Colin Crouch, “Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo”
di Alessandro Visalli
Leggeremo il recentissimo nuovo libro del famosissimo politologo inglese Colin Crouch, reso letteralmente una star dal suo libro del 2000, “Postdemocrazia” quando era direttore dell’Istituto di Governance e Public Management alla Business School dell’Università di Warwick. Il libro del 2000 ha avuto un indubbio merito, e per questo è inevitabilmente presente in ogni opera successiva: quello di aver sollevato la questione dell’erosione della democrazia ad opera dell’estremismo liberale quando ancora poche voci[1] si erano alzate ad avvertire del rischio. Successivamente sarà una valanga[2], e poi dal 2008 una eruzione[3]. Lo stesso Crouch fa peraltro seguire al suo primo libro di grande successo altri due libri significativi[4].
Ma se nel 2000 Crouch, che in fondo insegnava in scuole di economia, parla di cercare di ‘conservare il dinamismo e lo spirito intraprendente del capitalismo’[5] (scendendo a patti con il capitalismo finanziario), ma vede come “chiedere la luna” l’ipotesi di “porre tale richiesta a livello globale” oggi sembra aver cambiato completamente idea; allora le grandi organizzazioni sovranazionali[6] “sta[va]no andando nella direzione opposta”, per cui intravedeva ed indicava “spazio per contrattaccare a livello nazionale sul piano economico” (p.121), riducendo la confusione di funzioni e competenze tra governo ed imprese, adesso più o meno gli stessi fatti conducono a conclusioni opposte. Nella battaglia, cui ha deciso di partecipare da una parte specifica, tra globalismo e resistenze nazionali (preferirei dire, anche nei termini del libro del 2000 del nostro ‘tra globalismo e democrazia’) oggi Crouch ritiene che “possiamo avere un qualche controllo su un mondo caratterizzato da un’interdipendenza sempre maggiore solo attraverso lo sviluppo di identità e istituzioni democratiche e di governo in grado di spingersi oltre la dimensione dello Stato-nazione” (p.5).
Cosa è cambiato in questi intensissimi diciotto anni? Naturalmente c’è stata quella che chiamerà la “quarta fase” del processo di mondializzazione, seguito agli accordi del Wto e alla espansione imperiale[7] che è conseguenza della ritirata del contropotere del blocco socialista. Abbiamo assistito alla irresistibile ascesa, prima e dopo il crac del 2007-8, di un modello di accumulazione finanziario che è capace di mettere a valore (anche se fragile e “fittizio”[8]) ogni aspettativa di flusso, e che per crescere, pena l’immediato crollo, deve “invadere e usare altri settori” in modo compulsivo, espandendo “il margine sistemico”, il quale, come sostiene Saskia Sassen, è il luogo in cui “si estrinseca la dinamica chiave dell’espulsione”. Dunque anche “il rapporto fra l’odierno capitalismo avanzato e le forme più tradizionali di capitalismo di mercato”, assomiglia sempre più ad una forma di “accumulazione sempre più primitiva”, una “bruta semplicità”[9], di predazione. Nel “margine sistemico” sono stati presi anche i sistemi di welfare per la stessa, semplice, motivazione di “bruta semplicità” per la quale il capitale nazionale (quello non dedito alle esportazioni, non “innovativo e competitivo”, quello concentrato sul servizio di bisogni locali, nazionali) è abbandonato alla contrazione: non è più necessario a chi è passato per la fucina delle innovazioni tecniche, organizzative e finanziarie degli anni ottanta e novanta. Per come la metteva Sassen, in altre parole, se gli elementi costitutivi del sistema, quelli che vengono incorporati come obiettivi naturali delle politiche, non riguardano più produzione e consumo di massa, quel che accade è semplice: lo spazio degli espulsi si espande e diventa anche sempre più differenziato.
Qualche numero per capire quanto si espande lo spazio degli espulsi e quanto si fortifica quello degli inclusi: secondo una recente ricostruzione[10] di Salvatore Biasco l'80% dei profitti nel mondo è prodotto dal 10% delle società, il 2% delle multinazionali (su una base di oltre 40.000) possiede l'80% del controllo delle stesse, un nucleo ancora più piccolo di 147 multinazionali, ne possiede il 40%, di queste 100 sono finanziarie. A grandi linee 100 multinazionali finanziarie controllano qualcosa come il 30% dei profitti nel mondo. Profitti che dipendono in parte molto rilevante dall'appropriazione della proprietà intellettuale. Con la stessa tendenza alla concentrazione bisogna ricordare che il 70% del commercio mondiale dipende dalle multinazionali (e che, dunque, circa 400 multinazionali, per lo più americane, generano più di metà del commercio mondiale).
