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La teoria economica e i giovani “choosy”
Ilaria Lucaroni
Dietro la battuta sui giovani “choosy” c’è la teoria economica dominante che vede la disoccupazione come strumento per tenere sotto controllo lavoratori e salari
L’ infelice dichiarazione del ministro Fornero nel consigliare ai giovani ad essere meno “choosy” nella scelta del lavoro, può sembrare l’uscita azzardata e un po’ ingenua di una tecnica. La verità è che dietro quell’espressione, economicamente parlando, c’è molto di più di una semplice uscita infelice, che bisogna approfondire andando oltre la satira che si è scatenata su internet. Allo stesso modo le raccomandazioni di rigore – al festival della famiglia – del premier Monti sul gestire i bilanci dello stato come il buon padre di famiglia e il fare sacrifici per risanare lo stato delle nostre finanze non sono argomentazioni così casuali.
Che cosa significa accettare lavori non in linea con il proprio profilo professionale e a salari di mercato? La risposta sta nella critica alla teoria neoclassica della distribuzione del reddito e al perché la disoccupazione è necessaria. Riprendiamo qui gli argomenti sviluppati dal prof. Fabio Petri, dell’Università di Siena (1), secondo il quale la ragione per cui la proprietà privata dei mezzi di produzione frutta un reddito è fondamentalmente simile alla ragione per cui il controllo dell'accesso alla terra fruttava un reddito ai signori feudali. Il monopolio collettivo della terra (e delle armi) da parte dei signori feudali permetteva loro di esigere da coloni e servi una parte del prodotto del loro lavoro in cambio del diritto a trarre la sussistenza dalla terra. Analogamente, nel capitalismo il lavoratore o accetta di ricevere un salario che lascia ai proprietari dei mezzi di produzione parte del prodotto, o non può produrre, per via della necessità di possedere già capitale per avere accesso ai mezzi di produzione, il che si traduce in un monopolio collettivo dei capitalisti sulla possibilità di produrre.
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Emanciparsi
di Anselm Jappe
Il concetto marxiano di "feticismo della merce" indica non solo una mistificazione della coscienza, un velo, come spesso di crede (ed ancor meno abbiamo a che fare con un gusto smodato per il consumo). Esso costituisce un fenomeno reale: nella società capitalista, tutta l'attività sociale si presenta sotto forma di valore e di merce, di lavoro astratto e di denaro. Il termine "feticismo", che Marx, con un pizzico di ironia, prese in prestito dall'etnologia e dalla critica delle religioni, è molto appropriato. Così come i pretesi "selvaggi", anche i membri della società di mercato proiettano il loro potere sociale su degli oggetti inanimati, da cui ritengono di dover dipendere. Nessuno lo ha mai deciso: tale feticismo si è costituito sulle spalle dei partecipanti in modo inconscio e collettivo, ed ha preso tutta l'apparenza di una realtà naturale e trans-storica. Il feticismo della merce esiste laddove esiste una doppia natura della merce e dove il valore di mercato - che viene creato dalla parte astratta del lavoro ed è rappresentato dal denaro - forma il legame sociale e decide perciò del destino dei prodotti e degli uomini, mentre la produzione del valore d'uso non è che una sorta di conseguenza secondaria, praticamente un male necessario. (Ho parlato di " parte astratta del lavoro", perché è più chiara di "lavoro astratto": in effetti ogni lavoro, in regime capitalista, possiede una parte astratta ed una parte concreta, e non sono affatto due generi distinti di lavoro.)
Marx chiama il valore, il soggetto automatico: la valorizzazione del valore, in quanto lavoro morto, per mezzo dell'assorbimento del lavoro vivo, e la sua accumulazione in capitale, che governa la società capitalista, e riduce gli attori sociali a delle semplici rotelle di tale meccanismo.
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Lavoro improduttivo e composizione di classe
Visconte Grisi*
In un articolo apparso sul numero precedente della rivista (Lavoro improduttivo e crisi del capitalismo), a cui rimandiamo, abbiamo tentato di dimostrare, partendo da un punto di vista eminentemente oggettivo, come l’enorme diffusione del lavoro improduttivo, dal punto di vista del sistema capitalistico, tipico della moderna “società dei servizi”, costituisca “una sottrazione o uno spostamento o un consumo improduttivo della grande massa di plusvalore prodotto a livello mondiale”, e quindi, in ultima analisi, “uno dei fattori, insieme allo sviluppo abnorme del capitale finanziario, dell’attuale crisi strutturale del capitalismo”. Si può discutere all’infinito sul carattere produttivo o improduttivo dei singoli lavori concreti, propri della divisione capitalistica del lavoro, soprattutto in alcuni “settori di confine” come quello dei trasporti e della logistica, ma tale discussione non altera, a mio avviso, l’assunto di fondo sopra descritto. Detto in altri termini si potrebbe anche sostenere che i costi necessari al mantenimento del sistema capitalistico sono diventati così elevati da rappresentare, allo stesso tempo, un freno all’accumulazione del capitale e quindi alla sua riproduzione allargata, contribuendo così al declino del modo di produzione capitalistico.
Mi viene in mente, a questo punto, una citazione da P. Baran, secondo cui “il lavoro improduttivo consiste in tutto il lavoro necessario per produrre beni e servizi la cui domanda è attribuibile alle condizioni specifiche e al sistema di relazioni propri del capitalismo e che non esisterebbe in una società più razionalmente organizzata”.(1)
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Businnes Schools
di Elisabetta Teghil
(K.Marx-Il Capitale- III)
Come qualsiasi risorsa materiale e immateriale, la “risorsa umana” viene considerata una merce economica.
