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Ricordo di Romano Alquati

Emiliana Armano, Raffaele Sciortino

Tre mesi fa, il 3 aprile, si spegneva a Torino all’età di 75 anni Romano Alquati, esponente di spicco del pensiero operaista, intelligenza sistematica ma al di fuori degli schemi convenzionali, riconosciuto come uno dei più raffinati studiosi della soggettività e della composizione di classe.

L’esperienza politica di Romano muove da quella componente minoritaria ma importante dei giovani “ricercatori scalzi” degli anni ‘50 che pur continuando ad abitare criticamente il movimento operaio, in particolare le sue organizzazioni sindacali, matura da subito una rottura profonda rispetto alle sue rappresentanze istituzionali e alle vie nazionali al socialismo. Al tempo stesso rimanendo distinta, anche per un tratto generazionale, dall’opposizione antistalinista “storica”. In questo, anticipa quella straordinaria cesura che maturerà compiutamente solo con il ’68. Romano Alquati viene su in un humus culturale che in quegli anni è alla ricerca di un marxismo libero da incrostazioni, capace di indagare e intercettare la classe operaia per quello che è e non per come dovrebbe essere secondo i canoni della “chiesa” comunista, efficacemente ibridato con la rilettura critica della sociologia ed empaticamente affine ad un approccio fenomenologico alla soggettività. Si forma politicamente a Cremona -una città della pianura Padana all’incrocio tra le esperienze di lotta del proletariato agricolo e la tumultuosa industrializzazione del boom economico- accanto all’amico Renato Rozzi e al comunista “eretico” Danilo Montaldi sotto il cui influsso fa le prime esperienze di ricerca militante.

E’ con questo bagaglio che Romano, venticinquenne trasmigrato nella “città-fabbrica” Torino, partecipa attivamente con Raniero Panzieri alla redazione della rivista Quaderni Rossi, cruciale per la formazione della nuova sinistra, per poi passare dal ’63 con Mario Tronti e Toni Negri all’esperienza di Classe Operaia, vero luogo di nascita di quello che sarà conosciuto come operaismo. In questo crogiolo di esperienze collettive a stretto contatto con una nuova figura di classe operaia, quelle “forze nuove” dell’operaio massa potenzialmente antagonistiche con il neocapitalismo e assai distanti nei comportamenti e nella mentalità dal vecchio movimento operaio, si elaborano categorie di analisi fondamentali come quella di composizione di classe e si propone un approccio di studio/intervento con il “metodo” della conricerca (su genesi e contenuto di questa innovativa cassetta di attrezzi si sofferma diffusamente Steve Wright nel suo libro accessibile al pubblico italiano).

La conricerca, che nasce nei primi anni '60 come ricerca militante sul campo con operai della Fiat Mirafiori e di altre fabbriche piemontesi (Olivetti, Lancia), è insieme attività d'inchiesta e processo di conoscenza e di trasformazione reciproca dell’identità del ricercatore e di quella che si comincia a chiamare soggettività operaia. Pratica d'intervento che ponendo il ricercatore militante sullo stesso piano del soggetto indagato annulla la figura separata dell’“avanguardia” tanto cara alla logica della sinistra e consente di riformulare orizzontalmente e circolarmente il rapporto teoria-prassi-organizzazione. Una pratica non formalizzabile in metodo che permette di leggere, anche nei periodi di passività, i segnali della conflittualità a venire, l’organizzazione informale e le ambivalenze costitutive che si collocano nello scarto tra composizione tecnica (articolazione oggettiva della forza-lavoro) e composizione politica della classe. Non a caso quelle inchieste svolgono un ruolo attivo nel nuovo ciclo di conflittualità operaia che si apre a Torino con la rivolta di piazza Statuto del luglio '62 anticipando il lungo ’68 italiano.

L’estrema capacità nel saper cogliere le cesure, prioritaria in lui rispetto a ogni percorso politico e organizzativo, porta Romano Alquati già nei primi anni '70 -che pure segnano il culmine della conflittualità dell’operaio massa- a guardare oltre e individuare nei processi di industrializzazione dell’attività umana in quanto tale, evidenti nell’incipiente terziarizzazione, il ridislocarsi della sussunzione capitalistica che esce dalla fabbrica e si estende al "sociale". Risalgono a questo periodo gli studi su Università di ceto medio e il proletariato intellettuale, che aprono alle successive ricerche su formazione comunicazione e intellettualità di massa, sui servizi come prodotto del capitale e più in generale sulla riproduzione mercificata della capacità-umana-vivente. Si prende atto della fine di un ciclo della composizione di classe e di una fase del capitalismo che richiede di andare oltre le letture operaistiche. Nel suo pensiero si fa così strada l’esigenza di elaborare nuovi strumenti - anche in costante ma isolato dialogo con grandi sociologi come il Bauman della modernità liquida e Touraine- all’altezza di quella che definirà l’iperindustrializzazione come sussunzione effettiva in atto dell’intera esperienza umana e messa a valore dell’intera riproduzione sociale. Il nodo di fondo è ancora quello dell’ambivalenza: i saperi e le attività possono essere curvate per l’autonomia dei soggetti oppure espropriati nella codificazione del linguaggio formalizzato tecnico-scientifico del capitale. La domanda è a quali condizioni gli iperproletari, socializzati dalle tecnomacchine flessibili della produzione e riproduzione capitalistica, possano aprirsi ad una prassi emancipatrice.

Negli anni ’80 questi temi sono affrontati all’interno di seminari militanti utilizzando ancora l’università di massa come possibile luogo di produzione collettiva di conoscenza critica - anni di formazione per coloro che sono poi diventati i suoi allievi. Ma vi è la distruzione irreversibile di questi luoghi dagli anni ’90 in poi, la distanza abissale da una sinistra ufficiale sorda ai cambiamenti e la perdita di contatti con i vecchi compagni del percorso operaista; tutto ciò segna l’isolamento di Romano, che non smette comunque di tornare sempre di nuovo sugli ultimi scritti, non pubblicati, aporetici, esplorativi dei nuovi nodi, il suo lascito sicuramente più complesso e denso.

Ci piace allora ricordarlo con le sue parole: “essere caparbiamente rivoluzionari quando non ci sono rivoluzioni non è né divertente né tanto invidiabile. Negli anni fine ’50 ci si sentiva all’inizio di qualcosa… aperto sul futuro”. Anche negli ultimi, non facili anni Romano non ha mai ceduto alle nostalgie.

(Scritto per Sozialgeschichte, rivista on line di Storia Sociale, 2010)

 

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