Lo stesso Colin Crouch, nel 2011, riteneva[11] che fosse necessario “tenere sotto pressione” la grande impresa e che non si potesse giudicare l’incremento globale di efficienza senza aver cura di prestare attenzione alla sua distribuzione[12]. Inoltre richiamava e discuteva le tesi della “Public Choise”[13], secondo la quale tutte le attività statali sono espressione di un egoismo che trova i suoi canali di espressione attraverso l’azione delle lobbies politiche (come Partiti, Sindacati e via dicendo). Certo, già nel 2011, mentre definiva la democrazia come presidio principale dell’agenda pubblica e collettiva, invitava le forze del “centrosinistra” a guardare oltre lo Stato centralizzato e temeva il rischio di scivolare in un “nazionalismo irrazionale” che potrebbe rivolgersi contro migranti e minoranze etniche. All’epoca la sua diagnosi era la seguente: “man mano che in molti paesi la competizione formale tra i partiti si svuota di contenuti – anche perché tutti i partiti fanno sostanzialmente proprio un ordine del giorno stabilito dalle imprese -, i movimenti xenofobi emergono come uniche fonti autentiche di novità e di scelta: essi non fanno altro che estremizzare quell’esaltazione competitiva dell’identità nazionale accettata da quasi tutte le sfumature dell’opinione politica.”[14]
Il dilemma in cui porta il suo pensiero, tra convinzione che la riduzione di scambi e commerci porti necessariamente una riduzione di ricchezza[15] e il fatto che i diritti nazionali di cittadinanza sono “l’unica arma per difenderci dal potere delle Tnc [imprese transnazionali] di stravolgerci la vita”, lo conduce già allora ad appoggiare la sua speranza alla “società civile postnazionale”[16], o, per essere più precisi, sulla tensione nel quadrilatero Stato – mercato – grandi imprese transnazionali – società civile (anche transnazionale).
Dunque Crouch era da tempo su questa strada cui perviene oggi.
“Il dilemma Kuzmanovic-Autain”
Però cosa fa andare ben oltre queste posizioni, come vedremo, Crouch, passati sette anni? Io credo che abbia ormai preso una decisione definitiva lungo quello che vorrei chiamare “il dilemma Kuzmanovic-Autain”[17], ovvero tra l’aspirazione alla riconquista dei ceti popolari, contendendo l’egemonia alla destra sul campo largo, e la difesa delle aree di consenso residue che alla fine possono essere conservate solo su temi morali, data la divergenza degli interessi. Di fatto uno scontro tra ‘nuvole verbali’[18] e scelte difficili.
Crouch, di fronte alla necessità di riconoscere il danno che i processi di globalizzazione, appoggiati e promossi anche dalla sinistra della ‘terza via’[19], producono tuttavia si sofferma su l’impatto positivo per paura delle conseguenze di una posizione coerente.
Leggiamo:
“osservare la questione da questo punto di vista rivela il danno prodotto dalla globalizzazione, ma anche l’impatto positivo dell’innovazione, della ricchezza crescente e della diversità culturale in altre località e settori. Questi sono in genere luoghi cosmopolitici che hanno attratto immigrati da tutto il mondo, che hanno offerto il loro contributo all’innovazione e alla diversità. Cercare di tornare indietro nel tempo significa voler porre fine a questo dinamismo” (p.47).
Qui il conflitto di classe è nominato con precisione. Ci sono aree sociali e settori economici, oltre che distretti territoriali, che hanno subito un danno, non si nega, ma altri si sono arricchiti, sia in termini economici che sociali e culturali. Questi vincenti della globalizzazione sono quelli a cui guarda il “corno-Autain” del dilemma sopra citato, e sono cosmopoliti, dinamici, ottimisti e sicuri di sé. I perdenti della globalizzazione, invece, cui guarda il “corno-Kuzmanovic”, sono all’opposto.
Guardare, anche se in modo parzialmente inconsapevole, all’enormemente complesso intreccio di questioni sollevato dalla tarda globalizzazione in corso, dal solo punto di vista degli integrati e vincenti, porta però ad una lunga serie di accettazioni di costrutti teorici mainstream e neoliberali da parte di Colin Crouch, e, in alcuni casi, ad arretramenti rispetto alle posizioni assunte nei libri precedenti. Già all’avvio nel definire la situazione in corso “scontro epico tra globalizzazione e un risuscitato nazionalismo” attiva lo schema portante avanti/dietro che Charles Taylor individua come costitutivo di una “topografia morale” necessaria al controllo di sé[20]. La questione che pone Crouch, nella sua frase di avvio è quella che definisce il testo: chiamare a raccolta.
In modo non dissimile dalla Autain il politologo inglese cerca di indicare un modo di stare, di avere una posizione e quindi un sé, nello spazio confuso del presente. Come diversamente mostra anche Jonathan Friedman[21] le classi medie che si sentono élite sono confuse e spaventate, sentono di non capire più il mondo e di perdere i riferimenti in esso. Dunque sviluppano un più rigido “spazio di questioni”, che includa e fissi “come si deve essere”, come ci si prospetta davanti al buono, al giusto, al moralmente degno. Uno spazio nel quale ci si possa comprendere come esseri capaci di azione morale e nel quale individuare devianti e non.
