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Tra mercati antichi e rotte globali
Commento a “Sulla situazione epidemica” di Alain Badiou
di Antiper
Il filosofo francese Alain Badiou ha scritto qualche tempo fa un intervento sulle conseguenze della pandemia SARS-2 in cui formula una serie di interessanti osservazioni con cui può essere interessante confrontarsi.
Dice Badiou
Non ho trovato dunque nient’altro da fare che provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia, e nient’altro da dire se non esortare tutti a fare altrettanto. Rispettare, su questo punto, una rigida disciplina è tanto più necessario in quanto è un sostegno e una protezione fondamentale per tutti coloro che sono più esposti: certo, tutto il personale medico curante, che è direttamente sul fronte, e che deve poter contare su una ferma disciplina, ivi comprese le persone infette; ma anche i più deboli, come le persone anziane, in particolare quelle in EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) o immunodepresse; e inoltre tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un contagio.
Si tratta di una domanda che tutti si sono posta: è giusto sequestrarsi in casa durante la pandemia, ovviamente, avendone la possibilità? Si noti che qui il filosofo francese dice “mi sono sequestrato” e non “sono stato sequestrato” (come forse avrebbe detto uno come Agamben) ponendo così il sequestro nei termini di una scelta, sia pure obbligata, e non di un obbligo subìto.
Come è noto le cose non stanno esattamente come le pone Badiou perché, a dire il vero, non si poteva far diversamente che “sequestrarsi in casa”, dal momento che le misure varate dai governi prevedevano multe salatissime ai contravventori e pattugliamenti delle città (fino al ridicolo degli elicotteri in azione su tetti di casa e spiagge deserte). Quello che Badiou intende dire, evidentemente, è che quella del lockdown è stata una scelta condivisibile.
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La favola di Liquidità e Speranza
L’illusione monetarista e la teoria del denaro di Marx
di Ludovico Lamar
Il Banditore – tutti ne tessevano gli elogi fino al cielo:
“Che contegno agevole e pieno di grazia!
Che solennità, anche! Si poteva capire quanto
era saggio, solo con un’occhiata! -
aveva comprato una grande mappa che rappresentava
il mare senza la minima traccia di terra:
e la ciurma fu molto contenta di sapere che tutti
l’avrebbero potuta usare.
(Lewis Carroll, La caccia allo Snualo)
Il grande capolavoro di far credere l’attuale crisi economica dovuta al coronavirus non ha ancora esaurito la sua carica vitale e mediatica che già subito si stanno introducendo nuovi miti, fra cui quello prossimo ad imporsi: “Se l’economia crolla, non vi preoccupate, inietteremo liquidità e tutto si risolverà!”. Il Denaro, come produttore di ricchezza, per un po’ avrà l’onore di essere celebrato come fonte inesauribile di sviluppo, di nuovo valore, di una nuova grande espansione economica, che ci porterà felicemente ad un nuovo secolo di grandi consumi, di distruzione dei mari, di inquinamento dei cieli, di povertà relegata nel Terzo Mondo, di vita virtuale per le classi medie mondiali... Grazie a Keynes e ad alcuni suoi allievi, grazie al coraggio della FED e delle sue emulatrici, grazie alla fermezza magari di un governo veramente dirigista e dei suoi legionari, finalmente anche questa volta il capitalismo sarà salvo...da se stesso. Credere che attraverso iniezioni monetarie di vario tipo il nostro amato benessere occidentale, che ben c’incanta con le sue sirene, si difenderà, è come credere però che da un tumore una persona possa guarire con una pomata per i calli. O che le statistiche sui decessi della Covid forniti dai media siano credibili. Ma Madama Speranza ha deciso ora di andar a braccetto con Madama Liquidità e a noi non resta che prenderne atto.
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Stati Generali: fuffa al veleno
di Fulvio Grimaldi
Colao and friends: governo e parlamento sostituiti da Microsoft e Vodafone. Col digitale verso la transumanità
“La sicurezza del Potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini” (Leonardo Sciascia)
Cari amici e interlocutori, stavolta vado davvero per le lunghe. Più del solito. Ma fate finta che sia un livre de chevet, libro da comodino, come li chiamava Montaigne, da prendere a pizzichi e bocconi. Come cinque pezzi corti. Anche perché per un mese e passa non ce ne saranno altri. Non busserò a casa vostra. Sto in montagna, a rompere le palle alle marmotte.
Stati Generali per corona(virusa)re il nostro futuro
Negli Usa ormai si manifesta con crescente spudoratezza quel governo parallelo, chiamato “Deep State”, nella cui militanza confluiscono i falchi repubblicani e, ben più guerrafondai, quelli democratici. Stato profondo ben rappresentato nella serie “Saw”, formato da elementi non eletti ma più potenti degli eletti e che tiene sulla graticola, ultimamente con le sommosse, l’eterodosso Donald Trump, sebbene pure lui prodotto dallo (s)fascio statunitense. Dal momento che l’Italia, da sempre, è l’apprendista stregone minore su cui sperimentare il peggio del colonialcapitalismo, anche qui abbiamo un governicchio in vetrina, parzialmente eletto, e un Deep State per niente eletto, (in)visibile nelle varie task forces, dietro al banco. Ora questo insieme metastatico deve essere davvero bravo per fare avere ragione a gente come l’opposizione che oggi completa il nostro degrado. Eppure ci riesce quando a una conventicola formatasi alle fonti del Po, nel mausoleo di Predappio e nel ventre di Cosa Nostra ha potuto legittimamente dire “non c’è più democrazia”, o “sul Coronavirus ci marciate”, o “è tornata la Troika”.
