
La favola di Liquidità e Speranza
L’illusione monetarista e la teoria del denaro di Marx
di Ludovico Lamar
Il Banditore – tutti ne tessevano gli elogi fino al cielo:
“Che contegno agevole e pieno di grazia!
Che solennità, anche! Si poteva capire quanto
era saggio, solo con un’occhiata! -
aveva comprato una grande mappa che rappresentava
il mare senza la minima traccia di terra:
e la ciurma fu molto contenta di sapere che tutti
l’avrebbero potuta usare.
(Lewis Carroll, La caccia allo Snualo)
Il grande capolavoro di far credere l’attuale crisi economica dovuta al coronavirus non ha ancora esaurito la sua carica vitale e mediatica che già subito si stanno introducendo nuovi miti, fra cui quello prossimo ad imporsi: “Se l’economia crolla, non vi preoccupate, inietteremo liquidità e tutto si risolverà!”. Il Denaro, come produttore di ricchezza, per un po’ avrà l’onore di essere celebrato come fonte inesauribile di sviluppo, di nuovo valore, di una nuova grande espansione economica, che ci porterà felicemente ad un nuovo secolo di grandi consumi, di distruzione dei mari, di inquinamento dei cieli, di povertà relegata nel Terzo Mondo, di vita virtuale per le classi medie mondiali... Grazie a Keynes e ad alcuni suoi allievi, grazie al coraggio della FED e delle sue emulatrici, grazie alla fermezza magari di un governo veramente dirigista e dei suoi legionari, finalmente anche questa volta il capitalismo sarà salvo...da se stesso. Credere che attraverso iniezioni monetarie di vario tipo il nostro amato benessere occidentale, che ben c’incanta con le sue sirene, si difenderà, è come credere però che da un tumore una persona possa guarire con una pomata per i calli. O che le statistiche sui decessi della Covid forniti dai media siano credibili. Ma Madama Speranza ha deciso ora di andar a braccetto con Madama Liquidità e a noi non resta che prenderne atto.
Come nel precedente articolo, In morte della capacità critica1, abbiam tentato umilmente di utilizzare la logica-dialettica che abbiamo imparato da Marx per il presente pandemico, ora esporremo – nel modo più rigoroso possibile – la teoria della moneta di Marx (proprio di Marx, non dei neomarxisti, dei postmarxisti o dei diversamente-marxisti) in modo tale da poter costruire con essa una critica delle teorie monetariste passate e presenti.
Nei fatti tutti coloro (o quasi) che trattano di teoria economica marxista adattano Marx ad altre teorie economiche e per quasi tutti i “marxisti” e i comunistissi per teoria economica marxista s’intende un miscuglio di keynesismo, di romanticismo economico (un po’ sismondiano, un po’ proudhoniano), di teoria economica sovietica (staliniana e post-staliniana, cubana, cinese, ecc.), facendo innesti teorici che soltanto l’eclettismo e il pressapochismo contemporaneo possono prendere sul serio. A parte sparuti militanti, sono estremamente pochi coloro che non solo si definiscono “marxisti” ma che rivendicano anche in toto il pensiero di Marx, anche soltanto sul piano della teoria economica.
Il problema secondo noi è che per molti “marxisti” l’opera economica di Marx è sì un’opera scientifica, ma che dev’essere completamente travisata per adattarla ad una miriade di altre teorie. Noi invece rivendichiamo la sua teoria come corretta e la impieghiamo come bussola per orientarci, come impiegheremmo i classici della fisica o della biologia qualora ci occupassimo di quelle discipline. “Allorché Marx afferma che il Capitale è un’opera scientifica”, scriveva Michaud in polemica con Sartre, “non c’è una terza via tra il sì e il no; tra la verità e la falsità oggettive non vediamo quale strada sia filosoficamente possibile”.2
1. C’era un ginecologo, un pazzo e un comunista...
Nel 1861 un uomo poco più che trentenne, Ludwig Kugelmann, che con fervore aveva anche partecipato alla rivoluzione in Germania del 1848-49, si dava con passione ad una branca della medicina che le università e le riviste scientifiche ancora facevano fatica ad accettare, la ginecologia, e per tale disciplina si diede anche ad inventare qualche strumento utile. Il 10 agosto di quell’anno il ginecologo, da Hannover, scrisse una lettera ad un medico ungherese, Ignác Semmelweis, il quale stava combattendo da circa quindici anni una dura guerra con i propri colleghi viennesi. Nel 1847 Semmelweis aveva scoperto il motivo per cui nella struttura ospedaliera in cui lavorava vi fossero così tanti decessi: il problema risiedeva nel fatto che i medici e i loro studenti toccavano prima i cadaveri, poi le persone malate, senza lavarsi le mani. Ben prima che Pasteur spiegasse dunque la contaminazione batterica, questo medico ungherese aveva compreso che con delle semplici norme di igiene si sarebbero salvate molte vite umane. I colleghi medici non accettarono la scoperta di Semmelweis, la struttura ospedaliera addirittura arrivò a licenziarlo poiché non seguiva i protocolli e il medico ungherese nel 1861 si riciclò quindi presso l’ospedale San Rocco di Pest: anche qui Semmelweis salvò diverse vite facendo abbassare di molto la diffusione della febbre puerperale, ma anche qui colleghi e professori gli furono avversi: “Semmelweis venne osteggiato, vilipeso, calunniato, perseguitato, deriso dagli accademici e dalla medicina ufficiale”.3 Kugelmann, dinanzi ai vari attacchi che Semmelweis riceveva, gli scrisse di non demordere, di non affliggersi e di continuare a lottare a difesa della sua scoperta.4 Ma Semmelweis cominciò sempre più a dubitare di se stesso, ad affliggersi, a deprimersi, a non reggere più il proprio equilibrio mentale e finì in manicomio, dove nel 1865, dimenticato, morirà.
Seppur non affetta ancora da burionismo, la medicina del tempo, come ogni branca partorita dalle università borghesi, era comunque permeata da conformismo e per molto tempo ancora si continuò a morire negli ospedali a causa della cecità dei medici verso una cura non contemplata nella loro prassi. Soltanto diversi anni dopo la comunità medica comprese quanto avesse sbagliato e rivalutò la scoperta grandiosa del medico ungherese. Ma pochi furono coloro che come Ludwig Kugelmann avevano compreso la grandiosità di quell’uomo mentre era in vita.
Ludwig Kugelmann non era però soltanto una mente fervida in ambito medico, era anche un uomo che cercava di essere completo, che si appassionava a tutte le grandi cose del mondo. Nello stesso periodo in cui si stava appassionando delle tesi di Semmelweis, Kugelmann si appassionò di un libro uscito nel giugno del 1859 presso l’editore Duncker di Berlino. Questo piccolo libro s’intitolava Per la critica dell’economia politica ed era scritto da un comunista tedesco di Treviri, oramai residente a Londra da diversi anni perché ricercato dalle polizie di tre nazioni: quest’uomo era Karl Marx. Dopo la lettura del piccolo libro, il ginecologo tedesco scoprì in esso la potenza di nuove grandi scoperte, addirittura l’audacia di porre a critica la teoria economica borghese nel suo complesso e di porre tale critica alla base di un programma rivoluzionario. Il ginecologo poco più che trentenne il 21 novembre 1862 scrisse quindi al poeta e rivoluzionario tedesco Ferdinand Freiligrath a Londra per spiegargli quanto fosse stato colpito positivamente dal libro pubblicato da Marx e per chiedergli informazioni sul proseguimento di tale lavoro, dato che Marx aveva annunciato che sarebbe stato il primo di una serie di sei libri. Freiligrath girò tale lettera direttamente a Marx il quale rispose in modo cordiale il 28 dicembre, spiegando nelle linee generali il proprio progetto.5
Fra Marx e Kugelmann nacque successivamente un rapporto stretto di militanza politica e anche di amicizia personale: nell’aprile del 1867 Marx partirà da Londra per la Germania e sarà per qualche giorno addirittura ospite a casa proprio di Kugelmann. Di tale ospitalità scriverà ad Engels: “E’ profondamente onesto, senza riguardi per nessuno e capisce di sacrifici e, ciò che è la cosa più importante, convinto. Ha una graziosa mogliettina e una bimba di 8 anni, che è deliziosa”.6 Due settimane dopo Marx scriverà: “Il dottor Kugelmann e sua moglie mi trattano nel modo più affettuoso e sono attenti a soddisfare ogni mio desiderio inespresso. Sono persone eccellenti”.7
Com’è noto Marx pubblicò il primo volume del Capitale nel settembre 1867 e, fra i primi lettori, quest’opera ebbe proprio il dottor Kugelmann.
2. La risposta dei DPCM alla critica del signor h
Il 4 luglio 1868 uscì una recensione del Capitale di Marx su una rivista tedesca chiamata Literarisches Centralblatt für Deutschland nella quale la teoria del valore di Marx veniva giudicata fantasiosa e non dimostrata. L’autore della recensione si firmò semplicemente h. Marx venne a conoscenza di tale recensione attraverso proprio Kugelmann. E dopo averla letta, Marx rispose a Kugelmamm: “Il cianciare sulla necessità di dimostrare il concetto di valore è fondato solo sulla più completa ignoranza, sia della cosa di cui si tratta, sia del metodo della scienza. Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa”.8
Marx spiegava che per quanto la borghesia pensi che il denaro abbia un potere magico, per quanto pensi che i profitti possano crearsi dal nulla, che la società odierna non sia un rapporto fra uomini ma fra cose, alla base della società c’è pur sempre il lavoro umano. La borghesia e i suoi intellettuali vedono e s’incantano soltanto delle forme che la società borghese presenta, l’indice dei prezzi o i titoli di Borsa, senza riuscire a comprendere che alla base anche del capitalismo odierno c’è pur sempre e soltanto il lavoro umano. Se si ferma completamente il lavoro di una nazione per poche settimane, dice Marx, una nazione muore, e poco cambia se anziché un paio di settimane oggi ne servano qualcuna in più data l’enorme massa di plusvalore prodotta dall’attuale capitalismo.
Negli ultimi mesi abbiamo vissuto, per un breve arco di tempo, un lockdown parziale su scala mondiale ed un lockdown quasi totale su scala nazionale. Curiosamente l’economia capitalista si è fermata non per una guerra o un crack improvviso ed imprevisto, ma per decisioni politiche, tinteggiate da motivazioni crocerossine. Il lockdown che ci è stato dato di sperimentare, pur se non totale, mette però alla prova la teoria del valore ed in particolare se avesse ragione Marx a ritenere il lavoro umano alla base del capitalismo, o se invece abbia ragione la teoria economica borghese a ritenere alla base del capitalismo le cose (cioè le merci), o il denaro, o il tasso d’interesse, ecc., cioè a far feticcio delle proprie categorie.
Politici e giornalisti, tecnici e chiacchieroni hanno inizialmente bombardato la popolazione di informazioni sulla necessità di un lockdown nazionale, spaventando gli astanti con un po’ di scenografia, trucchi statistici e terrorismo mediatico. L’economia crollava, ma nessuno ne parlava, come già spiegammo nel nostro precedente articolo: quanto poca poesia c’era nei crolli di Borsa e quanta invece nell’apocalittica tragedia del coronavirus! Poi un po’ di economia qualcuno cominciò a parlarne, forse incalzato dalla vita reale che ogni tanto cercava timidamente di mostrare se stessa. Arrivati a fine maggio qualche virologo che prima promosse il terrorismo generalizzato sulla popolazione ha cominciato a far marcia indietro e a dichiarare pubblicamente il proprio pentimento di quanto detto al popolo poche settimane prima. Il virologo Guido Silvestri, che tante volte vedemmo da Fazio via video a salutare Burioni, il 25 maggio ha scritto quindi su Facebook che forse il lockdown, che lui stesso ha propugnato, è stato inutile e nel corso delle sue scuse ci riferisce che “non è saggio rimanere della stessa idea quando cambiano i dati a nostra disposizione”.9 Il virologo Matteo Bassetti, uno dei virologi più ascoltati in televisione negli ultimi tre mesi, ha dichiarato che curiosamente per due mesi non si sarebbero registrati morti per patologie che non fossero per il Covid e ciò significa che il Covid “si è preso dentro molti decessi che Covid non erano” e inoltre ha parlato di studi che spiegherebbero che il lockdown potrebbe far più morti del coronavirus (a causa del suo impatto economico, sociale ed anche sanitario).10 Ma Pier Luigi Bersani ancora a metà aprile affermava che il lockdown non avrebbe causato alcuna conseguenza economica tragica e il mancato premier poté serenamente dichiarare in tivù: “Di fame in Italia non muore nessuno”.11 Se in gioventù Bersani abbia letto qualcosa o se qualcosa abbia sentito sulla teoria del valore di Marx, o fra le file di Avanguardia Operaia o del PCI in cui ha militato, non sappiamo, ma di certo oggi non troviamo alcuna traccia in Bersani di un minimo ricordo della teoria del valore di Marx, neppure nella sua versione più volgare e manualistica. E pensare che ancora nel 2008 si ricordava qualcosa il suo compagno D’Alema che a Capri promuoveva una citazione di Marx (che qualche giorno prima era stata pronunciata dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti): “Il denaro non produce magicamente denaro”.12
Gli americani (un po’ più materialisti dei nostri Conte, Bersani, Zingaretti e Di Maio) invece erano da subito ben consci che il lockdown avrebbe provocato danni economici immani ed infatti il 12 marzo risultavano molto preoccupati su come il governo tedesco gestiva la pandemia; Dario Fabbri di Limes infatti sottolineava che “gli americani vorrebbero che i tedeschi applicassero la medesima ricetta dell’Italia [cioè il lockdown quasi completo, ndr.], con l’enorme contraccolpo che questo provocherebbe sulla Repubblica Federale”.13 I tedeschi poi nelle settimane successive un mini-lockdown lo faranno, ma meno fesso e confuso di quello italiano, cioè non saranno così suicidi come gli italiani.
Nel nostro precedente articolo abbiamo cercato di dimostrare che l’allarme coronavirus è funzionale al crack economico che è in corso dalla fine del 2019. Ma ora lor signori, che incantano le ebeti masse dinanzi agli schermi televisivi, vogliono far credere che il fermo della produzione che c’è stato – parziale sì, ma piuttosto profondo - possa rientrare facilmente ed essere dimenticato con qualche manovra monetaria! Gli europeisti invocano dall’Europa prestiti o denaro a fondo perduto, gli antieuropeisti invocano invece di immettere liquidità stampando moneta nazionale, in entrambi i casi si tratta di immettere grandi masse di liquidità. Pensare però che l’immissione di liquidità, europea o italiota, serva veramente a salvare il sistema capitalistico dal crollo che sta vivendo è coerente con l’abbandono pluricentenario da parte della teoria economica di ogni teoria del valore basata sul lavoro umano.
I Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, più noti al pubblico come DPCM, sono un buon banco di prova per la teoria del valore di Marx, o almeno per le teorie economiche che ritengono il lavoro alla base della società capitalistica odierna, non invece per quelle teorie che analizzano innanzitutto cose, prezzi di listini, tassi di interesse o che basano le proprie previsioni farlocche su modelli matematici del tutto astratti da ogni realtà concreta.
3. Scienza e pugilato
Il fatto che l’economia capitalistica abbia alla sua base il lavoro umano, come ogni società umana, e che la teoria del valore di Marx avesse alla base il tempo di lavoro, non era tesi d’altra parte peregrina del solo Marx, ma era tesi fondante dell’economia politica classica.
Dalla fine del XVII secolo, in particolare con William Petty, alla pubblicazione del Capitale di Marx (1867) ogni analisi economica, borghese o anti-borghese, era basata su una teoria del valore la cui base in genere era il tempo di lavoro elargito dai lavoratori. La legge del valore basata sul tempo di lavoro fu dunque legge che contraddistinse buona parte dell’economia politica precedente a Marx: William Petty, Boisguillebert, Benjamin Franklin, Ferdinando Galiani, James Steuart, i fisiocratici, Adam Smith, David Ricardo ed infine i socialisti ricardiani, in modi diversi tentarono di coniugare le dinamiche esteriori del capitalismo con quanto ne sta alla base, cioè il lavoro umano. Le varie teorie del valore non erano fra loro coincidenti: la teoria del valore di Smith era diversa da quella fisiocratica, la teoria del valore di Ricardo presentava divergenze da quella di Smith e quella di Marx era diversa a sua volta da quella di Ricardo, ma tutte queste teorie del valore, in modo diverso, vedevano nel tempo di lavoro umano speso nella produzione, la base dell’intera economia, anche di quella finanziaria.
Nell’epoca immediatamente successiva a David Ricardo (l’economista inglese morì nel 1823) gli economisti cominciarono però ad allontanarsi dalle teorie del valore basate sul lavoro umano innanzitutto per motivi politici: tali teorie infatti erano state fatte proprie dal socialismo ricardiano e dalla propaganda operaia. “L’idea che ogni valore era da attribuire anzitutto al lavoro umano”, spiegava infatti Ronald L. Meek, “fu fatta propria entusiasticamente da numerosi economisti radicali (…) e dagli esponenti del movimento operaio”, mentre all’opposto “i critici di Ricardo cominciarono a formulare nuove teorie del valore, dalle quali derivano direttamente le varie teorie considerate come ortodosse oggi in Occidente”.14
Ciò che spiegava Meek nel 1956 era d’altra parte già stato detto da Marx nel poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873: “Quella lotta [la lotta rivoluzionaria della classe operaia, ndr.] suonò la campana a morto per la scienza economica borghese. Adesso non si trattava più di sapere se questo o quel teorema fosse vero, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se fosse più o meno gradito alla polizia. Pugili a pagamento presero il posto dei ricercatori disinteressati, la malafede e la malvagia intenzione dell'apologetica presero il posto dell'indagine scientifica spregiudicata”.15 In altre parole i sommovimenti rivoluzionari della classe operaia della prima metà del XIX secolo fecero tremare la classe dominante a tal punto che essa preferì sentirsi raccontare nuove teorie economiche che fossero immuni dalla possibilità che venissero impiegate a fini di denuncia sociale e politica, non più quindi quelle di Smith e di Ricardo, ma quelle di Say, Senior, John Stuart Mill, ecc.
Ma se con la teoria del valore basata sul lavoro fatta propria dai socialisti ricardiani la borghesia si turbò alquanto, ancor di più si spaventò quando il leader più importante del movimento operaio europeo – Marx appunto - fece di una teoria del valore basata sul tempo di lavoro nella produzione la base del programma operaio rivoluzionario. Al tempo della pubblicazione del Capitale Marx era d’altra parte a capo di fatto dell’Associazione Internazionale degli Operai, meglio conosciuta come Prima Internazionale, non quindi un semplice teorico ed intellettuale, ma un organizzatore degli operai rivoluzionari su scala internazionale.
Quando nel 1867 uscì il primo volume del Capitale, i rappresentanti dell’intelligencija della classe borghese, cioè i professori delle università, preferirono ignorare del tutto tale opera. A seguito però della comparsa della teoria economica di Marx venne abbandonata in modo repentino dalle università anche tutta la teoria economica classica precedente, da Petty a Boisguillebert, da Smith a Ricardo, da Quesnay a Sismondi. Fra il 1871 e il 1874 uscirono infatti tre libri che fecero epoca nell'economia politica: Teoria dell'economia politica dell'inglese William Stanley Jevons, Fondamenti di economia politica dell'austriaco Carl Menger e Elementi di economia politica pura del francese Léon Walras. Con questi tre libri nacque la cosiddetta scuola marginalista. Uno storico dell’economia ha scritto: “È cosa indubbia che gli studi storici si sono profondamente trasformati dopo l'apparizione del marxismo. Certo, pochi storici hanno adottato, puramente e semplicemente, la dottrina del materialismo storico; ma il semplice fatto di averne dovuto tener conto, li ha indotti ad attribuire una più grande importanza ai fattori economici nella storia, nonché, in particolare, all'evoluzione delle tecniche produttive. Ben diverso è stato invece l'atteggiamento degli economisti. (...) [Con la comparsa del marxismo] si è determinato un avvenimento di importanza capitale nella storia dell'economia politica. Per distinguersi e per contrapporsi nella maniera più netta alle tesi di Marx, gli economisti conservatori hanno ripudiato gli insegnamenti dei grandi economisti inglesi [Adam Smith e Ricardo in particolare, ndr.] della scuola classica”.16 La scuola marginalista rinnegava dunque nei fatti due secoli di ricerca scientifica altamente feconda e si dava completamente ad una nuova teoria economica che sostanzialmente si dilettava di astrazioni matematiche e filosofiche del tutto basate sull'immaginazione dell'autore e su giochi del pensiero, matematici e non solo, e che raggiungeva qualche risultato sensato soltanto quando giungeva a verità banalmente empiriche.