La questione centrale, che definisce questo posizionamento morale, è quella del moderno e della tradizione, alla fine il discorso è attratto irresistibilmente da uno schema storico: illuminismo vs tradizionalismo e quindi ragione verso emozione ed oscurantismo[22]. La globalizzazione, pur conoscendo tutte le sue problematiche e lati oscuri, è “in primo luogo -scrive Crouch- lo sviluppo in buona parte del pianeta di relazioni economiche relativamente senza restrizioni”. Ovvero è, alla fine, uno spazio di libertà.
Una volta che si sceglie di credere a questa posizione, evidentemente parziale, se non direttamente falsa[23], ogni “implicazione sociale e politica più ampia” che questa possa comportare, è secondaria, o è pericolosa.
Infatti Crouch nega che la questione sia di classe, che ci siano dei problemi di distribuzione, di spinta alla ineguaglianza, o meglio, li riconosce, ma opera attentamente per porli in angolo, per definirli come eccezioni e questioni relative, comunque come ‘danni collaterali’ necessari. Certo, da ridurre, ma non sufficienti per mettere in questione quello che è il centro del sé del “corno-Autain” che ha scelto, ormai, di sposare.
La minaccia, casomai, è identitaria. Come scrive, “la globalizzazione è, per molti, un attentato alla loro voglia di sentirsi orgogliosi nei vari ambiti di vita: nel loro lavoro, nella loro identità culturale, nella loro comunità, nelle città e nei paesi in cui vivono, quell’ampio fascio di idee che costituiscono la nozione tedesca di heimat” (p.4).
Moderni e non
Non è questione di classe, perché si tratta, piuttosto, di tipo di lavoro. Questa è la soluzione trovata, sul piano analitico, per individuare una differenza antropologica che non implichi una questione di sfruttamento: lavorare in settori favoriti dalla globalizzazione, ovvero da quel set di tecnologie, modi di comunicazione e stili di relazione della modernità, porta secondo le fonti di Crouch ad essere tranquilli ed orgogliosi di sé; lavorare nei settori meno dinamici, “anche se conducono una vita agiata”, al contrario spaventati e bisognosi di protezione, essi vogliono certezze perché sono sconcertati e le cercano nel “mondo del passato”.
I primi progrediscono, i secondi arretrano.
Tutto il libro ripete continuamente questa sorta di favola morale e reiteratamente afferma, senza vere e proprie argomentazioni, che “possiamo ottenere qualche controllo sul mondo che è caratterizzato da un’interdipendenza sempre maggiore solo attraverso uno sviluppo di identità e istituzioni democratiche e di governo in grado di spingersi oltre la dimensione dello Stato-nazione”.
È dunque evidente, passando sul piano politico, che “la sinistra socialdemocratica deve porsi dalla parte della globalizzazione contro i nuovi nazionalismi”[24].
Nel farlo deve mettere in connessione diversi radicamenti identitari, sovrapponendoli l’uno dentro l’altro “come una Matrioska”[25]. Questa immagine, per la quale ognuno può considerarsi, senza alcuna contraddizione e/o conflitto interiore, abitante del mio quartiere a Napoli, ma anche campano, italiano e quindi cittadino parimenti europeo e del mondo intero, sembra tranquilla ed ovvia. Vi si oppone, secondo la visione proposta, una identità che ad un certo punto trova un confine invalicabile e si oppone a chi sia altrove rispetto ad esso. Una identità che pensa di “stare in piedi da sola”, anziché puntare alla cooperazione.
È in questo contesto, ripresa dello schema ragione vs oscurantismo, modernità vs conservazione, che trova spazio l’attacco diretto a quella che nel libro del 2013 chiamava “la socialdemocrazia conservatrice”, e ora identifica più precisamente con la sinistra che si oppone alla globalizzazione. Ma prima ricostruisce gli argomenti che a suo parere il nazionalismo di sinistra propone:
- La globalizzazione ha esteso l’impatto del capitalismo, consentendogli di distruggere i meccanismi di governo democratico e di trascurare i bisogni collettivi,
- Di fatto il livello più alto di governance democratica fin ora raggiunto è nello Stato-nazione,
- Lo Stato-nazione è anche un centro di identificazione e di affidamento,
- Il welfare state è una costruzione nazionale che attinge ad una solidarietà concreta non estendibile all’infinito,
- Le forme più forti di welfare state si sono sviluppate in condizioni di omogeneità etnica e culturale, sembra dunque “esserci una relazione inversa tra un forte Stato sociale e un multiculturalismo liberale”,
- È quindi necessaria una svolta che preveda tutela economica e controlli sui capitali e restrizioni all’immigrazione e, in Europa, un freno all’integrazione.
