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Si dice occhio ai rischi della IA ma si legge occhio alla minaccia cinese
Ricevo da Fosco Giannini (direttore della rivista "Cumpanis") questo articolo che riflette sugli obiettivi dell'appello di Elon Musk contro "i seri rischi per l'umanità" associati alla ricerca sull'Intelligenza Artificiale: il vero bersaglio del magnate americano, sostiene l'autore, non sono le minacce generate da una ricerca scientifica fuori controllo bensì il timore che i rapidi progressi della Cina in questo settore (che ha fondamentali ricadute sia in campo industriale che in campo militare) possano mettere in discussione l'egemonia americana sul piano tecnologico e scientifico [Carlo Formenti].
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Elon Musk e l’Appello del capitalismo contro la scienza e contro la Cina
di Fosco Giannini
Nel marzo 2023 il “Future of Life Institute” lancia un Appello attraverso il quale oltre mille accademici, intellettuali, tecnici e imprenditori delle tecnologie digitali, in buona parte nordamericani, denunciano, per ciò che specificamente riguarda l’Intelligenza Artificiale (Ai), “seri rischi per l’umanità”.
Innanzitutto: che cos’è il “Future of Life Institute”? È “un’associazione di volontariato impegnata a ridurre i rischi esistenziali che minacciano l’umanità, in particolare quelli che possono essere prodotti dall’Intelligenza Artificiale”. Un’associazione molto americana e con sede a Boston, e la doppia notazione potrà essere utile in sede di analisi dell’Appello che lo stesso “Future of Life Institute” ha lanciato.
L’Appello, all’interno della propria denuncia generale, chiede una moratoria di sei mesi per ciò che riguarda la ricerca relativa al sistema di Ai denominato Gpt4, un sistema ancor più sofisticato e potente rispetto al già rivoluzionario sistema ChatGpt.
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Riscoprire Richard Kahn. Pensiero e attualità di un economista keynesiano di Cambridge
di Paolo Paesani
Paolo Paesani ricorda Richard F. Kahn, esponente di punta della scuola keynesiana di Cambridge, traendo spunto da un volume di recente pubblicazione. Paesani richiama alcuni aspetti importanti del contributo di Kahn, sul piano analitico e metodologico, e ne illustra l’attualità anche rispetto alla possibilità d’inquadrarli nell’ambito della costruzione di un nuovo approccio classico-keynesiano allo studio dei problemi economici
Richard Ferdinand Kahn, nato a Londra nel 1905, morto a Cambridge nel 1989, è stato un importante economista britannico, un protagonista del pensiero economico del Novecento, meno noto di altri ma non per questo meno interessante. La recente pubblicazione di una raccolta dei suoi scritti (R.F. Kahn, Collected Economic Essays, a cura di M.C. Marcuzzo e P. Paesani, Palgrave Mcmillan, 2022) offre l’occasione per riaccendere l’attenzione su Kahn e sull’originalità dei suoi contributi.
Richard Kahn è stato prima di tutto un discepolo di Keynes, come recita il titolo della lunga, bella intervista concessa a Cristina Marcuzzo nel 1987 (R.F. Kahn, Un discepolo di Keynes, 1988, Garzanti) e tradotta di recente in inglese. Il sodalizio, intellettuale e personale, tra Keynes e Kahn inizia nel 1927 quando Keynes segue Kahn come tutor a Cambridge (l’altro tutor è Gerald Shove, economista marshalliano di Cambridge) e prosegue ininterrottamente per i diciannove anni successivi, fino alla morte di Keynes. Sono gli anni della elezione di Kahn a Fellow del King’s College nel 1929 (con una tesi sull’Economia del breve periodo), dell’articolo del 1931 sul moltiplicatore, dell’esordio come insegnante all’Università di Cambridge, del Cambridge Circus, il gruppo di giovani economisti che seguono e incoraggiano Keynes nella gestazione della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.
Venuto a mancare il suo mentore, Kahn acquisisce progressivamente una sua propria autorità intellettuale nel solco del Keynesismo della scuola di Cambridge. Come ha ricordato Luigi Pasinetti, in un saggio in memoria di Kahn, c’è stato un momento, fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, in cui “come Chairman della Facoltà di Economia, Professorial Fellow e Fellow Elector del King’s college, organizzatore del cosiddetto ‘Seminario segreto’, sembrava che tutto il processo di formazione del pensiero economico di Cambridge ruotasse intorno a lui”.
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Ecologia marxiana, dialettica e gerarchia dei bisogni
di J. Bellamy Foster, D. Swain e M. Woźniak
Pubblichiamo questa intervista a John Bellamy Foster, apparsa per la prima volta sulla rivista ceca Contradictions, numero 6 (2022), in seguito adattata per Monthly Review
Dan Swain e Monika Woźniak: Più di due decenni fa, nel suo libro Marx's Ecology, lei ha confutato le ipotesi popolari sul rapporto di Karl Marx con le questioni ecologiche. Nel suo recente libro, The Return of Nature, ha intrapreso un compito simile nei confronti dell'altra figura fondante del marxismo, Friedrich Engels. Perché ritiene così importante fare chiarezza sulle opinioni popolari di Engels?
John Bellamy Foster: In Marx's Ecology e in The Return of Nature, il mio interesse principale non era quello di confutare le «convinzioni più diffuse» sull'ecologia di Marx ed Engels che erano, ovviamente, principalmente il prodotto di una profonda mancanza di conoscenza del loro pensiero in questo campo. Come disse Baruch Spinoza, «L'ignoranza non è un argomento». Pertanto difficilmente merita una confutazione diretta. Piuttosto, la preoccupazione era quella più affermativa di portare alla luce le classiche critiche ecologiche storico-materialistiche sviluppate da Marx ed Engels, così come dai successivi pensatori socialisti che ne furono influenzati, come base metodologica su cui sviluppare un'ecologia socialista per il XXI secolo.