E’ una visione in cui tutto e tutte/i devono misurare la propria esistenza secondo l’unico valore importante a cui sottomettersi, il valore commerciale.
E’ la nascita e la diffusione della nozione di “capitale umano” che, declinato, significa la forza lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori letta come l’insieme delle facoltà fisiche, intellettuali, relazionali che queste/i possono mettere in vendita sul mercato del lavoro.
Secondo questa vulgata, in tutti i momenti o aspetti della propria esistenza, ognuna/o dovrebbe considerarsi e agire come un potenziale centro di accumulazione di ricchezza alla stregua di un’impresa capitalista.
In quest’ambito, anche la scuola è entrata , a pieno titolo nel mercato.
Perché è catena di trasmissione dei valori dominanti.
Il compito principale che ora le viene assegnato è quello di formare le ”risorse umane” al servizio dell’impresa. La scuola è trattata come un mercato, il mercato dell’istruzione.
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Il Costo del Federalismo nell'Eurozona
di Jacques Sapir
Ora sull'ipotesi "Federale" si sprecano fiumi di inchiostro. E' presentata come "la" soluzione alla crisi dell'euro, le alternative essendo o un drammatico impoverimento dei Paesi "del sud" dell'Euro o un crollo dell'euzona [1] .Alcuni non esitano ad aggiungere che quest'ipotesi era già implicita nelle imperfezioni oggi riconosciute della zona euro [2] . Tuttavia, non sembra che si abbia una reale comprensione di ciò che comporta la formazione di una "Federazione europea", in particolare dal punto di vista dei flussi di trasferimento.
Per contro, cominciamo a sentirne lo stress, e in particolare l'abbandono della sovranità fiscale. La volontà della Germania di sottoporre i bilanci a una decisione preventiva di Bruxelles, naturalmente, va in questo senso [3] .
In realtà, passare al "federalismo" implica che le politiche fiscali degli Stati membri della Federazione siano controllate dal governo "federale", in questo caso, nella situazione attuale, dalla Commissione Europea. Ma, "il federalismo" implica anche notevoli trasferimenti di bilancio che esistono altrove negli Stati federali, sia in Germania, che negli Stati Uniti, in Brasile o in Russia. Il presidente russo Vladimir Putin ha d'altronde posto perfettamente la questione, in una discussione tra esperti internazionali che abbiamo avuto con lui, sottolineando che il passaggio a una moneta unica tra paesi molto eterogenei comporta ingenti flussi di trasferimenti. [4] .
I. Il livello di eterogeneità all'interno dell'eurozona
Tre gli elementi utilizzati per misurare il livello di eterogeneità nella Zona Euro.
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"Temperare" il capitalismo, la più vecchia delle illusioni
di L.Vasapollo- J. Arriola -R.Martufi
Nei primi giorni di novembre abbiamo verificato la divaricazione strategica (oltrechè pratica e teorica) sulle soluzioni e le alternative alla crisi delle principali economie capitaliste. Mentre a Milano il presidente dell'Ecuador Correa riaffermava che il debito non va pagato, che occorre procedere alle nazionalizzazioni e a forme di integrazione tra i vari paesi che rompano i vincoli imposti dalle istituzioni finanziarie del capitale, al Social Forum di Firenze, ancora una volta, una serie di economisti riformisti lanciano attraverso la Rete europea degli economisti progressisti proposte in chiave tardo-keynesiana come cura possibile della crisi sistemica del capitalismo in atto. Dimostrando così ancora una volta o di essere in mala fede, e quindi non meriterebbero in tal senso alcuna risposta, o di essere speranzosi in una futura uscita dalla crisi in chiave riformista (ma di quale riformismo sono figli?), ignorando che non ci sono più i presupposti economici, politici e sociali per una crescita equilibrata e con capacità redistributive attraverso i vecchi e non più proponibili modelli di Stato sociale; improponibili sia per le dinamiche del conflitto capitale-lavoro che vedono avanzare sempre più un conflitto di classe dall’alto, sia poiché si tratta di politiche economiche incompatibili con la strutturazione stessa della competizione globale interimperialistica.
Anche questa volta associazioni, sindacalisti ed economisti hanno discusso a tavolino, fuori dai problemi di vita reali e quotidiani reali del mondo dei lavoratori in carne ed ossa , contro le politiche della Troika per esaminare le possibilità alternative alla crisi, o meglio per dare indicazione di come uscire “a sinistra” dalla crisi, come si trattasse di un bel gioco a Risiko per i dopocena della sinistra salottiera.
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Grillo comunica
di Giuseppe Mazza
Ecco una storia da raccontare in corsa, mentre ancora sta accadendo. In fondo, del Movimento 5 Stelle è recente il debutto in politica, e le elezioni nazionali, imminenti, non potranno che aggiungere lati al prisma. Ma già adesso i media aggiornano senza sosta i contorni di un fenomeno che contiene un po’ tutto: magma e dirigismo, colpi di scena e vecchi film, coraggio e furbizia. A voler scavare, tuttavia, la comunicazione di Grillo e del movimento di cui è fondatore, si è andata definendo lungo un percorso che a questo punto conta oltre venticinque anni di storia. E ha accompagnato quella del paese, anche se spesso non vista, e per lunghi tratti quasi sotterraneamente.
