Indietro non si torna... purtroppo
di Alfonso Geraci e Marco Palazzotto
Dopo Nuovo PCI e Sinistra Anticapitalista, anche il PRC ha abbandonato il progetto PAP. Il documento votato dal CPN di Rifondazione non suscita entusiasmi, ma anche noi – che abbiamo condiviso per un anno il cammino di Potere al Popolo – abbiamo lasciato PAP dopo la votazione sui due statuti contrapposti, ritenendo (con motivazioni e preoccupazioni in buona misura diverse da quelle espresse dalla mozione di cui sopra) che si sia giunti a un capolinea, e che PAP abbia costruito e “blindato” un meccanismo di funzionamento sbagliatissimo e che rende molto difficile se non impossibile al singolo militante partecipare coscientemente ed efficacemente alla vita dell’organizzazione. Queste nostre riflessioni intendono avviare un dibattito, per cui auspichiamo che sia i compagni che proseguiranno il percorso di PAP che quelli che l’hanno abbandonato vogliano intervenire. [AG, MP]
Potere al Popolo prevede il potere al popolo?
La festa appena cominciata è già finita… (Sergio Endrigo)
Lo scorso 9 ottobre si sono concluse le consultazioni svolte nella piattaforma informatica di Potere al Popolo che hanno sancito, secondo il comunicato dello stesso movimento (qui maggiori dettagli ), la vittoria dello statuto 1 – sostenuto dalle componenti dell’Ex OPG occupato “Je so’ pazzo” e Eurostop – sullo statuto 2 – sostenuto invece dal PRC, ritirato all’ultimo momento dagli estensori e rimasto comunque online per il voto dopo la decisione della maggioranza del coordinamento nazionale provvisorio.
Hanno votato a favore dello statuto 1 circa 3300 persone su più di 9000 iscritti e quindi il 37% circa degli aventi diritto, e pari al 55% degli utenti attivi.
Non è il caso di soffermarsi molto sul dato numerico. A nostro parere risulta lapalissiana la sconfitta di chi ha sostenuto la bontà della piattaforma informatica quale strumento democratico. Ancorché il risultato venga sbandierato come positivo, resta il fatto che meno della metà degli iscritti a PaP ha scelto lo statuto 1 in un momento, quello costitutivo, che dovrebbe coinvolgere almeno la maggioranza qualificata degli aventi diritto, come avviene nelle costituzioni di nuovi soggetti politici, ma anche sociali e perfino aziendali. Immaginatevi cosa sarebbe successo in Italia se i nostri padri costituenti avessero votato la Costituzione repubblicana con queste percentuali.
Sorvoleremo anche sui lanci di stracci tra PRC e resto di PAP. Non sottovaluteremmo, invece, l’importanza dello statuto (in questi giorni è stato detto che le regole sono importanti, ma adesso occorre andare avanti con la politica). La scelta delle regole decisorie è bensì fondamentale per la vita democratica del gruppo. Se questo non permette l’esercizio della rappresentanza politica dei territori, allora non ha senso parlare di “potere al popolo”.
Fin dalla sua prima formazione attorno alle assemblee del Brancaccio, e poi alle elezioni del 4 marzo, il leitmotiv era stato l’assemblearismo, ovvero una politica non verticistica, sbilanciata verso le assemblee territoriali. All’atto pratico si è verificato uno spostamento in direzione contraria, il verticismo l’ha fatta dimostrabilmente da padrone e l’assemblea nazionale – sempre e comunque a partecipazione del tutto volontaria – è stato sempre un momento molto propagandistico e poco decisionale. Il coordinamento provvisorio, che ha dettato le regole del gioco per la fondazione del nuovo soggetto politico è stato nominato nelle assemblee nazionali, alle quali poteva partecipare solo chi poteva e voleva andare (immaginatevi le difficoltà per gli attivisti di Sud e isole). Inoltre nella scelta del coordinamento le assemblee territoriali non hanno potuto votare delegati o rappresentanti (almeno a Palermo – quinta città d’Italia per popolazione – non è successo).