Marx, come sappiamo oggi, è stato un fondamentale pensatore ecologico, non solo in relazione al suo tempo ma anche rispetto al nostro, dal momento che aspetti cruciali del suo metodo non sono mai stati superati. Questa acuta comprensione delle contraddizioni ecologiche scaturì dal suo fondamentale metodo materialista ed era evidente nei suoi concetti di «metabolismo universale della natura», «metabolismo sociale» e «incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale» (o frattura metabolica).
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Si può ancora dire classe? Appunti per una discussione
di Maurizio Ricciardi
Questo testo riprende e amplia l’intervento del 20 marzo 2023 al Laboratorio di teorie antagoniste, organizzato a Bologna presso l’Ex-Centrale di via Corticella 129
1. Le classi e la classe
Poniamo direttamente la questione: esiste ancora la classe? Possiamo dare per scontato che esistano le classi. Esiste cioè una classificazione degli individui in base alla differente posizione occupata all’interno del processo di produzione e riproduzione della società. È difficile negare che queste differenze esistano. Il problema è caso mai se è ancora utile ragionare in termini di classe per sottrarsi e possibilmente cancellare questa classificazione. Storicamente l’affermazione e, per un certo periodo di tempo, il predominio del linguaggio di classe è stato il modo in cui milioni di uomini e di donne hanno cercato di farla finita con la classificazione che li collocava in una posizione subordinata all’interno della società. Questo è un primo punto che deve essere sottolineato. Il linguaggio di classe ha un doppio significato: esso è originariamente un linguaggio d’ordine e solo successivamente diviene la rivendicazione di una possibile rivolta contro l’ordine delle classi. Inizialmente esso serve a classificare una molteplicità di fenomeni prima nelle scienze naturali e poi anche in quelle sociali, assegnando a ciascuno e ciascuna il suo posto. Questa ossessione classificatoria del sociale deriva dall’altrettanto ossessiva paura per il caos prodotto dalla presenza simultanea di una moltitudine di individui formalmente uguali senza alcuno status ascritto. I loro movimenti, le loro azioni, le loro stesse parole vengono percepiti come la minaccia di un disordine potenzialmente ingovernabile. La presenza delle classi è in un primo tempo attribuita alla contrapposizione all’interno del popolo di due gruppi divisi dalla loro diversa origine. Al gruppo dei conquistatori viene opposta la rivolta dei conquistati che ristabilisce il giusto ordine.
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Suzanne De Brunhoff, Karl Marx e il dibattito sulla moneta
di Andrea Fumagalli
Nell'articolo che pubblichiamo oggi, Andrea Fumagalli fa un ritratto di Suzanne de Brunhoff. Nel ricostruire l'importanza e l'originalità del suo pensiero, Andrea Fumagalli ripercorre il dibattito sulla moneta che l'economista francese ebbe con il gruppo di lavoro sulla moneta di Primo Maggio.
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1. Suzanne De Brunhoff e Marx
Suzanne De Brunhoff è stata un intellettuale engagée a tutto tondo, testimone delle varie ingiustizie che hanno caratterizzato il Novecento, contro le quali ha sempre combattuto a viso aperto. Fatto, oggi, più che raro, così presi della performatività dell’apparire.
Come scrive Riccardo Bellofiore a un anno della sua morte:
Le esperienze giovanili del nazismo e del razzismo, e poco dopo del colonialismo francese in Indocina e Algeria, ne fecero una combattente tenace per l’eguaglianza nei diritti politici e sociali [1]
In quanto donna, la sua carriera all’interno dell’università fu assai ostacolata. Dopo una laurea in Filosofia alla Sorbona, non ebbe l’aggregation, nonostante le sue qualità di ricercatrice fossero ampiamente riconosciute. Sarà solo dopo aver ottenuto un dottorato in Sociologia e in Economia, riuscì a entrare al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique, l’equivalente più o meno del nostro CNR), dove divenne, con non poche difficoltà, direttora di ricerca.
La sua ricerca teorica si è sempre mossa all’interno del pensiero marxista. Il suo primo libro fu Capitalisme financier public, pubblicato nel 1965, con il sottotitolo Influence économique de l'État en France (1948-1958) che analizza criticamente il ruolo economico dello Stato in Francia dal 1948 al 1958.
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Usa vs Cina: ce n’est qu’un début
Su un libro di Raffaele Sciortino
di Mimmo Porcaro
Tra gli studi dedicati al tema del conflitto internazionale, e quindi alla guerra, si fa notare il più recente contributo di Raffaele Sciortino: Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios, Trieste, 2022. Un lavoro molto denso, ricco di dettagliate considerazioni fattuali, utili sia a ribadire l’esistenza di una tendenza allo scontro globale sia a farci capire che quest’ultimo non ha necessariamente i tempi rapidissimi e le forme univoche che l’adrenalinica comunicazione social ci impone di prevedere.
All’inizio del libro l’autore così riassume i risultati principali della sua ricerca: a) i motivi e le forme dello scontro trai due paesi vanno fatti risalire a una contraddizione sistemica, che vede gli Usa costretti, per mantenere il ruolo di egemone mondiale, a spezzare la sinergia con la Cina, ossia proprio il fondamento di quella globalizzazione che è cardine dell’egemonia che si vorrebbe salvare; b) d’altra parte per la Cina la sfida è esistenziale: essa non può arrestare la propria marcia, pena la messa in crisi del compromesso di classe su cui si regge e della stessa struttura unitaria del paese, e quindi deve mantenere in vita la globalizzazione almeno finché la rottura non sarà inevitabile; c) la relativa arretratezza della Cina e i costi immani dell’esercizio dell’egemonia mondiale fanno sì, però, che non sia alle viste un “secolo cinese”; d) nemmeno è ipotizzabile un ordine multipolare, che sarebbe meramente transitorio e “riformista”; e) ne consegue che sono possibili solo la disconnessione del mercato globale, e quindi il caos, oppure l’emergere, anche grazie a questo caos, di un’alternativa mondiale capace di abolire lo strapotere della competizione e del profitto.