Una storia di comunicazione non è per forza una storia dei trucchi che sono stati usati, né è necessariamente la ricostruzione di ingredienti magici, di incantamenti irrazionali. L’idea, molto italiana ma non soltanto, che quello della comunicazione sia il terreno privilegiato dell’inganno e della mistificazione, è una lettura ossessiva che corrisponde al sospetto progressista nei confronti del “parlare a tutti”. Certo, la diffidenza verso il consenso di massa arriva da un Novecento che ha offerto molti buoni motivi. Ma come concepire la modernità senza poterla declinare in un linguaggio democratico e accessibile? Un linguaggio capace non di banalizzare, ma di rendere vive le proprie ragioni e i propri valori.
Il caso di Beppe Grillo non fa che riproporci questo disagio.
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Il voto di classe in Italia secondo le indagini sociologiche
di Domenico Moro
Qui di seguito si offre una panoramica delle indagini sociologiche su due tematiche, il voto di classe e il voto degli iscritti al sindacato. Si tratta di questioni importantissime perché i flussi elettorali e le scelte elettorali delle classi permettono di gettare luce sull’azione dei partiti. Vogliamo precisare, però, che in questo tipo di analisi le classi sono definite in termini soprattutto sociologici e, quindi, non c’è perfetta identità con ciò che le classi sono dal punto di vista marxista. Ad esempio, spesso si parla non di classe operaia o di lavoratori salariati immediatamente produttivi ma genericamente di dipendenti privati e dipendenti pubblici, all’interno dei quali si ricomprendono varie categorie qualche volta differenti tra di loro. Inoltre, questi studi sebbene si fermino al 2010, delineano una tendenza, che successivamente si è andata accentuando e che è coerente anche con la recente affermazione del Movimento cinque stelle. Ad ogni modo, tali indagini rappresentano una base, a mio parere, molto utile per una analisi di questioni negli ultimi anni poco dibattute in ambito marxista. Colgo l’occasione per suggerire che sarebbe importante riprendere con nuova lena oltre all’analisi della “classe in sé”, cioè dello studio della nuova divisione del lavoro, anche l’analisi della “classe per sé” e, quindi, della produzione e manifestazione della coscienza di classe, abituandosi a farlo anche con l’ausilio di strumenti empirici e dati scientifici.
Classe e voto, permanenza del voto di classe
Sul rapporto tra voto e classe le posizioni che risultano dai diversi studi non sono sempre univoche.
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Il grande inganno
Scuola pubblica, orario docenti, DDL Stabilità
di Alerino Palma
Il cosiddetto “effetto 24 ore”, a un mese o più dall’annuncio che l’orario dei docenti della scuola secondaria sarebbe stato aumentato senza colpo ferire (senza aumento di stipendio) e senza tener conto del contratto, consiste sostanzialmente nel fatto che tutto, nel lavoro a scuola come nel lavoro a casa, i colloqui con i genitori, le incombenze quotidiane legate agli incarichi, le riunioni, insomma tutto è diventato più faticoso, percorso come mai prima d’ora dal dubbio sul senso, sulle finalità del lavoro culturale scolastico.
Ho l’impressione, vengo subito al punto, che la mancanza di senso non sia dovuta a una proposta sciagurata, quella delle 24 ore, ma al fatto che siamo sempre più pericolosamente su un argine, quello tra la scuola intesa come luogo di apprendimento di una cultura disinteressata e qualcos’altro. Che finora abbiamo vivacchiato vicino al confine, spostando di qualche settimana, di qualche mese il momento della resa dei conti, ma ora non è più possibile. E la cosa più temibile, quella che forse non sospettavamo, è che i conti ce li dobbiamo fare anche tra noi insegnanti.
In questo senso l’insensatezza della proposta, le 24 ore intendo, cadeva a fagiolo.
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La sinistra e la crisi
Sergio Cesaratto
Credo che la constatazione da cui partire* non possa che essere il manifesto fallimento delle politiche di austerità.[1] Le previsioni negative su crescita, occupazione e peggioramento dei conti pubblici nell’Eurozona sono diventate un bollettino di guerra. Manovre non solo inique, ma inutili abbiamo scritto con Turci più volte nei mesi del passaggio fra Berlusconi e Monti. Devastanti aggiungerei ora, e in una logica senza fine visto che il loro effetto, manifesto, evidente, è quello di peggiorare i conti pubblici. Dire che Monti ha fatto sinora bene, se è comprensibile politicamente, non lo è nella sostanza economica. Monti non ha fatto altro che quello che Berlusconi avrebbe fatto, solo con una faccia più perbenista. E quello che ha fatto è quello che l’Europa di marca tedesca ci ha chiesto. Una valutazione politica va inoltre data sull’operazione Monti: l’austerità ci è stata presentata come la merce di scambio per l’intervento della BCE: noi diamo prova di contrizione, loro faranno intervenire la BCE. Di questo intervento non v’è stata traccia se non, un anno dopo, con la proposta di Draghi delle operazioni di mercato aperto (nel gergo della BCE, Outright Market Transactions, OMT) in cambio di cessione (ulteriore) di sovranità fiscale, su cui entreremo successivamente. Abbiamo dunque accettato quelli che sono solo i prodromi del massacro sociale e produttivo del paese senza nulla, ma proprio nulla, in cambio. E siamo solo agli inizi, il bello deve ancora avvenire, per parafrasare tristemente Obama.