Nel Novecento la teoria economica borghese si dissolse in innumerevoli scuole e si formarono miriadi di teorie del valore, ognuna giusta per il proprio autore e i suoi diretti allievi o seguaci. Nel nostro precedente articolo, nella Morte della capacità critica, scrivemmo: “Esiste una teoria economica scientifica della società borghese e del suo funzionamento riconosciuta unanimamente? La risposta è del tutto negativa e ognuno potrebbe constatare ciò confrontando fra loro la diversità delle svariate scuole che dalla fine dell'800 si sono diffuse in ambito sia accademico sia extra-accademico”. Nel nostro articolo citavamo una ventina di scuole economiche diverse e il nome di qualche economista non inseribile in nessuna di quelle scuole, mostrando la situazione di disgregazione e caos nell’ambito della teoria economica borghese. A noi interessa oggi rimarcare che nessuna di quelle scuole e nessuno di quegli economisti ha mai fatto propria la teoria del valore di Marx, neppure i neoricardiani, i neomarxisti o i keynesiani.
Cosa c’entra tutto ciò con le teorie monetarie? Un po’ di calma, per favore, e vedremo che tutto è strettamente legato, nulla è lasciato al caso e nemmeno al vezzo intellettuale (se non qualche storiella qua e là per render più gradevole la lettura).
4. Il mistero della forma in Marx (ed anche in Hegel)
All’inizio del Capitale Marx afferma che la merce è un oggetto le cui proprietà sono quelle di essere un valore d’uso, cioè di essere utile a qualcuno, ed un valore di scambio, cioè di essere scambiabile con un’altra merce (o con una data somma di denaro). Fin qui Marx esprime una precisazione terminologica che era piuttosto diffusa nell’economia politica a lui precedente: una sedia presenta il valore d’uso di essere utile per svolgere alcune attività che è preferibile far da seduti (quali mangiare, studiare, scrivere, ecc.) e un valore di scambio, cioè la possibilità di essere scambiata con del denaro corrispondente al suo prezzo oppure con un’altra merce (ad esempio con un comodino). Nelle primissime pagine del Capitale Marx abbandona l’indagine sul valore d’uso e passa ad indagare soltanto il valore di scambio.
Il valore di scambio, dunque, rappresenta il rapporto quantitativo col quale la merce può scambiarsi con altre merci o con del denaro, cioè rappresenta l’attitudine di una merce a scambiarsi o a circolare. Dopo soli due capoversi però Marx afferma che il valore di scambio rappresenta “il modo di espressione, la ‘forma fenomenica’ di un contenuto distinguibile da esso”.17 Marx passa poi quindi a spiegare cosa sia la sostanza di valore, o più semplicemente il valore, distinguendo tale concetto dal valore di scambio di cui aveva trattato all’inizio. Se è vero che una merce presenta un dato valore di scambio (può equivalere cioè ad una data somma di denaro oppure può essere scambiata con un’altra merce) è pur vero che ci deve essere qualcosa di più profondo che sta alla base di tale valore di scambio, un qualcosa che regoli le quantità con cui essa si scambia con denaro o altre merci.
Il valore delle merci è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle.18 Quanto maggiore sarà la forza produttiva del lavoro, tanto minore sarà il valore delle merci.19 In altre parole: più lavoro umano vi è nella produzione di una data tipologia di merce, maggiore sarà il valore, e viceversa. Nei Grundrisse del 1857 Marx già scriveva: "I valori dei prodotti sono misurati non dal lavoro in essi impiegato, ma dal lavoro necessario alla loro produzione".20 Nel 1867, alla prima edizione del Capitale, Marx sarà ancora più chiaro e spiegherà che la pigrizia del singolo lavoratore o la minore produttività di un produttore sull'altro non influenza il valore della merce in quanto "soltanto il tempo di lavoro socialmente necessario conta come sostitutivo di valore. Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro richiesto per produrre un qualsiasi valore d'uso nelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali e col grado medio sociale di abilità e intensità di lavoro".21 Ci basti a noi ancora questo estratto: "Il valore di una merce sta al valore di ogni altra merce come il tempo di lavoro necessario per la produzione dell'una sta al tempo di lavoro necessario per la produzione dell'altra".22
Marx fa una distinzione sottile fra valore (o sostanza di valore) e valore di scambio (o forma di valore). Che vi sia una distinzione fra valore di scambio e valore in Marx è raramente compreso e, di conseguenza, quale differenza vi sia fra valore di scambio e valore, cioè fra forma di valore e sostanza di valore, raramente l’indagine marxista si è diffusa a dovere. Quanto tale distinzione sia importante per Marx però lo possiamo riscontrare da un passo dello stesso Marx: “La concreta figura sociale del prodotto del lavoro, la «merce», è da una parte valore d’uso e dall’altra «valore», non valore di scambio, poiché questo è semplice forma fenomenica, non il suo proprio contenuto”.23
Qualcuno che abbia letto Il capitale potrà sbalordire di tale frase: ma come, Marx nelle prime due pagine da subito spiega che la merce è un oggetto che presenta la caratteristica di essere depositaria di valore d’uso e di valore di scambio (e così si è detto in tanti “bignami” del marxismo) ed ora Marx in un suo manoscritto del 1882 (che non pubblicò) sottolinea che la merce si deve distinguere in valore d’uso e valore, non tra valore d’uso e valore di scambio, quasi vi sia una distinzione fra valore e valore di scambio e che tale distinzione sia da considerarsi fondamentale! Ebbene: non solo la distinzione fra valore e valore di scambio esiste nel Capitale, ma essa – come annoterà appunto Marx nel 1882 - non è da considerarsi di poco conto. E la distinzione fra valore e valore di scambio, come mostreremo, è in realtà la distinzione fra valore e denaro. Tale distinzione è alquanto complessa in quanto prodotto di una dialettica marxiana che tanto deve ad Hegel ma anche a Spinoza, pertanto ci scusiamo col pigro lettor dei tempi odierni se rinuncerà da subito a prender di petto la cosa, e passerà ad una serie tv o a un buon aperitivo rinfrescante.
Nella concezione di Marx un concetto presenta una parte più profonda del suo essere (il contenuto, la sostanza) ed una parte esteriore (la forma). Forma e contenuto in Marx, come già in Hegel, non sono separabili fra loro. In una visione dualistica, quella più diffusa nel pensiero comune, l’apparenza, cioè la forma, non ha legame interno con la sostanza, con il contenuto, ma soltanto un legame esteriore; la visione dialettica di Marx invece si basa proprio sul principio che ogni concetto presenta un dato contenuto a cui corrisponde una data forma, un dato modo di manifestarsi all’esterno, e che questi due elementi rappresentano due lati intrinsecamente legati del medesimo concetto.
Il contenuto, cioè la sostanza, in primo luogo determina la forma dell'oggetto, ma a sua volta la forma agisce e trasforma il contenuto. Pertanto Lenin, giustamente, evidenziava – nei suoi appunti filosofici del 1916 - come sia una caratteristica della dialettica proprio "la lotta del contenuto con la forma e viceversa". Lenin altresì evidenziava che la contraddizione fra sostanza e forma può far sì che la forma venga dal contenuto rigettata (“rigetto della forma”), ma facendo ciò il contenuto stesso si trasforma in qualcosa d’altro, in un contenuto distinto dal precedente (“rielaborazione del contenuto”).24 In parole più semplici e popolari: la forma, l’aspetto esteriore, è sì un prodotto del contenuto, ma a sua volta agisce sul contenuto e lo trasforma. Qualora il contenuto sopprima la forma, esso però muterà se stesso.
Leggendo noi la Scienza della logica di Hegel comprendiamo quanto Lenin avesse ben sintetizzato il pensiero del filosofo tedesco negli appunti citati sopra. Quest’ultimo in un passo scriveva infatti il seguente enunciato: “Il mondo fenomenico [apparente, nel suo manifestarsi, ecc.] e il mondo essenziale [il mondo secondo il suo contenuto] stanno assolutamente in relazione uno con l'altro”.25 In un altro punto della sua grande opera Hegel scriveva: “La manifestazione non è semplicemente un che privo di essenza, ma è manifestazione dell'essenza”.26
Ogni sostanza in Marx, come già in Hegel, ha dunque una propria forma: la sostanza è ciò che non è visibile empiricamente ed è scopribile solamente attraverso la ricerca scientifica. “Ogni scienza sarebbe superflua”, scriverà Marx nel libro terzo del Capitale, “se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero”.27
La forma è invece il modo in cui la sostanza si presenta in superficie, l’apparenza fenomenica della cosa presa in esame. Sostanza e forma non sono isolabili l’uno dall’altro, non è dato avere sostanza senza forma e viceversa, e l’una agisce e trasforma l’altra, sebbene la sostanza sia in ultima istanza il reale motore trasformativo della forma.
Allo stesso modo il pensiero non è separabile dal corpo ed è anzi un suo prodotto, una sua forma di esistenza. Secondo la concezione materialistica infatti “il pensiero non è la causa dell’essere, ma la sua conseguenza, più precisamente, una sua proprietà”.28
Con queste nozioni filosofiche proviamo ora a percorrere in estrema sintesi il percorso della prima parte del Capitale.
5. La critica di Marx alla teoria del valore di Ricardo (e non solo)
Come accennato sopra Marx nel Capitale prima accenna al valore di scambio, poi afferma che in realtà esso non è un concetto, ma soltanto “forma di un contenuto distinto da esso”, e che quindi non si può conoscere il valore di scambio se prima non si analizza il valore, cioè la sostanza di valore. Marx illustra dunque l’analisi del valore come lavoro socialmente necessario a produrre una merce, illustra poi la categoria di grandezza di valore, il ruolo della forza produttiva del lavoro nel determinare il valore, la distinzione fra lavoro utile e lavoro astratto umano. Son questioni di enormi importanza, che Marx condensa in brevi tratti grandiosi, ma su cui non possiamo ora soffermarci. Marx poi scrive (e qui torniamo a quel che in questo articolo ci interessa): “Noi siamo partiti dal valore di scambio o dal rapporto di interscambio delle merci, per poter trovare le tracce del loro valore ivi nascosto [cioè della sostanza di valore, ndr.]. Ora dobbiamo ritornare a questa forma fenomenica del valore [cioè al valore di scambio, ndr.]”.29
Marx ha dunque accennato all’inizio al valore di scambio, ha spiegato poi cosa sia invece il valore ed è tornato nuovamente a trattare di valore di scambio, sebbene ora ad un livello superiore. Spiegato velocemente il valore, Marx dunque apre una lunga analisi della forma di valore, cioè del valore di scambio. Il paragrafo in cui analizza questa “forma fenomenica” del valore è il numero 3 del capitolo primo e s’intitola La forma di valore ossia il valore di scambio [in lingua originale Die Wertform oder der Tauschwert].
Dal titolo di tale paragrafo dovrebbe risultare piuttosto chiaro che forma di valore e valore di scambio hanno lo stesso significato. In diverse sintesi ed analisi del Capitale invece è stata trattata la forma di valore addirittura come si trattasse di qualche cosa di diverso dal valore di scambio. Ad esempio Isaak Il’ič Rubin scriveva addirittura, nel suo saggio sul valore del 1928, che “per comprendere la forma di valore nel suo stesso concetto, dobbiamo distinguerla dal valore di scambio, che ha in Marx una trattazione separata”.30
Ma cosa spiega dunque Marx in questo paragrafo 3 sulla forma di valore, ovvero sul valore di scambio? Marx spiega innanzitutto che non esiste una sola tipologia di valore di scambio, cioè di forma di valore, ma ben quattro, e di tali tipologie ne dà specifici nomi: forma di valore semplice, forma di valore dispiegata, forma generale di valore e forma di denaro. Come la seconda forma è sostanzialmente una variante della prima, la quarta è una variante della terza.31
La prima forma di valore, la prima tipologia di valore di scambio, è dunque la forma di valore semplice, che può essere espressa nel seguente modo:
x merce A = y merce B
Con tale espressione del valore Marx esprime il modo meno evoluto in cui il valore può presentarsi in superficie: il produttore della merce A scambia al mercato la propria merce con quella del produttore B, trova cioè nel confronto con la merce B il valore di scambio della propria merce. In questo modo il produttore della merce A trova la forma attraverso la quale esprimere il valore (il tempo di lavoro socialmente necessario) della merce che ha prodotto. Raramente però tale forma di valore, tale valore di scambio della merce A o della merce B, può coincidere effettivamente con il valore, cioè col tempo di lavoro socialmente necessario, data anche la casualità e l’accidentalità dello scambio in una società basata appunto su tale tipologia di scambio (Marx chiama d’altronde la forma di valore semplice anche forma di valore singola o accidentale).
La forma dispiegata di valore, cioè la seconda tipologia di valore di scambio che tratta Marx, è una semplice variante della forma di valore semplice, è quella in cui la merce A può scambiarsi con una miriade di merci diverse, cioè:
x merce A = y merce B, oppure z merce C, oppure w merce D, ecc.
Tale forma di valore sarebbe adatta (e nei fatti è stata adatta in passato) come forma di valore dominante qualora nella società avessimo soltanto degli scambi mercantili sporadici, non continuativi, oppure qualora gran parte dei prodotti della società non si presentino ancora come merci.
Il salto qualitativo lo si ha quando una merce specifica però fa da equivalente generale a tutte le altre, viene dunque selezionata una merce dalla società e la si impiega come mezzo universale di scambio o come misura dei valori. In questo caso abbiamo la terza forma di valore che indaga Marx, la forma generale di valore:
y merce B, oppure z merce C, oppure w merce D, ecc. = x merce A
Tale merce A può essere di qualsiasi tipo (ad esempio, la tela) sebbene le società umane abbiano poi selezionato date forme di equivalente generale secondo certi criteri e secondo la disponibilità del proprio territorio (in certe epoche e zone geografiche si sono usate, ad esempio, conchiglie, in altre zone geografiche pellicce di castoro o il sale o addirittura tabacco, ecc.). La tela, o comunque la merce scelta come equivalente, poteva però essere usata non solo per la sua particolarità di essere equivalente, ma anche per le sue proprietà di essere tela, cioè di essere materia prima per la tessitura, così come il sale per le sue proprietà di condire i cibi o il tabacco per fumare. La storia ha selezionato però i metalli preziosi, ed in particolare l’oro, come equivalente generale per vari motivi (ad esempio la facile divisibilità in unità, la sua scarsa utilità pratica, la stabilità del suo valore nel tempo, ecc.) e il famigerato paragrafo sulle forme di valore si conclude appunto con la spiegazione della nota formula
x merce A = 2 once d’oro,
Questa equazione esprime la quarta forma di valore esposta da Marx, la forma di denaro.
Dunque, il valore di scambio, nella società capitalistica prende la forma di denaro, quindi di prezzo: “Il valore di scambio espresso in denaro, ossia equiparato al denaro, è il prezzo”, scrive infatti Marx.32 Altrove leggiamo: “Il prezzo [è] la forma di denaro delle merci”.33 Con 2 once d’oro abbiamo dunque il prezzo della merce A, col denaro si esprime il prezzo di ogni merce, anche la più insulsa.
Siamo finalmente arrivati al denaro ed esso si è presentato sotto la veste di forma di valore. Nella disamina portentosa, e poco capita, del paragrafo 3 del Capitale che abbiamo or ora sintetizzato, Marx smontava in un colpo solo tanto le tesi di Adam Smith quanto di David Ricardo, cioè di quelli che all’epoca erano ancora considerati i massimi economisti della storia.
Secondo Adam Smith, la circolazione delle merci secondo il valore in esse intrinseco non era più valevole all’epoca capitalistica, ma riguardava invece le società precapitalistiche. Marx invece spiegava: “Solo attraverso il suo carattere generale [cioè solo quando abbiamo la forma di valore generale o la forma di denaro, che è una sua variante, ndr.], la forma di valore corrisponde al concetto di valore [cioè alla sostanza di valore, al valore, ndr.]. La forma di valore doveva essere una forma in cui le merci si manifestassero l’una per l’altra come puro e semplice coagulo di lavoro umano indifferenziato, omogeneo, cioè come espressioni materiali della medesima sostanza-lavoro. Questo è ora raggiunto [appunto con la forma generale di valore, che poi diventa forma di denaro, ndr.]".34 In altre parole: soltanto quando la società seleziona un’unica merce che fa da equivalente, ad esempio l’oro, abbiamo la realizzazione della regola che il valore di scambio deve corrispondere al valore o almeno il valore, quale tempo di lavoro socialmente necessario, deve imporre se stesso sul valore di scambio.
Se Marx teneva a mostrare che è soprattutto nel capitalismo che vige la legge del valore (e qui bisognerebbe rimandare anche a quanto Marx scrive sul lavoro astratto umano), quindi se Marx teneva a liquidare la tesi di Smith per cui la legge del valore regnerebbe soltanto nella società precapitalistica, in questo paragrafo volle però anche attaccare la tesi di David Ricardo che considerava come reale nel capitalismo soltanto la sostanza di valore e non il valore di scambio. Se bisogna considerare, come faceva Ricardo, soltanto la sostanza di valore (cioè il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre le merci) si considererà allora che il valore di scambio, cioè il prezzo in denaro, dovrà sempre corrispondere al valore delle merci. Infatti Ricardo non poteva racappezzarsi del fatto che così spesso i prezzi non coincidessero con i valori delle merci, che il prezzo avesse cioè nella realtà una certa autonomia dal valore. Marx critica in questo modo Ricardo nelle Teorie sul plusvalore: “Ricardo non indaga la forma (…), il carattere di questo lavoro. Egli perciò non comprende il nesso di questo lavoro col denaro, ossia che esso deve rappresentarsi come denaro. Egli perciò non comprende assolutamente il nesso fra la determinazione del valore di scambio della merce per mezzo del tempo di lavoro e la necessità per le merci di procedere alla formazione di denaro. Di qui la sua erronea teoria del denaro”.35 Su Ricardo scrive ancora Marx: “si tratta per lui fin da principio solo della grandezza di valore”, cioè appunto della quantità di tempo di lavoro presente nella merce.36
Ma se Marx attaccava Ricardo perché si era limitato ad indagare soltanto la sostanza di valore e non la forma, e non cioè il valore di scambio, Marx attaccava anche coloro, come Samuel Bailey, che criticando le contraddizioni in cui incorreva Ricardo nell’affrontare i prezzi negavano ogni interesse nell’indagare una pretesa sostanza di valore ed affermavano esistesse soltanto il valore di scambio, la forma di valore. Se la teoria monetaria la basassimo quindi su Bailey, analizzeremo le dinamiche dei prezzi, ma non avremo alcuna idea di quali saranno i veri valori alla base delle merci. Se noi, cioè, ritenessimo importante soltanto il valore di scambio, constateremo il sali-e-scendi dei prezzi, secondo la dinamica ad esempio della domanda e dell’offerta, ma quale sia il valore attorno al quale orbitino tali prezzi non ci sarebbe dato di sapere.
