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machina

Sul fascismo e le sue metamorfosi

di Alberto Burgio

Schermata del 2024 03 20 15 27 28.pngVorrei dar seguito ai miei due interventi di «scatola nera» che hanno suscitato reazioni diverse, tutte feconde di ulteriori riflessioni. Credo che la sede opportuna di questa nuova riflessione sia «spigoli» perché vorrei a questo punto ragionare prendendo maggior distanza dagli accadimenti di questi mesi e anche di questi ultimissimi decenni.

Oggi vorrei tornare sulla questione del fascismo – del suo connotato essenziale, quindi dei suoi rapporti con la modernità, il capitalismo, il dominio borghese, lo Stato di diritto, la democrazia. Non mi dispiacerebbe concentrarmi in un successivo intervento sul problema del razzismo, riservando particolare attenzione alla tragedia specificamente moderna e specificamente europea dell’antisemitismo, riemersa con tragica attualità in connessione con il nuovo capitolo dell’infinita guerra israelo-palestinese (A.B.).

* * *

Due questioni

Nell’ultimo articolo pubblicato in «scatola nera» ho scritto che, dopo i 30-40 anni di reazione alle conquiste realizzate dal movimento operaio nel trentennio post-bellico, siamo in una fase di «neo-fascistizzazione» di buona parte dei paesi occidentali; e ho suggerito che la fase attuale è probabilmente la «verità» della precedente: non un semplice, transitorio, incidente di percorso. In questo senso la regressione verso regimi autoritari, «populistici» (pongo tra virgolette per l’ambiguità del termine), sostanzialmente post- o neo-fascisti in parte dell’Europa non dev’essere ottimisticamente intesa come un inciampo più o meno accidentale ed episodico, ma come un compimento, come l’istituirsi di un assetto stabile destinato a consolidarsi nel prossimo futuro.

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resistenze1

Le cosiddette "purghe di Stalin". Mito, realtà storica e contesto

di Thanasis Spanidis | kommunistische.org

stalinismo3 1Nel 1937-38, in Unione Sovietica scoppiò un'ondata di violenza che non si vedeva dai tempi della guerra civile. In questi due anni furono giustiziate oltre 680.000 persone e il numero di detenuti dei campi penali raggiunse il massimo storico di quasi 1,9 milioni nel 1938 (Getty /Rittersporn/Zemskov 1993, p. 1023).

Ancora oggi, questi eventi forniscono all'anticomunismo un modello popolare per bollare come criminale e assassino il periodo di costruzione socialista che Stalin ha contribuito a plasmare, o addirittura l'Unione Sovietica e l'idea comunista in generale. Ma anche all'interno del movimento comunista è ancora diffusa l'interpretazione secondo cui le repressioni sarebbero state semplicemente una conseguenza della ricerca del potere da parte di Stalin, che nel migliore dei casi ha fatto riferimento al contesto della minaccia internazionale negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale. Ad esempio, il defunto Robert Steigerwald (DKP), che tende a ritenere che tutti i condannati nei processi di Mosca, nell'affare Tukhachevsky e nelle repressioni di massa fossero innocenti. Una "quinta colonna" (cioè una cospirazione controrivoluzionaria di fronte all'imminente invasione nemica) non esisteva, "esisteva nelle 'confessioni' estratte con la tortura. Non c'era altro" (Steigerwald 2018). Il giornale Junge Welt ha pubblicato il 29 luglio 2017 un articolo di Reinhard Lauterbach dello stesso tenore: suggerì inoltre che Stalin aveva sistematicamente ucciso i suoi rivali e scatenato un terrore di massa mirato contro la società. A tal fine, aveva persino emesso delle "quote" di arresti e fucilazioni che la polizia segreta doveva rispettare (Lauterbach 2017).

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materialismostorico

Le controversie di una “storia sociale” del lungo Sessantotto italiano*

di Alessandro Barile - Università "La Sapienza" di Roma

Sessantotto manifestazione.jpgNel secondo Novecento italiano gli anni Settanta occupano un posto di assoluto rilievo storico, per molteplici e ovvie ragioni. Sono gli anni dell’assalto al cielo1 o del «paese mancato»2, a seconda dei giudizi, delle sensibilità, degli obiettivi della ricerca storica che si intreccia con l’impegno civile. Sono anni, dunque, su cui si è scritto tanto. La lotta armata, che di quegli anni ne è un poco l’epitome, ha vissuto le alterne stagioni di una pubblicistica intrisa di attualità, e quindi di passioni ancora brucianti, di ferite non rimarginate nell’uno e nell’altro campo3. La ricostruzione si è avvalsa spesso della testimonianza del “reduce”, poi della testimonianza della “vittima”. Vi è poi stata la sua “funzionalizzazione” attraverso la categoria del terrorismo, e quindi della criminalità politica4. Un taglio storiografico che, insieme a una sempre più raffinata (talvolta esasperata) precisione documentaria, ha portato con sé lo sfocarsi progressivo dei motivi generali che hanno reso possibile la durata, la profondità e la radicalità del lungo Sessantotto italiano. Non vi è (più) un deficit di informazione, quanto un (nuovo) deficit di interpretazione. Lungo questa parabola ora ascendente ora discendente, si è inserita dapprima la storia sociale5, poi lo sguardo “microstorico”6 a complicare ulteriormente il quadro attraverso spiegazioni antropologiche, se non direttamente psicologiche. Il trascorrere del tempo e l’inevitabile distanziarsi dagli eventi ha comportato il paradossale indebolimento della dimensione compiutamente politica della vicenda. Un fatto che distingue non solo la storia degli anni Settanta, interpretata secondo le categorie della devianza (una devianza ora irrisa, ora intrisa di pietas), ma l’intera storia del movimento operaio organizzato. E quindi – almeno in Italia – anche la storia del Pci, che di fatto prosegue lungo la china funzionalista che la riduce, da tempo, all’interno di una “politologia delle élite” che fa aggio su ogni caratterizzazione ideologica.