L’”austerità fiscale espansiva” di Monti-Grilli, il gioco che l’austerità avrebbe condotto a minori tassi e alla crescita via guadagni di credibilità, è dunque chiaramente fallito.
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Trasgressione e moralità (7.0)
di Valerio Bertello
Premessa
Quando la teoria marxiana scende sul terreno della prassi tratta in maniera pressoché esclusiva il problema delle condizioni sociali necessarie allo svolgimento dell’azione politica. Ma non afferma quasi nulla sui contenuti di questa azione e sulle loro forme organizzative. Tale impostazione è coerente con il contesto in cui sorge il marxismo, che è quello di una critica radicale del comunismo utopico e quindi del rifiuto di fornire ricette “per l’osteria dell’avvenire.” Infatti per Marx “La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma soltanto da liberare gli elementi della nuova società di cui è gravida la vecchia società in via di disfacimento” (La guerra civile in Francia). E ancora con Engels “Il comunismo non è una dottrina ma un movimento [storico] … Il comunismo è risultato della grande industria” (I comunisti e Karl Heinzen). Quindi sul piano pratico non è necessario inventare nulla. Il movimento storico creerà gli strumenti e i contenuti necessari all’abbattimento della società borghese. La teoria rivoluzionaria ha solo il compito di dimostrare ciò. Il marxismo riesce a dare tale dimostrazione fondandosi su di un unico postulato: lo sviluppo delle forze produttive porta necessariamente ad un grado crescente di socializzazione delle stesse. Ciò in quanto tale sviluppo si impone come interesse generale, quindi prioritario in senso assoluto, poiché è la condizione per una vita qualitativamente superiore, in quanto basata su consumi crescenti e una riduzione del tempo di lavoro ad un minimo.
Naturalmente si possono prospettare altre finalità, quali il controllo delle crisi, l’abolizione delle disparità sociali, ecc., ma il loro conseguimento è subordinato allo sviluppo della produttività del lavoro. Altrettanto fondamentale tra queste finalità è lo sviluppo dell’autocoscienza, che infatti sorge dalla necessità di porre sotto un controllo cosciente le forze produttive per evitare che si trasformino in forze distruttive.
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Morte (e resurrezione?) della politica in Italia
di Mimmo Porcaro
Dobbiamo riflettere con attenzione sul rapporto che lega la crisi della politica italiana e le vicende europee, sul nesso tra le scelte reazionarie delle élite continentali e la dissoluzione e ricomposizione di tutti i fronti politici, compreso il nostro.
Lo spappolamento del Pdl e la crisi di gestione e di consenso del Pd (malamente rattoppata da una “vittoria” siciliana che prelude ad ulteriori guai) sono il risultato diretto del commissariamento del Paese da parte di Monti. Il Professore ha dato la spallata definitiva all’ansimante Berlusconi (peraltro già defunto dal momento in cui Tremonti gli ha proibito, in ossequio alla disciplina europea, anche solo di accennare alla riduzione delle tasse) e ha privato il Pd di ogni parvenza di autonomia politica, debolmente sostituita oggi da qualche frase pre-elettorale sulla “crescita” e sull’ “equità”. A ben vedere anche il brillio delle 5 stelle si mostra meno smagliante di quello che sembra, se solo si considera che tutto il programma grillino si concentra sulla lotta alla casta, eludendo il problema del rapporto con l’Europa, o riproponendolo saltuariamente in forma caricaturale e provocatoria. Il nuovo movimento appare quindi destinato a crescere rapidamente, ma anche a dimostrare rapidamente la propria inutilità, scomparendo o mutandosi in qualcosa che non sarà necessariamente migliore.
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Vendola, Riva & l'Ilva
Come la diossina calò miracolosa/mente
di Girolamo De Michele
Chiesi ad Emilio Riva, nel mio primo incontro con lui, se fosse credente, perché al centro della nostra conversazione ci sarebbe stato il diritto alla vita. Credo che dalla durezza di quei primi incontri sia nata la stima reciproca che c'è oggi (Nichi Vendola)
Io non sono un capitalista, ma un imprenditore (Emilio Riva)
Chi non ha visto l'intervista di Fabio Fazio a Nichi Vendola, nella puntata del 29 ottobre di "Che tempo che fa", si è perso qualcosa: una straordinaria dichiarazione del governatore della Puglia, che ha voluto sottolineare la sua peculiarità – il suo «sguardo autonomo sul mondo» – con questa affermazione tranchant: «Io non vado dai banchieri e dai finanzieri, e se li incontro gli dico che bisogna tagliare gli artigli e regolamentare i mercati» [qui, al minuto 11:10].
A Taranto, immagino, gli artigli dei padroni dovrebbero essere le emissioni di diossina e altre sostanze nocive per l'ambiente e la vita dei viventi, umani e non, dal momento che Vendola si fa vanto di averne determinato, con la sua azione politica, la riduzione.
Ad avere pelo sullo stomaco, avrei glissato: ma noi tarantini, ormai, il pelo non lo abbiamo più neanche sulle cozze. Ecco, quindi, la vera storia di come le emissioni di diossina calarono.
Miracolosa/mente.
La causa del calo – anzi: del crollo, stando ai dati "ufficiali" – della diossina è, sostiene Vendola, la Legge regionale n. 44 del 19 dicembre 2008, Norme a tutela della salute, dell’ambiente e del territorio. Questa legge prevede(va) "il campionamento in continuo dei gas di scarico" (art. 3, comma 1): ricordatevi questo particolare.
