l’immagine biblica dell'”Arca dell’alleanza” (a sottolinearne la natura pattizia), o con quella del “ponte”, dell’arco a secco: una costruzione artificiale, autoportante, che sta in piedi, che “regge”, perché trae il suo equilibrio dalle spinte contrapposte delle pietre (dei soggetti politici) che la compongono (a sottolinearne la natura convenzionale: se tutti stanno al posto che si sono trovati nell’edificare assieme la costituzione, la costituzione regge, nell’interesse di tutti; se qualcuno si sfila, la costituzione crolla).

Il nerbo della opposizione intellettuale alla riforma bocciata stava proprio in questo: ammesso che la forma di governo richiedeva robuste correzioni per evitare “le degenerazioni del parlamentarismo”, si denunciava il fatto che essa negava in radice – per il modo stesso con cui venne proposta e approvata – la natura pattizia-armistiziale-convenzionale della costituzione, e che riesumava le antiche concezioni della costituzione stessa come atto d’imperio che i vincitori impongono ai vinti (e che organizza conseguentemente in modo analogo il processo di determinazione della politica nazionale), aprendo la strada al vanificarsi stesso del concetto di costituzione, stravolta in una mera decisione imposta a maggioranza.

Adesso – oggettivamente – il popolo italiano è composto da ex vinti (nell’immaginario di chi si sentiva vincitore), che si sono dimostrati invece vincitori; e di ex soi-disant vincitori che si sono rivelati dei vinti. E dunque: la Costituzione del 1947 si è sfracellata o no? Si può ancora dire che essa è fondata su un patto, un compromesso, un armistizio … e sulle consuetudini, sulle prassi, sugli infiniti “atti di riconoscimento” che l’hanno radicata nei decenni scorsi? L’esito del referendum ha evitato formalmente che la costituzione negasse se stessa trasformandosi in un atto unilaterale imposto da alcuni contro altri. Ma basta questo per dire che, di conseguenza, essa è rimasta intatta, è rimasta la “casa di tutti”? O, invece, la costituzione ha ormai perso la sua legittimazione di fronte a tutti: di fronte a coloro che la volevano cambiare, perché non riconoscono più la costituzione “immobile”, la sopportano solo obtorto collo; e di fronte a coloro che l’hanno difesa, perché questi hanno toccato con mano che una minoranza consistente era pronta a ripudiarla, e che oggi non la riconosce – nel senso giuridico pregnante del termine – ma, appunto, la sopporta solo perché ha subito un voto in cui è risultata soccombente? È diventata una costituzione “di parte” (che è una contraddizione in termini, e dunque una non-costituzione)? O forse, al contrario, si può dire addirittura che abbia guadagnato una nuova legittimazione (come si diceva dopo il referendum del 2006, quando si parlò di una sua novazione)? Il grande ammalato – il sistema parlamentare – potrà trarre qualche beneficio da quanto è successo, o resterà impantanato nelle sue contraddizioni e nella sua impotenza?

 

3. I primi giorni successivi al referendum, come si è detto, non lasciano presagire nulla di buono; anzi. I temi di fondo che hanno accompagnato l’iter di approvazione del ddl di riforma e la campagna referendaria sono stati rimossi. Lo sforzo di spiegare quanto è accaduto, quanto si è mosso nel profondo della società italiana, non è stato nemmeno tentato. La stampa si è beatamente dedicata ai pettegolezzi connessi alla soluzione della crisi di governo. Nel vuoto, il tema del discorso pubblico si è così immediatamente trasformato in quello della rivincita, sùbito, ad ogni costo, calpestando quelle che dovrebbero essere le elementari regole dell’agire democratico (niente congresso del partito-pivot per chiarire perché il cuore della sua proposta politica e del suo metodo di governo siano stati clamorosamente sconfitti; nessuna riflessione su una legislazione elettorale che guardi ai decenni futuri della Repubblica, e non alle prossime settimane; nessuna considerazione del ruolo del Presidente della Repubblica; nessuna considerazione del Governo in carica, trattato, forse non a torto, come un organo prono ad essere telecomandato; nessuna considerazione del drammatico quadro economico, ulteriormente scassato proprio dallo stile di governo ripudiato dal referendum; nessuna considerazione del quadro internazionale; nessuna considerazione di quel che di buono si potrebbe fare con un po’ di non trafelata azione politico-amministrativa). Ma perché questo è potuto accadere? Perché (o almeno, anche perché) la grande stampa, dopo essersi spellata le mani nel servo encomio degli autori della riforma, si è riposizionata, con la velocità della luce, sul codardo oltraggio, e altrettanto fulmineamente – come si è cominciato a parlare di sistema proporzionale, di ricostruzione della rappresentanza attraverso partiti dotati di una identità consistente – ha cominciato perfidamente a riprendere i temi della “partitocrazia”.