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Lotte di classe in Francia
di Maurizio Lazzarato
Pubblichiamo un articolo di Maurizio Lazzarato sulle mobilitazioni scoppiate in Francia a seguito della riforma del governo Macron sulle pensioni. L’analisi condotta da Lazzarato si muove lungo due direzioni: da un lato ci parla delle forme di espressione conflittuale, nel rapporto con il ciclo di lotte dei Gilet Jaunes, delle potenzialità ricompositive e dei limiti del movimento; dall’altro, ricomprende il ciclo di mobilitazioni nello scenario più ampio di ridefinizione degli equilibri tra le superpotenze a livello mondiale
Andiamo subito al cuore del problema: dopo le enormi manifestazioni contro la «riforma» delle pensioni, il presidente Macron decide di «passare con la forza» (passer en force) esautorando il parlamento e imponendo la decisione sovrana di approvare la legge che porta da 62 a 64 l’età pensionabile. Nelle manifestazioni si è immediatamente risposto «anche noi passiamo con la forza». Tra volontà opposte, quella sovrana della macchina Stato-Capitale e quella di classe, decide la forza. Il compromesso capitale-lavoro è saltato dagli anni ‘70, ma la crisi finanziaria e la guerra, hanno ancora radicalizzato le condizioni dello scontro.
Cerchiamo di analizzare successivamente i due poli di questa relazione di potere fondata sulla forza nelle condizioni politiche successive al 2008 e al 2022.
Il marzo francese
Il movimento sembra aver colto il cambiamento di fase politica determinato prima dalla crisi finanziaria del 2008 e poi dalla guerra. Ha utilizzato molte delle forme di lotta che il proletariato francese ha sviluppato negli ultimi anni, tenendole insieme, articolando e legittimando di fatto le loro differenze. Alle lotte sindacali, con i loro cortei pacifici che si sono via via modificati, integrando componenti non salariali (il 23 marzo la presenza di giovani, di studenti universitari e liceali è stata massiccia), si sono aggiunte le manifestazioni «selvagge» che per giorni si sono sviluppate al calar della notte nelle strade della capitale e di altre grandi città (dove sono state anche più intense).
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Che cos’è la composizione di classe?
di Salvatore Cominu
Sebbene il concetto di composizione di classe sia uno dei più importanti dell’armamentario operaista, sono pochissimi i testi in cui esso è stato formalizzato a scopo formativo. Il testo di archivio che proponiamo, che è la trascrizione dell’intervento che Salvatore Cominu ha tenuto in occasione di un seminario di autoformazione organizzato a Piacenza nel 2014, tenta di rimediare a questa lacuna ripercorrendo l’origine e lo sviluppo del concetto senza la pretesa di una formalizzazione definitiva ma con il pregio di una rara chiarezza espositiva. Come si leggerà, più che di un concetto si tratta di un metodo che va fatto funzionare tanto importante quanto, di fatto, dimenticato. La sua rilevanza deriva dalla sua capacità di offrire una lettura materialistica, ovvero calata all’interno dei rapporti sociali di produzione storicamente determinati, della produzione di soggettività, senza la quale non è possibile disporre alcun tipo di processo organizzativo. Detto in termini più semplici: senza l’uso di questo metodo difficilmente si potranno scoprire i nuovi soggetti delle lotte. A differenza del concetto di intersezionalità, oggi di moda e a cui il lettore più avveduto certamente avrà pensato, che con esso condivide l'esigenza di un'immagine disomogenea, articolata e stratificata al proprio interno della classe, il metodo operaista non è viziato da un materialismo determinista. Per esso infatti la sottomissione ad una qualche forma di dominio/sfruttamento non è una condizione sufficiente alla produzione di soggetti «rivoluzionari» perché «anche il Capitale soggettivizza». Come sostiene l'autore, all’interno della realtà capitalistica, i soggetti «subalterni» non esprimono alcuna coerenza progressiva, al contrario sono per lo più portatori di una forte «ambivalenza». La «contro-soggettivazione» antagonista non è quindi un processo necessario ma solo un esito possibile degli sforzi organizzativi.
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Stretti Perigliosi
di Paolo Di Marco
1- Qualche nota a partire dal dibattito Rovelli-Sofri
L’intervento di Rovelli sulla pagina FB di Sofri (qui) ha un tono molto pacato ed anche accorato, esprime concetti e riflessioni che potremmo dire di grande buonsenso e largamente condivisibili anche da chi ha sensibilità diverse.
D’altro tono la risposta di Sofri (qui), assai elaborata, studiata ad arte direi.
L’importante è quello che non dice: è un attento navigare in acque perigliose che impongono di evitare scogli imponenti ma invisibili, acque vorticose in agguato dietro i promontori.
Subito si scapola dal confronto equiparando il generale Mini a Putin. È più facile ricoprire l’avversario di pece e piume che non confutarlo, anche perché dio non volesse che nella confutazione potrebbero comparire delle finestre aperte su panorami inaspettati e scomodi.
E lo scoglio del ruolo degli USA viene ridotto a sineddoche: ‘anche Biden è stato colto di sorpresa dalla resistenza ucraina’ o si va per la tangente dello scoglio con ‘’io c’ero’: gli orrori del Daesh, le sofferenze dei civili in Siria; e con santa ingenuità si dimentica chi ha invaso l’Iraq e la Siria, la provetta agitata da Powell, i bombardamenti, le migliaia di civili uccisi a distanza dai droni; nessuno ha detto all’Ingenuo che il cuore dei combattenti del Daesh erano quello che restava delle truppe scelte di un esercito distrutto dagli americani (un esercito in fuga nel deserto, abbandonate le armi, asfissiato e bruciato vivo dalle bombe incendiarie buttate a mezza altezza ad aspirare tutto l’ossigeno), colla mezza luna a compiere lo stesso ruolo che per i predoni spagnoli in Messico aveva svolto la croce.