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Femminismo neoliberale
di Salvatore Bravo
Deumanizzare
Il post-modernismo con la fine della ragione oggettiva ha comportato anche il post-femminismo. Quest’ultimo è sostenuto in modo trasversale da uomini e donne, non è impossibile imbattersi in affermazioni di tal genere: “L’universo trabocca di inutilità e gli uomini rientreranno a buon titolo nella categoria del superfluo”, tale dichiarazione è nella premessa del libro di Telmo Pievani “Maschio inutile”. Testi di questo genere devono essere inseriti nel contesto neo-liberista che ha bisogno di sostenere la lotta tra femmine e maschi, mostrando quanto le femmine per natura siano migliori del maschio, si ipotizza “per cause evoluzionistiche il suo superamento”. La lotta socio-economica è trasferita nella natura, dalla quale si evince che la femmina vince. Essere umani e natura sono posti sulla stessa linea. Il nichilismo esemplifica e deconcettualizza, utilizza messaggi-slogan, nello stile del “marketing” per raggiungere chiunque: un messaggio semplice non esige mediazione del pensiero, per cui facilmente diviene “automatismo linguistico” a cui corrisponde la pratica di comportamenti rafforzati dal consenso mediatico. Bellum omnium contra omnes è la verità del capitale. La natura è speculare al genere umano, entrambi sono mossi dalla guerra, la quale è la verità degli animali non umani come degli esseri umani. Operazione ideologica in senso marxiano, il capitale assolda le scienze per confermare i principi su cui si fonda la visione neo-liberista. Le complicità del mondo accademico sono palesi, ma vengono taciute. Mondo accademico, media, economia e politica sono un unico asse, tra di essi vi è continuità ideologica, pertanto il risultato finale è la conferma ripetuta dell’ideologia neo-liberale.
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I gilet gialli e l'invenzione del futuro
di Pierre Dardot e Christian Laval
La rivolta dei Gilets Jaunes è stata interpretata e analizzata molte volte in molti modi, a volte del tutto contrastanti. E’ stata largamente considerata, dalla destra specialmente e dalla maggior parte dei media dominanti, come un movimento quasi fascista, un forma di delinquenza collettiva incontrollabile, in una parola una minaccia alla democrazia e alle istituzioni esistenti.
Ma anche tra i generalmente simpatizzanti con i movimenti sociali, tra cui molti attivisti della sinistra, sono rimaste molto forti riserve nei confronti di nuove forme di azione politica e diffidenza riguardo a persone che quadrano politicamente, a volte inducendo anche a rifiutare sostegno a quelle che considerano lotte “impure”, “confuse” o “inaffidabili”. Che i Gilets Jaunes ispirino tali reazioni mostra la misura in cui il movimento ha sorpreso, imbarazzato, disorientato e persino preoccupato le persone. I Gilets Jaunes, in altre parole, sono un movimento che ha scosso gli schemi prestabiliti e i criteri di una “sociologia politica” ben consolidata.
Il principale fattore che ha scatenato le proteste, l’”imposta sul carbonio” sui carburanti, ha indotto alcuni a pensare che i Gilets Jaunes siano virulenti antiambientalisti che difendono il diritto degli automobilisti di inquinare il pianeta. Una cosa è certa: questa rivolta popolare è un evento politico che è significativo, considerando quanto a lungo è durato, quanto diffusamente è stato appoggiato dalla popolazione, quanto ha provocato e continua a provocare effetti sia politici sia sociali.
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Le classi sociali in Europa e in Italia
di Domenico Moro
La teoria delle classi sociali nel marxismo
L’analisi delle classi sociali è pochissimo trattata. Ciò non può stupire da parte dell’economia e della sociologia mainstream, perché l’interesse a indagare la composizione di classe è considerato poco utile e soprattutto non funzionale. Il pensiero dominante tende, quindi, a rimuovere le classi sociali o a considerare la suddivisione della popolazione in classi solamente in base al livello di reddito o allo status. Sebbene il reddito percepito sia importante ai fini di una analisi delle classi sociali, una analisi delle stesse non può partire da quello, bensì dalla posizione occupata nei rapporti di produzione del capitalismo. Ciò che, invece, stupisce maggiormente è la scarsa considerazione di una analisi della composizione di classe fra la sinistra radicale. In questo caso, il limite è dovuto al frequente concentrarsi sull’immediato, che si traduce in politicismo e tatticismo elettoralista.
L’analisi della composizione di classe è, invece, necessaria se vogliamo operare in senso strategico, cioè per modificare sulla lunga distanza i rapporti di forza fra le classi e se si vuole radicarsi politicamente negli strati della popolazione che sono più interessati al cambiamento sociale.
L’analisi della composizione di classe fa parte di quel processo analitico di discesa dal modello astratto – rappresentato dal modo di produzione – alla formazione economico-sociale, che rappresenta la concretizzazione storica e spaziale dei rapporti di produzione capitalistici.
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Il piano integrato Colao-Bianchi e la riduzione della scuola a forza produttiva
di Elena Fabrizio
L’enfasi che il dibattito sulla didattica a distanza ha suscitato a livello ministeriale e tra gli organi e gli enti, senza trascurare la longa manus degli altoparlanti mediatici, che da anni premono per una trasformazione della scuola in tassello della più ampia filiera produttiva, doveva suonare subito sospetta, non fosse altro perché palesemente orientata a spostare i problemi della formazione culturale degli studenti sul bisogno di colmare il ritardo e il gap di competenze digitali, intese come esclusivo elemento di giudizio della qualità della didattica scolastica.
Un’enfasi condita dal discorso emotivamente pregnante e propagandistico che fa delle diseguaglianze economiche e sociali, pervenute alla coscienza dei nostri governanti paradossalmente proprio nella fase dell’emergenza sanitaria nei soli termini del digital divide, l’espediente sul quale fare leva per «sfruttare la crisi» dirottando la scuola in maniera ancora più incisiva sul modello impresa e assumendola quale parte attiva della ripresa economica del paese. Nessun bilancio politico di vent’anni di autonomia scolastica e delle politiche antisociali delle quali essa è espressione, nessuna iniziativa per riparare all’emergenza culturale ed educativa che si vuole strumentalmente appiattire sul possesso delle competenze digitali lette nell’ottica esclusiva di un mercato del lavoro in cerca di manodopera salariata.