La legge regionale 44/08 stabilisce per la diossina una soglia massima giornaliera di 0.4 ng. Viene presentata come la legge più avanzata d'Europa: peccato che in Germania la soglia massima sia di 0.1 ng.
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Anticapitalismo, antimperialismo e questione nazionale
di Rodolfo Monacelli
La genesi di quest’articolo deve molto al pensiero di Costanzo Preve che ringrazio per gli spunti, le riflessioni, i consigli e la stima. (r.m.)
La crisi dell’Eurozona e dell’Euro ha fatto tornare in voga una parola, «sovranità nazionale», dimenticata, se non rifiutata in toto da parte della sinistra italiana. Una prospettiva politica che va ben al di là della questione dell’Euro e della UE e su cui è bene ritornare sopra. A parere di chi scrive, infatti, la «questione nazionale» sarà un concetto ineludibile per ogni coerente politica e pratica anticapitalistica.
Questo perché, in un mondo sempre più dominato dalle oligarchie finanziarie e sovranazionali, difendere le identità culturali dei popoli, le sovranità politiche e monetarie degli stati sarà l’elemento che oggettivamente si porrà in contrasto con gli interessi del capitalismo internazionale e dei suoi strumenti (FMI, Banca Mondiale, UE, ecc). Come cercheremo di spiegare in questo articolo, una questione nazionale correttamente intesa non va però confusa in nessun modo con il nazionalismo ma è, anzi, la premessa per un vero e reale Internazionalismo, l’asse portante di una corretta politica antimperialistica come punto di raccordo per una reale liberazione sociale.
Purtroppo in Italia non è stata, però, ancora compresa dalle forze antisistema l’importanza di tale questione ed è, probabilmente, una delle cause dell’immobilismo politico e delle condizioni di sudditanza imperialistica in cui si trova il nostro Paese.
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Sulle «Cinque difficoltà per chi scrive la verità» di B. Brecht
Ennio Abate
Così Brecht sintetizza all’inizio di questo scritto i 5 punti che tratterà subito dopo, uno per uno, analiticamente. Mentre, alla fine in un Riepilogo conclude:
Dobbiamo dire la verità in merito alle barbare condizioni del nostro paese, dobbiamo dire che è possibile fare ciò che è sufficiente a farle sparire, e cioè qualcosa che modifichi i rapporti di proprietà.
Dobbiamo dirla inoltre a coloro che di questi rapporti di proprietà soffrono più di tutti, che hanno il maggiore interesse a cambiarli, ai lavoratori e a coloro che possiamo trasformare in loro alleati perché in realtà non partecipano nemmeno loro alla proprietà dei mezzi di produzione, anche se partecipano ai guadagni.
E per quinta cosa dobbiamo procedere con astuzia.
E queste cinque difficoltà dobbiamo risolverle tutte contemporaneamente perché non possiamo ricercare la verità sulla barbarie di certe condizioni senza pensare a coloro che soffrono di questo stato di cose; e mentre - combattendo costantemente ogni impulso di viltà - cerchiamo di scoprire le vere connessioni, mirando a coloro che sono pronti a utilizzare la loro conoscenza, dobbiamo anche pensare a porger loro la verità in modo tale che divenga un'arma nelle loro mani e al tempo stesso con tanta astuzia che il nemico non si accorga che gliela porgiamo e non possa impedirlo.
Tutto ciò viene richiesto allo scrittore, quando gli si chiede di scrivere la verità».
Ha senso riproporre oggi questo scritto? E riproporlo a chi si occupa di poesia? A prima vista tutto congiura contro questo mio tentativo di ripensare e riattualizzare questo Brecht, sia pur in modo critico come vorrei fare.
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La fusione calda della vita in comune
Sandro Mezzadra
Gli scritti di Marx sulla Russia e l'India pongono al centro il tema della natura umana in una realtà non capitalista. Un percorso di lettura a partire dal saggio del ricercatore Luca Basso
Tornare a leggere Marx oggi non può che significare farsi carico della discontinuità che la storia politica del Novecento ha determinato. Lo scacco dei «socialismi reali» (di stampo sovietico, nazionalista o socialdemocratico) è infatti coinciso con una crisi dei marxismi che non ha risparmiato neppure quelli che si erano costituiti nel corso del secolo come «eretici» - e che pure avevano mostrato una straordinaria vivacità teorica e politica. Ben prima dell''89, del resto, un insieme di movimenti (dalla presa di parola delle donne a quella di una molteplicità di soggetti «subalterni») aveva prima attraversato problematicamente il marxismo, poi contribuito a farlo esplodere. Se da più parti sembra annunciarsi un «ritorno a Marx», è bene auspicare che questo «ritorno» non si esaurisca nella soddisfatta constatazione della lucidità con cui Marx aveva annunciato la globalizzazione del capitalismo e la sua crisi, né nell'immediata riproposizione di una qualche variante di «marxismo». Tanto più dopo che i progressi della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels (la cosiddetta Mega2) ci hanno in qualche modo consegnato l'immagine di un «altro Marx»: l'immagine cioè di un autore certo dominato da una fortissima «volontà di sistema», ma costretto al tempo stesso dall'urto con la materialità della storia e della politica a riaprire continuamente e a sviluppare in direzioni contrastanti la sua ricerca. L'immensa mole di manoscritti e frammenti di teoria che Marx ci ha lasciato fa della sua opera un vero e proprio cantiere aperto. E come tale è bene oggi considerarla ed esplorarla: a me pare che sia questo il modo più produttivo di leggere Marx oggi, nella prospettiva di una riappropriazione creativa del suo pensiero per la comprensione e la critica del nostro presente.