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In comune. Nessi per un’antropologia ecologica (un estratto)
di Carlo Perazzo e Stefania Consigliere
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e della casa editrice, la prefazione di Stefania Consigliere e un estratto del libro di Carlo Perazzo dal titolo “In comune. Nessi per un’antropologia ecologica” (Castelvecchi, Roma, 2023).
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Prefazione
di Stefania Consigliere
Partiamo dal presente: i ghiacciai si stanno sciogliendo, metà dei nostri concittadini è o è stato clinicamente depresso, la vita dei singoli e delle collettività è costretta in gabbie che precludono il senso e la gioia; e ora, infine, la diffusione di un virus di media pericolosità ha portato in piena luce il disastro globale causato da quarant’anni di politiche neoliberiste. Di virus si muore, certo, ma difficilmente il virus uccide da solo. Semmai, è la primadonna di un’intera truppa di sicari, che comprende gli effetti metabolici del cibo-spazzatura, i tagli alla sanità pubblica, l’impatto sui polmoni degli inquinanti aerei, i ritmi incessanti dei cicli di produzione-distribuzione, lo svuotamento di senso delle vite, la rescissione dei legami primari fra umani e la loro sostituzione con legami tossici con merci, il terrore mediaticamente indotto, la povertà, l’abbandono.
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Lo “scàndalo” di Xi a Mosca: “Nessun Paese ha il diritto di dettare l’ordine mondiale”
Il guanto di sfida cinese che schiaffeggia Washington e l’Occidente
di Gaspare Nevola
1. Regole cinesi e regole americane
All’indomani del vertice tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin, il portavoce del Consiglio di sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha laconicamente commentato: «La Cina non ha una posizione imparziale rispetto al conflitto ucraino», bocciando di fatto il piano cinese per porre fine al conflitto e illustrato da Xi a Mosca. «La Cina e la Russia vorrebbero che il mondo andasse secondo le loro regole» – ha aggiunto Kirby[1]. Già. Gli Stati Uniti, infatti, sostengono risolutamente che le regole dell’ordine internazionali già esistono. Già. Ma quali sono? E, poi, quali sarebbero “queste regole cinesi”?
Nel corso della sua visita a Mosca Xi Jinping aveva rilasciato importanti dichiarazioni sulla guerra russo-ucraina e sull’ordine internazionale. Primo: «L’interesse comune di tutta l’umanità è un mondo unito e pacifico, piuttosto che diviso e instabile… La risoluzione del conflitto in Ucraina sarà possibile se le parti seguiranno le linee guida del concetto di sicurezza collettiva». Secondo: «La comunità internazionale ha riconosciuto che nessun paese è superiore agli altri, nessun modello di governo è universale e nessun singolo paese dovrebbe dettare l’ordine internazionale»[2].
2. Xi a Mosca, Biden al Summit della democrazia
Con la rielezione di Xi Jinping al terzo mandato quinquennale come presidente della Repubblica Popolare Cinese, il 13 marzo a Pechino si sono concluse le sessioni di lavoro dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
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Il nuovo concetto di relazioni estere della Russia porterà a un cambiamento fondamentale nell’equilibrio della sua politica interna
di Gilbert Doctorow
Venerdì 31 marzo Vladimir Putin ha firmato la legge sul nuovo Concetto di politica estera che guiderà la diplomazia russa negli anni a venire. Sostituisce il Concetto promulgato nel 2016 ed espone in 42 pagine, in forma logicamente organizzata, ciò a cui abbiamo assistito nel comportamento della Russia sulla scena mondiale dal lancio dell’Operazione militare speciale in Ucraina e dalla successiva rottura quasi totale delle relazioni con l’Occidente collettivo guidato dagli Stati Uniti.
Ho trovato poche sorprese nel documento proprio perché ribadisce ciò che ho letto in un discorso dopo l’altro di Vladimir Putin, ciò che ho letto nella lunga Dichiarazione congiunta rilasciata a conclusione della visita del presidente cinese Xi Jinping a Mosca il 20-22 marzo.
Vi si ritrovano parole familiari, come “mondo multipolare”, che la Russia si sta sforzando di far nascere in uno sforzo congiunto con la Repubblica Popolare Cinese. Si tratta della creazione di un nuovo ordine post-Guerra Fredda, più democratico, che attribuisca maggior peso nelle istituzioni internazionali alle nuove potenze economiche emerse e che sia più rispettoso delle diverse culture e soluzioni di governance dei Paesi di tutto il mondo rispetto all'”ordine basato sulle regole” che Washington sta lottando con le unghie e con i denti per preservare, poiché è una bella copertura per l’egemonia globale americana. Il nuovo ordine mondiale sarà costruito sul diritto internazionale concordato nell’ambito delle Nazioni Unite e delle sue agenzie. La nuova architettura di sicurezza sarà onnicomprensiva e non lascerà nessun Paese al freddo.
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Seymour Hersh: "Zelensky fa affari con il nemico"
di Redazione
Seymour Hersh: Zelensky e il suo entourage non solo comprano diesel dalla Russia, ma hanno anche sottratto illegalmente almeno 400 milioni di dollari dai fondi americani trasferiti in Ucraina per l’acquisto di diesel. Generali e militari ucraini hanno creato società di facciata per rivendere armi e munizioni ricevute dall’Occidente nel resto del mondo. La recente destituzione di dieci funzionari da parte di Zelensky sarebbe dovuta alle pressioni della CIA. Citando le sue fonti, Hersh aggiunge inoltre che esiste una spaccatura tra Casa Bianca e comunità dell’intelligence, la quale considera Blinken e Sullivan non all’altezza. Infine, molti nell’intelligence si chiedono quale sia il vero ruolo della brigata dell’82a divisione aviotrasportata in Polonia e della brigata della 101a divisione aviotrasportata in Romania. Nessuno sa esattamente che cosa Biden abbia in testa.