Qualora tutte le merci prodotte vengano realizzate sul mercato, non vi siano mutamenti nelle forze produttive e non vi siano divergenze di produttività fra le varie aziende a parità di capitale, il prezzo, o valore di scambio, coinciderà con il valore. Il fatto che non sia possibile nel capitalismo comprare o vendere le merci direttamente secondo il tempo di lavoro oggettivato in esse, ma invece le si debba comprare o vendere attraverso la mediazione del denaro è una delle prime contraddizioni del capitalismo che individua Marx: “Il rapporto dei valori di scambio (…) implica delle contraddizioni che acquistano la loro espressione concreta in un denaro differente dal tempo di lavoro”.37 Sebbene dunque il denaro sia un’espressione del valore esso è distinto dal valore, quindi – entro certi limiti – ha una parziale autonomia dalla sua sostanza, che è il tempo di lavoro: “L’autonomizzazione del valore di scambio della merce nel denaro [quindi anche la possibilità che il prezzo diverga dal valore della merce, ndr.] è essa stessa il prodotto del processo di scambio, lo sviluppo delle contraddizioni, contenute nella merce, fra valore d’uso e valore di scambio”.38
Per quanto autonomo dal valore, il denaro, in quanto forma del valore, non può però considerarsi del tutto libero da esso. Sono le crisi economiche in realtà che, periodicamente, riportano la forma a coincidere con la sostanza.
Nella storia delle analisi del Capitale non ci sembra sia mai stata scandagliata a fondo la differenza fra la teoria del valore di Marx e quella di Ricardo. L’abitudine oggi invalsa di chiamare, anzi, la teoria del valore di Marx teoria del valore-lavoro non aiuta, in quanto tale espressione sottolinea appunto l’aspetto “ricardiano”, cioè il valore, mettendo da parte l’originalità più importante di Marx, la dialettica cioè fra valore e valore di scambio. Ma tale espressione, valore-lavoro, l’abbiamo vista impiegata anche da professori che hanno dedicato in passato molti sforzi sul Capitale, come Ronald L. Meek, fino a veicolarsi alle attuali analisi accademiche (si pensi a Sergio Cesaratto che impiega appunto tale espressione in Sei lezioni di economia ed equipara la teoria del valore di Marx appunto a quella di Ricardo39).
L’analisi della dialettica fra sostanza e forma di valore, a cui Marx teneva tanto, non è stata mai indagata seriamente, se non in modo estremamente sporadico e non completo: così l’ungherese Fritz Petry nel 1915 affrontò tale questione, ma dal punto vista...kantiano40; il tedesco Hans-Georg Backhaus preferì dedicarsi più recentemente a scandagliare la sola forma di valore senza però giungere ad alcuna interpretazione conclusiva, in una sorta di work in progress estenuante41; il giapponese Makoto Itoh, recentemente, ha cercato di sottolineare l’esistente differenza fra forma e sostanza di valore in Marx42: il professore giapponese cade però in contraddizioni alquanto estreme quando cerca di conciliare la teoria del valore di Marx, che sta alla base dei meccanismi dell’economia capitalistica, con le categorie di un preteso socialismo, come d’altra parte già fece Stalin nel 1951 quando volle giustificare il fatto che in Russia il socialismo presentasse le stesse caratteristiche ...del capitalismo.43 Per Marx il socialismo è privo di merce e di denaro: “All’interno della società collettivistica i produttori non scambiano i loro prodotti [cioè i prodotti non sono merci, ndr.]: tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti”.44
6. Se almeno Marx fosse hegeliano!
E’ noto che Marx mentre scriveva il “primo abbozzo” del Capitale, più noto come Grundrisse (o Lineamenti fondamentali di una critica dell’economia politica)45, si ispirasse al procedimento logico-dialettico della filosofia tedesca ed in particolare desse una costante occhiata alla Scienza della logica di Hegel.46 E’ noto altresì che anche la stesura definitiva del primo libro del Capitale trarrà molta ispirazione da Hegel nel procedimento discorsivo e nel linguaggio. Non dobbiamo però confondere un’ispirazione e un’imitazione sul piano formale, con un’adesione completa ad una filosofia e ad un metodo.
La tesi del Marx hegeliano, sulla scia anche dell’interpretazione di Lukàcs, è oggi piuttosto diffusa fra i marxisti delle università ed anche fra i “diversamente-marxisti”. Su alcune questioni il debito di Marx verso Hegel è molto alto (e ciò lo abbiamo mostrato noi stessi trattando la dialettica fra sostanza e forma di valore), ma ciò non ci deve far credere che il metodo dialettico di Hegel coincida completamente con quello di Marx. Mostreremo ora come nel passaggio fra denaro e capitale, quindi fra denaro e produzione di plusvalore, sia racchiusa una parte importante dell’antihegelismo di Marx oltre che la base della sua teoria del denaro.
In Hegel ogni determinazione del suo sistema filosofico si sviluppava in una successiva determinazione, ma il filosofo deduceva quale potesse essere la determinazione successiva esclusivamente attraverso le leggi della dialettica che il filosofo stesso si era dato: facendo così Hegel passava nel suo sistema dialettico da un'astrazione arbitraria ad un'altra altrettanto arbitraria e il suo sistema non diveniva altro che un parto del suo pensiero con il quale si pretendeva di avere spiegato la realtà del Tutto. Il metodo di Hegel era esclusivamente deduttivo: Hegel dava al suo sistema dei concetti di partenza, che non avevano alcuna verità concreta e che erano decisi esclusivamente dal filosofo, e da tali concetti poi deduceva altri concetti.
Il metodo di Marx è sia deduttivo sia induttivo, è basato da una parte sulla dialettica dei concetti e le relazioni logiche fra questi, dall’altra sull’analisi della realtà empirica. Marx cioè poneva a confronto nella sua ricerca sia i concetti che impiegava nella sua indagine, sia la realtà concreta.47
Com’è noto, per chi abbia letto il primo libro del Capitale, Marx analizza in ordine i seguenti concetti: merce, valore, denaro, plusvalore, ecc. Se Marx fosse stato un hegeliano avrebbe dedotto il plusvalore, cioè la produzione di valore caratteristica del capitalismo, dal denaro, nel senso che avrebbe spiegato che dal denaro si produce plusvalore, che dal denaro è possibile cioè creare nuova ricchezza. Marx però ad un certo punto scrive: “Il mutamento di valore del denaro che si deve trasformare in capitale [cioè in valore che deve accrescersi, ndr.] non può verificarsi in questo stesso denaro (...). E il mutamento non può neanche derivare dal secondo atto della circolazione, la rivendita della merce (...). Il nostro possessore di denaro [il capitalista, ndr.], per poter ricavare valore (...), dovrebbe essere così fortunato da trovare, nell'ambito della sfera della circolazione e cioè sul mercato, una merce il cui stesso valore d'uso abbia la specifica proprietà di essere fonte di valore, tale che il suo stesso reale consumo fosse oggettivazione di lavoro e perciò creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: la capacità di lavoro, vale a dire la forza lavorativa”.48 Marx trovò dunque nella forza-lavoro il soggetto che produce plusvalore, abbandonò la deduzione dei concetti ed osservò il mondo esterno a tali categorie, colse dalla realtà concreta un elemento (la forza-lavoro) estraneo alla semplice deduzione logica dei concetti. Se Marx fosse stato un hegeliano, se il suo metodo dialettico coincidesse con quello hegeliano, avrebbe invece spiegato che dal denaro scaturisce il plusvalore.49
Nella prima edizione del 1867 del Capitale Marx non mancò una stoccata ad Hegel, proprio per quanto riguarda il passaggio dal denaro al plusvalore. E a noi sembra che tale frase dovrebbe essere letta da coloro che amano interpretare Marx come un hegeliano, da Lukàcs a ...Diego Fusaro: “Solamente il ‘concetto’ hegeliano ce la fa ad oggettivarsi senza materia esterna”.50
Perché ci siamo soffermati su queste questioni apparentemente “filosofeggianti”? Per ribadire innanzitutto che il denaro non produce alcuna ricchezza! Soltanto da tale assunto può partire qualsiasi analisi della forma-denaro, non pensando al contrario che a volte l’immissione di liquidità crei qualche forma di ricchezza o, keynesianamente, faccia da leva in qualche modo a tale produzione di ricchezza. Se qualcuno dopo questo lockdown pensa che con tanto denaro immesso nell’economia avremo una ripresa economica o è un hegeliano o è... un esperto.
7. L’Uno e Trino, ovvero Il gioco delle tre carte
Fin qui abbiamo già mostrato due elementi essenziali alla base della teoria del denaro di Marx:
1. il denaro è forma di valore e pertanto dovrà esprimere il valore realmente prodotto, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre la merce51;
2. il denaro non crea valore, quindi neppure plusvalore.
Spiegato il valore e la forma di denaro, Marx passa nel Capitale a trattare una determinata tipologia di valore, che caratterizza in particolare la società presente, cioè il capitale. Il capitale è un valore che “non solo si conserva come valore, ma nello stesso tempo si accresce, si moltiplica, aumenta”.52 Esso “è nella società borghese la potenza economica che domina tutto”.53
Come la merce presenta un valore che è distinguibile dal valore di scambio, così il capitale – essendo valore - può essere considerato per il suo essere sostanza, cioè come valore, tempo di lavoro umano oggettivato nelle merci, oppure come valore di scambio, cioè denaro.
Chi ha pasteggiato un minimo con la teoria del plusvalore di Marx saprà che Marx divideva il capitale, nel processo di produzione, in tre parti: capitale costante, capitale variabile e plusvalore. Marx intendeva con il concetto di capitale costante quanto il capitalista investe in macchinari, materie prime, materie ausiliare, fabbricati, ecc.; con il concetto di capitale variabile quanto il capitalista investe in forza-lavoro54; per plusvalore Marx intendeva infine quel valore, prodotto dalla forza-lavoro, di cui si appropria il capitalista.55
Ognuno di questi tre elementi del capitale è quindi valore: il capitale costante corrisponde al valore dei mezzi di produzione, il capitale variabile corrisponde al valore della forza-lavoro e il plusvalore corrisponde al valore prodotto dalla forza-lavoro che però diventa proprietà del capitalista. Aggiunte quindi queste nuove categorie abbiamo ora un’ulteriore specificazione nella definizione di valore: il valore delle merci è dato dalla somma del capitale costante, del capitale variabile e del plusvalore, cioè c + v + pv. Oppure in altri termini: nel capitalismo il valore delle merci, cioè il lavoro socialmente necessario a produrre le merci, è scomponibile in capitale costante, capitale variabile e plusvalore.56
Il capitale può essere concepito come un grande ammasso di merci e come tale ha la proprietà di essere valore d’uso e valore al tempo stesso. Il valore, come spiegato, è scomponibile a sua volta in valore propriamente detto (sostanza di valore) e valore di scambio (forma di valore). Vediamo quindi il capitale sotto questi tre diversi aspetti: valore di scambio, valore e valore d’uso.
Poniamo che un capitalista investa 200 $ di capitale e che il capitale costante sia corrispondente a 100 $ (cioè i mezzi di produzione abbiano un valore di 100 $), il capitale variabile sia corrispondente a 50 $ (cioè il capitale monetario investito in forza-lavoro ammonti a 50 $) e il plusvalore sia corrispondente a 50 $ (cioè il valore in più prodotto attraverso la produzione ammonti a 50 $). Con questo esempio abbiamo mostrato un capitale-tipo sotto la forma del denaro: 100 + 50 + 50 = 200 $.
Poniamo ora che ad ogni dollaro di capitale corrisponda un’ora di lavoro e che quindi i mezzi di produzione impiegati siano stati prodotti in 100 ore (lavoro morto) e che i lavoratori con tali macchinari lavorino altre 100 ore (lavoro vivo), di cui 50 ore corrispondenti a quello che Marx chiamava lavoro necessario (corrispondente al capitale variabile) e altre 50 ore di lavoro non retribuito, che Marx chiama pluslavoro (e che corrisponde al plusvalore). In questo caso abbiamo descritto il medesimo processo di produzione detto sopra, però esclusivamente dal punto di vista del tempo di lavoro: 100 h + 50 h + 50 h = 200 ore di lavoro.
Infine immaginiamo innanzitutto che ad ogni ora di lavoro, passato e presente, corrisponda una singola unità di merce, autonomamente vendibile sul mercato per essere consumata. Poniamo che si siano prodotti 200 tavoli, di cui 100 corrispondenti al capitale costante e a 100 ore di lavoro, 50 corrispondenti al capitale variabile e a 50 ore di lavoro necessario ed altri 50 tavoli corrispondenti al plusvalore e alle 50 ore di pluslavoro, il cosiddetto plusprodotto: 100 tavoli + 50 tavoli + 50 tavoli.
Dovrebbe risultare chiaro che abbiamo qui tre forme diverse per la medesima cosa: 200 dollari, 200 ore di lavoro, 200 tavoli. L’esempio è estremo, ma lo abbiamo scelto per semplificare al massimo la questione. In altra maniera qui potremmo dire che 200 dollari corrispondono a 200 ore di lavoro e a 200 tavoli.
Poniamo ora che 200 ore di lavoro e 200 tavoli non corrispondano più a 200 dollari, ma a 400 dollari, cosa è cambiato? In realtà nulla, perché la sostanza di valore è rimasta la medesima, cioè corrispondente a 200 ore di lavoro. Chi acquisterà i 200 tavoli pagherà 400 dollari, ma questi 400 dollari esprimeranno comunque 200 ore di lavoro umano oltre che il prezzo di 200 tavoli.
Dunque abbiamo compreso che il tempo di lavoro umano, il valore in denaro e la quantità fisica di merci sono fra loro strettamente collegati, sebbene nella realtà lo siano in modo più complesso di come noi lo abbiamo illustrato. Una certa quantità di ore di lavoro umano viene espressa in un determinato quantitativo di denaro e corrisponde a un dato quantitativo di merci; un determinato quantitativo di denaro esprime una certa quantità di ore di lavoro umano e un dato quantitativo di merci; un dato quantitativo di merci corrisponde ad una certa quantità di ore di lavoro e viene espressa attraverso un determinato quantitativo di denaro. Sembra difficile, ma non lo è.
L’economia politica borghese, quella classica ma soprattutto quella che Marx definiva volgare, fece (e fa) invece una grande confusione ritenendo che nei rapporti economici si tratti solo di rapporti fra cose, cioè non si confrontino tempi di lavoro umani, ma soltanto determinati quantativi di merci oppure dati quantitativi di denaro.57 E per quanto riguarda il denaro la teoria economica borghese, nelle sue varie scuole contemporanee, ritiene che esso abbia poteri esoterici di crear valore, di essere qualcosa che ha dinamiche proprie staccate da tutto il resto e che quindi ad esso possa non corrispondere alcun tempo di lavoro umano e alcuna merce.
8. Le metamorfosi che a Rosa non piacquero
Nel secondo libro della sua opera economica Marx spiegava che il capitale assume nella circolazione tre principali forme: quella di capitale monetario, quella di capitale produttivo e quella di capitale-merce. Qui s’intende l’intero valore-capitale, cioè c + v + pv, e il capitale lo si analizza nel processo di circolazione. Un esempio: quando un determinato ammasso di merci deve essere venduto si deve trasformare in denaro e questo denaro a sua volta dovrà trasformarsi nuovamente in mezzi di produzione e forza-lavoro per riavviare un nuovo ciclo produttivo. In termini “più dialettici” a volte il capitale si deve presentare sotto la forma di denaro, altre volte sotto la forma di un grande ammasso di merci, altre volte ancora lo stesso capitale si deve presentare in atto nella produzione stessa, cioè in mezzi di produzione e in forza-lavoro che vengono applicati alla produzione.
Come Marx, però, aveva dimostrato nel primo libro, soltanto nel processo di produzione abbiamo produzione di plusvalore, soltanto cioè dall’uso della forza-lavoro scaturisce un valore superiore a quello inizialmente investito. Pertanto l’unica differenza sostanziale fra le tre forme del capitale sopra dette è che nella forma di capitale produttivo il capitale si valorizza, aumenta cioè di valore, mentre nelle altre due forme non abbiamo creazione di valore.58
Il passaggio da una forma all'altra del capitale è passaggio necessario per il funzionamento della macchina capitalistica, ma da dove cominciare l'analisi di queste metamorfosi? E' il capitale produttivo – in quanto atto di produzione - il punto di partenza del processo, oppure il capitale monetario da cui è partito l’investimento, o il capitale-merce attraverso la cui vendita è possibile ricevere il capitale da investire? In realtà ognuna di queste forme potrebbe rappresentare il punto di partenza di un ciclo di metamorfosi del capitale e la domanda di prima si riduce dunque a quella classica: è nato primo l'uovo o la gallina? Marx mostra nella prima sezione del secondo libro che un grosso errore dell'economia politica borghese, e di vari sistemi economici socialisti, era quello di considerare il capitale soltanto partendo da una data forma, scartando invece un'altra forma con cui un ciclo del capitale avrebbe potuto essere analizzato. E qui torniamo al fatto che il sottotitolo del Capitale è appunto Critica dell’economia politica.
Marx analizza tre cicli del capitale:
a) Il primo ciclo che Marx analizza è il ciclo del capitale monetario; esso si presenta nel seguente modo:
D – M ...P... M' – D'
In questa formula D sta per capitale monetario, M per capitale-merce e P per capitale produttivo. Cosa dice tale formula? E' molto semplice. Una data somma di capitale innanzitutto si presenta sul mercato sotto forma di una data somma di denaro (D) e con essa acquista M, che in questo caso è rappresentato da mezzi di produzione e forza-lavoro. Questi due elementi nella produzione vengono fatti interagire fra loro e vengono consumati in modo produttivo (P), cioè consumati in un modo tale che da tale consumo (cioè, da tale processo di produzione) si formi nuovo valore oltre a quello già esistente precedentemente, si produca cioè un plusvalore. Questo valore, a processo produttivo ultimato, scaturirà quindi sotto forma di un ammasso di merci finite da consumare (M’) e sul mercato queste merci dovranno essere vendute: a seguito di tale vendita avremo quindi un ultimo mutamento di forma, cioè da M’ a D’: D’ rappresenta la somma di denaro precedentemente investita, cioè il denaro da cui è partito il ciclo, più il plusvalore, cioè D + ΔD.59
b) Il secondo ciclo che Marx analizza è quello del capitale produttivo ed è sintetizzabile nel seguente modo:
P...M’ - D’ - M’...P’
Qui Marx mostrava il passaggio del capitale da una forma all’altra dal punto di vista del capitale produttivo P. Da esso, cioè da P, scaturiscono merci M’ di valore superiore al valore investito in precedenza e con la vendita il capitale-merce si trasforma in capitale monetario D’. Il capitale monetario viene investito successivamente in mezzi di produzione e forza-lavoro (M’); e attraverso tali merci si riparte con un nuovo processo produttivo (P’).60
c) C’è infine un terzo ciclo, quello del del capitale-merce, che considera Marx:
M - D - M...P...M’
Lasciamo qui il lettore stesso a spiegare le conclusioni sui singoli passaggi di tale ciclo.61
Marx, mostrando questi tre cicli, criticava le varie posizioni unilaterali della teoria economica borghese: criticava i limiti di coloro che riflettono la società capitalistica soltanto come società basata sull’arricchimento individuale (cioè attraverso il ciclo del capitale monetario); criticava però anche coloro che la analizzano soltanto dal punto di vista della produzione (cioè attraverso il ciclo del capitale produttivo), dando la fabbrica capitalistica come unica realtà veramente importante del capitalismo; criticava infine anche coloro che vogliono far credere che il capitalismo produca essenzialmente al fine del godimento e dei bisogni umani (e che quindi prediligono il ciclo del capitale-merce).62
Mirabili pagine sono queste di Marx, così poco comprese in genere! Rosa Luxemburg scriveva, ad esempio: il Libro secondo del Capitale “non permette di farci trarre delle applicazioni immediate per la vita pratica”;63 in questa valutazione la Luxemburg però si sbagliava perché chi sappia leggere bene certi testi potrebbe cavarne miniere di consigli “per la vita pratica” (politica, s’intende); soprattutto però si sbagliava perché la critica dell’economia politica in Marx è allo stesso tempo critica del sistema capitalistico e chiunque si ponga in senso rivoluzionario verso il capitalismo dovrà pur conoscerlo per contrapporre un’alternativa economica e una riorganizzazione della società futura!