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machina

La resa dei conti

di Alberto Burgio

Schermata del 2024 02 04 15 00 42.pngNell'articolo di oggi, Alberto Burgio sviluppa i ragionamenti già espressi nel suo ultimo articolo «Salute al duce!». La reazione alle conquiste delle lotte operaie e del movimento operaio che si è sostanziata negli ultimi trenta/quaranta anni, arriva a compimento oggi con una radicalizzazione delle nuove logiche di dominio che si può comprendere come processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, ci dice l'autore. L'avanzata di Alternative für Deutschland in Germania e le riforme che sta portando avanti il governo Meloni sono, in tal senso, paradigmatiche.

* * * *

Approfitto dell’ospitalità di Machina per tornare sui temi trattati nell’intervento precedente e provare a svilupparli.

Chiarisco subito il punto: sono convinto che oggi in Italia (come in larga parte dell’Europa e dell’Occidente) sia in atto un processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, e che in questo processo giunga a compimento una fase (ultra quarantennale) di reazione organica alle conquiste che il movimento operaio e i movimenti anticoloniali avevano ottenuto nei «Trenta gloriosi» (sino alla metà degli anni Settanta).

Sul piano economico la reazione alle conquiste del movimento operaio e alle lotte anticoloniali nel trentennio post-bellico (conquiste salariali e politiche; in termini di diritti, indipendenza e influenza politica) si è basata (1) sulla mondializzazione del sistema di accumulazione, che ha disarmato il lavoro salariato e (2) sull’egemonia del capitale finanziario, che ha sradicato la sovranità economica degli Stati nazionali.

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carmilla

Il feticcio del Fronte Unico, la concretezza della Rivoluzione (e della controrivoluzione)

di Sandro Moiso

Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro

Comunisti e Fronte unico cover.jpgCome si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – e anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente al contrattacco».

Pertanto il Fronte Unico di cui si parla, come è possibile espungere dalle date, è quello intorno a cui si svolse un acceso e combattuto dibattito, sia a livello internazionale che nazionale, negli anni immediatamente successivi a due degli avvenimenti fondativi per le strategie politiche del XX secolo: la prima carneficina mondiale e la rivoluzione russa.

Dibattito aperto dalla convinzione, diffusa nella Terza Internazionale appena fondata, che tale strategia fosse la migliore o la più adatta per togliere dall’impasse l’iniziativa dei partiti comunisti appena formati o in via di formazione. Una tattica che, senza dichiararlo apertamente, andava nella direzione di accelerare la Rivoluzione in Occidente. Sia per liberare dalla schiavitù capitalistica milioni di proletari e lavoratori, che per superare l’isolamento in cui la neonata Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche era venuta a trovarsi durante la Guerra civile, inizialmente foraggiata dalle potenze occidentali tra il 1918 e il 1919.

A questo andava ad aggiungersi la controffensiva della parte avversa che, soprattutto in Italia e in Germania, iniziava ad affidare le sue sorti alle milizie del Fascismo italiano e dei Freikorps tedeschi, in cui avrebbero poi affondato le loro radici le formazioni paramilitari naziste.

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sinistra

Angelo Calemme, La Questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea

Recensione di Ciro Schember

sito Come avvenne lUnità dItalia spolpando il Sud con cattiveria.jpgIn cambio della riforma del premierato e, in subordine, di quella della riduzione dei poteri del Parlamento e del Presidente della Repubblica, in altre parole, in cambio dell’approvazione del Ddl Casellati, Roma pensa di dare il via libera al Senato per il Regionalismo differenziato ovvero per la realizzazione ulteriore del progetto leghista della “secessione senza secessione”, precisamente della legale separazione socio-economica del Mezzogiorno italiano senza rinunciare all’Unità (politica) del Paese: il 16 gennaio si discuterà, quindi, non solo della riforma per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, ma, anche e soprattutto, della definitiva separazione fiscale di regioni centro-settentrionali come Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, con ciò aggravando ancor di più lo scambio ineguale (subcoloniale) tra Centro-Nord e Sud. A conferma di questa tesi giunge la nota dell’Ufficio parlamentare di Bilancio relativa ai tagli previsti al Fondo perequativo infrastrutturale per gli anni 2024, 2025 e 2026, la quale informa che il Mezzogiorno sin da quest’anno perde 281,1 milioni di euro, 264,2 milioni l’anno prossimo e 300 tra due anni.

Per chi non ne fosse a conoscenza, il Fondo perequativo infrastrutturale è lo strumento costituzionale (introdotto dalla L. Cost. 3/2001, che ha sostituito l’Art. 119 della Cost.) che, all’interno del quadro normativo previsto dal Federalismo fiscale prima e del Regionalismo asimmetrico poi, deve compensare eventuali squilibri (asimmetrie?) fra le entrate tributarie delle regioni italiane e consentire agli enti preposti di erogare i servizi di loro competenza a livelli omogenei su tutto il territorio nazionale.

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sinistra

Socialismo cinese e Lunga Marcia

di Salvatore Bravo

marcinj a.jpgIl percorso che porta al comunismo inizia con il lavoro comune per sovvertire le condizioni di sfruttamento delle classi subalterne. Emancipare dallo sfruttamento significa non solo soddisfare i bisogni materiali, ma anche educare alla partecipazione politica. Senza categorie valide per decodificare lo sfruttamento e progettare un diverso modo per gestire struttura economica e sovrastruttura non vi è comunismo. La parabola di Mao Tse- tung1 è da leggersi nella Cina divorata da decenni di invasioni e sfruttamento e che ha conosciuto due guerre dell’oppio (la prima dal 1839 al 1842 e la seconda dal 1856 al 1860) e la rivolta dei Taiping (1851-1864). Decine di milioni di morti è stato il risultato dello sfruttamento e del razzismo del liberismo dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, in primis, a cui si sono affiancate le potenze europee minori tra cui l’Italia verso la Cina. Nelle guerre dell’oppio e nella violenza con cui le potenze europee hanno sostenuto lo sterminio della rivolta dei Taiping vi è la verità del capitalismo non ancora riconosciuta. In questo contesto la Lunga Marcia del comunismo conclusasi con la presa del potere il primo ottobre 1949 e gli errori e le tragedie conseguenti erano, purtroppo, inevitabili: sollevare seicento milioni di persone da uno stato di miseria secolare e da una condizione di subalternità non poteva che comportare nella cornice storica della Guerra fredda il rischio del tragico. Tragedie vi furono, ma assieme a esse, secondo la lezione marxiana, il comunismo è da realizzarsi non necessariamente secondo lo sviluppo stadiale, ma esso deve essere progetto politico che tenga in gran conto le circostanze storiche reali. Pensare il comunismo significa pensare la storia. Il discorso di Mao Tse- tung del 1957 dimostra la capacità teoretica e pratica del comunismo cinese.