I padroni del fumo e del vapore vogliono la democrazia d’investitura: liberi un giorno, e cinque anni schiavi (o almeno zitti).

 

4. Anche se l’esito del referendum è stato nettissimo e dunque nettissima la sconfitta di tutta la “filosofia” che stava alla base della riforma – questo è il punto: il modo di concepire la rappresentanza politica, le relazioni istituzionali, la separazione dei poteri, il rapporto con i cittadini e i corpi intermedi, l’immagine di una società buona verso cui tendere, seppure con strumenti diversi … – è pur vero che su questa vittoria non si può costruire (se non in negativo, evitando di ripercorrerne le strade) una politica futura.

La Costituzione del ’47 ha saputo esprimere una straordinaria capacità di resistenza perché, al di là dei posizionamenti politici rispetto al Governo, una gran parte dei cittadini l’ha percepita come un qualcosa di “suo”: un qualcosa, nel panorama che ci circonda, di “amico”. Un bene che è meglio non perdere.

Ma non dobbiamo dimenticare che, ancora una volta, siamo al capezzale del sistema parlamentare. Che, nella sua architettura, è l’ottimo; ma che è condannato a scontrarsi con il legno storto con cui gli uomini sono fatti. Chi è interessato al buon funzionamento del sistema istituzionale e al modello di società che lo deve ispirare, non può non cimentarsi immediatamente con i mali che affliggono il presente e il futuro prossimo, e cioè non preoccuparsi di ridare una costituzione “riconosciuta” agli italiani, oltre che ben fatta ed efficace. Non è vero che la riforma ci avrebbe fatto perdere il paradiso. Perché la situazione istituzionale italiana era ed è in gravissime difficoltà. Ci avrebbe, questo sì, gettato in una situazione di svilimento del Parlamento e di emarginazione dell’organizzazione (prima che della partecipazione) democratica. E non è nemmeno vero che «il perfezionismo è un peccato imperdonabile nel modellare le istituzioni politico-costituzionali; e che è sempre meglio una soluzione non perfetta che nessuna soluzione, che è proprio il risultato che abbiamo ottenuto bocciando il referendum» [3]. Quel che abbiamo ottenuto bocciando il referendum è stato porre, se non un “alt”, almeno una zeppa all’autismo, all’ebete autoreferenzialità in cui la politica italiana si è cacciata dopo la sconfitta del compromesso socialdemocratico. Quel che abbiamo ottenuto è la sconfitta dell’idea che le costituzioni possano essere rifatte dalle maggioranze a loro immagine e somiglianza, con artifici elettorali e umiliazioni del Parlamento. Quel che abbiamo ottenuto – soprattutto – è la sconfitta di quella particolare forma di trahison des clercs che da troppi anni ha annebbiato la vista alla politica e alla cultura europee, e la nostra in particolare, facendo dolosamente credere che siamo ciechi di fronte all’impeto delle trasformazioni, per cui niente è più come prima, tutto va ripensato daccapo, non ci sono più ideologie, punti di riferimento, tradizioni storiche … e che quelle che apparivano luci sono solo stelle morte. Questa trahison des clercs – di quelli che si sono adagiati, anche con parole apparentemente ribellistiche, nel pensiero unico, cantandone, in realtà, il carattere ineluttabile – ha, nei decenni passati, condotto alla sconfitta di quella visione, faticosamente elaborata nel dopoguerra e nei successivi decenni, che ha coniugato democrazia e socialismo, sulla base del compromesso keynesiano. La vittoria referendaria oggi ci consente di dire che quella è sì una visione che ha subito una sconfitta; ma non che è stata vinta. I vinti si abbandonano al lamento. Gli sconfitti si preparano alla rivincita. E il No è stata una richiesta di riprendere quella visione, di “reggimento” della società nel suo complesso (non solo dei geniali promotori di start-up). Una richiesta certo confusa, perché si accompagna – come dicono i sondaggi – alla richiesta dell’uomo forte; ma questo, peraltro, è sempre avvenuto quando si manifesta il disagio sociale diffuso. Il problema è sostituire all’uomo forte il Parlamento forte, l’organo rappresentativo dove tutti possono parlare forte e chiaro.