Questa descrizione, che ripercorre al punto 5 una classica tesi neoliberale[26], non infondata ma certo rudimentale, riceve una confutazione altamente istruttiva: “ogni passaggio nella progressione di questo ragionamento è del tutto logico, ma a partire dal punto 5 il discorso inizia a sfociare, anche se con motivazioni differenti, nelle posizioni della destra xenofoba”.
Uniformati in questo attacco dalla logica profondamente identitaria, quella che Friedman chiama “logica associativa”[27], che si rifiuta all’argomentazione neutralizzando la controparte grazie alla mossa di attribuirgli l’autoevidenza della colpa sono France Insoumise, Corbyn ed il Labour relativo, autori come Wolfgang Streeck e David Goodhart. In questo modo, secondo la tecnica ‘politicamente corretta’, si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza[28].
Il timore è che ragionamenti pur sensati portino ad una sorta di resistenza conservatrice nei confronti del cambiamento, in particolare nei confronti di quelle posizioni che “cercano di spostare la politica democratica e i sentimenti di solidarietà umana al di fuori dello stato nazione”, rischiando di restare “congelata nel tempo”.
Dunque ricapitoliamo a questo punto:
- la sinistra “conservatrice”, che cerca di recuperare le capacità dello Stato nazionale contro gli effetti deleteri della globalizzazione e del processo ad essa subalterno della unificazione guidata dal mercato europea, rischia per Crouch di retrocedere a fasi storiche superate e di essere subalterna della destra,
- la destra radicale è invece determinata a continuare le politiche di classe che fondano il potere della sua base sociale[29], ma al contempo è consapevole degli effetti distruttivi di queste politiche sui marginali[30] che cerca di mobilitare come base di massa[31], e cerca di risolvere l’equazione politica deviando la tensione e il rancore sui più deboli ed i non cittadini, in base ad un classico effetto “capponi di Renzo”[32], il caso ungherese è esemplare in tal senso[33], come quello italiano[34],
- la posizione frontista, cui tende, per espressa ammissione, l’autore, di “alleanza tra le forze moderate di sinistra e destra contro le forze xenofobe per una globalizzazione regolamentata”, che in Italia vede in campo la proposta avanzata da Calenda[35], ha in sé il pericolo del continuismo con l’assetto delle ‘grandi coalizioni’ che ha condotto a questo punto la situazione[36].
La ritirata sulla “terza via”
Come si vede Crouch, malgrado la sua decennale critica della posizione della “terza via” blairiana, di fronte al rischio di una critica radicale della globalizzazione, e del mutamento di posizione che richiede, ripiega espressamente sulle posizioni che criticava. Consapevole che l’alleanza al centro, il “centro radicale” di Schroder e Blair, ha condotto la politica europea all’attuale disastro elettorale[37], purtuttavia vi si rifugia. Aiuta a comprendere questa apparentemente strana mossa il concetto di “estremo centro” di Alain Deneault[38]: l’abolizione della pertinenza dell’asse sinistra-destra avviene a partire da un discorso che è sia esclusivo (ovvero per ‘ceti riflessivi’, colti e razionali) sia escludente (ovvero unico giusto, con la conseguenza che si può essere solo a favore oppure contro). L’estremismo di questo centro non è politico o sociale, ma è morale, e si autorappresenta come discorso centrale, dotato di tutti gli attributi positivi (meditato, pragmatico, vero, normale, giusto, equilibrato, razionale, ragionevole) e quindi è anche l’unico legittimo.
Naturalmente la costruzione di questo discorso equilibrato e razionale passa per una narrazione storica che cerca di allineare i fatti recenti su un percorso di logico sviluppo e progressivo. A tal fine divide, sulla base di una lettura sincretica di testi anche molto diversi gli uni dagli altri[39], la globalizzazione in quattro fasi successive:
- l’imperialismo europeo (o “prima mondializzazione”, tema toccato nel libro di Rodrik in chiave critica) che negli anni tra le due guerre ha un deciso ripiegamento (durante il quale, come non ricorda l’autore, prende forma il New Deal[40]);
- la riduzione tariffaria guidata dagli Usa nel dopoguerra ed il processo di integrazione europea durante il quale cresce il welfare state in quanto il commercio vi viene subordinato e il controllo dei capitali e dei flussi di persone resta forte come nel periodo di interludio;
- la fase di deregolamentazione neoliberale, che segue alla crisi del modello temperato precedente secondo l’autore causata essenzialmente dall’incremento del costo delle materie prime e dall’inflazione, in questa fase si ha un aumento dei tassi di disoccupazione e danni ai settori industriali consolidati, ed ai relativi territori, la deregolamentazione finanziaria assume un ruolo centrale,
- la fase di accelerazione della globalizzazione, nel quale in Europa si costituisce il Mercato Unico e crolla il comunismo ed il suo sistema di potere imperiale, al contempo dal 2000 accelera l’ascesa dell’estremo oriente, attori giudicati centrali sono l’Omc e le Ue.