La duplice direzione amministrativa che il Governo vorrebbe imprimere all’istruzione, per assecondarla ai desiderata delle classi dominanti, emerge chiaramente dalla combinazione delle iniziative proposte dal Comitato di esperti in materia economica e sociale per il rilancio "Italia 2020-2022" e dal Comitato di esperti del Ministero dell’Istruzione, rispettivamente coordinati da Vittorio Colao e da Patrizio Bianchi.
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Intervista al prof. Andrea Zhok
di Bollettino Culturale
Andrea Zhok (Trieste, 1967) si è formato studiando e lavorando presso le università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. È attualmente professore di Filosofia Morale, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Tra la sue pubblicazioni monografiche ricordiamo, Il concetto di valore: dall’etica all’economia (Mimesis, 2002), Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006), Identità della persona e senso dell’esistenza (Meltemi, 2018), e Critica della ragione liberale (Meltemi, 2019).
* * * *
1. Zhok, è famoso per essere un feroce critico del pensiero liberale e della sua concezione del mondo. La proposta d’organizzazione della società che difende mi verrebbe da definire "comunitarista", in contrapposizione al pensiero liberale che ha come sua logica conclusione un mondo in cui ognuno ha piena libertà di vendere e comprare qualsiasi cosa. Contro questa visione del mondo contrappone il raggiungimento di una nuova ragione comune. Ha legami con il pensiero comunitario questa sua critica? In quale soggetto storico vede incarnarsi la possibilità di ergersi a soggetto antagonista nella fase attuale capitalismo e di porsi come costruttore di questa altra società?
1. Accetto volentieri l’etichetta di ‘comunitarista’, ma vorrei qualificare la ‘ferocia’ della mia critica al pensiero liberale. Come cerco di spiegare nel lavoro che ho dedicato al tema, il problema della ‘ragione liberale’ è di essere una teoria politica contingente, adatta ad un periodo storico, che è assurta invece a visione del mondo, con ingiustificabili pretese antropologiche ed etiche (e persino ontologiche).
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L’attualità della lezione civile di Rodotà
di Geminello Preterossi
Rodotà aveva una concezione esigente di democrazia: pur essendo consapevole dell’esistenza di vincoli realistici e dell’impossibilità di superare integralmente lo scarto tra ideale e reale, pensava che la spinta emancipativa insita nella promessa di democrazia non dovesse essere mai svilita, compressa. Pena una vera e propria crisi di legittimazione, lo svuotamento di senso della forma democratica stessa. Da questa “forma” vitale, esigente derivavano precisi corollari. Uno, ad esempio: per Rodotà era un principio irrinunciabile l’incompatibilità tra democrazia e arcana imperii. In quanto esercizio del potere in pubblico orientato all’ideale della trasparenza, essa non può conoscere accomodamenti con poteri occulti e smodati, manipolazione dell’informazione, plebiscitarismi, personalizzazioni ingannevoli. Rodotà ha tenuto ferma questa barra, a differenza di altri.
Per Rodotà la Costituzione è fondamentalmente un grande progetto politico e sociale aperto, plurale, che ha in sé tanto l’obiettivo prioritario di coinvolgere tutto il demos nella cosa pubblica, superando antiche e nuove cause di esclusione, quanto la previsione di un limite agli eccessi delle maggioranze, e di ogni potere che pretenda di agire incontrollato. Si tratta di un progetto di società che serve a dare sostanza alla democrazia, altrimenti questa diventa una forma vuota. Prendere sul serio l’articolo 3 della Costituzione (e gli altri connessi) significa precisamente realizzare effettivamente la forma di vita democratica, creare le condizioni perché la democrazia sia una forma di vita e non semplicemente un sistema di governo.
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Un vincolo interno per il vincolo esterno
di Paolo Peluffo
La crisi aumenterà terribilmente il peso del debito, condizionando le nostre scelte strategiche. Carli, Ciampi e la transizione dal controllo geoeconomico americano a quello europeo. Le inutili prediche di Caffè. La decisiva quanto trascurata questione demografica
Devo ringraziare Emidio Diodato per aver avviato il suo viaggio sul vincolo esterno, ovvero sulle ragioni della debolezza italiana, partendo dalla teorizzazione di quel vincolo proposto da Guido Carli nelle memorie che scrisse con me poco prima di morire 1, nei primi mesi del 1993 2. Diversi autori si sono concentrati su quella dichiarazione 3, e sul tragico pessimismo che la innervava, per dimostrare la consapevolezza di Carli, e forse non solo sua, del passo terribile che l’Italia stava per compiere con l’adesione alla moneta unica. Anzi, per esprimersi più correttamente, con l’adesione a un trattato sulla base del quale avrebbe potuto fare quel passo, non farlo, o farlo in un momento successivo agli altri contraenti, ma che costituiva una impalcatura per tutti i paesi europei basata su un vincolo esterno che si presentava irreversibile.
Tra l’altro quel passo del libro Carli lo aveva scritto prima del resto, in un dattiloscritto che aveva denominato «asterischi» e che mi aveva consegnato nei primi giorni della nostra collaborazione, anche perché derivava da un precedente volumetto di testi raccolti. Escludo quindi che fosse un moto dell’animo sfuggito per caso. Ho avuto tra le mani la copia di una raccolta con i suoi discorsi da parlamentare 4 che regalò a Carlo Azeglio Ciampi nel dicembre 1988 con questa dedica: «A Carlo Ciampi, il governatore che porterà la Banca d’Italia a integrarsi nella Banca centrale europea». La data è importante perché significa che già nel dicembre 1988 l’obiettivo di costruire un sistema europeo di banche centrali era ben definito.
