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Scandalo ong e orge, questo è il capitalismo
di Cecilia Zamudio (*)
ONG e orge: quando cadono le maschere, il volto del capitalismo fa paura
C’è un tema che di recente è sulla cresta dell’onda dei media dominanti, che mette in chiaro l’opposizione tra Riforma e Rivoluzione (che già sviluppava Rosa Luxemburg e che continua ad essere il nodo gordiano dei processi storici, particolarmente urgente oggi).
Si è venuto a sapere che dirigenti e lavoratori di Oxfam Haiti facevano orrende orge approfittandosi della miseria di donne e bambine, abusando di loro in quello sfruttamento aberrante che è la prostituzione; di fronte a questi fatti ci sono persone che si chiedono: “come è possibile che qualcuno che ‘lotta contro la povertà’ (sic!) possa essere un puttaniere e approfittare della miseria per abusare delle donne?” … I media dominanti sono pieni di tavole rotonde di pseudo esperti in “diritti umani e cooperazione internazionale”, in cui apparentemente i partecipanti si rompono la testa per capire questa questione: rappresentazioni destinate all’alienazione di massa.
Il fatto è che, per comprendere queste questioni in apparenza incompatibili (solo in apparenza), bisogna capire il ruolo del riformismo nella perpetuazione del sistema capitalista. La questione ha radice nel fatto che le ONG come Oxfam non lottano realmente contro la povertà: perché l’impoverimento è causato dal saccheggio e dallo sfruttamento perpetrati contro la maggioranza e contro il pianeta da un pugno di capitalisti; e le ONG non mettono in discussione né combattono il sistema. Mettono pezze, fanno rapporti che possono risultarci utili come documentazione (ma sempre tenendo conto della loro ideologia), si riuniscono in hotel e spendono in catering bilanci milionari e – come no … - perpetrano orge in paesi impoveriti da una storia di saccheggio coloniale e di saccheggio capitalista attuale, come Haiti o il Ciad.
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Eros Barone, circa "Fisica e metafisica": internazionalismo, sinistra e immigrazione
di Alessandro Visalli
Devo ringraziare lo sforzo di Eros Barone e di Mario Galati che si sono divisi il lavoro nel rispondere con grande attenzione e qualità argomentativa al mio testo su Macerata (qui nel mio blog e qui in Sinistrainrete). Nella risposta di Eros Barone “Fisica e metafisica dei fatti di Macerata”, a sua espressa indicazione, vengono trattati i temi: della mia accusa, a suo dire, di schematismo e tradizionalismo nei suoi confronti, avanzata nella mia replica (che quindi rovescia); della dinamica di emigrazioni ed immigrazioni; della proposta di politica economica alternativa e dell’interpretazione dell’ultimo Marx. Mentre nella risposta di Mario Galati “Ancora su ‘letture del dramma di Macerata’”, che leggeremo dopo, sarebbero trattati gli altri temi che i due individuano nel mio testo, ovvero: la violenza e le sue cause e quindi la questione dello “scontro delle secolarizzazioni”; l’interpretazione concettuale dei processi di astrazione del lavoro e della mobilità interregionale; la riaffermazione dell’importanza dell’irrazionale dei riti e del simbolico, con il riferimento alla ‘religione del capitalismo’ e la ‘questione della tecnica’. Si tratta di una sequenza di post che su Sinistrainrete partiva dalla pubblicazione di “Sui fatti di Macerata”, un dialogo con Roberto Buffagni, e che nelle sue articolazioni ha avuto più o meno 3.000 letture.
I due amici si sforzano nelle loro repliche di correggere i miei molti errori in termini di ortodossia marxista, e di questo li posso solo ringraziare.