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E se ragionassimo sul concetto di cultura?
di Rino Genovese
I.
Ciò su cui occorrerebbe riflettere è lo spazio ristretto del riformismo oggi; non mi riferisco alla ben nota diagnosi intorno alla perdita di capacità ridistributiva del sistema capitalistico dopo il ciclo alto dei famosi trent'anni del periodo postbellico; mi riferisco a un'altra cosa. L'ambito teorico entro cui, nei primi decenni del Novecento, si erano misurate le diverse opzioni socialiste, riformista e massimalista (o, se preferite, rivoluzionaria), era pur sempre quello di un superamento del capitalismo. Gli uni, i riformisti, pensavano di arrivarci per evoluzione; gli altri, i massimalisti o rivoluzionari, puntavano su una crisi o un più o meno inevitabile crollo del sistema, entro cui si sarebbero inserite le forze proletarie vittoriose.
Un po' alla volta, come si sa, ambedue queste opzioni si sono dissolte. Il riformismo socialista europeo, da Bad Godesberg in poi, ha messo da parte il superamento del capitalismo (l'ultimo che ci abbia creduto è stato forse Olof Palme). Teorici come Marcuse, che intorno al '68 puntavano su un rovesciamento del sistema, se non altro possibile, vedevano il processo rivoluzionario come una "lunga marcia", che avrebbe dovuto fare i conti con la tendenza all'integrazione della classe operaia in Occidente, e che partiva perciò dai movimenti di liberazione del Terzo mondo, oltre che dalle rivolte giovanili.
Che cosa accade oggi, oggi che pure si è ritornati a parlare di una crisi di sistema? Perché non soltanto la questione del superamento del capitalismo non si pone, né in un modo né in un altro, ma finanche una semplice prospettiva di ridistribuzione del reddito fatica a farsi strada in Europa?
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Un passo avanti, molti indietro
Cremaschi, Militant e la questione del partito
Emilio Quadrelli - Giulia Bausano
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La manifestazione del 27 ottobre è stato un momento importante e significativo. In maniera organizzata, possiamo dire per la prima volta, abbiamo visto scendere in piazza un insieme di realtà politiche e sociali orientate a dar vita, in maniera non effimera e occasionale, a un reale percorso di lotta contro il Governo Monti e tutto ciò che questo rappresenta e incarna. Ma perché ciò sia possibile, ovviamente, non bastano la buona volontà e le dichiarazioni di intenti ma è necessario che una soggettività politica prenda in mano tale movimento e lo guidi nei non facili compiti che si è dato. La manifestazione del 27 ottobre, quindi, come un passaggio verso la costituzione di un soggetto politico all’altezza dei tempi. Per forza di cose, la “questione del partito”, è ciò che ha fatto da sfondo, ponendosi subito dopo come aspetto centrale del dibattito, alla scesa in campo delle varie realtà politiche e sociali che hanno condiviso in quella giornata la medesima piazza. Tutti, pertanto, a partire da lì hanno iniziato a ragionare sugli sbocchi immediati della mobilitazione ovvero: quali passaggi occorrano per compiere un necessario balzo in avanti. Qua i giochi si complicano poiché, il 27 ottobre, non sembra essere stato in grado di sciogliere i nodi strategici dei quali, per forza di cose, il movimento comunista è obbligato a venire a capo. Di ciò è necessario, non semplicemente prenderne atto, ma iniziare, con pazienza a provare a scioglierli.
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Quelle liberalizzazioni incostituzionali
Lorenzo Dorato*
Gli obiettivi di liberalizzazione dei mercati (e in subordine logico quelli di privatizzazione) - definiti a partire dalle direttive dell’Unione europea della fine degli anni ‘80, principio anni ‘90 - si sono imposti come preminenti rispetto ad altri obiettivi di politica industriale ad essi divenuti subordinati, a scapito così di quella flessibilità discrezionale e di quegli ampi margini di manovra che avevano caratterizzato l’approccio delle politiche pubbliche di intervento nei sistemi produttivi nel trentennio immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale (e in parte già dagli anni ’30 del novecento).
Il paradigma liberista, posto come unica opzione possibile, ha eroso in maniera sistematica e progressiva i margini di flessibilità delle politiche industriali degli Stati nell’orientamento dei sistemi produttivi nazionali (erosione, va detto, avvenuta di fatto in forme asimmetriche tra paese e paese, segno di una chiara gerarchia nei rapporti di forza). Si è trattato di un vero e proprio sconvolgimento paradigmatico che ha radicalmente mutato il ruolo dello Stato nella sua capacità di intervento nelle dinamiche del sistema produttivo. Da uno Stato interventista, pensato come governatore dei processi economici a garanzia di obiettivi politici e sociali, si è giunti ad uno Stato regolatore del mercato e del libero gioco della concorrenza. La regolazione ha sostituito la programmazione. E così si è consumato un radicale contrasto tra la concezione di governo del sistema economico che emerge dal dettato costituzionale italiano e la concezione che invece prescrive la normativa comunitaria.