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Trump e l’antimperialismo
di redazione “l’AntiDiplomatico”
Con questo editoriale inizia la collaborazione della redazione de “l’AntiDiplomatico” con “Cumpanis”
Ribadire che l’attuale inquilino della Casa Bianca, al pari dei suoi predecessori, rappresenti semplicemente gli interessi del tracotante imperialismo nordamericano può apparire un esercizio inutile, superfluo, non necessario.
Eppure, non sono pochi i sostenitori di una certa vulgata che vuole Donald Trump come un presidente arrivato in quel di Washington sulla scorta di un grande supporto popolare, contro la volontà delle élite e del cosiddetto deep state. Per questo l’onda tellurica delle forti proteste provocata dal brutale omicidio del cittadino afroamericano George Floyd, avvenuto per mano della polizia a Minneapolis, sarebbe una sorta di rivoluzione colorata nella patria delle rivoluzioni colorate organizzate all’estero, per disarcionare il tycoon newyorchese.
Ad onor del vero una certa discontinuità c’è stata. Ma questa è ravvisabile esclusivamente nel campo semantico. Di fatti concreti nemmeno l’ombra. Donald Trump si è limitato a vuoti proclami. L’ultimo esempio lo abbiamo avuto in occasione del discorso di fine anno, tenuto dal presidente, presso l’accademia militare di West Point. Davanti agli allievi Trump ha dichiarato: «Il compito del soldato statunitense non è ricostruire le nazioni straniere, ma difendere e difendere con forza la nostra nazione dai nemici stranieri. Stiamo concludendo l'era delle guerre senza fine», e poi: «Non siamo il poliziotto del mondo».
A questo punto una domanda sorge quasi spontanea: gli Stati Uniti possono davvero smettere di fare il poliziotto del mondo? La risposta è no. Glielo impedisce la natura egemonica degli stessi Stati Uniti. Per mantenere l’egemonia, gli Stati Uniti devono espandere la propria influenza all'estero.
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Marx ai tempi di Marx
di Nico Maccentelli
Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro
Il pregio di questo breve saggio di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una parte quello di essere un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da quelle interpretazioni spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi filoni politici. Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella pletora di “eterne verità” estrapolate dai classici, dalle conclusioni politiche postume, che hanno il solo scopo di legittimare determinati eventi politici e scelte dei partiti e delle organizzazioni marxiste nel corso di oltre 150 anni di storia del movimento comunista.
Dall’altra Marx e il conflitto è una sintesi organica dell’impianto teorico marxiano nel suo divenire, dai Manoscritti economici e filosofici del 1844 fino al Das Kapital. Costituisce una cassetta degli attrezzi per chi intenda riprendere in modo proficuo, ossia rivoluzionario e anticapitalista, l’antagonismo di classe nell’epoca storica odierna, quando il comunismo sembra finito nel binario morto della storia o sopito dentro il mare magnum di un pensiero unico che ha espunto da ogni contesto la sua narrazione attraverso le solite vulgate a cui siamo fin troppo abituati, imponendole nell’intera koinè come un mantra, riducendo il comunismo come esperienza (che poi è il socialismo) a crimine o la sua possibilità di giustizia sociale a utopia.
Eppure le rivolte popolari che stanno attraversando il mondo, che esprimono quanto la miseria e l’alienazione del capitalismo sulle masse stia arrivando a punti di insopportabilità e sofferenza, rendono il comunismo un processo storico-sociale immanente, sempre possibile.
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Dalla produzione alla riproduzione e ritorno: il socialismo di Nancy Fraser e i suoi problemi
di Giorgio Cesarale
Nel dibattito contemporaneo sul socialismo, una posizione di particolare rilievo è quella di Nancy Fraser. Della sua proposta vanno tuttavia valutati sia i meriti sia i problemi
Il discorso di Nancy Fraser sul socialismo, esposto in Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?, ha il merito di essere storicamente situato e teoricamente strutturato. Esso è storicamente situato, perché, fin dall'incipit, se ne dichiara l'appartenenza a un preciso contesto politico, quello determinato, dopo il great crash del 2007-2008, dall'impetuosa crescita del movimento socialista americano, non solo nella versione di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez (l'ala sinistra del Partito Democratico), ma anche in quella dei Democratic Socialists of America (attualmente, la più grande organizzazione socialista indipendente negli USA). I giorni in cui scriviamo queste note vedono poi tutte le strade americane, di campagna e di città, al nord come al sud, a ovest come a est del Paese, percorse da uno straripante movimento sociale e politico, da una ribellione antirazzista che presenta tratti insurrezionali, alla quale si contrappone una reazione sorda, un gangsterismo clownesco, ma torvo, il quale si sveste dei suoi panni “neopopulisti”, per assumere quelli, tristemente più noti, dell'avventurismo fascista. Quest'ultimo sviluppo, tutto da seguire nei prossimi mesi perché foriero di ulteriori e imprevedibili sorprese, illumina, da un altro lato, l'importanza teorica del discorso di Fraser sul socialismo[1]. Esso, infatti, riposa sul ripensamento della “classica” separazione, soprattutto interna a un certo marxismo “ortodosso”, secondo- e terzo-internazionalistico, fra la sfera della produzione e quella della riproduzione, e cioè, più esattamente, fra l'ambito di ciò che Marx ha chiamato “processo di produzione immediato”[2] e le condizioni di riproduzione dei rapporti sociali che rendono possibile quest'ultimo.