Cosa c’entra però tutto ciò con la critica al monetarismo e con la crisi economica attuale (creativamente denominata crisi economica del coronavirus)? L’analisi dei cicli del capitale ci spiega che il medesimo capitale presenta tre forme distinte fra loro strettamente intrecciate. Ognuna di queste tre forme deve corrispondere alle altre due: ad eccezione soltanto del capitale produttivo, in cui il valore si accresce, anche qui nessuna delle tre forme presenta una decisiva autonomia dalle altre, neppure il denaro.
Potremmo dire la cosa anche in quest’altro modo: se non si lavora non ci sono merci e quindi il denaro non servirà. Qui emerge infatti quanto sia una necessità del capitalismo che le merci vengano vendute, che il processo produttivo si possa attuare, che i mezzi di produzione e la forza-lavoro che servono alla produzione siano acquistabili e che il denaro circolante corrisponda a tali esigenze.
9. Moneta per contare, moneta per comprare
Dopo questa lunga disamina generale che è servita a dare la base teorica di ogni spiegazione ulteriore, parliamo ora di moneta e denaro in senso stretto (quello che da Marx è trattato nel capitolo secondo di Per la critica dell’economia politica e nel capitolo terzo del primo libro del Capitale), sebbene ne parleremo soltanto secondo l’aspetto teorico generale e non scendendo quindi nelle dinamiche concrete delle sue manifestazioni che Marx espone nel libro terzo del Capitale e nei suoi vari manoscritti economici. Sia chiaro che per la comprensione della manifestazione concreta del denaro nella complessità industriale e finanziaria del capitalismo reale, serve innanzitutto la comprensione della teoria generale del denaro secondo quanto da noi detto nei precedenti paragrafi e secondo quanto spiegheremo ora, teoria che a molti lettori e studiosi del Capitale è apparsa spesso fumosa e poco comprensibile. Chiarito dunque il mistero della forma di denaro in relazione al valore, si tratta ora di mostrare il Dio Denaro come si presenta nella società capitalistica, sebbene attraverso la semplificazione estrema (l’astrazione) che Marx fa nella prima sezione del primo libro del Capitale.
La prima funzione del denaro che Marx ha analizzato è quella di misura dei valori, cioè la funzione di servire per avere una misurazione valida per tutti del valore delle merci.
Marx scriveva all’inizio del terzo capitolo del Capitale di presupporre “per semplicità, che l’oro sia la merce denaro”.64 Inoltre Marx chiariva che anche in un regime monetario che ha l’oro alla sua base, come quello dei suoi tempi, non si esprime il prezzo di una merce direttamente in oro, ma piuttosto “nelle denominazioni monetarie della scala di misura dell’oro”, cioè in scellini, lira, ecc.65; nessuno all’epoca di Marx diceva che un quarter di grano costa un’oncia d’oro, ma diceva semmai che un quarter di grano costa 3 lire sterline, 17 scellini e 10 pence e mezzo. All’epoca di Marx 3 lire sterline, 17 scellini e 10 pence e mezzo equivalevano ad un’oncia d’oro ed erano queste denominazioni monetarie a servire gli affari, non direttamente l’oro. In tal modo, spiegava Marx, “il denaro diventa moneta di conto”, e come già spiegò, nel 1750, il napoletano Ferdinando Galiani, perché la moneta faccia da moneta di conto non serve neppure della moneta reale: “per valutare”, scriveva il Galiani, “è buona la moneta ideale”.66
Si può dunque, anche in regime aureo, valutare le merci con delle denominazioni e non avere neppure un grammo d’oro o una banconota: per contare servono le dita, se proprio si è messi male coi conti, e un’unità di misura (nel caso di sopra la sterlina). Marx mostrava che l’economista Germain Garnier aveva avuto l’idea curiosa, in una sua opera pubblicata nel 1819, di calcolare che la “proporzione fra l’uso di denaro di conto e l’uso di denaro reale” era da considerarsi pari a 10 a 1.67 Marx ricordava anche che fino al 1845 in Scozia non circolava alcuna oncia d’oro sebbene l’oncia “servisse da misura legale dei prezzi” e si esprimesse come 3 lire sterline, 17 sh., 10 pence e ½. In tale dinamica non aveva alcuna influenza neppure il mutamento di valore dell’oro e dell’argento: “Il cambiamento del valore dell’oro e dell’argento non incide sulla loro funzione come misura dei valori o moneta di conto”.68
Se domani quindi cambiasse la denominazione della moneta (ad esempio da euro a lira) cambierebbe la misura dei valori, ma non il valore delle merci. Se il valore di un tavolo prima era 100 euro e poi 200.000 lire non cambierà nulla in termini del valore del tavolo: il tavolo esprimerà sempre le medesime ore di lavoro socialmente necessario e nella funzione di misura dei valori il rapporto col valore reale delle merci è formale e dato dalla convenzione.
Dopo avere considerato la moneta nella sua funzione di misura dei valori, Marx la analizza nella sua funzione di mezzo di circolazione. Se prima la moneta fisica poteva anche non esserci, nella sua funzione di mezzo di circolazione la moneta dev’essere fisicamente esistente o comunque, pur se non tangibile, dev’essere scambiata (o deve risultare scambiata) direttamente con merce. In qualità di mezzo di circolazione la moneta segue una determinata ferrea legge: la massa del denaro che deve circolare dev’essere pari al rapporto fra la somma dei prezzi delle merci e il numero di giri delle monete di ugual nome.69 Questa legge, spiegava Marx nel terzo libro, nel capitalismo contemporaneo “si applica alla circolazione delle banconote”.70
Per quali necessità a volte circolano più banconote, altre volte meno? “Sono soltanto le necessità del commercio stesso”, scriveva Marx, “che esercitano un influsso sulla quantità del denaro in circolazione, banconote e oro”.71 Il circolante non crea infatti nuovo valore e la quantità in cui esso circola è dettata unicamente da quanto esso serva alla circolazione. Poniamo l’esempio che, a parità di valori di merci circolanti e a parità di numeri di giri delle banconote, s’immetta nel mercato il doppio delle banconote: a seguito di ciò avremo che tutti i prezzi nominali raddoppieranno, ma non per questo le merci avranno cambiato valore. Merci fabbricate in otto ore di lavoro rimarrano pur sempre merci fabbricate in otto ore di lavoro e se prima una determinata quantità di banconote esprimeva tali otto ore, ora il medesimo tempo di lavoro socialmente necessario, quindi il medesimo valore, sarà rappresentato dal doppio delle banconote. Poniamo che anziché 22 miliardi di banconote euro circolanti abbiamo 44 miliardi di banconote circolanti della medesima taglia: cosa succederebbe? Dinamiche inflazionistiche spaventose? Rimanendo nell’ambito della circolazione delle merci, quindi escludendo dall’analisi questioni inerenti ai capitali finanziari e ai debiti pubblici, avremo semplicemente che ciò che prima veniva pagato, poniamo, con 100 euro, ora verrà pagato con 200 euro, ma il valore della merce che abbiamo acquistato sarà rimasto lo stesso. Qui siamo nell’ipotesi ovviamente della “moneta endogena”, in cui si distribuisce il cash direttamente attraverso le banche nei conti delle persone. In questo caso nessuno sarebbe più ricco di prima, ma semplicemente denomineremo in un altro modo il prezzo delle merci.
Ma il valore del denaro? Qui le banconote circolano senza che un loro eventuale valore abbia alcuna importanza: “In un processo che fa passare costantemente il denaro da una mano all’altra, è sufficiente anche la sua esistenza puramente simbolica. (…) Riflesso dileguante oggettivato dei prezzi delle merci, esso funziona ormai soltanto come segno di se stesso e quindi può essere sostituito con segni. Solo che il segno del denaro ha bisogno di una propria validità oggettivamente sociale: e il simbolo cartaceo ottiene tale validità mediante il corso forzoso”.72 Che cos’è il corso forzoso? E’ un sistema monetario in cui lo Stato impone ai propri cittadini l’accettazione delle banconote e delle monete circolanti, pur non avendo queste alcun valore intrinseco e pur non essendo convertibili in oro o argento.
Sorge dunque una domanda: ma che serve allora una banca centrale? Non è forse essa che decide la moneta circolante, attraverso analisi approfondite sulla situazione economica reale? Su tale questione lasciamo rispondere Marx, con parole che scrisse per il New York Daily Tribune nel 1853: “L’idea che un istituto di emissione possa controllare la quantità dei suoi biglietti in circolazione è assurda. Una banca che emetta biglietti convertibili, o che in genere anticipi le banconote sulla scorta di garanzie commerciali, non ha né il potere di aumentare il livello naturale della liquidità in circolazione, né quello di ridurla anche di una sola banconota. Una banca può benissimo emettere banconote fintantoché i suoi clienti sono disposti ad accettarle; ma, se non sono necessarie per la circolazione, le banconote le ritorneranno sotto forma di depositi, o in pagamento di debiti o in cambio di liquidità metallica. (…) Una banca non ha alcun potere sulla valuta in circolazione, quale che sia il suo potere di abusare dei capitali altrui”.73
In conclusione, da quanto detto fin qui, possiamo già trarre delle conclusioni:
1. Non è assolutamente vero che la teoria della moneta di Marx è valida soltanto in un regime monetario aureo, come quasi tutti i commentatori hanno sempre detto: nella funzione di misura dei valori e in quella di mezzo di circolazione sono bastevoli, già secondo Marx, delle semplici banconote prive di valore intrinseco e che non rappresentano alcun valore aureo;
2. L’immissione di moneta in sé non solo non è produzione di ricchezza, ma è fatta in funzione delle esigenze della circolazione, non per sviluppare la circolazione: se è vero che nella storia si son presentati dei brevi periodi in cui il denaro circolante o era troppo o era troppo poco, in genere è la stessa circolazione a regolare la quantità di moneta che occorre e a risolvere le eventuali “crisi di liquidità” o gli eventuali “eccessi di liquidità”.
10. Di Gollum, di Shylock e dello Zio Sam
In Per la critica dell’economia politica (1859) Marx divise il secondo capitolo, quello sul denaro, in tre paragrafi: i primi due trattanti la funzione di misura dei valori e di mezzo di circolazione, e che abbiamo per sommi capi già illustrato, il terzo trattante la funzione invece di denaro in senso stretto. Anche il capitolo terzo del Capitale (1867), trattante i medesimi argomenti, presenta la medesima suddivisione: misura dei valori, mezzo di circolazione e poi, a parte, denaro.
Spiegava Marx: “Come misura dei valori l’oro è denaro e oro solo ideale; come semplice mezzo di circolazione è denaro e oro simbolico, ma nella sua semplice corporeità metallica l’oro è denaro, ossia il denaro oro è reale”.74 Potevamo prima fare a meno del valore reale della merce-denaro, del suo valore, ora l’importanza di un suo valore torna alla ribalta in tre funzioni distinte, quella di tesoro, quella di mezzo di pagamento e quella di denaro mondiale. Come vedremo, però, questa esigenza del denaro di essere merce con un valore intrinseco, di non essere solo valore di scambio ma anche valore, si presenta in forme altamente contraddittorie.
Il denaro è effettivamente denaro, cioè non qualcosa di evanescente che serve per far di conto o per far circolare merci, ma qualcosa che rappresenta ricchezza, innanzitutto quando ha la funzione di tesoro. In tal funzione possiamo vederlo come tesoro delle banche centrali oppure di un grande fondo di investimento, ma anche dei correntisti, che siano aziende o privati. “La moneta stessa diventa denaro non appena il suo corso è interrotto”.75 Fermandosi cioè la circolazione, la moneta deve provare il suo valore, in quanto - stando quiescente – non ha alcun senso che il deposito assuma alcuna considerazione sociale se in esso non si vede espresso un valore.
Come detto sopra, però, le modalità attraverso le quali il denaro mostra il proprio valore sono altamente contraddittorie. Se Pinco Pallino possiede oro depositato per il valore di 500 milioni di dollari, avrà una ricchezza ben sicura anche in tempi difficili. Se Pinco Pallino possiede 500 milioni in dollari cartacei, avrà anche in questo caso una ricchezza ben sicura, sebbene potrebbero sorgere alcuni inconvenienti che potrebbero turbare il sonno del nostro milionario: a) il dollaro potrebbe “svalutarsi”, cioè potrebbero aumentare enormemente i prezzi generali delle merci e quindi il dollaro si presenterà come deprezzato (qualcosa del genere lo si è visto negli anni ‘90 in Russia, sebbene in quel caso i prezzi non andarono alle stelle, come spesso si è detto, per la svalutazione del rublo, come affermano le varie teorie economiche borghesi oggi circolanti, ma per l’aumento del prezzo delle merci determinato dalla rovina generale della produzione); b) il dollaro potrebbe non valere nulla nel caso limite che lo stato USA non abbia più la forza legale di imporre il valore deciso dallo Stato. In tutti questi casi si presuppone però che la moneta ben conservata si faccia denaro, cioè sia da considerarsi a) per il suo valore reale oppure b) per il suo valore legale o ancora c) per il suo valore...presunto. Il Gollum ossessionato dal “suo tesoro” diventa, nei momenti di crisi economica, il correntista, la banca privata, il fondo di investimento, la compagnia assicurativa o addirittura un’intera nazione.
Quando una persona acquista una merce, ma la paga successivamente, il denaro assume invece la funzione di mezzo di pagamento.76 Se nella funzione di misura dei valori il mutamento di valore del denaro non ha alcuna importanza, nella funzione di mezzo di pagamento le variazioni di valore hanno invece una notevole importanza: un debito, contratto con una moneta che ha un determinato valore intrinseco (quindi in oro, in argento, ecc.), può aumentare o diminuire al cambiamento di valore del denaro.77 Inoltre “qui è il compratore stesso che rappresenta simbolicamente il denaro”.78 Qualsiasi persona che incorre in un debito sa benissimo infatti che dovrà lavorare per un dato quantitativo di tempo per poter pagare tale debito: nel tempo di lavoro futuro si paga qualcosa acquistato in passato, si sacrificano le proprie forze fisiche e psichiche per poter saldare il debito contratto. Che il denaro quindi rappresenti valore, che la forma di valore cioè debba in qualche modo riferirsi alla sostanza di valore, diventa chiaro proprio nella funzione di mezzo di pagamento del denaro.
Se la moneta con cui si paga non presenta alcun valore intrinseco, come quella dei nostri giorni, ovviamente vale soltanto la seconda caratteristica, cioè quella secondo la quale, nella funzione di mezzo di pagamento, “il compratore stesso rappresenta simbolicamente il denaro”: in questo caso, infatti, non abbiamo dei mutamenti di valore del denaro in quanto esso è privo di valore (ciò che spesso la teoria economia chiama valore del denaro non è altro che un mutamento di prezzo delle merci). Scriveva Marx: “Se il possessore di merce, come custode del tesoro, recitava una parte piuttosto buffa, ora egli diventa terrificante in quanto concepisce non se stesso, bensì il suo prossimo, come esistenza di una determinata somma di denaro e rende martire del valore di scambio non se stesso, bensì il prossimo. Da credente diventa creditore, dalla religione precipita nella giurisprudenza”.79 E a questo punto Marx citava l’ebreo Shylock quando reclama, ne Il mercante di Venezia di Shakespeare, il proprio diritto sulla libbra di carne dal petto del suo debitore, il povero Antonio.
Nel Capitale, trattando la funzione di mezzo di pagamento del denaro, Marx si dà anche ad una delle sue mirabili descrizioni di una crisi capitalistica: “Appena si debbono compiere pagamenti reali [cioè, appena i debiti devono essere saldati, ndr.], il denaro non si presenta come mezzo di circolazione (…), ma si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta. Questa contraddizione erompe in quel momento della crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria. Essa avviene soltanto dove sono sviluppati pienamente il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano turbamenti generali di questo meccanismo [quest’autunno?, ndr], quale che sia l’origine di essi, il denaro si cambia improvvisamente e senza transizioni: da figura solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro contante. Non è più sostituibile con merci profane. Il valore d’uso della merce è senza valore e il suo valore scompare dinanzi alla propria forma di valore [cioè: non ha importanza il valore che ha una qualsiasi merce, ha importanza detenere il valore di scambio universale delle merci, cioè il denaro, ndr.]. Il borghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illuministica derivata dall’ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rintrona il grido: «Solo il denaro è merce!». Come il cervo mugghia in cerca d’acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l’unica ricchezza. Nella crisi, l’opposizione fra la merce e la sua figura di valore, il denaro, viene fatta salire fino alla contraddizione assoluta. Perciò qui è indifferente anche la forma fenomenica del denaro. La carestia di denaro rimane la stessa, sia che i pagamenti debbano essere fatti in oro o in moneta di credito, p. es. banconote”.80
Marx concludeva infine la sua analisi del denaro con la funzione di denaro mondiale. Ai tempi di Marx la quasi totalità del commercio mondiale veniva fatto attraverso scambi di merci contro oro o argento: il metallo, nella sua forma di lingotti o verghe, acquisiva direttamente la funzione di denaro, di merce con un determinato valore intrinseco il cui compito era rappresentare la forma di equivalente universale. Come nelle prime forme di moneta dell’antichità, in cui erano i metalli preziosi a circolare, nella funzione di denaro mondiale il metallo prezioso mostra la propria potenza come denaro: “come moneta mondiale”, scriveva Marx, “il denaro riacquista la sua forma primaria spontanea”.81 Soltanto nella funzione di denaro mondiale il denaro si presenta, cioè, come metallo prezioso e in tale funzione l’oro non fa da mezzo di circolazione, ma soltanto da mezzo di acquisto (cioè scambio unilaterale) oppure da mezzo di pagamento (“per la compensazione dei bilanci inernazionali”).82
Se però ai tempi di Marx sul mercato mondiale il denaro presentava un “modo di esistenza adeguato al suo concetto”, cioè si presentava come merce “la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto”, oggi gran parte degli scambi mercantili internazionali non avvengono fra merci ed oro (o argento), ma fra merci e dollari non convertibili, cioè fra merci e banconote formalmente prive di valore. Il fatto inedito nella storia è che gli Stati Uniti d’America hanno imposto un corso forzoso a livello planetario che può reggere esclusivamente grazie alla propria potenza militare e politica e fino a quando tale potenza militare e politica sarà garantita. Per lo zio Sam, da qualche decennio, il valore del suo dollaro è dato dal suo potere militare, politico e finanziario sul mondo.
Facciamo però presente che non solo oggi l’oro non è però del tutto scomparso dagli scambi internazionali di merci fra nazioni, ma nei momenti di stress economico internazionale l’oro si fa nuovamente avanti come merce universale, come unico vero denaro per le grandi istituzioni finanziarie, per gli Stati, per i capitalisti. Riportiamo ad esempio quanto scritto da due analisti di Deutsche Bank qualche anno fa, nel 2012, quando l’Unione Europea si trovava sotto pressione per la crisi dei debiti sovrani e degli spread: “Noi vediamo l’oro come una forma di moneta ufficialmente riconosciuta per una ragione principale: esso è largamente tenuto dalle più importanti banche centrali del mondo come un componente delle riserve”.83 L’ex presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, dinanzi alla situazione nervosa dei mercati internazionali nel 2010, constatò: “Sebbene nei libri di testo l’oro venga considerato una moneta di un tempo, i mercati stanno usando l’oro in questo periodo come una risorsa monetaria alternativa”.84 Nel 2009, in piena Grande Recessione, il presidente della Federal Reserve di allora, Alan Greenspan, aveva fatto ben tre dichiarazioni in cui spiegava che l’oro stava salendo di prezzo per la sfiducia verso la valuta di carta.85 A livello nazionale, come a livello internazionale, l’oro ha un senso quando la fiducia verso chi ha imposto il “corso forzoso” viene meno, in quanto evidentemente chi detta la legge monetaria non è più in grado... di dettar legge.
Nelle sue tre funzioni (tesoro, mezzo di pagamento e denaro mondiale) il denaro deve dunque avere un valore o legale o intrinseco o presunto (basato cioè sulla fiducia) e il fatto che ce l’abbia realmente o non ce l’abbia dà il senso di come il denaro rappresenti, più di ogni altro elemento del capitalismo, una forma irrequieta e altamente contraddittoria. Già soltanto il fatto che nei momenti più tranquilli dell’economia nessuno si preoccupi se il denaro abbia o meno un valore e che tale necessità di riconoscere in esso un valore (anche solo fittizio, cioè basato sulla fiducia) emerga quando l’economia precipita nelle crisi, già soltanto ciò mostra l’assurdo della forma di denaro, il suo carattere irrazionale.