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antiper

Sulla rivoluzione russa dell’ottobre 1917

di Alain Badiou

Tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesisa, 2023, Titolo originale: Petrograd, Shanghai, La Fabrique Éditions, 2018. Traduzione italiana di Linda Valle

pietro shaÈ sempre impressionante vedere, nel breve tempo di una vita umana, un evento storico invecchiare, consumarsi, raggrinzire e poi morire. Morire, per un evento storico, è quando quasi tutta l’umanità ti dimentica. È quando, invece di illuminare e guidare la vita di una massa di persone, l’evento appare solo nei libri di storia specialistici. L’evento morto giace nella polvere degli archivi.

Ebbene, posso dire che, nella mia vita personale, ho visto la rivoluzione d’ottobre del 1917, se non morire, almeno agonizzare. Mi si dirà: non sei così giovane, dopotutto, e per di più sei nato vent’anni dopo tale rivoluzione. Quindi ha avuto comunque una lunga vita! E del resto, si parla dappertutto del suo centenario.

La mia risposta è questa: quasi ovunque, questo centenario, come il bicentenario della Rivoluzione francese, maschererà e mancherà il senso di questa rivoluzione, il motivo per cui per almeno sessant’anni ha scatenato l’entusiasmo di milioni di persone, dall’Europa all’America Latina, dalla Grecia alla Cina, dal Sudafrica all’Indonesia. E perché, allo stesso tempo e in tutto il mondo, ha terrorizzato e costretto a ritirarsi il piccolo manipolo dei nostri veri padroni, l’oligarchia dei proprietari del capitale.

È vero che per rendere possibile la morte di un evento rivoluzionario nella memoria degli uomini è necessario cambiarne la realtà, renderlo una favola sanguinosa e sinistra. La morte di una rivoluzione si ottiene con una dotta calunnia. Parlarne, organizzarne il centenario, sì! Ma a condizione che ci si sia dati strumenti dotti per concludere: mai più!

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contropiano2

L’espulsione dei Palestinesi esaminata di nuovo

di Dominique Vidal*

PALESTINA case demolite.jpgUna ricostruzione storica fatta da Dominique Vidal circa 25 anni, ma tutt’ora utilissima per illuminare quello che l'”Occidente liberista” e Israele vorrebbero tenere sotto il tappeto (tutto quello che è avvenuto prima del “fatale” 7 ottobre).

Una riflessione anche breve sull’obiettivo strategico di Israele, fin dalla fondazione, porta all’unica conclusione possibile: “ripulire” della presenza palestinese i territori che a loro interessano, senza alcun limite predeterminato. Non a caso, tra le “unicità” di Israele c’è l’assenza di confini ufficiali…

* * * *

Cinquant’anni fa, l’ONU decise di partizionare la Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico. La successiva guerra arabo-israeliana si concluse con Israele che espandeva la sua parte di territorio di un terzo, mentre ciò che rimaneva agli arabi fu occupato da Egitto e Giordania.

Diverse migliaia di palestinesi fuggirono dalle loro case, diventando i rifugiati al centro del conflitto.

Israele ha sempre negato che siano stati espulsi, né forzatamente né per politica. I “nuovi storici” di Israele hanno riesaminato tale negazione e hanno messo fine a una serie di miti.

Solo pochi riconoscevano che la storia del padre, di ritorno, redenzione e liberazione, era anche una storia di conquista, spostamento, oppressione e morte. Yaron Ezrachi, Rubber Bullets

Tra il piano di partizione per la Palestina adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947 e la tregua del 1949 che pose fine alla guerra arabo-israeliana, iniziata con l’invasione del 15 maggio 1948, diverse centinaia di migliaia di palestinesi abbandonarono le loro case nel territorio che alla fine fu occupato da Israele (1).

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laboratorio

Il seme della violenza. Parte II

Dal 1948 al nuovo secolo

di Domenico Moro

Senza titolojuytfv.jpegIl periodo che va dalla fine della guerra del 1948, definita dai sionisti prima guerra di indipendenza e dai palestinesi Nakba (disastro), fino all’inizio del XXI secolo è caratterizzato da un quadro di grande complessità e denso di forti contraddizioni a livello sia regionale sia mondiale, che ha reso a tutt’oggi la questione palestinese ancora senza soluzione.

 

  1. 1. La fondazione del nuovo stato di Israele

La guerra del 1948 lasciò due questioni irrisolte. La prima fu il riconoscimento internazionale di Israele, che, sebbene riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi (compresa l’Urss), non ebbe il riconoscimento dei Paesi arabi limitrofi. La seconda fu la questione della collocazione dei profughi palestinesi, che si ritrovarono senza terra e senza Stato.

Lo Stato sionista, comunque, beneficiò di alcuni vantaggi rispetto ai Paesi del Terzo mondo che, alla fine del colonialismo, si resero indipendenti. Mentre questi ultimi dovevano adattare le istituzioni ereditate dalla potenza colonialista o costruirle ex novo, Israele poteva contare su istituzioni formatesi nel corso del mezzo secolo precedente. Israele poteva beneficiare, inoltre, dell’aiuto degli ebrei della diaspora, che fornivano sostegno politico ed economico al nuovo Stato. Si trattava di una sorta di assicurazione economica di cui gli altri Paesi di recente costituzione erano privi.