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Quanto Marx nel concetto d’egemonia, leggere Gramsci oggi
di Marcello Mustè
La vicenda delle interpretazioni di Gramsci è attraversata da un motivo ricorrente, quasi sotterraneo, che ha assunto diverse direzioni (ora “di destra”, ora “di sinistra”) e che ha spesso tentato di affermare una pretesa estraneità del pensatore sardo alla tradizione del marxismo teorico, la difformità dal pensiero di Marx, il carattere “sovrastrutturalista” della sua elaborazione, di teorico della società civile piuttosto che della struttura economica e dello Stato politico.
“Teorico della società civile”
La circolazione di tale tendenza è antica, risale ai primi avversari politici di Gramsci e precede la stessa edizione degli scritti carcerari, trovandosi, fra il 1944 e il 1945, in alcuni articoli di Leo Valiani e Franco Momigliano, poi nel più famoso articolo di Ernesto Buonaiuti (Nord contro Sud), che meritò una replica di Togliatti su “Rinascita”, dove Gramsci era appunto definito «non marxista». A partire dalla relazione che Norberto Bobbio tenne a Cagliari nel 1967 in occasione del secondo convegno per il decennale della morte (Gramsci e la concezione della società civile), questa linea interpretativa si è diffusa in maniera significativa, arrivando spesso a costituire una premessa tacita nella lettura dei Quaderni del carcere, sia per dimostrare la lontananza di Gramsci dalla politica culturale dei comunisti sia per argomentare, al contrario, i residui totalitari del suo pensiero, la mai conseguita conciliazione con la democrazia.
Il libro che Perry Anderson dedicò alle Antinomies of Antonio Gramsci era ancora ispirato dalle analisi di Bobbio, anche se le conclusioni (a cominciare da una diversa lettura di Marx) andavano in una direzione diversa.
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Stati Uniti, la crisi è epocale
di Bruno Cartosio
Le comunità nere si sono ribellate spesso, dagli anni Sessanta fino a tutto il nuovo millennio, fino a ora. Ma questa volta è diverso, la sollevazione non è mai stata così generale, così duratura, così politicamente forte e propositiva
Contingenze e persistenze. Tra le prime, la peggiore delle pandemie, in coincidenza con la peggiore amministrazione presidenziale delle ultime generazioni. Tra le seconde, mezzo secolo di economia politica poco meno che criminale e di dominio da parte di un piccolo ceto di plutocrati. Al fondo, una crisi sociale, in cui la continuità plurisecolare del razzismo contro gli afroamericani ha fatto corto circuito con i processi pluridecennali della sottrazione di reddito, servizi, dignità a danno degli strati medio-bassi e poveri della popolazione. I fatti delle cronache di queste ultime settimane negli Stati Uniti sono stati ambivalenti: terribili per i reiterati omicidi polizieschi di cittadini afroamericani e straordinari per l’immediatezza della risposta nera e le grandi manifestazioni di solidarietà interrazziale, intergenerazionale, intersezionale (e internazionale) che l’hanno accompagnata finora. Il movimento afroamericano è diventato una sollevazione generale contro il razzismo, l’ingiustizia sociale, Trump. Sottraiamo dunque la cronaca dalle considerazioni che seguono per cercare di fornire qualche elemento che ne spieghi le radici e le ragioni.
Supponiamo di prendere l’ormai famoso, apodittico giudizio espresso una decina d’anni fa dal finanziere Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo: la mia classe ha fatto la lotta di classe e l’ha vinta. Le pezze d’appoggio sono tutte implicite. Nella lingua del vincitore sono date per acquisite, note, tanto evidenti da rendere indiscutibile quel giudizio. Anche gli sconfitti potrebbero essere altrettanto sintetici. Le prove materiali della sconfitta operaia al termine di un secolo di lotta di classe sono altrettanto note, sono le stesse. Sono sotto gli occhi di tutti, stanno nella distruzione delle grandi città industriali cresciute con la seconda rivoluzione industriale, nella disgregazione delle comunità di lavoratori che le hanno abitate e rese grandi, nell’approfondimento drammatico delle disuguaglianze sociali.
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“La disinformazione felice”
di Carlo Magnani
Una interpretazione culturale delle fake news a proposito di un libro di Fabio Paglieri
“Cercava la verità e quando la trovò ci rimase male, era orribile, deserta, ci faceva freddo”. (E. Flaiano)
1. Fake news e voti poco graditi
Il dibattito pubblico ha da tempo individuato nelle fake news circolanti sulla Rete un facile bersaglio attorno al quale consolidare un pensiero conformistico e sostanzialmente ricco di banalità. Il mainstream giornalistico e politico è mobilitato più o meno dal 2016 contro la disinformazione che caratterizzerebbe la comunicazione online. L’Unione europea, tramite la Commissione, ha istituito una task force di esperti che di concerto con le grandi piattaforme digitali, mediante l’adozione di protocolli che assegnano rilevanti funzioni proprio ai grandi operatori del web, mira ad azioni di monitoraggio e di controllo dei contenuti che vengono diffusi dagli utenti. Francia e Germania hanno approvato leggi che disciplinano, rispettivamente, la comunicazione politica online durante le campagne elettorali e la rimozione immediata di contenuti dalla Rete qualora siano valutati illeciti. Attualmente nel Parlamento italiano riposano quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare che mirano ad istituire, con varie articolazioni, una Commissione parlamentare sulla informazione tramite Internet. E si potrebbe continuare.
A volere leggere in chiave squisitamente politica l’allarme generale sulle fake news, si potrebbe notare che nel 2016 si verificano tre eventi elettorali che rovesciano tanto le previsioni quanto le aspettative delle élite economico-politico dominanti: il referendum Brexit, l’elezione di Trump e infine il referendum costituzionale italiano. Lo sconcerto planetario degli sconfitti è tale che subito parte la caccia alle streghe: i terribili hacker russi in primo luogo, poi i vari untorelli del web che avrebbero traviato intere popolazioni, le quali solo due anni prima erano invece un esempio specchiato di saggezza (come ad esempio il corpo elettorale nostrano delle europee del 2014).