11. L’altra liquidità
II nostro lavoro di critica agli interventi monetari svolto nei paragrafi precedenti riguarda quegli interventi, ora teorizzati da più parti, che vorrebbero distribuire denaro all’intera popolazione, non solo per aiutare la popolazione in questi momenti difficili, ma soprattutto con lo scopo dichiarato di voler far risollevare l’economia capitalistica. Tale tesi l’abbiamo confutata tornando a Marx e se il nostro discorso marxiano sarà sembrato difficile, non sarà molto più difficile delle varie astruserie accademiche delle teorie economiche più recenti che, dietro paroloni e grandi calcoli matematici, spesso non nascondono altro che un piatto empirismo di derivazione anglosassone.
Esiste però un’altra forma di intervento monetario nell’economia, quello attraverso il quale viene distribuito denaro alle banche e alle istituzioni finanziarie: quando le banche centrali fanno piovere moneta sulle banche private, nei giornali si dice che lo facciano per aiutare l’economia nel suo complesso, sebbene in realtà lo facciano per “dar benzina” al capitale finanziario. Ciò avviene in particolar modo quando le banche ed altri istituti finanziari non sanno più dove far utili, dove remunerarsi, ed hanno bisogno di ulteriore denaro per investire in titoli finanziari di vario tipo. Per quanto il nostro lavoro non tratti il capitale finanziario, ci sembra utile fare un accenno su quanto accaduto negli ultimi decenni e su come le iniezioni di denaro principali avute fin qui non siano state in direzione dell’economia reale (come i monetaristi di sinistra e di destra vorrebbero), ma soltanto per aiutare i capitali finanziari dei principali paesi industriali del pianeta a remunerarsi per il globo, depredando cioè valore (a volte reale, a volte presunto) ai paesi industrialmente più fragili e alle classi più povere.
Negli ultimi decenni, in particolare dalla metà degli anni ‘70 in poi, le principali iniezioni di liquidità, quelle cioè che hanno determinato la dinamica successiva capitalistica, sono state effettuate innanzitutto per sostenere i debiti (creando nuovi debiti), per sostenere la rapina finanziaria perpetuata dai paesi capitalisticamente più forti sui paesi capitalisticamente più deboli, per remunerare quella parte di rentiers parassitari che oggi domina l’economia capitalistica, per influire sulle politiche statali, per non far crollare i prezzi delle merci fisiche rischiando fenomeni di deflazione, ecc. Banche centrali e grandi istituti finanziari, anche privati o semiprivati, hanno condotto le danze negli ultimi decenni per mantenere in piedi un castello di carte finanziario: si sono indebitati e strozzati enormemente i paesi capitalisticamente meno forti, si sono gonfiati i debiti privati relativamente ai redditi, è aumentata la forbice fra profitti e tasso di accumulazione reale della produzione, ecc.86
Dagli anni ‘80 ad oggi l’economia capitalistica ha gonfiato bolle speculative su titoli di Borsa, obbligazioni, derivati, ecc., e se non avesse fatto ciò la crisi generalizzata del capitale la avremmo vissuta già negli anni ‘80. Come mai però negli anni ‘80 si è preferito non far sfogare la crisi economica in modo naturale? Come mai ci si è dati a riempire il pianeta di folli bolle finanziarie? George Soros, intervenendo in tale dibattito internazionale se fare o non fare sfogare la crisi economica, nel 1987 scriveva: “L’alternativa [alla finanziarizzazione estrema dell’economia, ndr.] è un periodo simile agli anni Trenta: una crisi finanziaria, una politica di svalutazione portata avanti da ogni paese nel tentativo di rubare quote di mercato agli altri, con esito inevitabile in una depressione mondiale e forse addirittura in una guerra mondiale”.87 Negli anni ‘80 alcuni economisti importanti temevano che scatenare la crisi economica in modo naturale avrebbe determinato la possibilità di rivoluzioni sociali nel pianeta. Susan Strange, riassumendoci quel dibattito degli anni ‘80, scrive: “Le crisi finanziarie – e anche le depressioni economiche che ne conseguono – non conducono necessariamente a rivoluzioni politiche. Ma si tratta di una possibilità concreta”.88 La deregolamentazione finanziaria, l’indebitamento generalizzato, il depredamento sempre più intenso dei paesi più forti sui paesi più deboli ha permesso al capitale delle principali potenze mondiali di reggere fino ad ora.
Il primo grande contraccolpo di questa folle corsa alla creazione di gigantesche bolle finanziarie lo abbiamo vissuto con la crisi del 2008, crisi che formalmente si presentò come “crisi dei mutui subprime”. Da tale crisi, come abbiamo spiegato nel nostro precedente articolo, le principali economie industriali non hanno ritrovato alcun ringiovanimento e alcuni Stati industriali (Italia e Giappone) addirittura non si sono mai più ripresi.
Il secondo grande contraccolpo (quello cioè che stiamo vivendo) diventa di conseguenza molto più pesante e colpisce delle economie in cui le strutture produttive sono già altamente provate. L’Italia, ad esempio, se non vedrà sorgere un partito nazionalista di massa che non è dato vedere all’orizzonte, scomparirà dal club delle principali potenze industriali in modo definitivo. Ma questo secondo contraccolpo, come dimostrammo nel nostro precedente articolo (In morte della capacità critica, terza parte), non è dovuto – come si racconta - al coronavirus, ma alla crisi economica che già era cominciata alla fine del 2019.
12. L’asintomatico infettivo
Nello scorso articolo volemmo smontare il mito del coronavirus come virus altamente letale e come detonatore della crisi economica mondiale e sembra che il tempo ci stia dando ragione.
Al momento in cui scriviamo sono morte ufficialmente circa 400.000 persone al mondo per il virus Sars-Cov-2, al lordo delle RSA, delle peggioranti terapie intensive e delle statistiche farlocche. Se la Covid-19 fosse l’Influenza Spagnola effettivamente si sarebbe rischiato qualche centinaio di milioni di morti (al netto della crescita della popolazione nell’ultimo secolo) o almeno un milione di morti, come nel caso dell’influenza di Hong Kong del 1969. Ma al di là di queste miserie, commenterà qualcuno, qualche dato e qualche studio scientifico in più si è intanto aggiunto a quegli studi che avevamo citato nel precedente articolo e che pubblicammo ad inizio aprile. Il 26 marzo 2020 uno studio scientifico, basandosi sull’analisi della diffusione del virus sulla nave Diamond Princess ad inizio febbraio, calcolava un tasso di letalità dello 0,65%.89 Il 30 marzo 2020 l’Imperial College del Regno Unito stimava che i contagiati in Italia fossero 5,9 milioni e nel nostro precedente articolo calcolammo che se questa stima era corretta il tasso di letalità del coronavirus era dello 0,19%, cioè ben minore dell’influenza.90 Se nel precedente articolo citammo poi un articolo del New England Journal of Medecine che, basandosi sul caso cinese, calcolava un tasso di letalità del coronavirus che andava dallo 0,1% all’1%, sempre sul caso cinese abbiamo ora da citare uno studio della rivista The Lancet che calcola, sempre sulla Cina, un tasso di letalità pari allo 0,675%, poco superiore a quello dell’influenza del 2016-17.91 Il 4 maggio 2020 La Stampa riportava notizia di uno studio del Kobe City General Medical Hospital in Giappone secondo il quale la mortalità del coronavirus sarebbe ben inferiore rispetto all’influenza stagionale.92
Spiegammo l’altra volta quanto fosse alquanto strano che una pandemia di un virus meno letale dell’influenza o poco più letale venisse trattato politicamente nel modo che sappiamo e demmo una spiegazione del perché sia utile, innanzitutto per i principali paesi industrializzati, cavalcare oggi tale epidemia, creare un’emergenza nazionale, sospendere la normalità legale cui gli occidentali si erano quasi affezionati, creare il terrore fra la popolazione, ecc. Cercammo di dimostrare che la crisi economica mondiale era oramai in piena esplosione già dalla fine del 2019 e che quella crisi avrebbe determinato comunque crolli vertiginosi delle economie mondiali. Il blocco parziale dell’economia occidentale ci sarebbe comunque stato anche in assenza di coronavirus, sebbene l’uso politico di tale pandemia abbia alquanto pasticciato le cose ed abbia determinato per alcuni paesi forse crolli ancora più gravi di quelli che avremmo avuto spontaneamente. Nello scorso articolo, In morte della capacità critica, volemmo dunque smontare la grande bufala che la crisi economica fosse stata determinata dal coronavirus.
Non ripeteremo qui cose già dette in quel breve saggio, in cui trattammo soprattutto la caduta delle produzioni nel mondo e lo stato dei debiti (privati, pubblici ed esteri), ma mostriamo alcuni accadimenti (monetari) precedenti all’arrivo del coronavirus, che nei media sono stati passati in sordina e che nel precedente saggio non trattammo. La cronaca di tali avvenimenti è stata taciuta da giornali e tivù: giustificare, infatti, un crack finanziario in atto non era certamente facile per i sacerdoti del capitale e pertanto era meglio trattar di crisi come conseguenza di un virus che, grazie a statistiche creative, risulta altamente letale.
Nel settembre 2019 era iniziata una gravissima preoccupazione fra le banche americane giunta ad un punto tale che il 17 settembre i prestiti fra le singole banche erano addirittura stati congelati. Nel novembre 2019 il Sole 24 Ore ha raccontato: “Con alcune ore di ritardo, il 18 settembre la FED è dovuta intervenire con delle aste di emergenza, offrendo circa 50 miliardi di $ di prestiti con scadenza ad 1 giorno (...) per sopperire alla mancanza di offerta spontanea del mercato [in genere le singole banche private si prestano soldi fra loro per le attività quotidiane piccole e grandi, ma nel settembre 2019 le banche americane temevano di prestarsi denaro, ndr.]. I tassi di interesse sono tornati su livelli accettabili, ma quello che sembrava un intervento una tantum si è trasformato rapidamente in una misura di lungo termine a supporto delle banche: prima la prosecuzione dei prestiti overnight [cioè da saldare in un giorno, ndr.], poi altri 100 miliardi di prestiti a 2 settimane (i term repo). Infine da metà ottobre l'acquisto di titoli di Stato a 1-2 anni per 60 miliardi al mese, un intervento operativamente simile al Quantitative Easing (Qe) [cioè l’operazione di emissione di un enorma quantità di liquidità da parte della banca centrale, ndr.] ma differente nelle finalità che è stato denominato Reserve Management Purchases Program. L'entità dell'iniezione di liquidità ha raggiunto ad inizio novembre i 250 miliardi, e gli interventi sono destinati a proseguire di sicuro per altri 2-3 mesi, quanto meno per la durata necessaria a superare la fine dell'anno”.93
Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali quanto accaduto nel settembre 2019, senza che le opinioni pubbliche fossero avvisate, era “l’esplosione del rischio di controparte non di un solo hedge funds ma di una serie di soggetti finanziari divenuti di colpo insolventi per l’aumento dei costi sul mercato repo [cioè il mercato interbancario, ndr] e capaci di scatenare una valanga sulla catena di collaterale”.94 Dopo circa un decennio la Fed cominciava quindi a reintervenire in modo abnorme sulla struttura finanziaria americana, cercando di aiutare le banche che non potevano più accedere ai prestiti di altre banche e poi cominciando un nuovo quantitative easing, cioè un’immissione di liquidità per salvare nel complesso il sistema finanziario americano dal collasso.
Un manager finanziario americano il 17 gennaio 2020 scriveva sul Financial Times: “In base al principio che regge il mercato, sempre più liquidità deve essere iniettata nel sistema per facilitare il ri-finanziamento del debito mondiale. Il Qe è qui per restare. Dovremmo quindi attenderci il Qe5, Qe6, Qe7 e avanti così”. E ancora: “Una crescente marea di liquidità permette a molte barche di galleggiare ma sappiamo per esperienza che i mercati assets spinti unicamente da liquidità conoscono spesso epiloghi negativi, come accaduto nel 1974, 1987 e 2000, oltre al 1989 in Giappone”. Negli stessi giorni la Federal Reserve valutava di intervenire per salvare gli hedge funds da una prossima bancarotta.95
Ora che la crisi è cominciata, ed è venduta come crisi del coronavirus, sarà dura? Secondo l’ONU nel 2020 raddoppieranno coloro che nel mondo moriranno di fame, passando da 135 milioni nel 2019 a 265 milioni quest’anno.96 Il rapporto dell’agenzia dell’ONU ci spiega che questi moriranno per fame a causa del coronavirus, ma dato che non ci sembra che al coronavirus possiamo imputargli anche la morte per fame riteniamo che la causa di tali morti sarà da imputarsi alla crisi economica mondiale. Probabilmente l’Imperial College o l’OMS ci fornirà qualche buon modello matematico con il quale ci dimostrerà che i morti nel mondo, senza il lockdown, sarebbero stati ben più di quelli che moriranno per fame, sarebbero stati magari 300 milioni, o – perché no - un miliardo (e forse tali modelli creativi li hanno già sfornati e ci sono ora sfuggiti di mente fra questo bazar di informazioni pseudoscientifiche).
Nelle ultime settimane i grandi istituti internazionali, incalzati dagli eventi, hanno cominciato a sfornare previsioni economiche raccapriccianti per l’intero pianeta. Il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato che il Pil mondiale dovrebbe crollare del 4,9%: gli Stati Uniti avranno, secondo queste stime, un crollo dell’8%, la Germania del 7,8% e l’Italia (solito fanalino di coda fra i grandi paesi industrializzati) del 12,8% (più del doppio di quanto l’Italia perdette nella precedente crisi).97
Al mito del coronavirus come causa della crisi economica si sono inchinati tutti gli intellettuali e tutti i partiti e le organizzazioni, anche di estrema sinistra. La nostra tesi per cui la crisi non è da considerarsi del coronavirus ma crisi squisitamente economica del capitale non l’abbiamo riscontrata in tanta letteratura “contro”, “critica”, “rivoluzionaria”, ecc. La tesi che abbiamo cercato di esporre nel precedente lavoro l’abbiamo in parte ritrovata nelle analisi svolte, indipendentemente da noi, da Michael Roberts sul suo sito thenextrecession.wordpress.com e in un articolo di Milano Finanza firmato Maurizio Novelli e Lemanik.98 Abbastanza simile alla nostra è inoltre la tesi espressa in alcuni articoli de Il Programma Comunista.99 A parte queste rare eccezioni, ci sembra che domini sovrana la tesi che la crisi economica sia stata determinata dal lockdown e che senza il lockdown quindi questa crisi non ci sarebbe stata. A causa di ciò avremo un’estrema sinistra che quando la crisi nei prossimi mesi (o, al limite, nei prossimi anni) si diffonderà fra larghi strati della popolazione, come oramai previsto anche dalle fonti ufficiali, alle classi povere non dirà che è una crisi determinata dalla stesse leggi del capitale, come ai bei tempi che furono, ma invece che è una crisi determinata dal coronavirus oppure che è una crisi economica determinata dall’errore di certi politici nell’aver confuso una semplice influenza con la peste bubbonica, cioè una crisi determinata da un lockdown sbagliato, da un errore politico fortuito. In entrambi i casi il capitale è salvo, non è colpevole, si mettano alla sbarra degli imputati il virus o, al limite, l’incapacità politica!
Quello del coronavirus è un mito, non nel senso che esso non esiste, ma nel senso che la narrazione che è stata fatta su di esso ne ha dato una percezione che non ha nulla a che vedere con la sua realtà, con il suo reale manifestarsi. Da tale mito si sono prodotti innumerevoli “sottomiti”: il mito, ad esempio, dell’alto tasso di mortalità del coronavirus; quello delle goccioline svolazzanti in aria e pregne di Covid; il mito secondo il quale se si toccano le mani altrui o vari oggetti giungerebbe spietato il terribile virus ad ammazzarci (ché manco Hitler, Attila, Genghiz Khan o il comunista mangia-bambino!); ecc.
C’è poi il mito bellissimo dell’asintomatico infettivo che ha rischiato di cadere miseramente per una frase detta nelle alte sfere dell’OMS. Alla povera dottoressa Maria Van Kerkhove, a capo del team anti-Covid dell’OMS, scappò infatti una frase che non doveva dire: “E’ molto raro che una persona asintomatica possa trasmettere il coronavirus”. Nello stesso briefing la Van Kerkhove spiegava di un solo caso conosciuto, a Singapore, in cui un asintomatico sembrerebbe aver trasmesso il coronavirus ad un’altra persona. In generale si ritiene, spiegava la funzionaria dell’OMS, che l’asintomatico non sia pericoloso.100 Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’OMS, ha poi specificato: “Il tema del contagio è legato ai volumi di carica virale: gli asintomatici ne hanno pochissima, chi ha sintomi più o meno seri ha progressivamente più carica virale, quindi è più contagioso”.101 Si è raccontato che la Van Kerkhove si sarebbe poi rimangiata quanto detto, ma chiunque voglia leggere il suo intervento al briefing si accorgerà che la funzionaria dell’OMS non disse quella frase per errore, ma pesando bene le proprie parole attraverso il rimando a diverse osservazioni e studi fatti in diverse parti del mondo. Certo che il mito dell’asintomatico infettivo non bisognerebbe farlo crollare, non solo perché ci stiamo affezionando ad esso, ma in quanto la scelta, inedita nella storia, di mettere in quarantena non solo la popolazione malata, ma anche quella sana, doveva pur essere giustificata da qualche cosa.
13. Alchimisti e stregoni
In questo articolo, però, abbiamo deciso di smontare il mito monetarista che alberga nella teoria economica contemporanea partendo dal presupposto di considerare la teoria di Marx corretta anche nei suoi particolari e non, umilmente, di porci come umili ripetitori di essa, come un biologo evoluzionista farebbe della teoria di Darwin. E noi ora vorremo mostrare, a chi eroicamente ci ha seguito fino a qua, quanto non solo sia un mito che il denaro produca ricchezza, ma anche che gli economisti sappiano qualcosa sulla natura del denaro.
Dinanzi al crollo economico presente Rinaldo Gianola, già ex vicedirettore de L’Unità ed ex giornalista de Il Sole 24 Ore, ammetteva il 25 marzo che è un mito il pensare che la teoria economica sappia cosa stia oggi accadendo e se servano o meno certi interventi economici: “Trump promette un assegno gratuito a tutte le famiglie, miliardi di aiuti alle imprese”, scrive il Gianola, e “torna la vecchia suggestione della “scuola di Chicago” di buttare i soldi dall’elicottero (helicopter money) perché così si rilanciano i consumi. 1000 euro per ogni italiano, si sente dire da noi. E poi quando finiscono? La verità è che la politica, l’economia sono in una fase sconosciuta, affrontano un’emergenza che non riguarda solo i livelli di occupazione o i bilanci, ma l’esistenza o meno di milioni di cittadini. Non basta, dunque, fare di conto, immettere qualche centinaio di miliardi di liquidità nel sistema per fronteggiare il dramma attuale”.102
Sul sito dell’Associazione Italiana per lo Studio delle Asimmetrie Economiche, meglio nota come a/Simmetrie, troviamo un articolo del professore associato di politica economica Fulvio Corsi dove, dopo aver spiegato pregi e limiti delle politiche monetariste secondo un’ottica post-keynesiana, sforna un elenco di economisti altamente quotati che in vario modo indicano la via d’uscita dalla crisi in un’immissione di liquidità, in uno stimolo della domanda: da Paul de Grauwe a Martin Wolf, da Nouriel Roubini a Olivier Blanchard, ecc.103
La BCE, che a differenza di Gianoli ha sincera Fede nella moneta, ha promesso che assicurerà “che la politica monetaria sia trasmessa a tutti i settori dell’economia e a tutti i paesi, nel perseguimento del mandato della BCE di preservare la stabilità dei prezzi”.104 La BCE è d’altra parte basata sull’articolo 127, paragrafo 1, del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, in cui si dice che “l’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali (…) è il mantenimento della stabilità dei prezzi”.105 Da istituzione squisitamente monetarista i fuzionari della BCE sono convinti che il chimerico controllo dell’immissione di denaro sia alla base dei prezzi delle merci, per poi stupirsi quando le inflazioni fra i vari Stati divergono e non seguono l’andamento previsto.