Israele si caratterizzò sin dall’inizio come uno Stato confessionale. Infatti, mentre impediva il rientro dei Palestinesi fuggiti durante la guerra del 1948, sollecitava l’immigrazione degli ebrei provenienti da tutto il mondo. Nel 1950 il parlamento israeliano votò la cosiddetta Legge del ritorno, il cui primo articolo stabiliva: “Tutti gli ebrei hanno diritto a immigrare nel Paese”. Del resto, lo Stato sionista si appropriò del 94% delle proprietà dei palestinesi fuoriusciti, assegnandole a ebrei israeliani.

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carmilla

Apologia della storia militante. Sergio Bologna, la rivista “Primo Maggio” e la storiografia militante

di Francesco Festa

Sergio Fontegher Bologna, Tre lezioni sulla storia. Milano, Casa della Cultura, 9, 16, 23 febbraio 2022, Presentazione di Vittorio Morfino, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 174, € 12.00

PugnoChiuso.jpgIl concetto di storia di Walter Benjamin dai tratti folgoranti, densissimi, non finiti eppur integri, è enucleato in una sua potente intuizione: lo studio della storia è l’osservazione del “futuro del passato”, un “ricordare il futuro”, dove l’attualità di ciò che è stato, proprio perché non ancora giunta a compimento e non ancora onorata dalla storia, ci attende, viva più che mai, al presente.

Sergio Fontegher Bologna, l’autore di questo libro di cristallina chiarezza e di agile lettura mai a scapito della densità, a un certo punto della sua ricostruzione di un lungo percorso – apertosi con le rivolte genovesi del 30 giugno 1960 contro il congresso del MSI – si interroga sul cambio di paradigma nella ricerca storica a cavallo dei due secoli: l’oggetto della ricerca non è più la “realtà storica” e, simmetricamente, si impone un registro ermeneutico e linguistico che fa leva sull’accezione di memoria in luogo del concetto di storia: entrambi sintomi dell’impossibilità di incidere sulla realtà, cioè, sul presente quale matrice del “pensiero storico”.

Quando noi parliamo di crisi o di eclissi della storia militante – scrive Fontegher Bologna – non ci riferiamo soltanto alla fine dell’etica della partecipazione ai movimenti sociali contemporanei, né soltanto alla ‘crisi della politica’ e al progressivo ritirarsi nel privato, né alla ricerca di nuove strade diverse dalla labour history, ci riferiamo a un modo di ragionare e di discutere tra storici che esclude, cancella, il presente, nella storia militante il presente era la fonte delle domande che lo storico si pone all’inizio della ricerca. Il combinato disposto della diffusione del termine “memoria” e della concezione della storiografia come narrative come forma di creazione letteraria, portano alla cancellazione del presente come fonte del pensiero storico. (p. 142)

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quadernidaltritempi

Il distruttore di mondi: Oppenheimer secondo Nolan

di Roberto Paura

L’uomo, lo scienziato, l’intellettuale, il pacifista che rese possibile la guerra atomica in un biopic

in rilievo visioni oppenheimer A.jpgProviamo a fare un esperimento mentale, di quelli che gli storici chiamano “storia controfattuale” e gli appassionati di fantascienza “ucronia”. Immaginiamo che la scoperta della fissione nucleare, avvenuta nel 1938 in Germania, non si fosse verificata alla vigilia della Seconda guerra mondiale ma, poniamo, dieci anni prima. Siamo stati abituati a immaginare un mondo in cui Hitler ottiene l’atomica prima degli americani, come quello tratteggiato in L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick (1962) e nella serie televisiva che ne è stata tratta, perché era l’incubo che ossessionava gli uomini di Los Alamos e che anche dopo Hiroshima e Nagasaki li convinse ad aver agito bene: se non lo avessero fatto, se Albert Einstein e Leo Szilard non si fossero impegnati a convincere il presidente Roosevelt a investire nella fabbricazione della bomba, vivremmo – si diceva – in un mondo dominato dal nazismo. Eppure, per quanto a lungo si sia favoleggiato di possibili sabotaggi da parte degli scienziati atomici tedeschi del programma nazista per la bomba atomica, la verità più prosaica era che persino Werner Heisenberg, che ne guidò gli sforzi, si convinse che difficilmente una reazione a catena potesse sostenere altro che un reattore per la produzione di energia, come mostrano anche le registrazioni dei dialoghi dei fisici tedeschi prigionieri a Farm Hall dopo la caduta del Terzo Reich, che mostrano l’incredulità alla notizia dei bombardamenti atomici americani. No, i nazisti non stavano costruendo una bomba e l’idea fu liquidata da Hitler e dal suo ministro degli armamenti Albert Speer come una fantasia da scienziati pazzi.

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scenari

11 settembre 1973, Cile: la solitudine del cittadino

di Tomàs Moulian

L’11 settembre il governo presieduto da Salvador Allende viene rovesciato dall’esercito sotto la guida di Augusto Pinochet. Ma cosa è successo alla società cilena? Come andare avanti, se non dimenticando? Oggi su Scenari un estratto di “Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo” di Tomás Moulian

Untitled Project 964x480.jpgLa riverniciatura del Cile

 

1. Oblio

Un elemento decisivo del Cile Attuale è la compulsione all’oblio. Il blocco della memoria è una situazione che si ripete in società che hanno vissuto esperienze limite. Lì questa negazione del passato genera la perdita del discorso, la difficoltà della favella. Mancano le parole comuni per nominare il vissuto. Trauma per gli uni, vittoria per gli altri. Un’impossibilità di parlare di qualcosa che viene denominato in maniera antagonistica: golpe, pronunciamento, governo militare, dittatura, bene del Cile, catastrofe del Cile.

Per alcuni, a volte le stesse vittime, il dimenticare viene vissuto come il riposo, la pace dopo lunghi anni di tensione, la sicurezza dopo tanta incertezza. Il calore sicuro di un focolare dopo una lunga camminata sotto le intemperie. Che senso avrebbe rivivere il dolore? riproporre ad ogni istante l’incubo? Perché riprendere un tema che divide e produce astio, a volte paura, in persone impregnate di lutto e di lacrime?

Per altri, per molti dei convertiti che oggi si fanno strada su alcune delle piste del sistema, l’oblio rappresenta il sintomo oscuro del rimorso di una vita negata, che appanna il senso della vita nuova. Questo oblio è un mezzo di protezione contro ricordi laceranti, percepiti per qualche istante come incubi, reminiscenze fantomatiche del vissuto. È un oblio che si incrocia con la colpa del dimenticare.