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Il governo ucraino, guidato da Volodymyr Zelensky, ha utilizzato i fondi dei contribuenti americani per pagare a caro prezzo il carburante diesel, di vitale importanza per mantenere in movimento l’esercito ucraino nella sua guerra con la Russia. Non si sa quanto il governo Zalensky stia pagando a gallone per il carburante, ma il Pentagono pagava fino a $ 400 a gallone per trasportare benzina da un porto in Pakistan, tramite camion o paracadute, in Afghanistan durante la decennale guerra americana.
Un’altra cosa che non si sa è che Zelensky ha acquistato carburante dalla Russia, il paese con cui lui e Washington sono in guerra, e che il presidente ucraino e molti nel suo entourage hanno sottratto un’incalcolabile quantità di milioni di dollari dai fondi americani stanziati per il pagamento del diesel.
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Il campo minato della fecondazione assistita
di Michele Castaldo
Sono obbligato a una dolorosa premessa: il compagno Luigi Garzone, che mi ha corretto per anni gli scritti, è stato ricoverato in ospedale e impossibilitato perciò a farlo. Pertanto il lettore dovrà sopportare qualche ridondanza o punteggiatura poco consona, nella speranza che risulti comunque chiaro il senso.
Si discute, e non da oggi, in modo particolare in Occidente, di fecondazione assistita con tutto ciò che intorno ad essa ruota in termini economici, etici, morali, culturali, religiosi ecc.
Ho premesso, nel titolo, che si tratta di un campo minato, cioè di una questione molto complicata e spinosa da affrontare e chi pretende di farlo sottovalutando tutti gli aspetti per estrarre dal cappello il cilindro l’et voilà come soluzione finisce per ridicolizzarsi.
Due errori da evitare: a) il ritenere l’uomo (specie), ancorché imperfetto, come parte separata e diversa della natura, in quanto bipede verticale, intelligente e dotato di parola; b) il ritenere che come specie, al cospetto di una natura, composta da infinite altre specie, da dominare.
Nel corso dei secoli, queste due convinzioni hanno costituito il motivo conduttore definito antropocentrico. Questa convinzione negli ultimi 500 anni ha raggiunto il suo apice in modo particolare in Occidente, dove il colonialismo e la rivoluzione industriale hanno esaltato in modo parossistico quei concetti fino elevare a l’individuo a capacità di libero arbitrio grazie ai risultati raggiunti.
Torniamo perciò sulla grigia terra e cerchiamo di ragionare come si conviene tra persone serie e non fra palloni gonfiati.
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Elon Musk e l’Appello del capitalismo contro la scienza e contro la Cina
di Fosco Giannini
Nel marzo 2023 il “Future of Life Institute” lancia un Appello attraverso il quale oltre mille accademici, intellettuali, tecnici e imprenditori delle tecnologie digitali, in buona parte nordamericani, denunciano, per ciò che specificatamente riguarda l’Intelligenza Artificiale (Ai), “seri rischi per l’umanità”.
Innanzitutto: che cos’è il “Future of Life Institute”? È “un’associazione di volontariato impegnata a ridurre i rischi esistenziali che minacciano l’umanità, in particolare quelli che possono essere prodotti dall’Intelligenza Artificiale”. Un’associazione molto americana e con sede a Boston, e la doppia notazione potrà essere utile in sede di analisi dell’Appello che lo stesso “Future of Life Institute” ha lanciato.
L’Appello, all’interno della propria denuncia generale, chiede una moratoria di sei mesi per ciò che riguarda la ricerca relativa al sistema di Ai denominato Gpt4, un sistema ancor più sofisticato e potente rispetto al già rivoluzionario sistema ChatGpt. Quest’ultimo, acronimo di Generative Pretrained Transformer, è sinteticamente definito, dagli scienziati, come “uno strumento di elaborazione del linguaggio naturale che utilizza algoritmi avanzati di apprendimento automatico per generare risposte simili a quelle umane all’interno di un discorso”. Nell’essenza: il ChatGpt è definibile come un mezzo tecnologico dell’Ai volto alla costruzione di una relazione più attiva tra macchina ed essere umano. Mentre il nuovo Gpt4 è definito sinteticamente dalla letteratura scientifica come “un modello linguistico multimodale di grandi dimensioni, un modello di quarta generazione della serie GPT-n”. Un modello creato da OpenAi, un laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale con sede a San Francisco, con Elon Musk come co-fondatore.
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Pasukanis oggi: fra nuovi autoritarismi e diritto internazionale
di Fabio Simonato
L’interesse per Pasukanis non termina con quello più generale per la dottrina marxiana che ha caratterizzato gli anni ‘60 e ‘70. Il giurista russo ha continuato ad essere interrogato sino ad oggi, in particolare nel mondo anglosassone e in quello iberico, venendo ripubblicato e studiato a fondo. In questo solco si inserisce la riproduzione anastatica della copia italiana de La teoria generale del diritto e il marxismo recentemente edita da PGreco.