Ne è nato un processo – regole della fondazione, gestione della comunicazione, elezione portavoce provvisorio, ecc. – al quale le assemblee territoriali (ripetiamo: sicuramente Palermo, l’unica esperienza diretta che conosciamo) non hanno partecipato.
Ma in una situazione di incertezza sulle regole nella quale si procede comunque alla fondazione di un nuovo soggetto politico, un certo spontaneismo ci può stare (ci esprimiamo in termini eufemistici per concentrarci sul cuore della questione); laddove le regole certe, ovvero lo statuto che deve disciplinare la vita politica e democratica del soggetto politico, una volta approvato diventa questione fondamentale. Bene: l’art. 1 dello statuto ufficiale recita: “Le Assemblee Territoriali sono il cuore e la struttura di base di Potere al Popolo!”. Questa espressione suona molto contraddittoria rispetto al resto dell’impianto regolamentare, se si pensa che l’Assemblea Territoriale – che rappresenta l’articolazione politica più importante nel territorio in cui opera, che è deputata a “promuovere il conflitto sociale, il mutualismo, il radicamento dell’associazione sul territorio”– non ha potere decisionale, in quanto non vota né direttamente, né per il tramite dei delegati. Infatti, secondo l’art. 2.1: “La forma della partecipazione all’Assemblea Nazionale è quella plenaria degli aderenti, con trasmissione in streaminge con il supporto della piattaforma informatica in caso di votazioni”. Ciò significa che possono verificarsi molteplici scenari. Tra i quali alcuni paradossali come ad esempio il caso che all’Assemblea Nazionale non partecipi fisicamente e con il voto informatico nessuno che di solito svolge attività politica nei territori. O che la maggioranza dei votanti sia composta da soggetti che non abbiano partecipato a nessuna Assemblea Territoriale o comunque non abbiano mai svolto attività politica. In pratica ci potremmo trovare anche nell’ipotesi della “democrazia di rete” del Movimento 5 stelle, superando il tipo di politica che Potere al Popolo dichiara di aver abbracciato, come il mutualismo, il conflitto sociale, il radicamento nel territorio.
Al netto delle considerazioni sopraesposte sui problemi del voto informatico, ne esiste un altro che si riferisce al CHI gestisce la piattaforma (la quale – si badi – rimane a nostro avviso un utilissimo strumento di confronto e consultazione, ma non decisionale). Ci si affida ad uno strumento che la base non può gestire direttamente. Per dare forza al nostro ragionamento leggiamo lo statuto 1, art. 2: “Sono competenze e obblighi del Coordinamento Nazionale: (…) e.Gestire il sito internet e la piattaforma informatica. A tale incarico sono delegati il/la Webmaster e il gruppo responsabile del funzionamento della piattaforma”.
Andiamo adesso al secondo elemento critico che ci pare allontanare PAP da un progetto di lungo termine per cui valga la pena attivarsi. Ma facciamo una breve premessa.
Quando è stato deciso di costituire PAP e presentarsi alle elezioni dello scorso 4 marzo, due erano le caratteristiche che ci spingevano ad aderire. La prima la forma democratica e il coinvolgimento degli attivisti dei territori nel processo decisionale (di questo aspetto abbiamo discusso sopra) e il secondo la volontà di allargare il progetto a più soggetti politici che gravitano nella cosiddetta sinistra radicale, tentando di concentrare le sparute forze di piccole soggettività. Quello che è successo dopo le elezioni però vira verso un percorso contrario. Il nuovo PCI si è defilato già da qualche mese, adesso sono fuori anche Sinistra Anticapitalista ed altri soggetti. Il PRC si è spaccato sulla permanenza, e durante il voto degli statuti si è creata con il resto di PAP una lesione profonda, non più rimarginabile. Rispetto al mondo sindacale, poi, c’è da registrare un’altra chiusura: l’unico interlocutore preso in considerazione è USB; di Cobas, CGIL e altre realtà sindacali di sinistra non si fa menzione.
Vale la pena infine di spendere qualche altra parola sulla Piattaforma come (preteso) strumento di una democrazia “diretta”, che supererebbe nei fatti il concetto di delega: questa la tesi di chi ha sostenuto lo ‘Statuto 1’ nella controversia interna a Potere al Popolo.