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Controcondotte moltitudinarie, ripoliticizzazione e tumulti
di Augusto Illuminati
Contropotere si dice in moti modi, pollakôs légetai. Di almeno uno di questi significati – una fase transitoria ma non istantanea in cui ci fronteggiano due poteri in conflitto e quasi in equilibrio, insomma un dualismo di potere – oggi non abbiamo traccia. All’interno di un esteso ciclo mondiale di lotte abbiamo piuttosto passaggi di contropotere locale, vigenza di controcondotte (per usare un termine più modesto) che si addensano in costellazioni di resistenza e pratiche alternative, prove di contro-egemonia. Possiamo inoltre chiamare controcondotte le forme di vita che si sganciano e fanno attrito rispetto ai modelli imposti dal mercato e dallo stato. Il contropotere si presenta oggi come un qualcosa di plurale, disseminato e virtuale, una potenza non compiutamente realizzata e forse destinata all’incompiutezza che è propria di ogni dúnamis nel passaggio all’atto.
Detto in termini machiavelliani: l’umore del popolo di non essere comandato né oppresso, che incessantemente lo contrappone ai potenti che vogliono comandarlo e opprimerlo, è umore di contropotere. Però, intendiamoci, il popolo o la moltitudine (quale che ne sia il contenuto) non è un soggetto come essenza unificata e unificante e “non è” (ovvero non si identifica) con quell’umore ribelle, ma “lo ha” come un oggetto esterno sia pure affine, se non altro per la posizione occupata dal popolo.
Se x è y, il predicato inerisce al soggetto e ne definisce almeno in parte l’essenza: il ghiaccio è freddo oppure solido. Se x ha y, se Carlo ha un corpo, l’oggetto non concorre a stabilire l’essenza del soggetto, che è più complesso e sussiste anche in caso di mutilazione. Fra i due termini c’è distacco, possibilità di uso o di non uso, e soprattutto di usi diversi. Avere la parola non è prendere la parola o dare la parola.
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La “valle della gomma”, o l’inferno lombardo
di Redazione Contropiano
Quando si dice che “solo le imprese creano lavoro”.
Quando gli industriali assicurano che nei loro stabilimenti è assicurata “la tutela della salute”.
Quando ti dicono che la prima cosa da fare è “sostenere le imprese”…
In questo e altri mille casi del bombardamento mediatico quotidiano bisogna leggere inchieste come questa, condividerle, diffonderle, seminare schifo, sconcerto, destabilizzare le coscienze avvelenate dalla “narrazione” mainstream.
C’è tutto quel che serve per conoscere il mondo produttivo dei contoterzisti, che vivono spremendo schiavi e si considerano “l’élite del Paese”, gli “unici che sanno quel che bisogna fare per modernizzare”.
Questo tipo di imprese sono la “base elettorale” di Assolombarda e di Confindustria, quelle che hanno scelto – su spinta dei big locali come Tenaris e Brembo (la famiglia Rocca e Bombassei) – il nuovo presidente Carlo Bonomi. Quello che un giorno sì e l’altro pure tempesta da ogni media sulla necessità di abolire qualsiasi vincolo (normativo, regolamentare, contrattuale, fiscale, ecc) al libero strapotere dell’impresa.
Quello che auspica l’eliminazione del potere legislativo (proprio del Parlamento e, al limite, del governo, che già sarebbe una forzatura anti-democratica) a favore di una “contrattazione pubblico-privato” per arrivare a definire le leggi (per loro natura erga omnes, e quindi di interesse generale, non particolare).
Questo inferno sulla terra è stato attraversato da due ottimi “investigatori”, che hanno poi pubblicato il proprio lavoro su Gli stati generali (niente a che vedere con l’iniziativa di Giuseppe Conte, ovviamente).
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Il difficile "socialismo" e le sue inaspettate ricomparse
di Mario Reale
Nancy Fraser: Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo, Castelvecchi, 2020
1) Lo squillante inizio del contributo di Nancy Fraser suona: «‘Socialism’ is back». L’affermazione, pur rivendicata con orgoglio, è subito sottoposta a una radicale e straniante domanda: che vuol dire esattamente oggi «socialismo»? Si può lottare per qualcosa il cui significato è ancora indefinito? Giusto partire da ciò che c’è (o sembra esserci), dopo decenni in cui sembrava impronunciabile persino la parola «capitalismo»; ma la realtà sembra sfuggirci di mano non appena ci poniamo questa domanda, quasi si trattasse di un fenomeno presente, e tuttavia acefalo, privo ancora di un volto sicuro. L’unico modo in cui si può sciogliere questa difficoltà, come per un verso fa la stessa Fraser, consiste nel riconoscere che i tradizionali contenuti assegnati alla parola – poniamo il controllo pubblico (o, persino, statuale) di tutti i mezzi di produzione, l’estinzione dello Stato, ecc. – sono ormai insufficienti e a volte improbabili, di fronte alle novità che il capitalismo nel frattempo ha saputo mettere in campo. Sovraccarichi di anni e un po’ ingenui o polverosi, essi infatti oscurano, anziché illuminare, l’azione pratica dei socialisti: rimane sempre una «mala contentezza» rispetto a qualcosa che potrebbe pur sempre rappresentare una tradizione da consegnare ormai ai secoli XIX e XX. Di qui il senso di avere a che fare con mete che, se pur oggi sembrano muoversi nella direzione giusta e ci fanno vincere, domani potrebbero segnare il terreno delle nostre sconfitte. Lo stesso caso del «socialismo» in Cina, un tema da esaminare con cura, comprova, mentre se ne distanzia, il nostro assunto.