E’ illusorio ritenere che la banca centrale effettivamente decida sulla quantità monetaria: la banca centrale risponde innanzitutto alle esigenze della domanda di moneta, ma non è la banca centrale stessa a creare tale domanda; in secondo luogo in vari casi, soprattutto di crisi, le indicazioni sul credito date dalle banche centrali tramite il tasso d'interesse potrebbero non essere ascoltate (ad esempio, quando la BCE vorrebbe stimolare i prestiti ma le banche private preferiscono non prestare denaro oppure investirlo nella finanza anziché nell’economia reale); in terzo luogo una banca centrale non è in grado di decidere a priori quanta moneta effettivamente circolerà. Sebbene la BCE si sia posta, ad esempio, dal 1999 al 2012, un obiettivo di crescita del 4,5% annuo della moneta M3, la circolazione di M3 è stata sempre diversa dalle aspettative, superiore nei periodi di "buoni affari", inferiore nei periodi di crisi.106
Si sta formando dunque un nuovo mito fra le plebi e le classi medie occidentali, quello secondo il quale l’intervento pubblico ci salverà. E tale intervento pubblico sarà da appoggiare perché gli esperti che lo consigliano son persone che sanno, che conoscono cosa serva all’economia, sono custodi di una disciplina che come la fisica è da considerarsi una scienza! Ma, come già detto sul solco di Marx, è un mito il pensare che gli economisti sappiano come agire sulla società.
A seguito de crack economico del 1929 le politiche monetarie del governo americano furono improvvisate: prima il governo, accettando parzialmente i suggerimenti di Irving Fisher nella variante promossa dal professor George F. Warren, provò ad intervenire nell’economia aumentando il prezzo dell’oro alla zecca; vedendo che ciò non funzionava il governo cambiò strategia, provandone un’altra: cercò cioè di stabilizzare il cambio impiegando quanto guadagnato in conto capitale dall’aumento del prezzo dell’oro; poi se ne tentò un’altra: la FED si mise ad acquistare le obbligazioni di Stato sul mercato per fornire di denaro le banche. In quel breve periodo della prima metà degli anni ‘30, racconta Galbraith, andarono delusi “i campioni della moneta convertibile”, ma “andarono tuttavia anche deluse anche le speranze di Fisher, di Warren e, in misura minore, di Keynes”.107 Presi dalla mistica delle teorie del denaro circolanti i grandi papaveri del potere americano si comportavano come stregoni del XX secolo, che nulla sanno dell’oggetto che stanno evocando, e che come gli alchimisti sperano di trasformare in ricchezza degli atti di pura magia.
Che gli economisti non sappiano spiegare anche gli avvenimenti economici più importanti risulta ben chiaro da tanti altri esempi. Si pensi all’iperinflazione tedesca. Secondo i dati dell’Ufficio di Statistica del Reich i prezzi all’ingrosso in Germania, fatti 1 nel 1913, passarono a 11 nel 1919; nel novembre 1921 i prezzi erano superiori già di 62 volte a quelli del 1913, dopodiché ci sarà un volo dei prezzi stupefacente: nel giugno 1923 siamo a quota 26.000 (cioè i prezzi erano 26.000 volte superiori a quelli del 1913), il mese dopo a 84.000, ad agosto e a settembre siamo a livelli fantascientifici, rispettivamente 1.100.632 in milioni e 23,5 in miliardi (il mese dopo con una semplice riforma monetaria si tornò alla normalità, a 6).108 E’ chiaro il peché avvenne tutto ciò agli economisti? No. Ci sono infatti diverse spiegazioni date su tale fenomeno, di cui noi citiamo le principali: qualcuno ha spiegato che l’immissione abnorme di liquidità in Germania servì per finanziare il deficit statale (Costantino Bresciani-Turroni), qualcun altro per regolare la bilancia dei pagamenti (Frank D. Graham), altri dissero che servì per ridistribuire i redditi (Karsten Laursen, Jorgen Pedersen), qualcuno arrivò a dire che l’iperiflazione del 1923 fu causa addirittura del nazismo...nel 1933 (Gerard D. Feldman) e, com’è noto, le migliori fesserie su un dato argomento spesso le si ritrova nei manuali scolastici.109
Noi forse abbiamo torto a rifarci così alla lettera a Marx, ma nella teoria economica borghese regna la più grande confusione. Nella confusione si preferisce crear miti, oramai allevati come siamo attraverso visione manichee originarie dalla cultura americana, da noi filtrata attraverso il cinema e la propaganda politica. L’attonita umanità più povera oramai attende che ogni cosa cali dall’alto, non ha al momento alcuna iniziativa storica e si papperà questa nuova fede nel denaro che piove dall’alto e che avrà i suoi cantori, i suoi Sfera Ebbasta e i suoi Gue Pequeño, magari soltanto un po’ più melodici e nazionalpopolari, in modo che arrivino proprio a tutti, a vecchi e a bambini.
Bisogna d’altra parte notare che anche fra i bolscevichi regnava confusione nell’ambito della teoria del denaro (a parte Lenin, non erano molti i dirigenti comunisti russi che conoscessero in modo approfondito la teoria economica di Marx). Nel 1920, ad esempio, i bolscevichi non sapevano cosa rispondere dinanzi all’iperinflazione e la confondevano, al modo dei borghesi, con una svalorizzazione della moneta, nel loro caso del rublo. Evgenij Preobraženskij nel 1920 la sparava grossa, per dare una giustificazione all’iperproduzione di rubli, e definiva la zecca di Stato “la mitragliatrice del Commissariato per le Finanze che sputò fuoco contro la retroguardia del sistema borghese e sfruttò le leggi monetarie di quel regime per distruggerlo”.110 Per carità, Preobraženskij ne dirà diverse di fesserie teoriche, fra tutte teorizzerà quell’accumulazione socialista che servirà d’ispirazione qualche anno dopo ai piani quinquennali di Stalin, da cui poi dipenderà l’ormai secolare confusione fra socialismo e capitalismo di Stato. Ma anche Zinov’ev non sarà da meno a sparar fesserie sulla teoria della moneta e dinanzi alle critiche tedesche sulla svalutazione del rublo, replicò: “E’ certamente penoso per noi assistere alla svalutazione della moneta in Russia: non occorre nasconderlo. Tuttavia, abbiamo una via d’uscita, una speranza. Noi stiamo avvicinandoci alla completa abolizione della moneta”.111 E se pur è vero che nel socialismo dovrebbe scomparire la moneta unitamente allo scambio mercantile, Zinov’ev qui confondeva il baratto diffuso e la distribuzione di prodotti in natura per motivi emergenziali con l’anticipazione del socialismo.
Potremmo anche citare la politica monetaria che il Partito Comunista Russo espletò fra il 1921 e l'inizio del 1924 oppure l'incapacità di comprendere in chiari termini la natura della cosiddetta "crisi delle forbici" della seconda metà del 1923 in cui una disfunzione facilmente risolvibile in ambito di prezzi e scorte venne confusa con una crisi strutturale economica. Lo stesso storico inglese Edward H. Carr constatava, sulla politica monetaria e finanziaria del regime sovietico: “La caratteristica che più colpiva in tutta la riforma [del sistema monetario sovietico, ndr.] era la sua stretta conformità ai canoni occidentali e particolarmente britannici, della finanza ortodossa; nessuno dei paesi che in quel periodo ricevevano consigli dagli esperti britannici o dalla Lega delle Nazioni circa il miglior modo per mantenere la stabilità monetaria, applicarono con maggiore scrupolo le prescrizioni date in quel momento circa la copertura aurea, l'equilibrio del bilancio, una prudente politica creditizia, o giuste relazioni tra la tesoreria e la banca centrale”.112 In ambito monetario il bolscevismo non aveva fatto tesoro della teoria economica di Marx e si trovò un po’ ad improvvisare, come fanno i comuni borghesi. Soprattutto non aveva fatto fino in fondo sua la critica della teoria economica borghese ed era costretto quindi a rispolverare teorie economiche borghesi di stampo anche monetarista.
14. L’inevitabile folle corsa del capitale
Abbiamo fin qui dato dei lineamenti fondamentali per un’analisi della teoria della moneta di Marx e abbiamo cercato di dimostrare quanto sia inutile pensare di risolvere i problemi strutturali dell’economia capitalistica con iniezioni di liquidità per la popolazione. Abbiamo cioè cercato di dimostrare che se nell’economia capitalistica circolasse il doppio della moneta non cambierebbe nulla in termini di ricchezza capitalistica: la ricchezza capitalistica è data dalle merci ed esse sono costituite da un valore d’uso e da un valore, cioè dalle proprie caratteristiche fisiche e dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle. Il denaro esprime la forma in cui alla superficie si presenta quest’ultima caratteristica della merce, il valore, ed essendo nient’altro che un’espressione della sostanza, una sua manifestazione esteriore, non potrà divergere troppo da essa e tutta la sua possibile autonomizzazione sarà sempre astretta ad un punto d’equilibrio che rimarrà dato dal lavoro socialmente necessario a produrre la merce.
Ciò non significa però che un intervento monetario di qualche tipo non abbia alcun ruolo in una crisi economica, ma significa soltanto che un intervento monetario non serve a risolvere la crisi economica, come i keynesiani vorrebbero, ma soltanto a ridistribuire ricchezza, cioè a togliere ricchezza a qualcuno per darne a qualcun altro. Ora, aldilà delle illusioni del pensiero classico liberale per cui la nazione è fatta di singoli cittadini, la realtà capitalistica è costituita da gruppi più o meno numerosi che rappresentano una parte della popolazione, le classi sociali. Le stesse classi sociali sono, in certi momenti storici, piuttosto varie al proprio interno. Ciò che le politiche governative, che necessariamente sono perlopiù monetarie, potranno fare è drenare del denaro da una parte della società verso un’altra parte della società, da un’intera classe all’altra.
E’ una questione di rapporti di forza, sostanzialmente, se una parte maggiore del valore prodotto socialmente vada ad una parte sociale o all’altra, oppure una questione di convenienza politica. Un determinato Stato potrebbe essere interessato ad avere la fiducia dei propri funzionari e dei dipendenti statali, e quindi magari privilegerà la distribuzione di una parte della ricchezza sociale verso questa parte della società; un altro Stato potrebbe privilegiare l’afflusso di ricchezza verso la classe media, ricordando ciò che diceva De Gaulle, e cioè che “le classi medie non fanno le rivoluzioni”; qualche altro potrebbe avere interesse a spostare una parte consistente del valore addirittura verso la classe operaia, in modo tale da comprarsi la pace sociale (Adolfo, ad esempio, aumentò i salari agli operai per averli dalla propria parte, o almeno non rivoluzionari, allo scoppio del secondo macello mondiale); ecc.
Il valore prodotto, in particolare la massa del plusvalore prodotta, può essere distribuita in svariati modi e se l’economia classica cercava di disegnare dei modelli economici proprio per spiegare allo Stato come gestire la distribuzione di tutta quella ricchezza, oltre che gestirne (direttamente o indirettamente) la produzione, gli Stati moderni, pur avendo modelli economici piuttosto deficitari, basano le proprie scelte su varie motivazioni, quali la base sociale del proprio elettorato, le pressioni delle forze capitalistiche più forti (interne e/o estere), il timore del disordine sociale, le pressioni di singole lobbies categoriali, un programma economico più o meno ambizioso, l’improvvisazione, ecc.
Quando però esplode la crisi economica il problema non è meramente sul piano della distribuzione della massa del plusvalore che si produce. Tanto capitale non sa più dove investirsi: si è prodotto troppo, la tecnologia impiegata nella produzione è troppo elevata e sforna troppe merci che non possono essere acquistate da nessuno, se si investe ancora precipita tutto, ecc. E’ giunto quindi il momento di spiegare quale sia la teoria della crisi di Marx, almeno nelle sue linee generali (e ci promettiamo di scriverne in un lavoro a parte e anche in un testo di più ampie dimensioni), in quanto se l’immissione di liquidità non serve ad arginare la crisi (e al massimo, qualora vengano beneficiate solo alcune parti della società, può servire a ridistribuire ricchezza da una parte della società all’altra), che cosa dovrebbe fare uno Stato capitalista per uscire dalla crisi economica e, inoltre, quali atteggiamenti politici avrebbe Marx dinanzi ad una crisi economica catastrofica?
Vediamo cosa diceva il buon Marx sulle crisi capitalistiche già nel Manifesto del partito comunista: “I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, insomma la moderna società borghese, che ha come per incantesimo prodotto mezzi di produzione e di scambio tanto potenti, è come l’apprendista stregone incapace di controllare le potenze sotterranee da lui stesso evocate. La storia dell’industria e del commercio è ormai da decenni solo la storia della sollevazione delle moderne forze produttive contro i moderni mezzi di produzione, contro i rapporti di proprietà che esprimono le condizioni di esistenza e di dominio della borghesia. Basta citare le crisi commerciali, che nel loro minaccioso ricorrere ciclico mettono sempre più in questione l’esistenza dell’intera società borghese. Nelle crisi commerciali vien regolarmente distrutta una grande parte non solo dei prodotti ma persino delle forze produttive già costituite. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le altre epoche sarebbe stata considerata un controsenso: l’epidemia della sovraproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie [all’epoca il capitalismo era in grado di riprendersi velocemente dalle crisi in quanto ancora giovane, quindi la barbarie era momentanea!, ndr.]; una carestia, una guerra di annientamento totale sembrano sottrarle ogni mezzo di sussistenza; l’industria, il commercio appaiono distrutti, e perché? Perché la società ha incorporato troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non servono più allo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti borghesi di proprietà; al contrario, esse sono diventate troppo potenti per quei rapporti, ne sono frenate, e non appena superano questo ostacolo gettano nel caos l’intera società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere la ricchezza che essi stessi hanno prodotto”.113 Analisi giovanile della crisi da parte di un Marx non ancora maturo? Nel libro terzo del Capitale leggiamo però sostanzialmente la stessa cosa: “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive”.114
Nel precedente articolo (parte terza) facemmo una breve spiegazione “filosofica” sull’importanza di distinguere nelle analisi fra cause prime e cause seconde, richiamandoci addirittura a Tommaso d’Aquino! Per Marx la causa prima delle crisi è lo sviluppo delle forze produttive che ad una certo punto entra in contrasto con i rapporti sociali di produzione. Periodicamente tale sviluppo delle forze produttive (sviluppo della tecnologia impiegata nella produzione, aumento della popolazione, crescita dell’intensità del lavoro, ecc.) è troppo grande per corrispondere alla realtà sociale in cui il capitalismo stesso ci costringe a vivere e la crisi economica risulta inevitabile. Un fenomeno caratteristico è la perdita generalizzata di posti di lavoro, la crescita cioè di quella che Marx chiamava sovrappopolazione relativa, oltre che il fallimento a catena di tante aziende (in genere falliscono quelle meno produttive e meno capaci a sostenere l’urto della crisi generalizzata). Nella teoria di Marx, quindi, è un contrasto fra due forze che fa esplodere le crisi, da una parte lo sviluppo necessario delle forze produttive, la necessità cioè del capitalismo di produrre in modo sempre più efficiente e veloce, dall’altra quei rapporti sociali di produzione che caratterizzano il capitalismo. Il valore stesso è un rapporto sociale di produzione: esso è tempo di lavoro umano immesso nella produzione di merci il quale dev’essere continuamente abbreviato per la sete di valorizzazione del capitale. Quando Marx scrive dell’accumulazione capitalistica nel libro primo scandaglierà proprio tale necessità del capitalismo di crescere da una parte in modo tendenzialmente infinito e dall’altra di rigettare in mezzo alla strada sempre più lavoratori, di cercare di accorciare sempre più il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre le merci.
La crisi non è però una tragedia per il capitalismo in sé. Le crisi in genere permettono al capitalismo di rigenerarsi nuovamente e sfruttare per un altro po’ di tempo l’umanità salariata e i vari asserviti alle sue logiche. Il capitalismo deve cioè trovarsi al fondo per potersi rigenerare, per poter tornare ad essere vispo e pimpante come un ragazzino. Spiegava Marx: “Periodicamente il conflitto fra le forze contrastanti erompe in crisi, le quali sono sempre solo delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscono momentaneamente l’equilibrio turbato”.115
La crisi serve dunque al capitale per rigenerarsi e se è pur vero che molti borghesi in essi trovano la propria rovina, il capitale sociale complessivo ha solo da guadagnarci da una crisi economica, anche estremamente catastrofica. Ai tempi di Marx le crisi erano circa decennali e all’epoca l’impalcatura finanziaria era meno importante e le guerre mondiali fra potenze capitalistiche non erano ancora state inventate. All’epoca il capitalismo era giovane: si rompeva, ma il recupero era veloce. Oggi il capitalismo è piuttosto vecchio e quando si rompe ha bisogno di molto tempo per rimettersi in piedi. Il capitale non si è preso il coronavirus, ma – buon per noi - ...un virus altamente letale.
Si spiegò la volta scorsa però che la manifestazione delle crisi si presenta in genere come crisi del debito privato: questa sarebbe considerabile una delle cause seconde della crisi economica che vivremo. Se il credito al consumo – uno dei lati del debito privato - era molto ridotto ai tempi di Marx, il credito alle aziende è caratteristica propria anche dell’epoca di Marx, sebbene il debito si presentasse gestito in modo diverso rispetto ad oggi. Vediamo cosa ne scriveva Marx nel capitolo 30 del libro terzo del Capitale: “L’estensione massima del credito corrisponde [in uno dei casi possibili scandagliati da Marx nel capitolo in questione, ndr.] alla più completa utilizzazione del capitale industriale, ossia alla esplicazione più intensa possibile della sua forza di riproduzione, senza riguardo ai limiti di consumo. Questi limiti del consumo vengono allargati dalla intensificazione del processo di riproduzione stesso, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d’altro lato si identifica con l’intensificazione del consumo produttivo [cioè del consumo di mezzi di produzione e di forza-lavoro, ndr.]. Fino a che il processo di riproduzione fluisce normalmente ed assicura in tal modo i riflussi, questo credito si mantiene e si amplia, e questo ampliamento è fondato sull’ampliamento del processo stesso della riproduzione. Non appena subentra un ristagno provocato da ritardo dei riflussi, da saturazione dei mercati, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale persiste sempre, ma in forma che non gli permette di adempiere alla sua funzione. Massa di capitale-merce, ma invendibile. Massa di capitale fisso [cioè di macchine utensili, fabbricati, ecc.], ma in gran parte inattivo a causa del ristagno della riproduzione. Il credito si contrae: 1) perché questo capitale è inattivo, ossia ristagna in una delle fasi della sua riproduzione, perché non può compiere la sua metamorfosi; 2) perché è infranta la fiducia nella fluidità del processo di riproduzione; 3) perché diminuisce la domanda di questo credito commerciale. (…) Quando subentra quindi una perturbazione in questa espansione o anche soltanto nella normale intensità del processo di riproduzione, si verifica contemporaneamente una mancanza di credito; diventa più difficile acquistare merci a credito. (…) Il capitale già investito si trova (…) inattivo in grandi quantità, perché il processo di riproduzione ristagna. Le fabbriche rimangono ferme, le materie prime si accumulano, i prodotti finiti saturano il mercato di merci. Non vi è quindi nulla di più errato che attribuire tale stato di cose a un mancanza di capitale produttivo”.116
Nel passo sopra citato di Marx non si è ancora introdotto a fondo il capitale bancario e si danno ancora degli elementi generali per la comprensione di una crisi economica tipica. Ma notiamo intanto, per rialacciarci allo scopo del nostro lavoro, che non serve capitale monetario per far ripartire l’economia, perché di capitale, in generale, ce n’è fin troppo.