E domandiamoci subito: che differenza c’è tra A) partecipare fisicamentea un’assemblea e B) connettersi a internet? Essere presenti in carne e ossa a una discussione – una discussione politica, nel caso in oggetto, ma non necessariamente politica – comporta due cose: 1) dovere ascoltare gli interventi di chi sappiamo già non pensarla come noi; 2) potere eventualmente ascoltare le ragioni di una terza, se non addirittura di una quarta posizione, le quali forse non avevamo neppure immaginato essere “in ballo”. Nel caso 1) l’ascolto come minimo ci servirà ad affinare dialetticamente la nostra tesi, a difenderla, a chiarircela, e magari a calibrarla meglio. Nel caso 2) chissà che non si cambi addirittura idea, o che si modifichi sensibilmente la posizione che davamo per acquisita. Le assemblee servono innanzitutto a questo: e uno strumento migliore a tutt’oggi non si è ancora trovato. Il paragone tra partecipare a un’assemblea e la fruizione di una diretta streaming, inevitabilmente frammentaria, partigiana (sarò portato ad ascoltare soprattutto coloro con i quali immagino una consonanza: è il meccanismo alla base del clickbait, e di gran parte delle interazioni sui social) e in larga misura passivizzante, ci pare del tutto improponibile. Non parliamo poi del voto su Piattaforma come regola, come ‘normalità’ organizzativa, anziché come utilissimo strumento adatto a circostanze particolari e casi specifici di impedimento a partecipare fisicamente ad una votazione. Tale centralità della Piattaforma ci pare destinata a svuotare prima di significato e poi “materialmente” le assemblee fisiche. A tal proposito speriamo di sbagliarci, ma nulla di quanto abbiamo visto e sentito negli ultimi mesi fornisce elementi in tal senso.
Nella nostra tradizione politica, infine, dall’assemblea nasce in un modo o nell’altro la delega,anche quando molto semplicemente si affida alla tale compagna o al tale compagno l’incarico di scrivere un documento o di fare un giro di telefonate. La delega è certamente una gran brutta bestia, ed è il primo gradino della formazione di un ceto politico autonomizzato rispetto alla base. La delega permanente alla tale o al talaltro la si combatte attraverso la partecipazione (e la “politicizzazione”, fateci passare l’apparente paradosso) di tutti, attraverso la rotazione delle cariche, attraverso meccanismi garantiti, accessibili ed efficaci di verifica e di revoca del mandato. Non certo attraverso la Piattaforma, che al contrario rende più opachi, se non inafferrabili, tutti i passaggi che portano alla delega stessa. Né i più entusiasti sostenitori della “democrazia diretta” dentro PAP hanno poi rifiutato sdegnosamente le varie cariche di coordinatore, delegato (ehm…) e quant’altro.
Il PRC, l’Europa e gli Idoli della Piattaforma
Chissà se finirà/Se un nuovo sogno la mia mano prenderà… (sempre Sergio Endrigo)
Scansiamo a questo punto un equivoco: da ormai un lustro frequentiamo regolarmente il Circolo Luxemburg di Rifondazione a Palermo, abbiamo stretti rapporti di collaborazione con i compagni di quel circolo, seguiamo con grande interesse il dibattito nel partito. Ma le complesse divaricazioni interne al PRC non c’entrano molto con quello che noi pensiamo e che riteniamo urgente fare. Non ci interessano i discorsi identitari su “Rifondazione che non si scioglierà mai”: al contrario ci piacerebbe un PRC che superi se stesso in un incontro con esperienze e culture politiche differenti, ma passando inevitabilmente attraverso una discussione approfondita – e dunque, facciamocene una ragione, una discussione lenta– che investa tutti i nodi teorici, analitici e strategici da sciogliere per una sinistra che oggi è in larga misura da reinventare, e non da “riproporre” in base a improbabili nostalgie e teorie del “tradimento”. Proprio quello che speravamo si potesse fare con Potere al Popolo, e