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jacobin

Alle origini del capitalismo

di Paolo Tedesco

Jairus Banaji ricostruisce la genealogia del modello di produzione basandosi sulla sfera commerciale. È una prospettiva che ci aiuta a capire meglio la globalizzazione e che ci mette al riparo da modelli semplicistici e unilineari

capitalismo commerciale jacobin italia 1536x560Il libro di Jairus Banaji A Brief History of Commercial Capitalism, pubblicato per la prima volta nel 2020, si propone di scoprire le profonde radici storiche dello sviluppo capitalista. Il libro tocca importanti dibattiti teorici, soprattutto all’interno della tradizione marxista, sulle origini del capitalismo.

Il lavoro di Banaji mette in discussione diverse narrazioni radicate sulla storia economica globale, tra cui la visione di un Medioevo economicamente regressivo e l’idea di una transizione lineare verso la modernità. Le immagini che Banaji tratteggia attraverso una serie mozzafiato di casi esemplari da tutto il mondo che abbracciano quasi un millennio, sollevano molte questioni fondamentali per chiunque voglia capire come è nato il sistema economico mondiale e come potrebbe continuare a svilupparsi in futuro.

A Brief History of Commercial Capitalism ha già avuto un grande impatto nel mondo della ricerca e ha attirato molte risposte dai colleghi storici di Banaji. Ma dovrebbe essere di grande interesse anche per i non specialisti. In questo testo, prima di analizzare la discussione che il libro ha provocato, farò un breve riassunto del background intellettuale di Banaji e degli argomenti chiave che attraversa.

 

Capitalismo commerciale

Jairus Banaji è nato a Poona nel 1947, l’anno in cui l’India ha ottenuto l’indipendenza, e ha studiato in Inghilterra prima di tornare nel suo paese natale per diventare un attivista politico.

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materialismostorico

«Non più parole ma piogge di piombo»1. Il labirinto degli anni Settanta in libreria

di Alessandro Barile (Università “La Sapienza” di Roma)

joel peter witkin the alephVi è ancora un bisogno di verità che ruota attorno al lungo Sessantotto italiano. Ne è prova la persistenza editoriale del tema, che vede storia e testimonianza - sovente uno strano ibrido tra le due - catalizzare l’atten­zione di un discreto pubblico di studiosi e appassionati. A conferma dell’esistenza di un significativo interesse pubblico appaiono soprattutto le numerose ristampe e riedizioni di opere di difficile reperibilità: ad esempio i ricordi di Prospero Gallinari (Un contadino nella metropoli, Pgreco 2023, I ed. 2006) o l’operaismo di Romolo Gobbi (Com’eri bella, classe operaia, Derive Approdi 2023, I ed. 1989), che si vanno ad aggiun­gere ai lavori “laterziani” di Valentine Lomellini (La diplomazia del ter­rore, 2023; Il “lodo Moro”, 2022), al lavoro di Monica Galfrè (Il figlio terrorista, Einaudi 2022), nonché alla vasta ricostruzione di Miguel Gotor (Generazione Settanta, Einaudi 2022). Vogliamo qui concentrare l’atten­zione sui ricordi di Guido Viale (Niente da dimenticare, Interno 4 edi­zioni 2022), e soprattutto sul discusso lavoro di Roberto Colozza (L’af- faire 7 aprile, Einaudi 2023), letto alla luce di un altro libro importante e scomparso e meritoriamente rieditato da Chiarelettere, La generazione degli anni perduti, di Aldo Grandi (2023, I ed. 2003).

I confini “politico-cronologici” degli anni Settanta si dilatano o si con­traggono a seconda delle interpretazioni (e delle convenienze). Se Miguel Gotor li allunga non senza valide motivazioni («1966-1982»), Guido Viale li “decentra” con giustificazioni meno comprensibili ed esplicite («dal 1962 al 1976», p. 15). Possiamo giocare con le genealogie: se ne può individuare una di lungo respiro (il 1956 come crisi e scomposizione del marxismo italiano)2; oppure il 1962 (gli scontri di piazza Statuto a Torino, la nascita della rivista «Quaderni rossi»)3.

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machina

Louise Michel, una vita per la rivoluzione

di Fernanda Mazzoli

Un ritratto della rivoluzionaria francese Louise Michel, scritto da Fernanda Mazzoli

0e99dc 41e5b59f80b5463396c76f71c5cf34d5mv2Già dalla nascita – maggio 1830 – la vita di Louise Michel è posta sotto il segno dell’anomalia, se non dello scandalo: sua madre è una giovane contadina che lavora come domestica nel castello di Vroncourt, in Haute Marne e suo padre il figlio dei proprietari del maniero. Il padre non la riconoscerà e, infatti, la futura rivoluzionaria porta il cognome della madre, Marianne Michel, alla quale voterà un affetto profondo e protettivo. Storia dolorosa, ma tutto sommato non poi così originale, se non fosse che la piccola viene cresciuta amorevolmente nel castello dai nonni paterni, Charlotte e Charles Demahis, presso i quali Marianne continua a lavorare circondata dalla stima di tutti. Il padre, invece, si è trasferito in una fattoria dei dintorni, si è sposato con un’altra donna e sembra estraneo al singolare gruppo familiare, al quale va aggiunta un’altra figlia, separata dal marito, che è tornata a vivere con i vecchi genitori insieme al figlio Jules, cugino e compagno di giochi di Louise. Il nonno – discendente di un’antica famiglia – è un seguace di Voltaire, trascorre il suo tempo immerso nei libri, ama l’arte e la musica e coltiva la memoria dei grandi rivoluzionari dell’89. È lui ad occuparsi personalmente dell’istruzione della bambina.