Un autore che ha affrontato il tema della generale torsione autoritaria dello stato avvalendosi anche degli strumenti introdotti da Pasukanis è Antonio Negri. Scopo principale del testo Rileggendo Pasukanis è contrastare le letture “revisioniste”[1] – caratterizzate come “istituzionali, privatistiche e sociologiche”[2] – del giurista russo per riattivarne l’attitudine rivoluzionaria. Queste interpretazioni vorrebbero Pasukanis fautore di uno “sviluppo rettilineo ed istituzionale”[3] del diritto pubblico sulla base dello scambio commerciale (e quindi del diritto privato), uno sviluppo sostanzialmente pacificato in cui le contraddizioni inerenti alla forma stessa della merce e del diritto sono obliate. Ciò porta inevitabilmente ad un addomesticamento della radicalità rivoluzionaria propria dell’opera di Pasukanis, radicalità che va ricerca nel “nesso fra scambio nel mondo delle merci e capitale complessivo, – autorità, comando dello Stato”[4]. La semplice fondazione “piana” dell’ordine statuale rispetto a quello privatistico non coglie la potenzialità rivoluzionaria che si annida nella contraddizione fra organizzazione del lavoro per mezzo del diritto privato e il comando autoritario su di esso per mezzo dell’azione coercitiva dello stato. L’esposizione di questa antinomia immanente e necessaria alla forma giuridica è per Negri il vero nucleo sovversivo dell’opera di Pasukanis.
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Degrowth communism
di Paolo Cacciari
Il “regno della libertà” auspicato dal comunismo è oggi un mondo liberato dall’ossessione della crescita, della produttività, del denaro. Un “comunismo decrescente”, una rivoluzione antropologica, cioè un processo di liberazione – non solo dell’immaginario – dalle costrizioni materiali che compromettono le possibilità di una vita piena e sana, ricca e soddisfacente
La ripresa di interesse al pensiero ecomarxista – penso ad autori come John Bellamy Foster, Ian Angus, Paul Burket, Michael Löwy, Jason W. Moore, Andreas Malmo – con al vertice il caso dello straordinario successo dei libri di Kohei Saito, il giovane studioso giapponese che ha portato in luce una vena protoecologista del pensiero marxiano (Marx in the Anthropocene. Towards the Idea of Degrowth Communism, di Kohei Saito, Università di Tokyo), ci riporta alla vexata questio che ha tormentato le avanguardie politiche rosso-verdi fin dagli anni Settanta del Novecento: come riuscire a connettere i diversi aspetti della critica al capitalismo? Come fare in modo che il “rosso” e il “verde”, ma anche il “rosa” del femminismo, il “bianco” del pacifismo antimilitarista, antinucleare e nonviolento, il “nero” dell’antiautoritarismo libertario, la “linea del colore” contro cui si scontano le lotte di liberazione postcoloniali, l’“arcobaleno” delle lotte per i diritti civili e le libertà individuali… insomma, l’intero spettro delle resistenze alle pluriverse contraddizioni scatenate dal sistema capitalista possa connettersi e convergere in un movimento d’opinione, culturale e politico capace di impensierire il comune nemico?
Ognuno capisce da sé che le dolorose crisi finanziarie, economiche, sociali, demografiche, alimentari, migratorie, ambientali… sono concatenate e hanno un’origine comune.
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Le proposte della Cina per un ordine internazionale alternativo a quello occidentale
di Alessandro Scassellati
La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore […] il nuovo non può nascere e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
Antonio Gramsci
Grande è il disordine sotto il cielo. La situazione è dunque eccellente.
Mao Zedong
Negli ultimi mesi la Repubblica Popolare di Cina si è segnalata per uno spiccato attivismo per cercare di ridefinire una propria visione di un ordine internazionale alternativo a quello offerto dall’Occidente – il cosiddetto “rules-based international order” (anche se le «regole» non sono state mai veramente scritte da nessuna parte ad eccezione della Carta delle Nazioni Unite, un’organizzazione di cui fanno parte 193 Stati che però vede le risoluzioni della sua Assemblea Generale sistematicamente ignorate dagli USA e dalle altre grandi potenze1), la Pax Americana2 -, avanzando proposte sulla sicurezza globale e sulla risoluzione del conflitto ucraino.
A fine febbraio, il Ministero degli Esteri cinese ha pubblicato tre fondamentali documenti che definiscono la visione cinese del mondo e della comunità internazionale. Il concept paper della Global Security Initiative (GSI), il documento US Hegemony and its Perils e il documento che illustra la proposta cinese per una soluzione politica alla guerra in Ucraina.
Documenti che hanno l’ambizione di presentare la Cina come forza per la stabilità e la prosperità globali, che vuole ispirare una “modernizzazione” post-occidentale in tutto il mondo, in particolare nel Sud del mondo, non perseguita attraverso la guerra, il colonialismo o l’espropriazione.
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Spiritualizzare il neoliberalismo
di Mimmo Cangiano
A proposito della cultura di destra: ecco come si è aperta alla possibilità di esaltare ogni forma di sviluppo capitalistico considerandolo un viatico per il rafforzamento della comunità e dell'identità nazionale
Si può cominciare da quattro cose che la cultura di destra non è. La cultura di destra non è incultura, ma un preciso sistema di pensiero che, con molte varianti interne, ruota intorno a una serie riconoscibile di tematiche economiche, sociali, politiche e filosofiche. Come tale la cultura di destra ha i suoi intellettuali e partecipa, tramite prassi e tramite teoria, alla battaglia per l’egemonia e per la conquista del senso comune.
In secondo luogo, la cultura di destra non è eterna, non è un fenomeno a-storico e men che meno è un’attitudine psicologica, ma è una delle risposte ai processi di democratizzazione e di prima nazionalizzazione delle masse che seguono al tracollo di feudalesimo e Ancien Régime. In tal senso la cultura di destra è una reazione al progressivo instaurarsi del sistema capitalistico e alla formazione delle istituzioni liberali, esattamente come lo è la cultura di sinistra.