non è stato possibile fare. Né ci entusiasma la costruzione di un Quarto Polo tutta elettoralistica. Ancora meno credibili, tuttavia, ci sembrano gli accanimenti terapeutici – di segno vuoi movimentista vuoi “partitista” – di chi in tutta evidenza spera ancora di trovare in PAP una casa eurofoba ed ‘exitista’. E proprio la questione dell’UE è – anche questa volta, purtroppo – un ottimo esempio di quello che non ha funzionato dentro PAP. Il dilemma tra 2 opzioni di fatto inconciliabili [1) L’UE come terreno al momento ineludibile dello scontro di classe; 2) “Smontaggio” dell’UE (e/o dell’euro) come unica via percorribile] è stato prima sottaciuto, poi sminuito, poi esorcizzato dai dirigenti di PAP (nel migliore dei casi si è usata la formula di compromesso tipica di Rifondazione: “disobbedienza ai trattati”, una “coperta” che ognuno ovviamente ha tirato dalla sua parte, ma alla quale riconosciamo perlomeno un valore pratico, di “tenuta” organizzativa); salvo poi, a partire dall’estate scorsa, sentire da fonti autorevoli che PAP doveva [?] essere per lo “smontaggio”, che “il movimento ha scelto Melenchon” [Quando? Dove? Come?] e che senz’altro avremmo “rotto con Varoufakis” [Per Quale Motivo?]. Tutto questo senza che si fosse mai svolta una discussione politica in merito (c’era invece stata, perlomeno qui a Palermo e per iniziativa del compagno Frank Ferlisi, una bella discussione pubblica di taglio “teorico”, svoltasi al circolo ARCI “Porco Rosso” con la partecipazione di Domenico Moro, Giusto Catania, Vincenzo Marineo ed Alfonso Geraci, nella quale erano emerse – non inaspettatamente – posizioni lontane fra di loro). Ma sicuramente basterà poi la Piattaforma a dirimere la questione.[1]
E adesso? Adesso PAP non diventa certo un “concorrente” politico per gli scriventi, che oltretutto non militano in nessuna organizzazione partitica: al contrario auspichiamo la prosecuzione dell’attività dei Gruppi di Lavoro che hanno svolto in alcuni casi un lavoro eccellente e prevedono la partecipazione di esterni a PAP: un lavoro del tutto necessario per una sinistra che è stata sconfitta e che (ci ripetiamo) deve reinventarsi, “studiando il Passato – come diceva il grande shakespearologo Terence Hawkes – proprio in quanto è diverso dal Presente”.
Comments
Che tristezza!Dal momento che in questo momento le sinistre non sanno che pesci pigliare,tutte le sinistre dalle piu radicali alle piu moderate,farebbero bene a riconoscere che non sono indispensabili e che il mondo puo' andare avanti anche senza di loro.In attesa di tempi migliori sarebbe un atto di umilta' che potrebbe funzionare come terapia psicologica.Parlo anche per me naturalmente.Ah gia',ma io per Lei probabilmente sono solo un traditore liberista
A meno che non si voglia concludere che per i comunisti è meglio vivere sotto un regime nazista (che i comunisti li mandava a morire nei primi lager creati già nel 1933), che sotto un regime liberal-democratico.
A mio avviso è sbagliato avere un'idea quasi sacrale della volontà del proletariato, che non sbaglia mai. Per secoli il proletariato (anche se nella fase preindustriale questo termine andrebbe sostituito con quello di masse povere e subalterne) è rimasto avvolto nel fanatismo e nella superstizione. Ed anche oggi spesso si fa guidare dall'ignoranza, il risentimento e la xenofobia, prendendo clamorosi abbagli su quali siano i suoi nemici. E questo al netto degli errori incontestabili e macroscopici della sinistra.
ti ringrazio tantissimo per il tuo pluri-intervento. Tanta, tantissima carne al fuoco. due aspetti mi trovano dubbioso
"Serve invece rimettere in piedi la lotta di classe"... e fin qui ci siamo. Poi però neghiamo la funzione storica di un partito comunista che rimetta in piedi la lotta di classe. E mi chiedo allora chi lo possa fare.
Altro elemento: è assurdo essere "contro il proletariato".