Il giudizio complessivo di questa evoluzione, in modo non inaspettato date le premesse, è che si è trattato di “un gioco a somma positiva”. Insomma, “la globalizzazione per molti versi ha seguito le classiche aspettative degli economisti sul fatto che ci sarebbero stati vantaggi reciproci derivanti dall’espansione del libero commercio”[41].
Certo, è anche vero che “la globalizzazione provoca un aumento delle migrazioni”, e queste hanno effetti culturali rilevanti, dunque Crouch è costretto a guardarla più da vicino. Lo fa appoggiandosi sull’argomentazione dell’ultimo Milanovic[42]: tra gli utili della fase c’è l’enorme crescita della Cina[43], e tra i danni collaterali l’aumento dell’ineguaglianza nella maggior parte dei paesi. Il paradosso è che l’ineguaglianza tra Stati è calata (con importanti eccezioni in due continenti, Africa e America del Sud) ma quella entro gli Stati è cresciuta. Un paradosso che è naturalmente solo apparente, perché è causato dal vero agente della globalizzazione, i capitali mobili, e dai suoi veicoli, le grandi società transnazionali. Sono infatti essenzialmente le grandi società che mobilitano ed utilizzano immani flussi di capitale libero e irresponsabile (ovvero disponibile a spostarsi improvvisamente, e quindi potentissimo) per ricercare localmente le condizioni di massimo sfruttamento dei fattori locali, in primis il lavoro. Dunque la stessa forza trascina in alto i pochi (in senso relativo) connessi con la meccanica di valorizzazione in posizione dominante (azionisti, manager apicali, lavoratori strategici), e in basso i ‘sostituibili’, ovunque essi siano. L’effetto di riduzione dell’ineguaglianza tra Stati è, alla fine, solo un effetto di rappresentazione, dipende dall’indicatore usato (il Pil aggregato), ma è la somma di pochi, qui e lì, che si arricchiscono e moltissimi, anche essi ovunque, che si impoveriscono. Anche il guadagno di reddito per i lavoratori che si registra nei paesi di destinazione dei flussi di capitale e di provenienza delle merci, è inferiore alla perdita di reddito di quelli che restano nelle aree di provenienza dei capitali e di destinazione delle merci. Se non lo fosse la globalizzazione mancherebbe il suo scopo.
Crouch, invece, in un capitolo particolarmente povero di riferimenti, nel quale non è possibile dunque comprendere con precisione la fonte delle sue convinzioni, a dimostrazione dell’ineluttabilità e utilità della globalizzazione produce una serie di affermazioni del tutto prive di argomentazione, a tutta evidenza per lui autoevidenti:
- anche se la Cina ha una grande produzione di acciaio (otto volte quella giapponese, e sette volte quella europea, oltre dieci volte quella americana) di cui solo un ottavo è rivolta alle esportazioni (tab. 1, p.32) la perdita della globalizzazione provocherebbe un danno decisivo a causa della perdita delle pur modeste importazioni di acciaio (13 mt, ovvero un quindicesimo della produzione europea); questo danno non sarebbe compensato dal recupero dei posti di lavoro, dato che la loro perdita non dipende dal fatto che quasi tutto l’acciaio mondiale è prodotto in Cina e India, ma dalle innovazioni tecnologiche. Un argomento davvero rudimentale per un enorme dibattito[44], con conclusioni che vanno direttamente contro quella che Rodrik chiama “la teoria standard del commercio internazionale” (e per verificare la quale basta prendere in mano un manuale). Si può, ad esempio, leggere una ricerca di Autor, Dorn e Hanson del 2016[45]. Ora, secondo l’argomento proposto da Rodrik, al contrario di quanto presume implicitamente Crouch, anche il commercio incorpora, attraverso il lavoro contenuto nei prodotti, effetti di dumping sociale(come si vede dalla ricerca di Autor, non ancora riassorbiti dopo quindici anni). Oggettivamente, per dinamica propria della situazione, i lavoratori sono stati posti davanti al ricatto di accettare minori condizioni o di perdere il lavoro. La competizione ineguale ha svuotato così le condizioni normative consolidate della distribuzione ammessa nel sistema politico-sociale del paese bersaglio. Non è affatto una circostanza teorica, tutta la perdita di potere contrattuale, salari e condizioni di lavoro che rendono i lavoratori occidentali oggi molto meno tutelati dei loro padri o nonni viene da qui. Detto in altro modo, la circostanza per la quale oggi due persone giovani che lavorano normalmente non guadagnano abbastanza da potersi permettere una casa decente e condizioni dignitose di vita, per non parlare di figli, mentre i loro padri mantenevano la famiglia nella quale sono cresciuti lavorando da soli, dipende in grande misura da questo. In altre parole la “porta sul retro” dei commerci internazionali deregolati erode sostanzialmente gli standard di lavoro nazionali, ed è per questo, precisamente, che sono stati promossi.