Il castello ha conosciuto tempi migliori, le sue quattro torri dominano una campagna fatta di vigneti, prati e boschi, da lontano sembra un mausoleo o una fortezza, ma è in gran parte in rovina ed aperto ai venti come una nave. Ed abitato da animali di ogni sorta – cani, gatti, uccelli, caprioli, puledri – che entrano tranquillamente nella grande sala al pianterreno dove nelle sere d’inverno la famiglia al completo- comprese Marianne e la nonna materna di Louise, una contadina del villaggio – si riunisce intorno al grande tavolo, ascoltando le letture ad alta voce fatte dai padroni di casa e lavorando a maglia.

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jacobin

Per una storia in costruzione

di Chiara De Cosmo

Un libro su Marx e il dibattito italiano degli anni Settanta sulla storia antica e il nesso tra ricerca filosofica, pratica militante e storiografia

IMG 0717 1536x560Nel 1974, presso l’Istituto Gramsci di Roma che all’epoca rappresentava una delle più importanti istituzioni culturali del Pci, un gruppo di studiosi di differenti provenienze disciplinari si riunì, sotto la direzione di Aldo Schiavone, per avviare il primo ciclo del Seminario di antichistica. Il suo scopo era quello di riflettere sui metodi e sui contenuti della storiografia del mondo antico. Fu l’inizio di una feconda stagione di dibattito in Italia, che riassumeva al contempo alcuni dei migliori risultati della discussione internazionale di teoria storica e sociologica e accoglieva l’eredità di alcuni studiosi socialisti italiani (in particolare Ettore Ciccotti e Giuseppe Salvioli), che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si erano proposti di riflettere sulla situazione di stagnazione della penisola a partire dallo studio e dalla riscoperta della struttura economica della Grecia e della Roma antiche. A uno sguardo retrospettivo, l’aspetto che forse oggi più colpisce di questa fase della storia culturale italiana è l’esigenza da cui nacque questa discussione, un’esigenza che era condivisa da tutti i suoi protagonisti: quella di unire la partecipazione appassionata alle vicende politiche, sociali e culturali del paese con la riflessione su questioni di teoria della storiografia, rifondandole a partire da una rinnovata interpretazione del lascito marxiano.

Uno dei meriti di Categorie marxiste e storiografia del mondo antico (Manifestolibri, 2022), in cui Sebastiano Taccola ricostruisce in maniera ricca e articolata le linee di questo dibattito, è quello di riuscire non solo a restituirne la vitalità, ma anche più in generale a individuarne i margini di connessione con le riflessioni marxiste più recenti.

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lantidiplomatico

"Il grande disegno di Kissinger": 50 anni fa i petrodollari nascevano in questo modo

di Giacomo Gabellini

720x410c50onhwzCome è noto, l’Europa distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale riuscì a rimettersi in piedi grazie soprattutto agli aiuti forniti dagli Stati Uniti – in cambio della rinuncia alla sovranità politica da parte degli Stati del “vecchio continente” – nell’ambito dell’ormai celeberrimo Piano Marshall, il quale impedì che le prospettive di ricostruzione si infrangessero sui vincoli della bilancia dei pagamenti di ogni singolo Paese. Eppure, dal punto di vista strettamente economico, la linea operativa portata avanti da Washington produsse ricadute molto più positive sull’Europa e sul Giappone che sugli stessi Stati Uniti, i quali, fungendo anche da mercato di sbocco per le merci prodotte in Europa, cominciarono a fare fatica a realizzare tassi di crescita analoghi a quelli conseguiti dalla Comunità Economica Europea (il cui export, nel 1960, fu per la prima volta superiore a quello statunitense) e si videro costretti a far leva sull’enorme spazio di manovra garantito dal ruolo di valuta di riferimento di cui era titolare il dollaro per emettere moneta in misura tale da finanziare il proprio deficit, che stava cominciando a crescere in maniera preoccupante.

 

Convertibilità di "facciata"

Il consigliere economico del presidente Charles De Gaulle, Jacques Rueff, si era accorto di come la convertibilità tra dollaro ed oro fosse divenuta ormai soltanto “di facciata”, in quanto il dollaro aveva ormai acquisito lo status di moneta fiduciaria solo formalmente ancorata ad un valore fisico reale. Rueff fece quindi notare a De Gaulle come questo stato di cose fosse garante di pesanti squilibri valutari e consentisse agli Stati Uniti di accumulare deficit crescenti nella bilancia commerciale senza pagarne il prezzo corrispettivo.

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cumpanis

Stalin 5 marzo 1953- 5 marzo 2023: nel 70°della morte

di Fosco Giannini

Nella ricorrenza del 70° anniversario della morte del leader che fu segretario generale del PCUS dal 1922 al 1953, riproponiamo la recensione di Fosco Giannini del saggio dello storico Ruggero Giacomini “Il processo Stalin”, un’opera particolarmente indicata ad affrontare “la questione Stalin” senza acritiche apologie né le pregiudiziali demonizzazioni occidentali

71W2s9c4Y LNel 1897 lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblica un romanzo, “Dracula”, dal carattere gotico e romantico, che avrebbe segnato di sé tanta parte della futura letteratura europea e mondiale e tanta parte dell’arte e del cinema, sino ai nostri giorni. Segnando di sé anche il senso comune, la cultura, di centinaia di milioni di uomini e donne, non solo in Europa ma nel mondo.

Il grande successo del romanzo convince intere generazioni che Dracula sia stato davvero, storicamente, un vampiro assetato di sangue, un terrificante demone della notte. Ma l’opera di Stoker è di una totale falsità, che attraverso l’immensa popolarità a cui giunge, produce uno dei più grandi inganni di massa che mai la letteratura, l’arte, la filosofia abbiamo prodotto. Il Dracula storico, infatti, quello che tuttora tutti i giovani liceali della Romania studiano, è stato un grande rivoluzionario rumeno, un liberatore dalle qualità intellettuali di un Machiavelli e dalle capacità militari di un Garibaldi, un condottiero che nella seconda metà del 1.400 caccia gli ottomani invasori liberando e unificando la Romania. È difficile capire il motivo per cui Stoker mette in campo una così grande menzogna, peraltro per lui fruttifera. Un dato può forse aiutarci: Stoker è uno scrittore di lingua inglese, un intellettuale dell’occidente che vede i Carpazi, la terra di Dracula, con lo sguardo dell’imperialista, del colonialista, attraverso il quale i Carpazi son già di per sé la terra dell’orrore e del sangue, l’anti occidente.