 

5. Ma i preparativi per consolidare e mettere a frutto questa rivincita, prima di tutto culturale (che non significa rivincita tra i professionisti della cultura, ma rivincita che sappia riorientare il pensiero pubblico, i giudizi profondi del popolo, le “masse”) non si intravedono. I veri motivi e la vera sostanza politica della mal concepita e pericolosa riforma e della dura opposizione ad essa è il cattivo funzionamento di sempre del nostro parlamentarismo (a partire dal trasformismo post-risorgimentale, dall’autoritarismo crispino, dallo sfarinarsi del giolittismo, dall’entrata in guerra attraverso l’aggiramento del Parlamento, dall’antiparlamentarismo dannunziano e fascista, dalla debolezza dei governi repubblicani fino alla grottesca mancata elezione del Presidente della Repubblica nel 2013). Questo tema avrebbe dovuto essere riproposto nella discussione di oggi sulla legge elettorale, avrebbe dovuto essere il suo cuore. E invece l’intero Parlamento ha abdicato alla sua funzione primaria (di essere il sovrano hobbesiano), dichiarando che non si poteva non aspettare la decisione della Corte costituzionale per sapere che cosa si doveva fare, e, di più, dichiarando (la sua maggioranza) che una legge di stampo proporzionale lo avrebbe posto nella radicale impossibilità di formare governi e di legiferare.

Con questa vigliaccheria il Parlamento ha recitato il de profundis sul principio della rappresentanza politica, come l’abbiamo sinora concepito e ha messo la Corte costituzionale nella posizione di autoinfliggere un gravissimo colpo alla sua (già traballante) legittimazione di giudice [4]. Il peso della politique politicienne e l’ignoranza dei suoi attori parlamentari e giornalistici è tale che questi non se ne sono neanche accorti. Nemmeno un tentativo – anche se disperato, perché i rapporti di forza lo avrebbero fatto naufragare – di salvare la dignità, provando a tracciare, o anche solo imbastire, con chiarezza di proponimenti, in Parlamento la via del futuro.

E così «la decisione che segnerà il destino della legislatura e del sistema politico italiano» [5] è stata lasciata a un giudice. Più in basso di così la forma di governo parlamentare e il principio della democrazia rappresentativa non avrebbero potuto cadere. Ma non per questo dobbiamo pentirci di averli difesi contro una riforma che avrebbe codificato l’emarginazione del Parlamento e delle forze politiche espresse dalla società.

Quanto alla sentenza che la Corte ha reso, non è qui possibile pronunciarsi, non essendo ancora note le motivazioni. Ma in ogni caso il problema di questo ennesimo strappo alla sua natura giurisdizionale è esterno al tema qui trattato. Stupisce che soltanto la Conferenza episcopale italiana abbia lamentato questa invasione di campo e questa arrendevolezza della politica rappresentativa. Ma, appunto, non c’è limite alla inettitudine e al mutismo dei chierici e di quelle che dovrebbero essere “forze” politiche.

In questo senso il post-referendum si rivela carico di pericoli, e più disvelatore della cecità e dell’avventurismo brancolante della classe politica in senso ampio, di quanto non sia stata la vicenda parlamentare e referendaria della riforma costituzionale.

Altro che chiedersi se l’Italia abbia ancora una costituzione, e domandarsi come ridargliela. Completamente indifferenti agli enormi rischi che incombono sul nostro futuro, la sconfitta referendaria è stata rimossa, i rabberciamenti giurisdizionali delle leggi elettorali sono ritenuti soddisfacenti, e si gioca a rimpiattino sulla data delle elezioni, per avvicinarla quanto più possibile, vista o come l’occasione di una rivincita o come l’occasione per dare una spallata alla maggioranza. Il tutto con una ipocrita spolverata di “doverosità democratica”, che fa premio su tutti i limiti, costituzionali e politici, che fanno definire, la via intrapresa, come quella dell’avventura.