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Superstorm Sandy - Una scossa alla gente?
di Naomi Klein
Basterà una crisi climatica per chiedere una agenda veramente populista ?
Meno di tre giorni dopo i danni di Sandy fatti sulla costa orientale degli Stati Uniti, Iain Murray del Competitive Enterprise Institute ha detto che a causare la miseria che sta per arrivare, è la resistenza dei newyorkesi a comprare negli ipermercati.
Su Forbes.com ( Nota 1) ha spiegato che il rifiuto della città di restare vicina a Walmart probabilmente renderà il recupero molto più difficile: "I negozi mom-and-pop non ce la faranno a dare tutto quello che i grandi magazzini possono dare in queste circostanze".
E non si è fermato lì, perché poi ha ricordato che se la ricostruzione andrà a rilento (come spesso avviene) sarà solo colpa delle leggi "a favore dei sindacati" come il Davis-Bacon Act, che tra l'altro prevede che i lavoratori occupati in progetti di opere pubbliche non devono essere pagati con il salario minimo, ma con il salario prevalente nella regione.
Lo stesso giorno, a Frank Rapoport, un avvocato che rappresenta imprenditori immobiliari e costruttori da diversi miliardi di dollari, è saltato in mente di suggerire che molti dei progetti di lavori pubblici non dovrebbero essere assolutamente pubblici. Invece, visto che il governo è a corto di liquidi dovrebbe rivolgersi a "partenariati pubblico-privato", conosciuti come “P3".
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Il capitalismo entra nella sua fase senile
Ruben Ramboer intervista Samir Amin
"Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale". Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E lo è ancor meno con la politica dei governi. "Economizzare per ridurre il debito? Menzogne deliberate"; "Regolazione del settore finanziario? Frasi vuote". Egli ci consegna la sua analisi al bisturi della crisi economica
Dimenticate Nouriel Roubini, alias dott. Doom, l'economista americano diventato famoso per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all'inizio degli anni 1970. "All'epoca, economisti come Frank, Arrighi, Wallerstein, Magdoff, Sweezy ed io stesso, avevamo detto che la nuova grande crisi era cominciata. La grande. Non una piccola con le oscillazioni come ne avevamo avute tante prima, ricorda Samir Amin, professore onorario, direttore del forum del Terzo Mondo a Dakar ed autore di molti libri tradotti in tutto il mondo. "Siamo stati presi per matti. O per comunisti che desideravano quella realtà. Tutto andava bene, madama la marchesa… Ma la grande crisi è davvero cominciata a quel tempo e la sua prima fase è durata dal 1972-73 al 1980". Inoltre Samir Amin afferma recisamente: "essere marxista implica necessariamente essere comunista, perché Marx non dissociava la teoria dalla pratica: l'impegno nella lotta per l'emancipazione dei lavoratori e dei popoli".
Parliamo per cominciare della crisi degli ultimi cinque anni. O piuttosto delle crisi: quella dei subprimes, quella del credito, del debito, della finanza, dell'euro… A che punto siamo?
Samir Amin. Quando tutto è esploso nel 2007 con la crisi dei subprimes, tutti hanno fatto finta di non vedere. Gli europei pensavano: "Questa crisi viene dagli Stati Uniti, la assorbiremo rapidamente". Ma, se la crisi non fosse venuta da là, sarebbe cominciata altrove. Il naufragio di questo sistema era scritto e lo era fin dagli anni 1970. Le condizioni oggettive di una crisi di sistema esistevano ovunque.
Le crisi sono inerenti al capitalismo, che le produce in modo ricorrente, ogni volta in modo più profondo. Non si possono comprendere le crisi separatamente, ma in modo globale. Prendete la crisi finanziaria. Se ci si limita a questa, si troveranno soltanto cause puramente finanziarie, come la deregolamentazione dei mercati. Inoltre, le banche e gli istituti finanziari sembrano essere i beneficiari principali di quest'espansione di capitale, cosa che rende più facile indicarli come unici responsabili. Ma occorre ricordare che non sono soltanto i giganti finanziari, ma anche le multinazionali in generale che hanno beneficiato dell'espansione dei mercati monetari. Il 40% dei loro profitti proviene da operazioni finanziarie.
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Nell’autunno degli Stati Uniti
Intervista a Bruno Cartosio
Partiamo da un chiarimento: pur con un profilo particolare, Obama è per certi versi un pollo di batteria del partito democratico. É dunque difficile parlare di delusione rispetto a quello che ha fatto o non ha fatto, perché ciò è già inscritto nel suo dna politico. Il punto è vedere quanto i soggetti sociali che hanno cercato di utilizzare Obama (neri, latinos, ceti medi precarizzati, ecc.) possano passare all’incasso, forzandolo o rovesciando gli interessi di cui è espressione. Ora questi soggetti più che votare democratico, hanno votato contro la minaccia repubblicana. Da questo punto di vista, nel passaggio dal “we can” al “turatevi il naso”, tu come valuti i risultati elettorali e che prospettive si aprono?