Chi scrive è convinto che scientemente, con gli stessi strumenti della menzogna totale ed organizzata, della manipolazione, anche Stalin abbia subito, da parte dell’intero apparato ideologico, culturale, politico dell’occidente (con l’aiuto decisivo di Chruščëv, come vedremo) lo stesso processo di demonizzazione che Dracula subì ad opera di Stoker e della cultura occidentale dominante.

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26 gennaio, Nikolaevka: il sacrificio di tanti giovani per le mire colonialiste fasciste

di Fabrizio Poggi

720x410c50iuygsDunque, a cominciare dal prossimo 26 gennaio, si dovrà assistere annualmente a una nuova, ennesima, parata di nazionalismo e di esaltazione delle italiche “gesta” che portarono la “civiltà” mussoliniana al di là dei confini patrii: dall'Africa ai Balcani, dalla Spagna all'Europa meridionale e orientale.

Il 26 gennaio è la data decisa dal Parlamento italiano per l'istituzione della "Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini". Ancora una Giornata della memoria, oltretutto a ridosso di quella del 27 gennaio per la liberazione di Auschwitz a opera dell'Esercito Rosso. Perché il 26 gennaio? Perché in quella data, nel 1943, gli alpini combatterono a Nikolaevka (il testo della legge scrive “Nikolajewka”, alla maniera tedesca: d'altra parte, il regime fascista aveva spedito gli alpini in quelle terre per rispondere proprio alla chiamata dell'alleato nazista) e così, ricordare oggi quella battaglia, serve sia a «conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino», sia a «promuovere i valori della difesa della sovranita' e dell’interesse nazionale». Proprio così; nero su bianco: sovranità e interesse nazionale si promuovono rievocando l'invasione dell'Unione Sovietica, al servizio delle armate hitleriane, insieme a fascisti ungheresi, rumeni, finlandesi, ecc.

L'art. 2 della legge istitutiva della “solennità” dice che le autorità locali sono invitate a patrocinare eventi con «testimonianze sull’importanza della difesa della sovranità nazionale, delle identità culturali e storiche, della tradizione e dei valori etici di solidarieta' e di partecipazione civile». Ecco: le identità culturali e storiche che, per esempio, prima ancora degli alpini, hanno visto i bersaglieri, «espressione purissima delle virtù guerriere dell’Italica stirpe», prima dar man forte ai franco-turchi sul fiume ?ërnaja, inquadrati nell'armi piemontesi, e poi spingersi in Africa, «sotto il soffocante ed accecante alito del ghibli», quasi un secolo più tardi, a conquistare il “bel suol d'amore” libico.

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machina

Da Reagan a Clinton: i percorsi del neoliberismo

di  Bruno Cartosio

0e99dc 2d92e6fe83bc4a5e84093d10620ef8fbmv2Nella nostra «cartografia dei decenni smarriti», è di fondamentale importanza mettere a fuoco l’affermazione di quella fase definita «neoliberista» a partire dal luogo centrale in cui essa si è affermata, ossia gli Stati Uniti. «Avevamo in mente di cambiare un paese, abbiamo invece cambiato il mondo» diceva Reagan all’inizio del 1989. Per ripercorrere il «presente come storia», pubblichiamo l’estratto di un libro importante di Bruno Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton (Shake, 1998). Il titolo fa riferimento all’ipotesi di Giovanni Arrighi e più in generale degli studiosi della World-systems theory, secondo cui gli Stati Uniti – a dispetto di quello che poteva sembrare – avevano imboccato la strada di un lungo e tutt’altro che lineare declino. Ad alcuni decenni di distanza, dentro una crisi globale che pare infinita, quella ipotesi e gli interrogativi che essa contiene, qui impostati e sviluppati da Cartosio, mostrano la loro lungimirante pregnanza.

* * * *

L’abbiamo visto crescere nelle cose, quel fenomeno che sarebbe stato chiamato neoliberismo reaganiano, prima ancora che l’uomo di Hollywood venisse chiamato a interpretare il ruolo di presidente degli Stati Uniti. Le teorie liberiste, da Friedrich August von Hayek a Milton Friedman, erano tutte disponibili da tempo. In periferia, il generale Pinochet a partire dal 1973 e Margaret Thatcher nel 1979 avevano già aperto la strada mettendole brutalmente in pratica. Al centro dell’impero, invece, il neoliberismo è cresciuto e si è diffuso prima nelle cose, reaganiano ante litteram nella seconda metà degli anni Settanta con il democratico Jimmy Carter alla presidenza degli Stati Uniti, per poi arrivare a imporsi come dottrina e visione generale del mondo a partire dalle presidenze Reagan negli anni Ottanta.

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machina

Senza padri né maestri. Giovani degli anni Ottanta

di Diego Giachetti

Pubblichiamo un'analisi di Diego Giachetti sugli anni Ottanta che si inserisce nel progetto della cartografia dei decenni che Machina sta portando avanti e che darà vita in primavera a due Festival, il primo a Roma sugli anni Ottanta e il secondo a Bologna sugli anni Novanta [1]

0e99dc df085f0c2cd34a6791972b677163e24amv2Delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà
Cosa resterà di questi anni Ottanta
Afferrati e già scivolati via
Anni vuoti come lattine abbandonate
Anni rampanti dei miti sorridenti da wind-surf
(Raf, Cosa resterà degli anni ’80, 1989)