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All'1% gli utili idioti dell'Uccidente
di Fulvio Grimaldi
La Siria di Ghouta e la Ghouta di Amnesty, Palmira e Babilonia, i nazifascisti in agguato, il gender e i migranti: quando i “sinistri” condividono distruzioni e distrazioni di massa
Quelli “del popolo”
Quelli che risultano più nauseabondi sono sempre gli ipocriti. A partire dal “manifesto” e da tutta la combriccola pseudosinistra dell’imperialismo di complemento, che volteggia nel vuoto dell’interesse e del consenso di un elettorato italiano che, per quanto disinformato o male informato sulle cose del mondo, ha dimostrato di badare più alla sostanza che alle formulette di palingenesi sociale incise sulle lapidi della sinistra che fu. E la sostanza ci dice che mettere tutti sullo stesso piano, 5Stelle e ologrammi nazifascisti, Putin e Trump, opposti imperialismi, migranti in fuga da bombe Nato e migranti attivati dalle Ong di Soros, jihadisti a Ghouta Est e truppe governative, a dispetto dell’immane e unanimistica potenza di fuoco mediatica, poi produce al massimo l’1 virgola qualcosina per cento. Brave persone, certo (esclusi i paraculi fessi dei GuE), ma fuori dal mondo, da chi è il nemico e da come si muove l’1% finanzcapitalista e tecno-bio-fascista nell’era del mondialismo e dell’high-tech. E, permettetemi una risatina, neanche bravi, ma di un narcisismo solipsista che rivela tratti patologici per quanto è dissociato dal reale, quelli della Lista del Popolo (Chiesa, Ingroia, bislacchi e farlocconi vari), trionfalmente giunti allo 0,02%. Ma si puo!
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Rileggere Roosevelt contro l’inerzia della crisi
di Claudio Gnesutta
Giovanna Leone, Maurizio Franzini, Giuseppe Amari e Adolfo Pepe rileggono, da angolature diverse, il ruolo di Roosevelt nella trasformazione del capitalismo del secondo dopoguerra. Nel confronto sottinteso con l’oggi risalta il suo spirito riformista e umanista
È nota l’argomentazione di Lakoff che i “progressisti” democratici, accettando le modalità di pensiero dei conservatori per paura di dire ciò in cui credono realmente, incontrino difficoltà nel costruire una narrazione persuasiva per i propri elettori e per quelli incerti. Rinunciando a prospettare una visione del mondo realmente alternativa depotenziano il loro linguaggio e l’immaginario ad esso correlato, indebolendo la carica emotiva rispetto allo status quo conservatore.
Non è il caso di Franklin Delano Roosevelt, quando alla Convenzione democratica del 2 luglio 1932 afferma che i “nostri leader repubblicani ci parlano di leggi economiche – sacre, inviolabili, immutabili – che causano situazioni di panico che nessuno può prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi economiche non sono fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri umani”. Si tratta di un rovesciamento radicale delle priorità politiche repubblicane che percorre il suo Looking Forward – la raccolta degli articoli e dei discorsi sviluppati nel corso della sua campagna elettorale per le presidenziali del 1933 – la cui traduzione è apparsa in questi giorni per i tipi della Castelvecchi editore. Il libro, Guardare al futuro. La politica contro l’inerzia della crisi, a cura di Giuseppe Amari e Maria Paola Del Rossi ha un’introduzione di J. K. Galbraith e comprende anche il Discorso di insediamento (4 marzo 1933) e la Prima chiacchierata al caminetto sul bank holiday (12 marzo 1933) dello stesso Roosevelt, le due lettere inviategli da Keynes (del 1934 e del 1938) sul suo New Deal e un articolo su “Il popolo d’Italia” del 1933 nel quale Mussolini rivendica al fascismo l’originalità dell’interventismo rooseveltiano.
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La crisi della sinistra fra ipocrisia, metamorfosi e impotenza
di Francesca Donato
Il dibattito mediatico sorto in seguito al risultato del voto del 4 marzo si avvita in questi giorni attorno a due interrogativi fondamentali: le ragioni del crollo della sinistra, nelle sue varie declinazioni partitiche, e quelle del trionfo dei due partiti “populisti” Lega e M5S.
Entrambi i quesiti faticano ad ottenere risposte convincenti da parte degli esponenti dei partiti sconfitti, e le spiegazioni fornite dai vari giornalisti, opinionisti e politologi che sono cresciuti nutrendosi degli slogan funzionali al sistema di governo sino a ieri in forze, risultano altrettanto inconcludenti.