Non c’è dubbio che la scelta eventuale di una presidenza Romney sarebbe stata disastrosa. Il punto importante è: disastrosa per chi? Disastrosa per le cosiddette minoranze etniche, disastrosa per la stragrande maggioranza della popolazione che sta in quell’80% che si trova a condividere il 15% della ricchezza delle famiglie americane, mentre invece il 20% gode dell’85% di quella ricchezza. Ecco, Romney sarebbe stato un disastro per questa gente. Obama è la loro salvezza? Non è esattamente così, ovviamente. Tuttavia, non c’è dubbio che se la si mette dal punto di vista del male, Obama è il male minore; se la si mette dal punto di vista di una qualche prospettiva di miglioramento della condizione sociale, Obama e la sua amministrazione sono comunque una possibilità di essere piegati alle esigenze di quello che Occupy ha definito il 99%. Questo è un dato di fatto reale, perché Romney certamente non sarebbe stato tutto questo. Quindi, l’esito di questa tornata elettorale è comunque positivo, con o senza virgolette.
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Recalcati e il desiderio del padre. Una doppia recensione
di Eleonora de Conciliis
1. In un fortunato volume di qualche anno fa (L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina 2010, anch’esso da me recensito sul portale di Kainos) Massimo Recalcati ha chiamato ‘uomo senza inconscio’ il tipo psichico emergente dal tardo capitalismo, caratterizzato da una nuova incapacità di accesso al simbolico, che si traduce in una nuova incapacità di capire il senso della Legge, di qualsiasi legge, e anche di qualsiasi alterità (in primis quella paterna, incapace dunque di soggettivarsi attraverso l’interdizione simbolica, simbolicamente castrante, del Nome-del-Padre): un individuo cinico e narcisista, ma anche molto conformista, che tende a sostituire il desiderio con un godimento schiacciato sul consumo di oggetti, in quello che Recalcati definisce totalitarismo dell’oggetto.
Sul piano socioeconomico, questa nuova tipologia psichica sembra essere il prodotto di quello che Lacan all’inizio degli anni settanta abbozzò come ‘discorso del capitalista’, il quale andava ad innestarsi sull’eclissi del padre edipico tradizionale, autoritario e repressivo. Il capitalista infatti promette (e al tempo stesso impone, comanda) al consumatore il godimento dell’oggetto, il godimento assoluto, che però per Lacan è strutturalmente inaccessibile (perché barrato come il piccolo oggetto a), quindi impossibile da trovare negli oggetti metonimicamente desiderati.
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L’Ottobre in una prospettiva storica
di Alexander Höbel
Sebbene Zhou Enlai ritenesse, nel 1972, che fosse passato troppo poco tempo per trarre un bilancio della Rivoluzione francese, i 95 anni che ci separano dalla Rivoluzione d’Ottobre rendono plausibile, e per molti aspetti necessario, tentare di formulare un giudizio storico non tanto sull’evento in sé, quanto sul suo impatto sulla storia dell’ultimo secolo.
Per farlo non si può non partire da due punti: che cos’era la Russia – e che cos’era il mondo – prima del 1917, e quale è stato l’impatto sulla storia del secolo breve di un altro evento decisivo e altrettanto paradigmatico, ossia la Prima guerra mondiale. È da qui, credo, che si debba partire se si vuole acquisire fino in fondo la consapevolezza di ciò che l’Ottobre e quello che ne è seguito hanno rappresentato.
Nella Russia pre-rivoluzionaria lo zar era un “monarca assoluto”, che non doveva “rispondere delle proprie azioni a nessuno al mondo”, il suo potere era “autocratico e illimitato”; la servitù della gleba era stata abolita nel 1861, ma le riforme di Stolypin, spezzettando le comuni contadine, i mir, in piccolissimi appezzamenti privati, avevano riproposto un altro tipo di servitù, quella economica, determinata dall’aumento della polarizzazione tra contadini poveri (che spesso rivendevano il loro appezzamento) e contadini ricchi (kulaki), che accaparrandosi le terre dei primi accrescevano sempre più la propria posizione dominante nelle campagne.
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Un #Grillo qualunque
WM2 intervista Giuliano Santoro
È in libreria soltanto da due settimane, ma ha già attirato l’attenzione di quotidiani, blog, radio, tivù. Complice il successo dei 5 Stelle in Sicilia, certo, ma soprattutto grazie all’analisi profonda e multiforme che Giuliano Santoro ha dedicato a Grillo e al suo movimento. Un’analisi che riesce ad essere, nello stesso tempo, mirata e di ampio respiro, capace di prendere il largo a partire dal suo oggetto di indagine, per illuminare temi e questioni che spesso hanno fatto capolino anche qui su Giap: dalla “cultura di destra” al feticismo digitale, dal razzismo alle narrazioni tossiche. Nei ringraziamenti finali, l’autore cita per nickname alcuni giapster molto assidui e in generale tutta la comunità che si ritrova in questo blog, per avergli fornito un terreno di confronto. L’intervista che segue vuole essere anche un’opportunità per riprendere e rilanciare la discussione.
Una delle caratteristiche più interessanti del libro è la sua capacità di smontare alcune presunte “novità” del Movimento 5 Stelle, per tracciarne la genealogia e svelarne il contenuto ideologico. Al netto di questo prezioso lavoro, resta però uno scarto davvero inedito per il panorama politico italiano: quello di un movimento che partecipa alle elezioni senza candidare la sua personalità più in vista. Questo aspetto mi pare una novità anche rispetto al populismo, che tu definisci come “la capacità da parte di un leader di costruirsi attorno un «popolo» che gli corrisponda in pieno, mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze”. Il leader populista, al momento delle elezioni, diventa così l’insostituibile candidato della sua gente. Grillo invece si sottrae, fa il “garante” del movimento: che ne pensi di questa sua rottura del rapporto classico tra capo e popolo?
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