In terzo luogo, la cultura di destra non è immobile, ma reagisce costantemente alle trasformazioni sociali (rivoluzioni industriali, irruzione delle masse nello Stato, emancipazione femminile, passaggio alla società dei consumi, globalizzazione, ecc.) riformulandosi per non morire. In ultimo, la cultura di destra non ha un preciso alveo culturale di nascita e non è legata per la vita a nessuna temperie filosofica (non è figlia del nazionalismo romantico, del metodo scientifico positivista o della Kulturkritik) ma, esattamente come fa rispetto alle trasformazioni socio-economiche, instaura continuamente relazioni dialettiche con le logiche culturali dominanti.
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‘La rivoluzione della cura’
La parola al filosofo
Alba Vastano intervista Marco Bersani
"Oggi le persone sono sole e isolate dentro una frammentazione sociale senza precedenti. Questo le fa scivolare nel panico e le fa sfociare nel rancore. Perché il panico diventi preoccupazione (ovvero la fase che precede l’occuparsi) e perché al rancore subentrino rabbia e speranza, il primo passo è ricostruire i luoghi della socialità, far incontrare le persone, permettere la socializzazione delle esperienze e dei saperi. Solo il sentirsi “parte” permette di iniziare a camminare” (M. Bersani)
“Il capitalismo produce incuria. Affidando le leve della società alle logiche del mercato e prevedendo relazioni unicamente intermediate dalla compravendita di beni e servizi costringe l’esistenza delle persone dentro la dimensione della solitudine competititiva…” (Marco Bersani)
La soluzione c’è per uscire dal capitalismo che produce isolamento, noncuranza e fagocita le nostre esistenze trasformandoci in merce. La soluzione è fare la rivoluzione. Non quella di stampo bolscevico, ovviamente. Marco Bersani, la definisce ‘la Rivoluzione della cura’ descrivendone i vari aspetti nel suo ultimo saggio. Non è semplice da realizzare, ma si può fare. È una rivoluzione che prevede una profonda analisi politica e sociale riferita agli avvenimenti dell’ultimo trentennio. Soprattutto un’analisi che chiarisca le cause dei disastri in cui viviamo in full immersion. Disastri generati dalla continua serie di crisi concatenate, in cui stiamo navigando maldestramente, senza legarle l’una all’altra, prive del contesto che le accomuna. Occorrerebbe riappropriarci di un pensiero critico che ci consenta di uscire dal loop del pensiero unico, omologato, che fa tanto gioco al potere.
Marco Bersani, saggista, filosofo, nell’intervista che segue ci offre pillole di pensiero critico. Importante la lettura del suo ultimo saggio ‘La rivoluzione della cura- Uscire dal capitalismo per avere un futuro’ per comprendere le dinamiche e i contesti delle crisi attuali che hanno tutte una matrice comune: il capitalismo.
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Tedeschi sotto & russi fuori
di Diana Johnstone*
Lo scopo della NATO: “Tenere gli americani
dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto”
(frase attribuita a Lord Hastings Ismay, segretario
generale della NATO 1952-1957)
«Divide et impera» è la regola eterna dell'Impero
Soprattutto, non permettere ai ragazzi più grossi di far comunella. Cerca piuttosto che si azzuffino tra loro fino a prendersi per la gola l'uno contro l'altro. Mezzo secolo fa, bloccato nell'impossibilità di vincere la guerra del Vietnam, il Presidente Richard M. Nixon ascoltò il consiglio di Kissinger che lo esortava ad un'apertura delle relazioni con Pechino al fine di approfondire le divisioni tra Unione Sovietica e Cina.
Ma ora chi sono i ragazzi più grossi e da quando lo sono? Evidentemente le priorità sono cambiate. Otto anni fa, uno dei più influenti analisti geostrategici americani, George Friedman, definì quale fosse l'attuale principale priorità del divide et impera, quella che ora troviamo all'opera in Ucraina.
“L'interesse primario degli Stati Uniti è la relazione tra Germania e Russia, perché insieme rappresentano la sola forza che ci può minacciare,” spiegava Friedman.
L'interesse principale della Russia è sempre stato quello di avere una zona cuscinetto di paesi neutrali nell'Europa dell'Est. Lo scopo degli Stati Uniti invece è di costruire un cordon sanitaire di stati che le siano ostili, dal Baltico al Mar Nero, a far da barriera di separazione definitiva tra Russia e Germania.
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Macro(n)economia, ovvero il “Presidente dei Ricchi”
di Matteo Bortolon
Nelle ultime settimane le proteste in Francia hanno riempito pagine e schermate dei media internazionali: la contestatissima controriforma delle pensioni del governo Borne ha suscitato svariati scioperi e le più partecipate proteste di piazza della recente storia francese, con le otto maggiori sigle sindacali unite come una falange macedone, mentre da parti opposte tanto l’alleanza di sinistra radicale NUPES di J-L. Mélenchon e il partito di Marine Le Pen danno una serrata battaglia parlamentare. I sondaggi indicano che il 74% della popolazione sarebbe favorevole ad una mozione di sfiducia che facesse crollare il governo. La repressione della polizia nelle piazze è violentissima e ricorda la scriteriata gestione dell’ordine pubblico contro i Gilet Gialli del pre-Covid, allarmando il Consiglio d’Europa; se un qualsiasi governo nemico del blocco euroatlantico avesse fatto solo la metà di simili le potenze occidentali avrebbero già chiesto le dimissioni del vertice politico.
A questo si aggiunge la prova di forza voluta da Macron: l’approvazione della riforma in base ad un articolo della Costituzione (art. 49, c. 3) che consente di oltrepassare totalmente il Parlamento nel rifiuto di una minima interlocuzione con i rappresentati sindacali. Una cosi altezzosa indifferenza verso l’opinione pubblica ha suscitato ire selvagge ed è difficile pensare che possa essere riassorbita a breve. Ma non si tratta di una storia nuva.
Questa è solo l’ennesima puntata di un copione che inizia ad andare in scena quasi immediatamente dopo la prima elezione di Macron, che ha messo in cantiere una serie di riforme favorevoli ai ceti abbienti e totalmente funzionali al disegno neoliberale da venir bollato col meritatissimo epiteto di “Presidente dei Ricchi”.