- Da questa limitatissima e parziale presentazione, invece, l’autore deriva che “è possibile che senza la globalizzazione l’automazione sarebbe stata più lenta, poiché le piccole imprese concorrenti, non si sarebbero prese la briga di migliorare la produttività, ma avrebbero continuato a utilizzare metodi meno efficienti a scapito dei loro clienti. Con una ridotta automazione ci sarebbe stata una carenza di manodopera, circostanza positiva per i lavoratori salariati nei settori interessati, ma che avrebbe provocato una lievitazione dei prezzi con probabilità di rallentare l’innovazione dei processi produttivi, in quanto vecchi settori he usavano metodi superati si sarebbero aggrappati alle risorse umane e di capitale” (p.34). Una notevole applicazione di modelli neoclassici inconsapevoli; si presume che l’innovazione tecnologica sia guidata dalle grandi imprese in condizioni di monopolio, trascurando il ruolo cruciale della ricerca pubblica e dei relativi incentivi[46], e il nesso tra alti salari ed efficientamento dei cicli produttivi che lavora nella direzione esattamente opposta a quanto qui ipotizzato; inoltre per Crouch se “ci sarebbe stata carenza di manodopera” (ovvero bassa disoccupazione) ne seguirebbe che la domanda interna sarebbe spinta. Ciò è riconosciuto in chiave negativa (“carenza di manodopera” invece che “buona occupazione” e “lievitazione dei prezzi” invece che spinta alla domanda), e ne deriva una curiosa spinta a rallentare l’innovazione. Tutta questa parte sembra ripresa parimente, incluso esempio sovietico, dalla letteratura della “Scuola di Chicago” che qualche anno fa criticava direttamente.
Nel seguito, nella foga di accumulare argomenti, l’autore dimentica di aver scritto che la globalizzazione ha ridotto l’occupazione in occidente e qualifica come “marginale” il fenomeno (in effetti quello maschile è calato in modo molto significativo, ma è stato compensato da quello femminile che è cresciuto), appena mezza pagina dopo dichiara che “i tassi d’occupazione nella maggior parte dei paesi sviluppati sono cresciuti in modo florido”, ma al prezzo di maggiore precarietà. Anche qui la logica economica pencola, perché se i tassi salgono ci sono meno disoccupati, e questo rafforza le condizioni contrattuali dei lavoratori e dovrebbe ostacolare la precarizzazione. Ma se tutto ciò fosse vero non si comprenderebbe il motivo per il quale tanti sono arrabbiati.
Infatti Crouch è costretto, nell’eroico tentativo di negare l’evidenza e disinnescare l’impressione che questa sia una questione di classe e di distribuzione (cosa che porterebbe l’agenda verso la “socialdemocrazia conservatrice”), a cercare motivazioni esclusivamente culturali. Le troverà, come detto, nelle forme di lavoro che determinerebbero specifiche formazioni culturali ed orientamenti psicologici.
Il resto del paragrafo si dilunga sul progresso tecnologico ed il suo impatto (p.39), sugli effetti delle rilocalizzazioni industriali e la competizione dei governi per l’attrazione (p.40), sulla relazione tra globalizzazione e migrazioni. Su questo tema ammette che c’è una relazione diretta, ma nega che questa possa provocare in generale impatto sui salari.
Con una struttura argomentativa che sembra mutuata dalla tecnica di Milton Friedman[47] (allargare i casi particolari, mal descritti, e la confusione fino a poter concludere che sono tutti casi particolari e dunque non si può decidere), conclude che l’impatto dipende dai casi specifici. Qui si trovano due pagine con una serie vertiginosa di no-sense, ad esempio, “un aumento della manodopera disponibile [se fosse occupata allo stesso salario dei presenti e senza sostituzione, ovvero in condizioni di piena occupazione] significa un aumento nel numero di consumatori e quindi un aumento della domanda”. Non specificare la condizione di validità di questa affermazione, la piena occupazione e la sua permanenza, inficia completamente la conclusione. Di seguito postula una perfetta elasticità (classico postulato neoclassico) e quindi un impatto positivo sui salari.
Naturalmente se così fosse la globalizzazione, la cui principale ratio è ridurre i salari per ripristinare i profitti sfidati dalla conflittualità sociale e dalle altre condizioni degli anni settanta, non incentiverebbe affatto l’immigrazione, e le varie associazioni degli imprenditori avrebbero esattamente l’atteggiamento opposto a quello che hanno (ad esempio in Inghilterra, in Germania, in Ungheria ed in Italia).
Subito dopo, in un paragrafo straordinariamente confuso, ammette che in altre condizioni (ovvero in quelle che si danno) “se non ci fosse disponibilità di lavoratori immigrati disponibili i datori di lavoro sarebbero forse costretti ad aumentare i salari per assumere il personale locale”. Ma ora la domanda non dipende più dagli occupati, e dai relativi salari, e quindi “la domanda dei consumatori potrebbe essere insufficiente per sostenere un aumento dei salari”, con danni ai servizi.