Attenzione, i due temi sono collegati da quello che, almeno a mio parere, è un sillogismo che, se ho capito bene, è pericoloso. Provo a esprimerlo:
1. il proletariato ha sempre ragione
2. il proletariato fa la lotta di classe
3. la linea del proletariato che ha sempre ragione è lotta di classe.
Da cui discende il corollario: chi è contro il proletariato è contro la lotta di classe.
Sono stato volutamente riduttivo perché non penso che questo sia il tuo punto di vista. E se così è, allora occorre, anche qui, procedere per logica conclusione.
1. il proletariato non ha sempre ragione e
2. non fa sempre la lotta di classe.
Addirittura, qualcuno molto a Oriente parlava di "educare" e "ri-educare", se necessario. Di fatto, la cosa poi si riduceva ad aspetti prettamente "punitivi", visto che oggi i compagni sono più realisti del re.
Hai quindi perfettamente ragione quando concludi "La piccola borghesia si e' in parte radicalizzata e il proletariato vota per loro." Cogli proprio questo aspetto.
E qui entriamo nel vivo del discorso. Un passo in più:
La lotta di classe ha anche una pars construens, un passaggio all'offensiva oppure, chiamiamolo col suo nome, la lotta di classe ha come sbocco il socialismo?
Se si, allora è necessario un partito organizzato che interpreti istanze e le traduca in una linea politica, la sottoponga a costante verifica in vista di un progetto politico, costruisca alleanze (e qui mi ricollego a quanto espresso da Massimo sulla litigiosità delle frazioni o correnti di pensiero cui tutti apparteniamo o facciamo riferimento) e funga da elemento di attrazione costante anche per chi intuisce, al momento la bontà di una linea rispetto a un'altra, pur non avendo letto una riga di Marx, perché sente che è l'unica in grado di fare realmente i suoi interessi e trasformare la società attuale a suo vantaggio.
Scappo, ho messo un po' di carne al fuoco anch'io...
Un caro saluto
Paolo
Ebbene, penso che questo sia, purtroppo, impossibile. Ci vorrebbe una dose di capacità di ascolto e di rispetto, di coscienza dei propri limiti e di acquisizione del valore della diversità: tutte cose di cui non vedo traccia.
Il proletariato, qualche volta, sbaglia a votare. Vedere la Germania degli anni Trenta. La motivazione principale che oggi spinge il proletariato a votare per un partito come la Lega non è l'antiliberismo, ma il risentimento verso i migranti e verso una sinistra ritenuta responsabile dell'"invasione".
grazie mille per la vostra disanima di una situazione alquanto, molto ingarbugliata. Il mio "sogno" sarebbe, non dico l'anno prossimo, diciamo prima o poi, di andare a votare un partito comunista unico, meglio, unito, che riesca a coagulare non solo le anime tradizionalmente legate al marxismo (il che sarebbe già un successo), ma anche compagni che ci sono vicini, o connazionali che trovano la nostra idea di società più consona a istanze molto "semplici" (e la parola, come potrete intuire, non è affatto riduttiva, anzi in essa probabilmente ci giochiamo tutto) di giustizia sociale, solidarietà ed eguaglianza. Che trovano in noi una risposta che altri non danno.
Attenzione, anche se sono affezionato all'idea di mettere una croce su una falce e martello, non è questo il senso della mia domanda. A me piacerebbe capire se qualcuno all'interno di questi partiti, e se si in quale proporzione rispetto al totale di un comitato centrale, di una segreteria, pensa a questo percorso di unità come a una condicio sine qua non per crescere e per far crescere politicamente un movimento comunista in Italia che esca dal settarismo e funga da catalizzatore per l'intera sinistra italiana, nel bene e nel male, nell'accordo e nel disaccordo.
Secondo voi, che sicuramente siete molto più addentro di me a queste dinamiche politiche, che non compaiono nelle pagine web dei partiti comunisti che consulto ogni tanto per vedere se, da questo punto di vista, mi sono perso qualcosa, potrebbe esistere uno sbocco politico in questo senso? Esiste già qualcosa a livello locale?
Ciao
Paolo