2) Da dove si comincerà per determinare meglio una parola-concetto così sfuggente come quella di «socialismo»? La via maestra sembrerebbe quella di ripercorrerne i sensi filologico-storici, magari risalendo al Manifesto del partito comunista.
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Nuova Direzione?
di Moreno Pasquinelli
I parte
«Colui che attende una rivoluzione sociale “pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi pareciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori». V. I. Lenin
Nuova Direzione è un’associazione politica verso la quale sentiamo forti affinità ideali e programmatiche, e verso i cui compagni nutriamo sincera stima. Al suo interno è in corso un dibattito che, al netto di certi arzigogoli teorici, solleva la questione se sia ancora possibile una fuoriuscita dal capitalismo e, se sì, con quali forze e per quali vie è possibile attuarla.
Prendiamo spunto dall’intervento di Diego Melegari e Faabrizio Capoccetti — I “bottegai”, l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità – e della risposta di Alessandro Visalli – Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere.
Due interventi ad alta densità teorica, forse anche troppo, la qual cosa mette in bella mostra quello che a noi pare un brutto difetto di Nuova Direzione, l’intellettualismo. Entrambi risultano inaccessibili, non diciamo al largo pubblico, ma anche a militanti che non abbiano avuto il privilegio di aver studiato e digerito il complicato e spesso cervellotico dibattito teorico politico che, dopo il crollo del movimento comunista internazionale, ha coinvolto l’intellighentia marxista internazionale. Tuttavia, posta la preliminare opera di decriptazione, i due contributi sono degni di attenzione poiché, oltre a tirare in ballo dirimenti questioni strategiche e tattiche, ci fanno vedere la possibile linea di frattura dell’associazione.
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Il capitalismo alla rovescia di Pietro Ichino
di coniarerivolta
Raramente la stampa quotidiana offre spunti di respiro così ampio da riuscire a rappresentare una visione complessiva del mondo in poche righe. L’intervista rilasciata da Pietro Ichino al quotidiano Libero pochi giorni fa ha questo grande merito. Tuttavia il vero e impareggiabile merito di Ichino in questa e in altre esternazioni è quello di fornire una versione pura e senza fronzoli dell’ideologia liberista, aiutando così il lettore a comprendere quale sia l’obiettivo ultimo di società immaginato dai protagonisti della lotta martellante condotta contro i lavoratori da parte di chi ne vuole l’eterno sfruttamento e da parte di chi, consapevolmente o meno, di questo eterno sfruttamento costruisce le impalcature, attraverso presunte giustificazioni teoriche.
L’intervista è un botta e risposta veloce su temi ampi, tutti incentrati sulla crisi economica attuale e sulle misure adottate dal Governo italiano per farvi fronte.
Al margine di aspetti di minore importanza, sono almeno cinque i temi economici cruciali affrontati da Ichino (e altrettante le relative soluzioni prospettate, che costituiscono l’armamentario classico del liberismo oltranzista): 1) la libertà di licenziamento vista come volano per l’occupazione; 2) la causa della disoccupazione rintracciata nella formazione inadeguata dei lavoratori; 3) la convinzione che lo Stato debba ritrarsi dall’economia e non sia capace di “fare l’imprenditore”; 4) l’idea che il sindacato debba integrarsi nell’impresa condividendone i destini; 5) Il mito del lavoro agile a distanza come elemento di trasformazione della natura dei rapporti di lavoro dipendenti. Per non citare altre postille qua e là gettate al vento nell’intervista senza nemmeno la fatica di un’argomentazione minima: inevitabilità di una nuova riforma pensionistica restrittiva; reddito di cittadinanza come disincentivo al lavoro; le tasse come nemico dell’economia; i pubblici dipendenti visti pregiudizialmente come scansafatiche.
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Mentre le stelle (russe e cinesi) stanno a guardare...
di Fulvio Grimaldi
Il sultano Erdogan si riprende ciò che gli arabi gli avevano tolto... e, grazie a Giulio Regeni e ai suoi sponsor, anche di più
“Viva gli sciagurati (per lo sciagurato OMS) napoletani” (Anonimo fiorentino)
Le squadre in partita
Da una parte il subimpero del sultano ottomano neo-islamista, padrino di tutto il terroristame che imperversa in Medioriente e Africa, con alle spalle l’impero tenuto in piedi dal Deep State statunitense con il corredo dei “progressisti” imperiali di Soros, di nascosto Israele e, ultimo arrivato, paradossalmente, l’Iran del “moderato” Rouhani, suo rivale in Siria e Iraq.
Dall’altra l’Egitto, maggiore potenza araba, Arabia Saudita, Emirati, il pezzo più significativo del mondo arabo, Bengasi e gran parte della Libia liberata dai jihadisti, la Russia che traccheggia, la Cina che simpatizza da molto lontano. Queste le forze che si fronteggiano oggi nella regione. Il che è individuabile al semplice osservare le mosse dei due opposti schieramenti, ma mistificato e reso ingarbugliato dai servizi mediatici offerti ai soliti attori preferiti.
Regeni, la leva con cui sollevare il Medioriente
Si pensi al “manifesto”, arrivato a sostenere lo psicopatico guerrafondaio Bolton contro Trump, e al suo internazionalista “de sinistra” Alberto Negri. Antiamericano da vetrina, ma anche, all’uopo, antisaudita; detesta i turchi in quanto sterminatori di curdi (dichiarati “vincitori dell’Isis” al posto dei siriani, ed effettivi ascari antisiriani degli USA)), ma oggi come oggi, detesta di più al Sisi, da amico dei russi capovolto in “cocco di Trump”. Il suo condirettore, Tommaso Di Francesco, autonominatosi, nelle more dei giudici di Roma e del Cairo, PM, giudice e, domani, boia del presidente egiziano, dichiara Giulio Regeni “barbaramente fatto uccidere dai suoi servizi segreti”.