Negli anni Ottanta due giovani generazioni s’intersecavano, si combinavano e si scompaginavano. Una, più attempata, aveva per protagonisti gli attori sociali e politici dei movimenti degli anni Settanta. L’altra, infante e adolescente nel decennio precedente, si accingeva a diventare giovane negli anni Ottanta. Il primo e più «anziano» spezzone generazionale stava abbandonando il campo dell’impegno politico, travolto dal riflusso, come si diceva, dopo la sconfitta dei movimenti e delle possibili rivoluzioni, politiche e personali, allora possibili. Una ritirata spesso costretta, rabbiosa, rancorosa, incapace di produrre adattamento e inserimento nella vita quotidiana, ancora in grado di organizzare resistenze sociali, culturali e politiche, minoritarie e sempre più relegate in determinati e specifici ambiti. Parallelamente maturava una generazione «vacua», secondo la definizione del filosofo ex operaista Massimo Cacciari, che aveva evitato il «massacro» della repressione poliziesca e mass-mediologica subito dai giovani estremisti degli anni Settanta, ma che non sfuggì alla rivincita della politica negli anni Ottanta [2]. Una rivincita all’insegna del rampantismo craxiano, della politica come investimento, carriera, affare e accaparramento delle risorse, che preparava il suo fallimento nei confronti della società civile, dei partiti e delle istituzioni, camminando, senza saperlo, verso «tangentopoli», termine usato dal 1992 per definire un sistema diffuso di corruzione politica

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carmilla

I comunisti della capitale…

di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Bandiera Rossa 3Come è noto, la letteratura sulla Resistenza italiana al nazi-fascismo negli anni 1943-1945 è pressoché sterminata. Di certo molto più ampia della letteratura sulla coeva rinascita del movimento operaio organizzato. Sono rare, invece, le opere che indagano in profondità il nesso tra questi due processi. E addirittura rarissime sono quelle che svolgono questo tipo di indagine occupandosi dei comunisti dissidenti rispetto alla politica del “partito nuovo” di Togliatti. Lo scritto di David Broder appartiene a questo piccolo campo di studi. E si segnala per la sua particolare lucidità di giudizio, e per il modo con cui tiene assieme la dimensione sociale e quella politica del fenomeno studiato – i “comunisti dissidenti” di Roma organizzati nel Movimento comunista d’Italia o Bandiera rossa -, il “locale”, il nazionale e il contesto internazionale.

Il triennio 1943-1945 è stato un momento particolarmente tumultuoso per l’intera società italiana. Crolla il fascismo. La classe capitalistica e la monarchia manovrano con grande abilità per non restare sepolte sotto le macerie del regime mussoliniano, che hanno per un ventennio supportato. L’Italia è spaccata in due. L’esercito italiano si va disfacendo dentro una “nazione allo sbando”. Tutto il territorio è occupato da eserciti stranieri: l’esercito tedesco in ritirata verso nord al di là della linea gotica, gli eserciti alleati in avanzata dal Sud. Sul piano politico-amministrativo, al centro-nord c’è la repubblica “sociale” di Salò sotto tutela dell’occupante nazista, che mescola una brutale ferocia con la demagogia “anti-capitalista” del fascismo delle origini. Nel Sud la monarchia dei Savoia ormai al tramonto cerca disperatamente di realizzare il passaggio più possibile indolore al campo anti-nazista, tenendo sotto stretto controllo il risveglio della vita sociale e politica a lungo compresse dal fascismo e disinnescando, anche con gli eccidi, il “pericolo comunista”.

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machina

Eric Hobsbawm. Marxismo, scienza e politica negli studi di uno storico militante

di Alberto Pantaloni

Pubblichiamo un ritratto di Eric Hobsbawm, storico e militante marxista, autore della grande tetralogia di storia generale – L'età della rivoluzione 1789-1848, Il trionfo della borghesia 1848-1875, L'età degli imperi 1875-1914 e Il secolo breve 1914-1991

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Il 2 ottobre del 2012 si spegneva a Londra Eric Hobsbawm. A distanza di un decennio, sono ancora diverse le iniziative, editoriali e non solo, che ne ricordano, anche criticamente, la biografia tanto personale quanto intellettuale. Ricordandone solo le più recenti: un altro grande storico inglese, Richard J. Evans ha dato alle stampe nel 2019 una monumentale biografia dal titolo Eric Hobsbawm: A Life in History [1]; nel 2020, la storica Anna Di Qual ha pubblicato in modalità open access il volume Eric J. Hobsbawm tra marxismo britannico e comunismo italiano [2], nel 2021 la London Review of Books ha prodotto un documentario dal titolo Eric Hobsbawm: The Consolations of History, regia di Anthony Wilks, disponibile gratuitamente in rete [3].

L’autore nato ad Alessandria d’Egitto si chiese nella sua biografia del 2002:

«perché una persona come me dovrebbe scrivere un’autobiografia o, più precisamente, perché altri, senza particolari collegamenti con me, o con che potrebbero non aver saputo della mia esistenza prima di aver visto la copertina in libreria, dovrebbero pensare che valga la pena di leggerla» [4].

Parafrasando questa frase, potremmo chiederci se ha senso, dopo 10 anni, ricordare una figura come quella di Hobsbawm e cercare di farla conoscere a una platea più vasta della comunità degli addetti e delle addette ai lavori. Di primo acchito, la risposta sembrerebbe facile: ma come, l’autore de Il secolo breve, uno dei più grandi storici del Novecento! Tuttavia, se si trattasse solo di questo, sarebbe tutto relativamente facile, come si fa in occasione di anniversari che riguardano eventi storici o personalità «importanti», per i quali si preparano bei discorsi agiografici che «santificano» il personaggio.

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tempofertile

Enzo Traverso, “Rivoluzione”

di Alessandro Visalli

rivoluzioneoittfIl libro[1] del 2021 di Enzo Traverso reca come sottotitolo “1789-1989: un’altra storia”, ed è un’ampia ed interessante ricostruzione della logica e della pratica storica dell’età rivoluzionaria nel ciclo aperto dalla Rivoluzione francese e concluso (in occidente) con il crollo dell’Urss. La rivoluzione viene vista come improvvisa interruzione del continuum storico, secondo una nota formula di Walter Benjamin, ed inseguita sia nelle sue determinazioni teoriche, sia nella pratica vicenda e nei protagonisti.

 

Rivoluzione e leggi storiche

Contrariamente a molte interpretazioni il testo valorizza quell’interpretazione della rivoluzione non determinista che si può ritrovare anche in Marx, nel quale, secondo Traverso se ne trovano anzi due, a combattere una silenziosa battaglia: una determinista ed una non determinista.

La prima è esemplificata nel notissimo passo di “Per la critica dell’economia politica”:

“a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura”[2].