Per effettuare una corretta analisi della crisi della sinistra italiana, è necessario partire da un esame obiettivo dello stato di salute della sinistra in Europa, visto che facciamo parte dell’Unione europea, ma anche dall’esame della situazione politica d’oltreoceano, dato che viviamo in un mondo “globalizzato”.
Contrariamente a quanto affermato da vari commentatori, la débâcle della sinistra in Europa non è affatto omogenea.
Al di là dei casi di Germania, Austria e Paesi dell’est, in cui le forze politiche di destra o centrodestra sono cresciute a spese delle sinistre locali, vi sono altri Paesi in cui invece la sinistra, nella sua veste più “estrema” (cioè tradizionale), ha ultimamente guadagnato molte posizioni rispetto alle elezioni precedenti.
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Armi Nucleari e Grandi Potenze in un Contesto Multipolare
di Federico Pieraccini
In un ordine mondiale multipolare, con nazioni dotate di armi nucleari, la probabilità di un’apocalisse nucleare diminuisce. Il titolo dell’articolo e la premessa iniziale potranno sembrare controintuitive come affermazioni, ma dopo una lucida analisi si evince uno scenario inedito e per certi versi sorprendente
Una doverosa premessa iniziale. Quando parliamo di armi nucleari è bene mettere in chiaro alcuni importanti punti prima di addentrarsi in ragionamenti complicati. L’arma atomica è qui per restare e chiunque creda in un processo di progressiva denuclearizzazione del globo si sbaglia di grosso. Provate a chiedere a qualunque politico Indiano, Pakistano, Cinese, Russo, Nordcoreano o Americano cosa ne pensi dell’abbandono delle proprie armi nucleari. Vi risponderanno che non accadrà mai. Pretendere che una nazione rinunci spontaneamente alla sua più potente arma di deterrenza è semplicemente irrealistico. Ciononostante, vorrei enfatizzare quanto il paradosso della sicurezza derivante dalle armi nucleari sia attuale e centrale in questo articolo. Chiunque dotato di raziocinio potesse servirsi di una bacchetta magica, farebbe scomparire un’arma capace di eliminare la razza umana; il problema è che nel mondo reale questa ipotesi semplicemente non sussiste.
Vi è comunque una contro argomentazione molto valida, secondo cui l’assenza di armi nucleari avrebbe fortemente alterato l’equilibrio durante la guerra fredda, portando ad uno scontro devastante, seppur in termini convenzionali, tra le due superpotenze dell’epoca. In questo articolo proverò ad argomentare come l’arma nucleare possa, specie in futuro, essere garante di pace, piuttosto che di distruzione. Sempre tenendo a mente il grande rischio che l’umanità si è accollata con l’invenzione di un’arma così distruttiva. Una spada di Damocle sul destino dell’umanità, per queste ragioni soprattutto un bilanciamento tra potenze è necessario affinché si possa evitare per sempre una catastrofe nucleare.
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Contro il pensiero di Byung-Chul Han
Riflessioni critiche intorno alle tesi del filosofo sudcoreano autore di Psicopolitica
di Daniele Vazquez
Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, già docente di Filosofia e Teoria dei Media presso la Staatliche Hochschule für Gastaltung di Karlsruhe, insegna ora Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino. È autore di saggi sulla globalizzazione e l’ipercultura
Byung-Chul Han ripete all’infinito come un mantra il suo pensiero per ipnotizzare e convincere con la violenza della ripetizione il lettore. Questo autore ha fatto a pezzi i migliori filosofi contemporanei e alcuni intoccabili del XX secolo come Hannah Arendt e Michel Foucault, entrando nel merito con molta arguzia di alcuni loro saggi e questo ci ha incantati e fatto superare alcune abitudini intellettuali. Ci ha liberati di molti concetti che andavano effettivamente superati e che nessuno osava criticare. Fin qui il mantra è stato davvero sparigliante. Tuttavia tra i silenzi di tale mantra, piccoli e significativi non detti, si intravedono scenari senza sbocco e una cultura dell’ineluttabile e della fatalità, molto probabilmente una eco heideggeriana, che finisce per coincidere con una cultura della auto-colpevolizzazione.