Infine, per uscire dalle contraddizioni in cui si è avvolto, Crouch finisce per produrre un argomentum a contrario particolarmente scheletrico e fallace che termina in un dogma: “l’economia di mercato è un gioco a somma positiva”, purtroppo crea anche problemi locali e insicurezze nelle vite delle persone che si possono risolvere con opportune politiche compensative.
Stabilito definitivamente che qui non si sta parlando affatto di lotta di classe, Crouch può rubricare tutta la faccenda sotto il tema “insicurezza”, “shock culturale”, “patriarcato”.
È questo il contesto nel quale è richiamata la frase prima ricordata sul dinamismo della globalizzazione ed i suoi beneficiari.
La sovranità nazionale
Da tutto ciò deriva che “l’idea di sovranità all’interno dell’economia moderna non è più applicabile” (p.52), perché danneggerebbe la prosperità ottenuta e il dinamismo (di alcuni). Ormai “il processo decisionale economico è fondamentalmente sovranazionale”.
Per cui è impossibile invertire la globalizzazione e “tornare” a una visione delle nazioni come entità sovrane. Ma questa, riconosce, “è l’idea più dinamica che nuove gran parte del mondo”.
Per comprenderla si improvvisa storico e, con l’usuale mancanza di riferimenti riconoscibili, si lancia in una ventina di vertiginose pagine di ricostruzione dell’emergenza dello Stato-nazione, nella fase pre-illuminista e poi a seguito della rivoluzione francese, inquadrate in una scheletrica ricostruzione morale della lotta tra bene /male incarnata nella lotta tra secolarizzazione e razionalizzazione, da una parte, ed oscurantismo dall’altra. Il fine è di collegare il razionalismo con la volontà di cambiamento e di innovazione, e queste con la “scienza dell’economia classica”.
Si arriva a queste definizioni strutturanti, ed altamente significative, del conflitto politico moderno:
“se intendiamo per ‘destra’ gli interessi del potere costituito e chi difende la sicurezza che questo offre e utilizziamo ‘sinistra’ per indicare chi è insoddisfatto di come stanno le cose e cerca di sfidare lo status quo notiamo che i conservatori rappresentano sempre la destra, per definizione” (p.69).
Una definizione imbarazzante, ma che presa sul serio porterebbe a definire ‘destra’ proprio la sua posizione; infatti il potere costituito è certamente quello insediato nella globalizzazione (basti pensare alla finanza ed al sistema della grandi imprese transnazionali), e questo offre sicurezza ai ceti che Crouch difende, i quali infatti ne sono più che soddisfatti. Gli insoddisfatti (eufemismo in questo caso) sono tutti dall’altra parte, come la sfida allo status quo.
Ma l’autore si sente dalla parte del coraggioso che sfida il potere, e rigetta la sicurezza, e vede chi cerca di conservare il progresso sociale e la democrazia come ‘destra’. A questo fine ha speso l’intero excursus economico.
A questo punto non suona più strano che, come ricorda in seguito, “i ceti popolari siano andati con la destra e la borghesia con la sinistra”. I primi lo hanno fatto perché sono di destra e vogliono difendere le sicurezze e i secondi perché sono di sinistra e coraggiosi, ottimisti, aperti al futuro ed all’innovazione[48]. Lo schema è antico, se ne possono trovare tracce persino nei dialoghi platonici, e in linea diretta in tutte le posizioni che gli ottimati nella storia hanno preso per respingere la plebe che irragionevolmente voleva una parte[49].
Ma a questo punto gli serve un altro, ultimo ingrediente: la ricerca di Daniel Oesch gli fornisce una spiegazione alternativa alla posizione relativa nella distribuzione delle risorse economiche, per l’opposizione di alcuni, anzi dei più. In realtà chi è occupato in compiti organizzativi, indipendentemente dalla ricchezza e reddito, tende ad essere autoritario, mentre chi è impegnato nei lavori cognitivi e relazionali tende ad essere liberale[50].
Naturalmente ciò significa che le identità di classe sono tramontate (p.84), e residuano forme identitarie difensive tra le quali la nazione. La tesi è, insomma, costruita sulla scorta delle posizioni degli anni novanta di autori come Castells e Bauman (messe in campo quando la risposta alla globalizzazione non era emersa e la crisi non aveva prodotto gli enormi smottamenti di senso attualmente in campo).
Alla fine per queste ragioni “sarebbe disastroso” se il nazionalismo che si diffonde riuscisse ad “invertire la globalizzazione”.