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Comunisti e sinistra di classe. Che fine hanno fatto in tempi di pandemia?
di Redazione
La redazione di ‘Ragioni e Conflitti’ ha posto quattro interrogativi all’attenzione di Alessio Arena (Fronte Popolare), Franco Bartolomei (Risorgimento Socialista), Adriana Bernardeschi (La Città Futura), Mauro Casadio (Rete dei Comunisti), Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo), Marco Pondrelli (Marx21), Marco Rizzo (Partito Comunista), Mauro Alboresi (Partito Comunista Italiano). Segnaliamo che il segretario del Partito della Rifondazione Comunista, benché da noi sollecitato a partecipare al presente forum, ha ritenuto di non fornire alcun concreto riscontro alla nostra richiesta: un vero peccato, un’occasione di confronto mancata. Ecco di seguito gli interrogativi con le relative risposte, la cui lunghezza varia entro lo spazio di una pagina word ciascuna, come raccomandato dalla redazione.
* * * *
1. Pur in un dramma per molti versi imprevedibile, l’emergenza pandemica dovrebbe aver dato a molti la possibilità di vedere che il re è nudo. Da una parte, un Paese come la Cina che addirittura offre materialmente aiuto al più potente Paese capitalistico; dall’altra parte, milioni di disoccupati privi di assistenza sanitaria e una società impegnata a tagliare o privatizzare servizi pubblici essenziali, quindi sciaguratamente inadeguata per rispondere a impellenti esigenze di sicurezza collettiva. Non pensi che ciò offra importanti spunti per una battaglia ideologica, essendo l’occasione per far riflettere sulle caratteristiche e le storture di una determinata organizzazione sociale?
ALESSIO ARENA. L’emergenza sanitaria ha reso evidenti diversi punti di collasso del modello di sviluppo attualmente prevalente nel mondo. Negli Stati Uniti, da sempre in prima linea nell’applicazione ortodossa del modello capitalista, il dramma umano è incalcolabile, così come lo è il contraccolpo economico.
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A proposito di Smith, Ricardo, Marx e anche Sraffa
Commento pirotecnico al libro di Riccardo Bellofiore
di Giorgio Gattei
1. Ho religiosamente compitato la collazione (rimaneggiata) di scritti che Riccardo Bellofiore ha testé dato alle stampe (R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020) e qui mi provo a recensirla. Per me è stato come compiere un viaggio a ritroso nella mia stessa vicenda intellettuale davanti alla evidenza di un identico sentire (Riccardo, come al solito, non concorderà, ma a me non importa affatto se lui non percepisce, perché io invece sì). E dire che non ci siamo mai frequentati veramente (lui a Torino e a Bergamo, io stabilmente a Bologna), sebbene entrambi avessimo da sempre condiviso l’idea generale che non c’è modo di capire l’economia politica se non se ne ripassa la storia. È stata questa la grande lezione che ha dato ad entrambi Claudio Napoleoni in quelle Considerazioni sulla storia del pensiero economico, dapprima uscite sulla “Rivista trimestrale” e poi raccolte nel 1970 sotto il titolo di Smith Ricardo Marx, che hanno segnato una intera generazione di giovanotti, allora aggressivi e irriverenti, che ambivano a farsi economisti. Poi tanti di loro si sono persi anche solo per «tirare quattro paghe per il lesso» (Giosuè Carducci, Davanti San Guido), ma non Riccardo che ha proprio voluto intitolare questa sua ultima pubblicazione a Smith Ricardo Marx+ Sraffa dove il quarto nome, che nel titolo di Napoleoni non c’era, non è affatto peregrino se proprio Napoleoni è stato il miglior divulgatore in Italia dell’unico libro di alta teoria che sia uscito nella seconda metà del Novecento: quella mitica Produzione di merci a mezzo di merci, per l’appunto, di Piero Sraffa.
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Theodor W. Adorno: «Aspetti del nuovo radicalismo di destra»
di Donato Salzarulo
1.-Un dono giusto al momento giusto
Per il mio compleanno Elisa, la nipote dott.ssa in filosofia, mi ha regalato un libretto di Theodor W. Adorno. Titolo: «Aspetti del nuovo radicalismo di destra» (Marsilio, 2020, pp.90).
Il dono è capitato a fagiolo, proprio nei giorni in cui l’amico Ennio, da tenace polemista, mi ha coinvolto nel dibattito seguito al deplorevole episodio della signora, vicesindaco colognese, col volto coperto da una mascherina nera e la scritta mussoliniana “Boia chi molla!”.
Nessuno, tra coloro che hanno stigmatizzato il gesto, singolo o forza politica, ha pensato ad un’imminente marcia su Roma; innegabile, però, che la pagliacciata fascista si colloca in un contesto sociale e culturale in cui il radicalismo di destra marcia quotidianamente nelle coscienze degli italiani. Infatti, stando ai sondaggi di Pagnoncelli, a fine maggio 2020, Fratelli d’Italia si vede attribuire il 16,2% dei voti e la Lega il 24,3%. Totale: 40,5%. Mica male.
Allora mi sono immerso volentieri tra le pagine del libretto a caccia di spunti per comprendere, pur con tutte le differenze del caso, la nostra situazione.
2.-Il testo è la registrazione di una conferenza
Il testo è la registrazione di una conferenza che l’illustre esponente della Scuola di Francoforte tenne il 6 aprile 1967 all’Unione degli studenti socialisti dell’Austria. Pensieri, quindi, che risalgono a più di mezzo secolo fa, in un contesto politico e sociale molto diverso da quello odierno, alla vigilia del Sessantotto. Adorno ha visto nascere nel 1964 il Partito nazionaldemocratico di Germania ed ha assistito a dei successi iniziali in alcuni parlamenti regionali e alle elezioni federali del 1965.
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