Per carità, dirà qualcuno, ottima disquisizione sui massimi sistemi, ma oggi il capitalismo è profondamente diverso, c’è la speculazione finanziaria che domina sovrana, che ne poteva sapere l’ottocentesco Marx? Il buon vecchio Marx, in realtà, che non dava commenti romantici alla prosaicità borghese, scriveva già nel 1850: “La sovraspeculazione si genera dalla sovraproduzione e precede ogni crisi”.117 Sul New York Daily Tribune del 15 dicembre 1857 scriverà: “Il fatto stesso che le crisi ricorrano a intervalli regolari, nonostante tutti i moniti del passato, smentisce l’idea che le loro ragioni ultime siano da ricercare nella mancanza di scrupoli di singoli individui. Se la speculazione si presenta verso la fine di un dato ciclo commerciale come il precursore immediato del crollo, non va dimenticato che essa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo ed è quindi anch’essa un risultato e un fenomeno, non la ragione ultima e la sostanza. Gli esperti dell’economia che pretendono di spiegare le regolari contrazioni dell’industria e del commercio con la speculazione rassomigliano alla scuola ormai estinta dei filosofi della natura, per i quali la febbre era la vera causa di tutte le malattie”.118 Direbbe Clementino: tutt’ scienziat’!
Esistono strade riformiste per il capitale contemporaneo? Una via d’uscita, diceva Lenin, esiste sempre, non esiste una strada senza via d’uscita tanto nel campo reazionario quanto nel campo rivoluzionario. Alcune nazioni usciranno da tale crisi con le ossa rotte (Italia in primis), altre come la Germania con misure drastiche potranno tamponare alcune falle sociali (grazie ad una capacità industriale notevole che non è stata più di tanto intaccata negli ultimi 20 anni), altre nazioni ancora faranno di meglio (si pensi agli Stati Uniti che hanno raggiunto da tempo l’autonomia agricola e che quindi nei casi estremi potrà sfamare il proprio popolo tramite sussidi alimentari ed hanno anche quasi raggiunto l’autonomia energetica per far funzionare le proprie industrie nel caso si giungesse ad un blocco improvviso dei traffici internazionali).
Ci si dovrà ricordare però che si è giunti a questo punto – di finanziarizzazione estrema dell’economia - sì per le leggi del capitale, ma anche per la mancanza di iniziativa politica da parte della borghesia europea e della classe operaia, ognuno per i propri rispettivi e contrastanti interessi. Se gli Stati Uniti hanno potuto gestire gli ultimi decenni del globo, o almeno hanno potuto gestire secondo i propri interessi l’inevitabile caduta del saggio del profitto e lo speculare sviluppo dei profitti finanziari, la classe dirigente europea ha chinato la testa, Germania in testa: dopo l’unificazione e qualche iniziativa geopolitica sotterranea (come ad esempio il dissolvimento della Jugoslavia) la Germania si è imbrigliata completamente in un’unione monetaria che le ha tenuto mani e piedi legati sul piano politico, sebbene da tale unione monetaria sia stata sedotta per il vantaggio concorrenziale che ne riceveva sul commercio estero. L’Italia si è suicidata in modo irreversibile (Lucio Caracciolo ha definito nell’ultimo Limes quanto accaduto in Italia fra il 1989 e il 1992 il “doppio micidiale autogol Maastricht-Tangentopoli”),119 mentre la Francia fra Sarkozy e Macron non ha dato alcuna spinta veramente gollista ad un salto di qualità nel rapporto della Francia con la Germania.
La classe operaia, dal suo canto, è stata data all’incanto dai suoi dirigenti di un tempo, su cui aveva posto ben troppa fiducia, svendendo la propria autonomia (e quindi la propria autostima), e ha cominciato anch’essa in Occidente ad indebitarsi per poter consumare al di sopra del proprio reddito reale. Ed ora, strozzata da mutui e debiti, farà fatica a togliersi di dosso questa dipendenza schiavista di fronte al denaro a credito.
Ma se grande crisi sarà, la storia in poco tempo prenderà un’accellerazione che da decenni in Occidente non si vedeva e non solo vedremo alternarsi svariati miti creati a tavolino, dopo quelli del coronavirus e quelli della moneta, ma anche vedremo sparigliare completamente le carte e rimettere ogni cosa in gioco, nuovamente vedremo tornare dinamiche fra nazioni e fra classi sociali.
15. Se ci fosse don Carlo...
Tanto denaro pioverà dal cielo nei prossimi mesi, ma questa pioggia di denaro potrà avere due significati. Qualora essa sia generalizzata e posta al fine della ripresa economica saremo al mito monetarista, coniugato nelle sue varie sfumature e differenze. Qualora si tratti semplicemente di denaro ad alcune ristrette parti della società ciò non potrebbe che andare a vantaggio di qualche parte sociale a svantaggio di un’altra parte sociale. Quando il Partito Comunista d’Italia nel 1921 lanciava la parola d’ordine del salario pieno agli operai disoccupati si dichiarava implicitamente guerra non solo ai capitalisti, ma anche ad una parte della classe media improduttiva e parassitaria. La classe operaia americana farà in altro modo qualcosa di simile quando lascerà tanti morti sul selciato per ottenere i sussidi di disoccupazione negli anni ‘30, cioè in pieno crack economico. Proprio perché non siamo dei monetaristi sappiamo bene che garantire denaro ad una parte della società anziché ad un’altra non significa creare nuova ricchezza, ma togliere ricchezza a qualcuno per darla a qualcun altro. Non essendoci Robin Hood per i proletari, questi hanno potuto fare affidamento in passato soltanto sulle proprie forze.
Per molti Marx è un cane morto, ma tanti grandi pensatori ed artisti del passato per molto tempo furono cani morti. Marx ricordava che erano considerati cani morti al suo tempo Spinoza ed Hegel. Nell’ambito della grande musica fu per circa un secolo un cane morto anche il grande Johann Sebastian Bach (che morì nel 1750). Questo gigante della musica aveva trattato della molteplicità e complessità del mondo attraverso le sette note e il suo divino contrappunto. Nonostante per molti decenni rimase sconosciuto, di Bach ne fece una privata scoperta Mozart nel 1789 presso un piccolo gruppo di fedeli bachiani a Berlino, ma è soltanto quando il grande Mendelssohn ripropose in pubblico la magnifica Passione secondo Matteo che il nome di Bach assunse l’autorevole ruolo che gli competeva nella storia della musica: correva l’anno 1829, si era ad un secolo circa dalla prima esecuzione di tale opera (1727). Mendelssohn dovette semplificare l’orchestrazione originaria, perché troppo difficile per le orchestre dell’Ottocento, ma non violentò il messaggio di Bach, come noi cerchiamo umilmente di non violentare il messaggio e la teoria di Marx come troppi invece fanno.
Oggi noi stiamo riproponendo non un “neomarxismo”, un “postmarxismo” o una diatriba specialistica su qualche singolo concetto di Marx, stiamo cercando di riproporre Marx, nient’altro che Karl Marx. Suonerà strano ad alcuni dei pochi lettori di questo lavoro, aver fatto a meno di teorie keynesiane, operaiste, sovietiche, ecc., ma a nostro giudizio con la ricerca scientifica, quella seria e disinteressata, non quella che mostra oggi di essere in cancrena fra i palinsesti televisivi, non si scherza e noi umilmente ad essa ci inchiniamo ed il nostro piccolo contributo proviamo a darlo.
Abbiamo raccontato la favola di Liquidità di cui tanto si narra nei manuali di economia e di come essa all’occorrenza diventi pioggia di contanti o fra le mani degli speculatori o fra le mani della gente comune. Il suo agire è dettato dall’illusione di creare ricchezza dal nulla e, si sa, per molti... “l’illusione è tutto nella vita”! Quando tutto sembra precipitare ha un immenso ruolo Madama Speranza, la quale col suo viso sereno e materno sembra tranquillizzare l’animo di tutti, tanto di coloro che nella semplice vita piccolo-borghese, generosamente elargita dal capitale a molti strati sociali, fino ad ora ci ha creduto, quanto di coloro che fino a ieri pensavano di essere ribelli, rivoluzionari ed anticonformisti e che oggi, a pensarci bene, vorrebbero una carezza e un conforto da Madama Speranza. Ma qui in realtà gli agenti del capitale navigano a vista e hanno la stessa mappa del Banditore di Lewis Carroll, “una grande mappa che rappresenta il mare senza la minima traccia di terra”. S’improvvisa: a babordo e a tribordo, verso nord e verso sud, un po’ verso Keynes e un po’ verso qualche altra teoria, con un fare da ubriaco e la vista annebbiata. Chi è al comando della nave non è però l’agente del capitale Tal-dei-Tali che propone riforme economiche monetariste o mercantiliste, al comando della nave c’è Monsieur le Capital, che anonimamente e con la violenza della necessità fa i propri porci comodi, si remunera dove può e quando può, si svaluta e amputa una parte di sé quando occorre. Monsieur le Capital fa ritenere ridicole anche tutte le tesi oggi in circolazione: pro o contro il MES, pro o contro la globalizzazione, pro o contro lo stampar moneta. La borghesia contemporanea non è più in grado di far scelte politiche radicali se non costretta da eventi catastrofici, se non cioè stimolata da Monsieur le Capital e dalla dinamica della crisi di esso. Si decideranno attraverso la politica questioni di dettaglio: quale parti sociali favorire nella spartizione di una torta più ristretta, quali industrie risulteranno più competitive per una nazione, quale alleanza economico-politica sarà conveniente, ecc. Ma la politica non potrà decidere se la crisi sarà breve oppure no, se la crisi verrà superata fra due anni o fra trentanni, ecc.
Marx però che avrebbe fatto o, meglio, proposto? Marx non avrebbe proposto proprio nulla, perché non voleva salvare il capitalismo, ma voleva che esso si affossasse, si schiantasse, crollasse. Dirsi marxisti e proporre ricette per l’avvenire al capitale contemporaneo è un controsenso o meglio un aborto del pensiero. Marx ribadirebbe che il capitalismo non può considerarsi eterno e che l’alternativa è, come scrisse nel Manifesto, “la rivoluzione sociale oppure la rovina delle classi”. Per tutta la vita Marx ha lottato per la vittoria della rivoluzione della classe proletaria, dei senza niente, dei salariati senza riserve, e anche lo studio svolto nel Capitale servì per comprendere quando fosse possibile esplicitare quella politica rivoluzionaria apertamente.
Per Marx la rivoluzione sociale è innanzitutto un prodotto delle crisi capitalistiche, prima ancora che un prodotto degli uomini che per tale rivoluzione si battono. Ciò è molto chiaro innanzitutto da una lettera che Marx scrisse ad un noto italiano, Carlo Cafiero, il quale aveva pubblicato nel 1879, poco prima della sua conversione all'anarchismo, un celebre riassunto del Libro Primo del Capitale.120 Poco dopo la pubblicazione Cafiero ne aveva spedito due copie a Marx scrivendo nella lettera di accompagnamento che "solamente ora (...) mi è dato rivolgermi a Lei per pregarla a volermi dire se nel mio studio mi è riuscito comprendere ed esprimere l'esatto concetto dell'autore".121 Marx pochi giorni dopo rispose al futuro anarchico, complimentandosi per l'opera, ma diede allo stesso tempo una critica a tale compendio che è molto significativa su quale fosse per Marx il principale fine della sua opera: “Credo di non sbagliarmi se individuo nelle osservazioni illustrate nella Sua prefazione una palese lacuna: manca cioè la prova che le condizioni materiali necessarie all’emancipazione del proletariato vengono prodotte spontaneamente dal decorso della produzione capitalistica”.122 E che la relazione fra crisi economica e rivoluzione sociale era fondante nella dottrina di Marx lo possiamo arguire da questa citazione di molti anni prima, del 1850: “Una vera rivoluzione (…) è possibile soltanto in periodi in cui (…) le forze produttive moderne e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra loro. (…) Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L'una, però, è altrettanto sicura quanto l'altra.123
Lenin, da grande marxista, non esagerava il ruolo avuto da lui e dal suo partito, in quanto sapeva bene che i grandi rivoluzionari servirebbero poco se non vi fossero le condizioni oggettive della rivoluzione. Nell’aprile 1917 diceva, a conferma di ciò: “Il corso degli avvenimenti, lo sfacelo economico, la fame: ecco che cosa spinge avanti la rivoluzione. Deriva di qui la lotta contro gli elementi che sostengono la borghesia. Ci si muove verso una catastrofe che la borghesia è incapace di scongiurare”.124 E Trotskij non fu da meno a considerare le crisi economiche come principali leve delle rivoluzioni sociali e al III Congresso dell'Internazionale Comunista, tenutosi a Mosca nel 1921, dirà ai compagni "che è necessario determinare lo stato generale dell'organismo capitalistico verificando come precisamente respiri e a quale ritmo batte il suo polso". Poco dopo dirà che "il rapporto reciproco fra boom e crisi economica da una parte e sviluppo della rivoluzione dall'altra è per noi del massimo interesse" e in merito al rinculo delle rivoluzioni operaie in Europa avvenuto fra il 1920 e il 1921 dirà: "Il fittizio boom postbellico ha avuto grandi ripercussioni politiche. C'è qualche motivo per affermare che esso ha salvato la borghesia".125
Le rivoluzioni non vincono se manca un’avanguardia politica e in attesa che riesploda dopo un secolo la lotta di classe nel pianeta e che rinascano delle avanguardie degne di questo nome, molti si potranno crogiolare in Madama Speranza. Ma la speranza non è una variabile economica.
Note
1 L. Lamar, “In morte della capacità critica. Il coronavirus, lo stato d’eccezione e la recessione economica (che già bussava nel 2019)”, sinistrainrete.it, 7 aprile 2020.
2 J. C. Michaud, “Teoria e storia nel Capitale di Marx”, Milano, Feltrinelli 1960, pag. 18.
3 L. Lamar, “In morte della capacità critica...”, art. cit.
4 S. Schrejmer, “Ignaz Semmelweis: a victim of harassment?”, link.springer.com, 4 marzo 2020.
5 Marx a Kugelmann, 28 dicembre 1862, MEO vol. XLI, pag. 694.
6 Marx a Engels, 24 aprile 1867, MEO vol. XLII, pag. 319.
7 Marx a Engels, 7 maggio 1867, MEO vol. XLII, pag. 326.
8 Marx a Kugelmann, 11 luglio 1868, MEO vol. XLIII, pagg. 597/598.
9 “E se il lockdown fosse inutile? I dubbi del virologo Silvestri”, agi.it, 25 maggio 2020.
10 “Matteo Bassetti (infettivologo): ‘C’è qualcosa oltre il Covid, ci siamo dimenticati di tutte...”, https://youtu.be/mXozIBU50fU
11 S. Di Giulio, “Bersani: Di fame in Italia non muore nessuno”, adhocnews.it, 18 aprile 2020.
12 P. Fornara, “D’Alema: Rivedere regole e controlli europei dopo la crisi dei mutui Usa”, st.ilsole24ore.com, 4 ottobre 2008.
13 D. Fabbri, “Usa e coronavirus”, limesonline.it, “Il mondo oggi”, 12 marzo 2020.
14 R. L. Meek, “Studi sulla teoria del valore-lavoro”, Milano, Feltrinelli 1973, pagg. 114/115.
15 K. Marx, "Il capitale. Critica dell’economia politica", Roma, Riuniti 1994, vol. I, pag. 40.
16 H. Denis, "Storia del pensiero economico", Milano, Mondadori 1973, vol. II, pag. 151/152 [i corsivi sono nostri].
17 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 1, op. cit., pag. 69.
18 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 1, op. cit., pag. 71.
19 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 1, op. cit., pag. 73.
20 K. Marx, “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, MEO vol. XXIX, pag. 552.
21 K. Marx, “Merce e denaro”, Roma, Riuniti 1991, pag. 7.
22 K. Marx, “Merce e...”, op. cit., pag. 7/8.
23 K. Marx, “Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner”, in K. Marx, “Scritti inediti di economia politica”, Roma, Riuniti 1963, pag. 175.
24 Lenin, "Quaderni filosofici", LOC vol. XXXVIII, pag. 206.
25 G. W. F. Hegel, "Scienza della logica", Bari/Roma, Laterza 1929 (2004), pag. 538.
26 G. W. F. Hegel, "Scienza della logica", op. cit., pag. 667
27 K. Marx, "Il capitale", vol. III, cap. 48, op. cit., pag. 930.
28 G. V. Plechanov, “Le questioni fondamentali del marxismo”, in G. V. Plechanov, “Opere scelte”, Moskva, Progress 1985, pag. 374.
29 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 1, op. cit., pag. 79.
30 I. I. Rubin, “Saggi sulla teoria del valore di Marx” (1928), Milano, Feltrinelli 1976, pag. 93.
31 Cfr. K. Marx, “La forma di valore”, in K. Marx, “Merce e denaro”, Roma, Riuniti 1991, pag. 98.
32 K. Marx, “Lineamenti fondamentali...”, op. cit., MEO vol. XXIX, pag. 122.
33 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 1, op. cit., pag. 128.
34 K. Marx, “La forma di valore”, op. cit., pag. 92.
35 K. Marx, “Teorie sul plusvalore”, vol. II, MEO vol. XXXV, pag. 167.
36 K. Marx, “Teorie sul plusvalore”, vol. II, MEO vol. XXXV, pag. 167.
37 K. Marx, “Lineamenti fondamentali...”, MEO vol. XXIX, pag. 100.
38 K. Marx, “Teorie sul plusvalore”, vol. III, MEO vol. XXXVI, pag. 136.
39 S. Cesaratto, “Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)”, Diarkos 2016.
40 F. Petry, “Il contenuto sociale della teoria del valore in Marx”, Roma / Bari, Laterza 1973.
41 H. G. Backhaus, “Dialettica della forma di valore”, Roma, Riuniti, 2009.
42 M. Itoh, “La teoria del valore di Marx per il socialismo”, Bollettino Culturale, culturale.blogspot.com, 14 giugno 2020.
43 Stalin, “Problemi economici del socialismo nell’URSS”, Bari, De Donato 1976.
44 K. Marx, “Critica del programma di Gotha”, Bolsena, Massari 2008, pag. 47.
45 Fu Roman Rosdolsky che definì i Grundrisse il primo abbozzo del Capitale (cfr. R. Rosdolsky, “Genesi e struttura del Capitale di Marx”, Roma-Bari, Laterza 1971 [ed. 1975], pag. 27).
46 Marx a Engels, ca. 16 gennaio 1858, MEO vol. XL, pag. 273.
47 E. V. Il’enkov, “La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx”, Milano, Feltrinelli 1961 (ed. 1975), pagg. 116/119.
48 K. Marx, "Il capitale", vol. I, cap. 4, op. cit., pag. 138/139.
49 La trattazione di quanto da noi detto sull’antihegelismo di Marx nel passaggio fra denaro e plusvalore la trovate in E. V. Il’enkov, “La dialettica dell’astratto e del concreto...”, op. cit., pagg. 227/229.
50 K. Marx, “Merce...”, Roma, Riuniti 1991, pag. 24.
51 Astraiamo qui per ora dalla velocità di circolazione del denaro stesso.
52 K. Marx, “Manoscritti del 1861-1863”, Roma, Riuniti 1980, pag. 8.
53 K. Marx, “Introduzione ai «Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica»”, MEO vol. XXIX, pag. 40.
54 Cfr. K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 6, op. cit., pag. 233/244.
55 Cfr. K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 4 e 5, op. cit., pag. 188/199 e 220/232.
56 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 7, op. cit., pag. 254/256.
57 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 7, par. 2, op. cit., pag. 254/256.
58 K. Marx, “Il capitale”, vol. II, cap. 1, op. cit., pag. 29/30.
59 K. Marx, “Il capitale”, vol. II, cap. 1, op. cit., pag. 29/64.
60 K. Marx, “Il capitale”, vol. II, cap. 2, op. cit., pag. 65/88.
61 K. Marx, “Il capitale”, vol. II, cap. 3, op. cit., pag. 89/102.
62 La nostra lettura della prima sezione del secondo libro deriva direttamente da quella svolta da Amadeo Bordiga e qui da noi sintetizzata in poche righe (cfr. A. Bordiga, “Questioni fondamentali della economia marxista” [1959], in “Scienza economica marxista come programma rivoluzionario”, Torino, Quaderni Internazionalisti 2000, pagg. 37/57).