Quel che è più grave è che i fautori della revisione sconfitta pensano, ipotizzando una vittoria elettorale che attribuisca loro il 40 % dei voti, di rilegittimare, con ciò, tutta la loro opera passata, tutta la ideologia che la sorreggeva, compresa la progettata revisione. Il che è come dire: dopo tutto quello che è successo, bisogna calare una pietra tombale, e tornare esattamente ai blocchi di partenza, giocando le stesse ricette. Il massimo di arroganza e di impotenza.

 

6. Ridare allo Stato “di tutto il popolo” la sua forza; cancellare la sua maschera di guardiano locale degli Epuloni globali; ridare alla politica democratica il posto che le compete di fronte all’economia. Sono le idee che ispirano la Costituzione. Basta reinterpretarle e ri-strumentarle cum grano salis. Non dobbiamo attendere nessun nuovo profeta. Non deve nascere un nuovo Marx o un nuovo Keynes. Non mancano le idee, anche sofisticate, per affrontare la nuova situazione europea e mondiale, economica e culturale. Mancano le mani che le afferrino. E che non si limitino, come fino ad oggi è stato, ad afferrarle in modo generico e retorico, affidandole a piattaforme tutte e solo politiche, che «si fermano alle indicazioni di principio e sono prive di risvolti operativi e di punti sostanziali che consentano una identificazione del partito [proponente] con obiettivi dettagliati» [6].

 

7. Tornando alla domanda da cui siamo partiti, bene sarebbe dunque, come ha chiesto Enzo Cheli [7], “ripartire dalla ragione”. Ripartire dalla ragione non significa, in questo contesto drammatico che sta vivendo l’Italia e l’Europa, solo ripartire dalla ragionevolezza della “terra di mezzo” [8] (quell’opinione pubblica e scientifica che concordava sulla necessità di introdurre revisioni puntuali, ma che si è divisa di fronte al metodo adottato, sideralmente lontano da quel quod omnes tangit, ab omnibus comprobetur che è l’abc del costituzionalismo). Certo, significa anche questo. Nel merito molte posizioni sono conciliabili. Ma “ripartire dalla ragione” comporta anzitutto di assumere un impegno, per così dire, lukácsiano [9], antiirrazionalista. Che vuole reagire a quell’irrazionalismo che da secoli ha combattuto, prima, il razionalismo illuminista, poi, quello socialista, e che ha propiziato l’avvento, nella prima metà del Novecento, del totalitarismo razzista in Italia e Germania. Da tempo, questo irrazionalismo, è risorto in tutta Europa, provocando quel fenomeno che è stato esattamente definito “la mucca pazza della democrazia” [10]. L’ascesa dell’estrema destra razzista che in occasione delle prossime elezioni politiche dispiegherà tutta la sua potenza, è un fenomeno preparato da lungo tempo.

Ridare agli italiani una Costituzione “riconosciuta” come la casa di tutti – cioè la Costituzione del ’47 saggiamente (con “mano tremante” avrebbe detto Montesquieu) sottoposta ad un’opera di manutenzione; elaborare operativamente politiche (con un respiro, si sarebbe detto una volta, internazionalista) volte a contrastare le disuguaglianze, praticando da subito la “terra di mezzo” delle riforme possibili, sono le due facce della stessa medaglia, e della stessa lotta all’irrazionalismo dilagante.

A proposito di tale irrazionalismo, e dello sviluppo costituzionale prefigurato da una parte della cultura che ha contribuito alla vittoria referendaria, occorre avere ben chiaro questo punto, che sta venendo al pettine in queste giornate convulse. È stato, ed è giusto, rappresentarsi il popolo e le sue rappresentanze come li concepivano i costituenti del ’47. Il no alla revisione voleva, in primis, ripristinare – nella sua essenza, al di là, e tenuto conto, delle novità socio-culturali sopravvenute – quel modo di configurarle teoricamente e di collocarle costituzionalmente, con ciò assumendosi il fortissimo e difficile impegno politico culturale che questa ricostruzione “artificiale” (come tutti i modelli politico-costituzionali) avrebbe richiesto.