Dalla negatività alla positività
Diciamo subito che la sua dialettica della negatività non è affatto un modo di incedere teorico nuovo, ma un patrimonio della critica radicale del dopoguerra, i primi ad aver utilizzato un certo modo logico di avanzare nelle argomentazioni di Hegel e del giovane Marx per criticare il capitalismo, per il quale le lotte del proletariato vanno considerate come un movimento del negativo. Fondamentale in Han è il passaggio da una società in cui è la negatività a motivare gli individui e una in cui è la positività.
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La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo
di Alessandro Visalli
Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.
Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.
Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi.
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Buone pratiche scolastiche e prospettive sociali e politiche dell'educazione
di Federico Repetto
La sinistra pedagogica oggi lavora alle buone pratiche per cambiare la scuola, per quanto si può. Ma questo rimanda ad un nuovo patto tra gli adulti per l’educazione dei ragazzi e ad una contestazione dell’egemonia dell’individualismo neoliberale
1. Le buone pratiche. La scuola oggi non ha bisogno di un’altra riforma globale, per cui la sinistra docente (in collaborazione con enti locali, con associazioni e movimenti educativi, con i dirigenti scolastici e –a Dio piacendo- col ministero) deve puntare a sperimentare e diffondere buone pratiche d’insegnamento. Ed è quello che già fa da decenni, in particolare a partire dagli anni settanta, ma che oggi deve fare con maggiore intensità, data la situazione disperata in cui versa la scuola (vedi l’articolo di Domenico Chiesa sul documento del CIDI di Torino Cambiamo la scuola)
Del resto la sparuta sinistra politica non può aspirare a responsabilità di governo, almeno in ambito nazionale, e, nelle condizioni attuali, se lo facesse sarebbe probabilmente sconfessata da moltissimi dei suoi elettori.
2. Che senso ha oggi dire che la scuola dell’obbligo non può bocciare? In attesa di tempi migliori, e per cercare di accelerarne l’avvento, dovremmo provare ad affrontare di nuovo alcune vecchie questioni, che si ripresentano in forma nuova.
La prima è: è proprio vero che la scuola dell’obbligo non può bocciare? Don Milani parlava delle bocciature di bambini e ragazzi di un’Italia contadina, in cui andare a scuola era comunque più piacevole che lavorare nei campi o in officina. Certo era meglio per loro arrivare alla terza media senza bocciature e acquisire comunque un’idea d’insieme dei programmi, piuttosto che ripetere tre volte la grammatica di prima media e la storia romana.
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La Rivoluzione d’Ottobre
di Paolo Giussani
1.
La Rivoluzione del 1917 sta all’ideologia rivoluzionaria del XX secolo all’incirca come la resurrezione di Lazzaro sta alla fede nella divinità del Cristo, è proprio una disdetta che nel seguito Lucifero si sia preso una bella rivincita.
La vecchia guardia bolscevica è stata eliminata; si è creato un regime politico autocratico retto in coabitazione da ex-menscevichi ed ex-burocrati dell’apparato zarista che ha disposto del controllo dei mezzi di produzione, distribuzione, comunicazione, di tutto quanto; l’economia e la società dell’ex-impero zarista si sono trovate ad essere quasi completamente isolate dal resto del mondo; i lavoratori hanno assunto un atteggiamento completamente passivo e apatico nella più atomizzata società che sia mai esistita nell’epoca moderna. Assieme alla patetica recita della guerra fredda, tutto questo è formidabilmente servito a dimostrare che il capitalismo e la società occidentale sono il migliore dei mondi possibili, anzi l’unico possibile, deviando dal quale si violano le leggi della natura generando mostri che non sono neppure in grado di riprodursi regolarmente. La prima (presunta) grande rivoluzione socialista si rivelava essersi convertita nel miglior sostegno politico e ideologico alla permanenza del capitalismo.