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Leggere Lazzarato a Pechino
di Gabriele Battaglia
Guerra o rivoluzione di Maurizio Lazzarato (DeriveApprodi 2022) è un libro capace di suscitare vivaci discussioni attorno alle sue ipotesi. In questo articolo Gabriele Battaglia analizza il rapporto tra macchina Stato-capitale e guerra a partire dalla complessità dell’esperienza cinese. Andando oltre il dibattito su che cosa ci sia di socialista in Cina, l’autore si interroga proprio sul nesso deterministico tra crescita e guerra, connubio che è stato ed è decisivo nel modello di egemonia americano, come il conflitto in Ucraina dimostra.
* * * *
Lunedì 28 marzo 2023, le cronache riportano che il più noto imprenditore cinese è ricomparso dopo oltre due anni nella natia Hangzhou provocando un brivido di eccitazione nei media e sui mercati. Jack Ma è il fondatore di Alibaba, la più grande azienda di e-commerce al mondo dopo Amazon. Figura leggendaria per le giovani generazioni cinesi, l’ex insegnante di inglese è uno di quegli imprenditori ispirazionali che assumono lo status di guru e fanno tendenza: nel 2017, al meeting annuale della sua azienda, si mise a danzare sul palco travestito da Michael Jackson, copiandone tutte le mossette, per il delirio delle masse. Da sempre brillante, scaltro, attento a non pestare i piedi sbagliati, propenso alle enunciazioni profetiche e perciò astratte, Jack Ma è sempre stato perfettamente in simbiosi con il Partito comunista, tant’è che nel 2015 Xi Jinping se lo portò in delegazione negli Usa. Tuttavia, nell’ottobre del 2020, l’imprenditore-guru si montò forse un po’ troppo la testa e definì pubblicamente «banco dei pegni» il sistema finanziario cinese incentrato sulle grandi banche di Stato.
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La tempesta bancaria negli Stati Uniti e in Europa, e la lotta di classe
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Per favorire la lettura e la comprensione di questo testo che deve, inevitabilmente, trattare questioni ostiche e usare termini tecnici, è stata aggiunta, alla fine, una legenda. (Red.)
Non si era ancora placata la tempesta Credit Suisse, che si è aperta un’altra voragine, protagonista il colosso del credito tedesco e mondiale Deutsche Bank. La crisi di quest’ultima è indubbiamente legata alle modalità con le quali è avvenuta l’incorporazione di CS in UBS, su cui diremo qualcosa nel corso di questo scritto.
In ogni caso, al momento, il bank run, la corsa affannosa agli sportelli delle banche per ritirare i propri soldi prima che venga giù il diluvio, sembra essersi placata.
Negli USA, un intervento deciso e tempestivo del Tesoro, della FED e della FIDC (l’Ente che ha il compito di garantire i depositi bancari fino a 250.000 dollari) ha costruito un cordone sanitario attorno a SVB, Signature e First Republic Bank, che sembra reggere.
Nel vecchio continente, la caduta rovinosa di Credit Suisse, neutralizzata con un’operazione straordinaria dalle molte implicazioni, non ha trascinato, per adesso, altri istituti. Le Borse hanno così ripreso fiato, recuperando in parte quanto avevano perduto nei giorni del panico.
Tutto a posto, dunque? Hanno ragione coloro che, al di là dell’Atlantico, vantano la tenuta delle norme “post Lehman Brothers”? E, in Europa, coloro che, Lagarde in testa, sottolineano il controllo più stringente della vigilanza bancaria nell’UE, la forte “resilienza” degli istituti di credito europei, la loro solidità patrimoniale, il “modello differente di business” che li contraddistinguerebbe da quelli USA? In altre parole, sono giustificate le dichiarazioni ufficiali improntate allo scampato pericolo, alla capacità mostrata di soffocare per tempo ogni contagio, a dispetto delle preoccupazioni che, qua e là, trapelano fra coloro che non hanno responsabilità diretta nella gestione economica?
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Samir Amin: per una critica dell’eurocentrismo
di Giorgio Riolo*
Samir Amin rientra tra coloro i quali più si sono attenuti alla feconda interazione e al reciproco sostanziarsi di teoria e di storia, di astratto e di concreto, di conoscenza e di realtà fattuale storico-sociale. È il suo un contributo di grande valore per dare coerenza teorica e categoriale a questo materiale empirico, reale. È in lui soprattutto la feconda interazione e la stretta interdipendenza di impegno politico militante e di necessaria riflessione teorica e culturale. La quale riflessione teorica e culturale era concepita da Amin non come semplice orpello.
Il militante (comunista, terzomondista-internazionalista, antimperialista, altermondialista ecc.) dialoga e illumina l’intellettuale marxista. E viceversa. È un pendolo, una oscillazione tra i due poli, costante. L’intera sua parabola di vita, e il suo apporto per noi, si dispiega dalla precoce adesione ai valori (morali, etici, intellettuali) socialisti e comunisti e dalla precoce lettura di Marx fino alla scomparsa nel 2018 come continuo confronto con la storia reale, con il capitalismo realmente esistente (locuzione da lui preferita), con Marx e con i marxismi storici, con la storia del movimento operaio, socialista e comunista, e dei movimenti di liberazione nazionale del Sud del mondo, con il socialismo reale e con le varie rivoluzioni nelle periferie (Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc.), con la concezione generale dell’alternativa socialista.
I.
Nell’ampia produzione intellettuale e teorica di Samir Amin, costituita di opere sistematiche e di numerosi saggi e articoli, Eurocentrismo occupa un posto particolare. Già nella prima edizione del 1988, ma soprattutto nella stesura fatta per la seconda edizione, la cui traduzione italiana qui presentiamo.
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