Ma non possiamo non vedere l’estrema difficoltà di questa operazione. Ciò che accade oggi negli USA e in Europa non può farci dimenticare – per limitarci ad un esempio celebre per l’acutezza con cui fu indagato[11], e vicinissimo al contesto socio-economico di oggi – che il potere dominante non è quello dell’imprenditoria industriale, ma dell’aristocrazia finanziaria. Che l’aristocrazia finanziaria è caratterizzata dalla «smania di arricchirsi non con la produzione, ma rubando le ricchezze altrui già esistenti [il che fa trionfare la ricerca del] soddisfacimento sfrenato … in cui logicamente cerca la sua soddisfazione la ricchezza scaturita dal gioco». Il che porta alla conclusione che «L’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese»[12]. L’ulteriore conseguenza è che questa aristocrazia “riproducente” non esita a mettere direttamente lo Stato nelle mani (del capo) del sottoproletariato reale (che oggi chiamiamo movimento populista). Mossa, questa, che si rivela vincente. Subito dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851 Luigi Bonaparte, per garantirsi comunque una forma di investitura popolare, indisse un plebiscito, il 20-21 dicembre, chiedendo ai cittadini se approvassero o meno il colpo di stato; il risultato fu: 7.439.216 sì, 641.737 no; 1,7 milioni astenuti.

 

8. Oggi ci troviamo in bilico tra queste due prospettive: ricostruire la rappresentanza politica, sia come rappresentazione della polarità degli interessi sia come rappresentanza costitutiva dello “stato di tutto il popolo” (cioè come espressione di una costituzione in senso materiale, che non è altro se non una minima convenzione unificante); oppure prendere atto dell’irresistibile ascesa del moderno sottoproletariato, rancoroso impolitico e impudico, e dunque organizzare una resistenza basata solo sui (sulla preservazione dei) rapporti di forza, senza poter perseguire alcun disegno complessivo di natura costituzionale. Una situazione sospesa, che potrà sfociare in un assestamento che renda possibile riprendere il discorso costituzionale, o che potrà portare – ancora una volta – alla instaurazione di un ordine autoritario[13].