63 R. Luxemburg, “Economie politique pratique. Le livre II du Capital de Marx”, da R. Luxemburg, “Œuvre complètes”, tome II, Marseille / Toulouse, Agone / Smolny 2012, pag. 150.
64 K. Marx, "Il capitale", vol. I, cap. 3, par. 1, op. cit., pag. 127.
65 K. Marx, “Per la critica dell’economia politica”, Genova, Lotta Comunista 2009, pag. 72; K. Marx, "Il capitale", vol. I, cap. 3, par. 1, op. cit., pag. 133.
66 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 73 e 90.
67 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 73.
68 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 153.
69 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 3, par. 2, op. cit., pag. 152.
70 K. Marx, “Il capitale”, vol. III, cap. 33, op. cit., pag. 613.
71 K. Marx, “Il capitale”, vol. III, cap. 33, op. cit., pag. 617.
72 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 3, par. 2, op. cit., pag. 161/162.
73 K. Marx, “La nota di Vienna – USA ed Europa – Lettere da Schumla – La legge bancaria di Robert Peel”, New York Daily Tribune n. 3881, 24 settembre 1853, MEO vol. XII, pag. 310.
74 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 127.
75 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 129.
76 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 3, par. 3, op. cit., pag. 167.
77 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 153.
78 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 144.
79 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 145.
80 K. Marx, “Il capitale”, vol. I, cap. 3, par. 3, op. cit., pag. 170/171.
81 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 155.
82 K. Marx, “Per la critica...”, op. cit., pag. 156.
83 M. Boesler, “Deutsche Bank: Gold Is Money”, businessinsider.com, 18 settembre 2012.
84 C. Oliver, “World Bank chief calls for new gold standard”, marketwatch.com, 7 novembre 2010.
85 Washington’s Blog, “Gold Is Money”, globalresearch.ca, 19 settembre 2012.
86 Un ottimo e sintetico articolo, sebbene non d’impostazione marxista, che consigliamo di leggere su quanto accaduto sul piano finanziario dall’inizio degli anni ‘80 alla crisi del 2008 è il seguente: E. Toussaint, “Au Sud comme au Nord, de la grande transformation des années 1980 à la crise actuelle”, www.voltairenet.com, 9 settembre 2009 [il sito Comedonchisciotte ha tradotto quell’articolo col titolo “Al Sud come al Nord”].
87 G. Soros, “The Alchemy of Finance. Reading the Mind of the Market”, New York, Wiley 1987 [citato in Susan Strange, vedere nota successiva].
88 S. Strange, “Denaro impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro”, Torino, Edizioni di Comunità 1999, pag. 27.
89 AA.VV., “Estimating the infection and case fatality ratio for coronavirus disease (COVID-19) using age-adjusted data from the outbreak on the Diamond Princess cruise ship, February 2020”, Eurosurveillance, volume 25, Issue 12, 26 marzo 2020.
90 Imperial College Covid-19 Response Team, “Estimating the number of infections and the impact of non-pharmaceutical interventions on Covid-19 in 11 European countries”, imperial.ac.uk, 30 marzo 2020, pag. 5.
91 AA.VV., “Estimates of the severity of coronavirus disease 2019: a model-based analysis”, Lancet Infect Dis 2020: 20, 669-77.
92 C. Martini Grimaldi, “Test sul sangue effettuati in Giappone: la mortalità da coronavirus è inferiore all’influenza”, lastampa.it, 4 maggio 2020.
93 M. Minenna, “La Fed e il puzzle del congelamento del mercato interbancario Usa”, ilsole24ore.com, 11 novembre 2019.
94 M. Bottarelli, “Perché la Fed è la madre di tutte le bolle economico-finanziarie”, it.businessinsider.com, 20 gennaio 2020.
95 M. Bottarelli, “Perché la Fed è la madre di tutte le bolle...”, art. cit.
96 WORLD FOOD PROGRAMME, “COVID-19 will double number of people facing food crises unless swift action is taken”, wfp.org, 21 aprile 2020
97 G. Di Donfrancesco, “Fmi: Pil globale in calo del 4,9%, Italia -12,8%. Impatto ‘catastrofico’ sull’occupazione e povertà in aumento”, ilsole24ore.com, 24 giugno 2020.
98 M. Novelli / Lemanik, “La crisi? Inizierà a settembre. E assomiglia purtroppo al 1929”, milanofinanza.it, 10 giugno 2020.
99 Ad esempio in “Il virus della crisi”, Il Programma Comunista nn. 2-3/2020.
100 World Health Organization, “Covid-19. Virtual Press Conference, 9 Juin 2020”, who.int
101 L. Cuppini, “Coronavirus, l’OMS: contagio da asintomatici molto raro. Poi la marcia indietro”, corriere.it, 10 giugno 2020.
102 R. Gianola, “Covid-19 affonda l’economia globale e le vecchie ricette non bastano più”, gliasinirivista.org, 25 marzo 2020.
103 F. Corsi, “La monetizzazione del disavanzo nella letteratura macroeconomica recente (pre e post-Covid)”, asimmetrie.org, 5 maggio 2020.
104 “BCE: ‘Pronti a ogni intervento”, adnkronos.com, 18 giugno 2020.
105 “Trattato di funzionamento dell’Unione Europea”, Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea n. 326/2012
106 Cfr. “Inflazione e moneta endogena”, keynesblog.com, pag. 8 (versione pdf).
107 J. K. Galbraith, “La moneta. Da dove viene e dove va”, Milano, Mondadori 1976 (ed. 1984), pagg. 250/254.
108 C.-L. Holtfrerich, “L’inflazione tedesca 1914-1923”, Cariplo – Laterza 1989, pag. 19.
109 C.-L. Holtfrerich, “L’inflazione tedesca...”, op. cit., pagg. VII/XIX, 3 e 4.
110 E. H. Carr, “La rivoluzione bolscevica 1917-1923”, Torino, Einaudi 1964, pag. 668.
111 E. H. Carr, “La rivoluzione bolscevica...”, op. cit., pag. 670.
112 E. H. Carr, "La morte di Lenin. L'interregno 1923-1924", Torino, Einaudi 1965, pag. 129.
113 K. Marx / F. Engels, “Manifesto del Partito Comunista”, cap. I, Milano, Silvio Berlusconi Editore 1999, pag. 17/18 [i corsivi sono nostri].
114 K. Marx, “Il capitale”, vol. III, cap. 30, op. cit., pag. 569 [i corsivi sono nostri].
115 K. Marx, “Il capitale”, vol. III, cap. 15, op. cit., pag. 302.
116 K. Marx, “Il capitale”, vol. III, cap. 30, op. cit., pag. 568/569.
117 K. Marx, “Rassegna maggio-ottobre”, Neue Reinische Zeitung. Politish-ökonomische Revue, V-VI fascicolo 1850, in MEO vol. X, pag. 514.
118 K. Marx, “La crisi commerciale in Inghilterra”, MEO (edizioni Lotta Comunista), vol. 15, pag. 415.
119 “Il quinto paradigma”, Limes n. 4/2020.
120 C. Cafiero, "Il capitale di Carlo Marx brevemente compendiato da Carlo Cafiero. Libro primo. Sviluppo della produzione capitalistica", Milano, Bignami & C. Editori 1879.
121 Cafiero a Marx, 23 luglio 1879, in "La corrispondenza di Marx e Engels con italiani 1848-1895", a cura di Giuseppe Del Bo, Milano, Feltrinelli 1964, pag. 285.
122 Marx a Cafiero, 29 luglio 1879, in K. Marx / F. Engels, “Lettere 1874-1879”, Genova, Lotta Comunista 2006, pag. 305.
123 K. Marx, “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, MEO vol. X, pag. 134.
124 Lenin, "VII Conferenza Panrussa del POSDR(b) (aprile 1917). Discorso sull'atteggiamento verso i Soviet dei Deputati degli Operai e dei Soldati", LOC vol. XXIV, pag. 259.
125 L. Trotskij, "Relazione sulla crisi economica mondiale e sui nuovi compiti dell'Internazionale Comunista (III Congresso dell'IC, seconda sessione, giugno 1921)", in L. Trotskij, “Problemi della rivoluione in Europa”, Milano, Mondadori 1979.
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Comments
Per quanto riguarda Sraffa pur essendo l’economista un neoricardiano, la sua analisi in “Produzione di merci a mezzo di merci” del 1960 non può essere utile a mio giudizio nella questione di cui trattiamo in quanto 1) i valori secondo Sraffa vengono prodotti nella circolazione, 2) i valori d'uso si identificano con i valori di scambio e 3) pur distanziandosi dai marginalisti nell'accento posto nella produzione, non si distanzia nei fatti da questi nel cercare nella circolazione l'origine del valore e quindi del prezzo. Per quanto Sraffa si consideri un neo-ricardiano, ed abbia infatti anche lavorato per la pubblicazione delle opere complete di David Ricardo, come ha scritto un’economista italiano, Roberto Marchionatti, "è la teoria del valore-lavoro di Ricardo che viene meno con Sraffa". Se non erro i primi ad affermare che la teoria di Sraffa potrebbe risolvere la formazione dei prezzi di produzione furono Paul M. Sweezy e Maurice Dobb, ma ritengo che la loro tesi sia errata. D’altra parte non condivido neppure la tesi che nel capitalismo odierno il saggio d’interesse determinerebbe il saggio medio del profitto, tesi che Sraffa fa tra l’altro sua. Per Marx l’interesse è una quota del plusvalore prodotto, come il profitto del capitalista: il capitale produttivo d’interesse sembrerebbe piuttosto decidere la grandezza dei capitali produttivi industriali, ma in realtà anche ciò è da ritenersi pura illusione. Nei fatti le Banche Centrali, come accennato anche nel mio lavoro, pensano di essere determinanti, ma in realtà rispondono – a volte bene, a volte male - a degli input che ricevono dalla produzione reale, dalla produzione del valore, dalla situazione del saggio di profitto generale. Cordiali saluti
Il punto che suscita un poco di perplessità è quello contenuto nell'affermazione " Il denaro è forma, non sostanza, non è esso a determinare in prima istanza la realtà capitalistica" posta a riassume il concetto o punto di vista dello scritto che ho valutato fragile. Se indubbiamente vero sul piano categoriale esoterico da un punto di vista pratico di comprensione della dinamica della realtà non serve molto e può condurre a equivoci. Inoltre Marx ragiona sempre in termini di prezzi e moneta per essere quella la forma concreta e epifenomenica in cui si manifesta il valore di scambio e in cui accadono frizioni, conflitti e contraddizioni. Il dire che da un punto di vista marxiano il denaro creato dalla Fed, qualora il valore prodotto resti lo stesso, non cambia il valore reale delle merci è una astrazione o tautologia che rischia di alimentare equivoci o la difficoltà a comprendere gli "epifenomeni" e di ricadere nell'errore attribuito a Adolph Wagner.
Infine neanche tanto paradossalmente la Fed appare più marxiana di molti marxisti e ha l'opzione qualora necessario di sottomettere tutto il settore privato, non l'ambizione al momento. Un esito "rivoluzionario" che probabilmente incuriosirebbe Marx.
Ps. Incollo un passo di Marx dalle Note su A. Wagner anche in omaggio alla nota 23.
Therefore our vir obscurus (...) has not even noticed that my analytic method, which does not proceed from "man" but from a given economic period of society, has nothing in common with the German-professorial association-of-concepts method (“words are excellent for fighting with, with words a system may be built”(...)
1. Mi si critica “una radicale contraddizione tra forma e concetti”, ma dato che per Hegel il concetto è “la verità della sostanza” (Enciclopedia) e la sostanza, ho mostrato nel mio breve saggio, produce una forma con cui è necessariamente in contraddizione, mi sembra chiaro che una contraddizione debba esserci; facciamo presente al signor AlsOb che la dialettica è proprio la disciplina che indaga, fra altro, anche le contraddizioni ed il capitalismo per Marx è una forma di produzione altamente contraddittoria (l’intero “Capitale” dovrebbe essere anche letto proprio come un testo che indaga le contraddizioni del capitalismo);
2. Si dice che l’autore, cioè il sottoscritto, rifiuterebbe “sia la logica speculativa di Hegel, sia la logica scientifica da materialismo storico in Marx”: è per noi un mistero dove abbia capito ciò il signor AlsOb;
3. Che il capitalismo fittizio sia “iniziato nel 2007-08”, “sorto nel 2007-08”, come scrive il signor AlsOb, sembra considerazione alquanto antimarxiana, dato che del capitale fittizio Marx se ne occupa nel libro terzo del “Capitale”, i cui manoscritti risalgono al...1863-65, e dato che proprio nel paragrafo “L’altra liquidità” accenno alla mole di capitale fittizio creatasi nel pianeta dagli anni ‘80 ad oggi;
4. Abbiamo criticato Rosa Luxemburg su una frase particolare, non lei nel complesso, e non abbiamo tacciato la Luxemburg di “mistificazione”, come dice AlsOb, ma di “cattiva comprensione” di un particolare punto;
5. Secondo AlsOb in Marx la “elaborazione e attenzione al capitale e moneta fittizi e al loro ruolo critico nelle crisi” sarebbero diventate “la sua privilegiata linea di ricerca finale”: presumibilmente qui AlsOb intende che dopo le analisi del primo libro del “Capitale” Marx avrebbe indagato principalmente il capitale fittizio; in realtà Marx trattò di capitale fittizio in alcuni articoli degli anni ‘50 ma soprattutto nel libro terzo del “Capitale” che, come abbiamo detto sopra, è stato scritto nel 1863-65, qualche anno prima che venisse pubblicato il...primo libro!; non ci risultano importanti lavori di Marx sul capitale fittizio negli ultimissimi suoi anni di vita (almeno al momento disponibili), ma piuttosto manoscritti di matematica, etnoantropologia, geologia ed alcune critiche a programmi politici;
6. Non abbiamo trattato il capitale fittizio e quella che giustamente AlsOb definisce “quasi moneta”, in quanto ci siamo limitati alla teoria generale del denaro di Marx, quella del primo libro, con una breve incursione anche nella finanza soltanto per onor di cronaca e per spiegare appunto la differenza fra essa e ciò di cui trattavamo; il denaro nelle sue manifestazioni concrete (così come trattato nel libro terzo) meriterebbe un lavoro a parte che però non è possibile senza conoscere la teoria alla base che noi abbiamo cercato di illustrare, forse con errori, ma con un’analisi dell’ampio materiale marxiano a disposizione; sulle critiche al monetarismo di Marx rimandiamo infine alle bellissime pagine di “Per la critica dell’economia politica” in cui tracciava una storia delle teorie del denaro;
6. Non abbiamo ben compreso quale relazione logica vi sia fra la “violenza razzistica” del capitalismo e la sottomissione del settore privato da parte di FED e Tesoro che comunque non sarà totale, come pretende AlsOb, ma sarà molto probabilmente portato effettivamente avanti, come in molte delle crisi del capitale dal ‘900 ad oggi (ad esempio, nel 1929 e nel 2008);
7. Prendo atto che la FED e la BCE siano istituzioni marxiste… non lo sapevo!
Aggiungo inoltre una considerazione su quanto detto in un piacevole commento firmato Markus, più che altro per rendere più chiaro quanto da me scritto. Il denaro che FED e banche centrali in generali immetteranno nel sistema economico (e in parte hanno già immesso) si dovrebbe distinguere fra a) quello che serve a dar liquidità al capitale finanziario (che non crea inflazione nell’economia reale) e b) quello che arriva all’intera popolazione o ad una parte di essa: quest’ultimo creerebbe inflazione, è vero, ma dal punto di vista marxiano, qualora il valore prodotto rimanga lo stesso, essa può alterare nel breve termine alcune dinamiche, ma aumenterebbe soltanto il mezzo circolante e la quantità di moneta in generale, non il valore reale delle merci. Molte teorie economiche dominanti partono dal denaro ed analizzano il tutto dal punto di vista del denaro, Marx analizzava invece il tutto dal punto di vista del tempo di lavoro elargito dalla forza-lavoro (valore) e dalla quantità fisica di merci prodotte (valore d’uso), dinamica riscontrabile anche nell’ultima sezione del libro secondo del Capitale, quella sui cosiddetti schemi della riproduzione. Il denaro è forma, non sostanza, non è esso a determinare in prima istanza la realtà capitalistica.
sarà il settore privato
che s'inginocchierà al totem salvifico
fed/tesoro
prima che l'iniezione monetaria
si trasformi in uno tsunami
iperinflazionistico.
le solide e capaci mani della stato borghese
accoglieranno benevolmente
il figliol prodigo
che ha sperperato
tutto il plusvalore
nel bel mondo finanziario
nella creazione di profitto senza lavoro.
A tempesta passata
lo stato borghese riconsegnerà
a detto figlio come parte di eredità
la produzione di beni e servizi
che lo stato borghese
è borghese e liberal/liberista
solo quando essenzialmente
deve gestire solo e soltanto
a favore della borghesia s'intende
l'uso della cassa comune
e quello del monopolio di stato della violenza.
Qualora il giuoco non dovesse riuscire appieno
qui e lì potrebbe sorgere qualche dittatura
li e là potrebbe scoppiare qualche guerra guerreggiata
ed infine a qualcuno potrebbe ritenere più proficuo
in nome del sovranismo
il sacrificio della pace mondiale.
Scusate un incubo perchè ieri ho cenato con pane
e odio di classe altro vero motore della rivoluzione.
CHE VIVA ROBESPIERRE
Per quanto riguarda lo specifico della trattazione della Moneta in Marx (Marx è l'unico a aver compreso scientificamente il ruolo della moneta nel capitalismo e il suo modello in merito è ancora il migliore a spiegare la determinazione del capitalismo fittizio iniziato nel 2007-08) l'autore mostra tutto il suo affetto per l'irriducibile contraddizione, da un lato suggerisce correttamente come Marx rigetti la rozza e superstiziosa teoria quantitativa ma dall'altro folcloristicamente lo trasforma in un campione della stessa. La moneta in Marx è endogena e non esogena per non aderire maldestramente alla teoria quantitativa.
Pure un certo suo gusto temerario emerge quando l'autore con decisione e senza il minimo tremore rimprovera la grande Rosa Luxemburg di mistificazione. Invero per rispettare la verità della grande studiosa e rivoluzionaria e l'adeguatezza del concetto alla forma Rosa Luxemburg aveva perfettamente capito ma al tempo stesso osservato come a logica formale del modello in astratto potesse descrivere una cosa e in pratica un'altra.
Infine se si dà per esempio importanza ai notebooks sulla crisi di Marx si può sostenere che la sua elaborazione e attenzione al capitale e moneta fittizi e al loro ruolo critico nelle crisi fossero non solo in progressione ma la sua privilegiata linea di ricerca finale.
Il capitalismo fittizio sorto nel 2007-08 rappresenta il compimento del capitalismo e la modellistica e rappresentazione di Marx continuano a avere il loro valore scientifico e esplicativo inalterato a differenza del crollo delle descrizioni pseudometafisiche dell'economia volgare nonostante i suoi esponenti senza ovviamente senso del ricolo continuino il loro teatro ormai peraltro manifesto. Di fatto la Fed e il Tesoro si muovono secondo coordinate marxiane. Il capitalismo fittizio è caratterizzato da una ridotta domanta di lavoro "produttivo", da integrazione di Fed e Tesoro e dalla parossistica e immensa dimensione del capitale fittizio e speculativo ereditato, che plasma e subordina completamente il processo reale. Pertanto gli interventi superficialmente chiamati monetaristi vanno inquadrati in modo più sofisticato nell'insieme di relazioni tra quasi moneta nelle sue varie declinazioni dai derivati ai commercial papers in rapporto con le scelte di difesa di valori di capitale fittizio e di reddito reale e spesa effettiva.
Un Marx vivo oggi vedrebbe che il capitalismo e la sua irriducibile contraddizione e violenza razzistica hanno portato il nucleo Fed e Tesoro alla opzione eventuale di mpadronirsi e sottomettere tutto il settore privato,