La sinistra sovranista
Dopo questi lunghi preamboli, infine, conduce direttamente l’attacco alle posizioni emergenti nel campo della sinistra contro la globalizzazione:
- alla posizione di Thomas Fazi e Bill Mitchell, che qualifica come “i maggiori esponenti” della tesi dello stato interventista e quindi sovrano, citando il libro “Sovranità o barbarie”, del quale contesta le tesi keynesiane sulla base di semplici falsi[51], ricostruzione storiche mainstream ma non corrette né accurate[52], con repentini cambi di soggetto non esplicitati, e controfattuali arditi[53]. Una delle cose più significative della confutazione è quando si oppone alla spesa pubblica con un argomento pienamente preso dalla cassetta degli attrezzi della “Scuola della Virginia” che aveva in precedenza aspramente criticato. Quindi si impegna nel seguente argomento: se uno stato, comunque, si ritirasse dagli accordi dell’Omc, ne seguirebbe che “i costi per l’importazione delle merci straniere sarebbero molto alti mentre le esportazioni diventerebbero più complesse”, in questo argomento si mettono insieme cose diverse e si abbrevia una complessa catena causale, per la quale sarebbe appropriato rispondere, come lui fa altrove, che “dipende”. Infine nega che se si riacquistasse sovranità democratica, e quindi economica, si potrebbero stringere nuovi accordi con l’argomento che la spinta alla distruzione della globalizzazione è egemonizzata dalla destra (ma la destra perché non dovrebbe volere la cooperazione economica a vantaggio reciproco, ovvero bilaterale, questa è, ad esempio, la politica sbandierata da Trump?). Ne segue, che “Mitchell e Fazi, e chiunque altro sostenga una simile distruzione delle istituzioni internazionali, devono accettare che, almeno per il medio periodo, si ritroverebbero in un mondo contraddistinto da un commercio internazionale limitato e da un antagonismo tra nazioni più intenso” (p.101)[54].
- Il secondo sistema di obiezioni è raggruppato sotto l’etichetta “Welfare State nazionale”, ed è ricondotto alla “scuola di Colonia” di Wolfgang Streeck[55], Martin Hopner, e Fritz Scharpf. La tesi principale è riassunta abbastanza brutalmente con la tesi che la missione della UE conduce al neoliberismo, anche attraverso le decisioni della Corte di giustizia contro gli Stati[56]. A queste tesi che qualifica come “autorevoli”, risponde con una pura petizione di principio: “si tratta di tesi autorevoli, ma resta vero che un mondo in cui la politica democratica rimane intrappolata a livello nazionale è un mondo in cui l’ordine neoliberista al di là della portata della democrazia continuerà a dominare il piano economico sovranazionale”. La parola chiave di questa risposta è “intrappolata”, la politica democratica è qualcosa che esiste in sé e, come fosse un animale, può essere intrappolata o essere libera, non sfiora l’attenzione la natura costruita (da sfere pubbliche, società civili ricettive, culture politiche condivise, istituzioni, regole e prassi) della “politica democratica”. Come comincia ad essere evidente, se si eleva, salendo di un piano, questa non si trasferisce ma si dissolve[57]. Segue un solito e mal costruito argomentum a contrario fondato sulla Brexit e sulla speranza di poter rovesciare l’andamento delle politiche neoliberali (delle quali non è chiaro il carattere di dispositivo di potere, nel contesto competitivo europeo).
Cosa fare
La speranza di Colin Crouch è dunque di risolvere i molti problemi presenti recuperando l’agenda di Delors e riducendo ulteriormente la discrezionalità dei governi nazionali, che si piegano alle esigenze delle lobbies locali. Come scrive “nelle mani dei governi nazionali è stata lasciata troppa e non troppo poca discrezionalità” (p.108).
Per cui alla fine ci sono solo tre scelte possibili:
- rafforzare la Ue,
- accettare la globalizzazione e restringere le scelte nazionali a dimensioni marginali,
- rompere l’economia globale,
Davanti a questa scelta “nessuna persona di sinistra dovrebbe distogliersi dalla prima opinione, dall’opportunità di costruire una solidarietà transnazionale, per saltare sul carrozzone xenofobo e reclamare un’impossibile sovranità economica nazionale”.
Insomma, siamo sempre al Tina[58], unita ad una chiamata identitaria che ricorda molto da vicino il “corno-Autain” del dilemma Kuzmanovic-Autain con il quale siamo partiti. Le “persone di sinistra” alle quali fa riferimento Crouch sono simili a lui: abbienti, colte, cosmopolite, legate a valori liberali, ottimiste.
Poi, come spesso accade nei libri di Colin Crouch, le ultime dieci pagine sono spese per proporre qualche adattamento secondario (il più rilevante è il “fair trade”, che, però se portato alle sue conseguenze, come propone Rodrik[59] indurrebbe proprio di uscire dalla globalizzazione, e una non molto chiara “sussidiarietà verticale”).
L’autore si trova davanti, insomma, ad un problema insolubile, considera esistenzialmente inaccettabile l’unica soluzione razionale, e sulla spinta di un irresistibile richiamo identitario cerca quindi di ridurne la complessità cantando nuovamente, e sempre, ossessivamente, i vecchi e familiari ritornelli.
Alla fine, rassicurato, su concentra su piccoli problemi ai margini.
Che tristezza.