NOTE
[1] Il ponte (Die Brücke, 1917, titolo apposto da Max Brod) pubblicato nel 1932 in una raccolta di 37 racconti postumi editi da Max Brod e di Hans-Joachim Schops intitolata (dal titolo di uno di essi) Durante la costruzione della muraglia cinese.
[2] Sulla copertina del manuale di diritto costituzionale che ho scritto con Ilenia Massa Pinto è riportata la fotografia di un ponte in costruzione: l’impalcatura e gli uomini che posano le pietre a secco formando un arco. La didascalia è Pflanzgarten-Viadukt sur la voie de l’Albula, Rhätischen Bahn, pose sur cintre des voussoirs, 1908, in https://i-structures.epfl.ch/cours/archi_i.php.
[3] R. Bin, Che fare? Riflessioni all’indomani del referendumcostituzionale, in Astrid Rassegna, n. 1/2017.
[4] Completamente condivisibili sono in proposito le osservazioni di R. Bin, La Corte Costituzionale può introdurre con una sentenza il ricorso diretto di costituzionalità delle leggi?, in lacostituzione.info, 3 gennaio 2017; e Id., La Corte e la legge elettorale: “è difficile credere ad un ritorno indietro”? in lacostituzione.info, 19 gennaio 2017.
[5] E. Patta, «Il Sole 24 ore», 20 Gennaio 2017.
[6] S. Biasco, Regole, Stato, uguaglianza, Roma 2016, p. 157, n. 2.
[7] «Il Mulino online», 1/2017.
[8] A. Manzella, La terra di mezzo delle riforme possibili, «la Repubblica», 19/1/2017.
[9] G. Lukács, La distruzione della ragione (1954), Torino 1959.
[10] A. Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia, Torino 2005.
[11] K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852.
[12] K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (Augsburg 1859); ed it. Milano 1896, Biblioteca della Critica Sociale, ristampa dalla Neue Rheinische Zeitung, con prefazione di F. Engels, p. 96. Il brano in cui la frase riportata nel testo è inserito è la seguente: «Mentre l’aristocrazia finanziaria faceva le leggi, dirigeva l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri organizzati, dominava l’opinione pubblica coi fatti e con la stampa, in tutti gli ambienti, dalla Corte sino al Café Borgne, si spandeva l’identica prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica smania di arricchirsi non con la produzione, ma rubando le ricchezze altrui già esistenti. Alla sommità stessa della società borghese trionfava il soddisfacimento sfrenato, in urto ad ogni istante con le stesse leggi borghesi, degli appetiti malsani e sregolati, in cui logicamente cerca la sua soddisfazione la ricchezza scaturita dal gioco, in cui il godimento diventa gozzoviglia, e il denaro, il fango e il sangue scorrono insieme. L’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese. E le frazioni della borghesia francese che non erano al potere gridavano alla corruzione! Quando nel 1847 sulle scene più elevate della società francese vennero pubblicamente rappresentati gli stessi spettacoli che regolarmente conducono il sottoproletariato nei bordelli, nei ricoveri di mendicità e nei manicomi, davanti al giudice, in carcere e alla ghigliottina, il popolo gridava: abbasso i grandi ladri! abbasso gli assassini! La borghesia industriale vedeva compromessi i propri interessi, la piccola borghesia era moralmente sdegnata, la fantasia popolare si ribellava».
[13] Le preoccupazioni per la vittoria dei demagoghi avventuristi aumentano ogni giorno. Oggi, 1 febbraio, abbiamo saputo dal Presidente del Consiglio qual è il vero motivo per cui è assolutamente necessario votare al più presto: «Per me votare nel 2017 o nel 2018 è lo stesso. L’unica cosa è evitare che scattino i vitalizi perché sarebbe molto ingiusto verso i cittadini. Sarebbe assurdo», Corriere della Sera, Mercoledì 1 Febbraio 2017, p. 16.  Quanto ci sia di falso e profondamente malvagio in questa dichiarazione risulta da una limpida precisazione del 15 dicembre 2016 (inpiu.net) di Vincenzo Visco, La pensione dei deputati neoeletti: «Un dibattito surreale si sta svolgendo sulla questione della pensione dei deputati di prima nomina che maturerebbe solo nel prossimo settembre per cui i perfidi “politici” farebbero di tutto per prolungare la legislatura oltre quella data. Per evitare questo “scandalo” i 5S annunciano interventi specifici. Tuttavia la questione è totalmente mal posta. Nel 2011, infatti, Camera e Senato hanno cambiato radicalmente il sistema previdenziale in vigore per deputati e senatori, superando i vitalizi e prevedendo un meccanismo identico (salvo che per la norma in questione) a quello in vigore per tutti i lavoratori dipendenti: sistema contributivo, età di godimento a 65 anni, contributi al 33% pagati in parte dal datore di lavoro (Camera e Senato) e in parte dal Parlamentare. Fu però introdotta anche una norma, in netto contrasto con la logica del contributivo, che prevedeva che per i parlamentari di prima nomina i contributi pagati potessero essere utilizzati a fini pensionistici solo dopo che fossero trascorsi oltre 4 anni dalla loro elezione. Oggi si contesta la possibilità che la cancellazione dei contributi pagati non si realizzi qualora la legislazione durasse fino al prossimo settembre. Mentre è del tutto evidente che in un sistema in cui l’ammontare della pensione è strettamente commisurata ai contributi versati nel corso della vita lavorativa, la norma in questione (scilicet: che prevede la cancellazione dei contributi) è del tutto illegittima, rappresentando un possibile esproprio di quote di salario (differito). E’ quindi questa norma che andrebbe abrogata, e se non sarà fatto, ci penserà qualche giudice a Berlino. Nell’orgia di demagogia, populismo, antipolitica e incompetenza oggi prevalenti, non è sorprendente che nessun giornalista, commentatore, o uomo politico sottolinei questa semplice verità, che tuttavia rimane un dato di fatto difficilmente contestabile. Restiamo fiduciosi in attesa della proposta di pagare i parlamentari con il sistema dei voucher.»

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