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Dopo il 4 marzo 2018
di Michele Castaldo
I risultati delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 segnano certamente una rottura con gli scenari sin qui succedutisi negli oltre 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Chi volge lo sguardo altrove, senza intrattenersi sul suo significato, sbaglia, non coglie nelle elezioni di questo periodo in Occidente l’espressione del cambio di fase del movimento della storia senza uguali nei decenni precedenti. Comunque la si pensi, bisogna tener conto del fatto che le elezioni sono un termometro della febbre sociale che si esprime con un simbolo su una scheda.
Di primo acchito un Di Maio ci fa la figura dell’ingenuo sbarbatello rispetto a personaggi del calibro di un Andreotti, un Aldo Moro, un Fanfani, un Berlinguer, un Pajetta, un De Martino, un Craxi o anche – perché no? - un Berlusconi, un Tremonti, un Bossi, un Martino e così via. Proprio come un Peppe Grillo e un Casaleggio appaiono come guru capitati per caso in politica.
L’errore più grave che si possa commettere – e purtroppo si commette – è quello di esaminare un movimento come i 5 Stelle partendo da un punto di vista ideologico novecentesco, cioè se siano di destra o di sinistra i gruppi dirigenti piuttosto che gli strati sociali che li esprimono. Peggio ancora se si sostiene che Grillo, Casaleggio, Di Maio, Di Battista, Fico e altri avrebbero costruito il movimento piuttosto che essere espressione di necessità emergenti dalla società italiana prodotte da una crisi senza precedenti nella sua storia.
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Oriente, Occidente, giammai si incontreranno?
di David Broder
Il sottotitolo del libro di Losurdo promette un’indagine su “come il marxismo occidentale nacque, come morì, come può rinascere”. Sfogliandone le pagine è tuttavia arduo trovarvi traccia di un qualche annunzio di una “rinascita” del marxismo occidentale. Losurdo preferisce assumere il ruolo del medico che, di fronte ad un paziente sofferente, dice ai parenti preoccupati che è venuto il momento di staccare la spina. Il tono combattivo del saggio non stupirà i lettori dei lavori di Losurdo finora disponibili in inglese. Questi vanno da Heidegger and the Ideology of War (2001) [l’originale italiano è La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra, Torino 1991 n.d.t.], passando per Hegel and the Freedom of the Moderns (2004) [Hegel e la libertà dei moderni, Roma 1992 e Napoli 2011 n.d.t.], fino a Liberalism: A Counter-History (2011) [Controstoria del liberalismo, Roma-Bari 2005 n.d.t.], War and Revolution: Rethinking the Twentieth Century (2014) [che mette insieme tre differenti testi di Losurdo, n.d.t.] e Non-Violence: A History Beyond the Myth (2017) [La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Roma-Bari 2010 n.d.t.], con Nietzsche: The Aristocratic Rebel [Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino 2002 n.d.t.] che dovrebbe uscire all’inizio del 2018. Questi titoli costituiscono soltanto una piccola parte della prodigiosa produzione di Losurdo nella sua lingua madre, che comprende qualcosa come trentacinque libri oltre che numerosi volumi in collaborazione e ne fa uno dei più prolifici pensatori italiani della sua generazione. Titolare di una cattedra di Storia della Filosofia a Urbino, ben pochi possono tenergli testa nel mettere insieme energia ed erudizione.
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Individuo e collettività, passato e presente
Touraine vs Bauman: una lettura incrociata
di Piero Borzini
Avevo appena comprato due libri. Emanavano ancora un buon profumo di carta stampata. Si trattava di: Noi Soggetti Umani di Alain Touraine (Il Saggiatore, 2017) e Retrotopia di Zygmunt Bauman (Laterza, 2017). Nell'accingermi alla non facile impresa di prendere appunti in vista di una eventuale recensione, una domanda mi ha subito bloccato: è ammissibile che un lettore comune, che nulla sa di sociologia, si permetta di 'recensire' saggi sociologici? Dopo averci rimuginato su per un po', sono giunto alla seguente conclusione: se il saggio in questione è scritto da accademici per altri accademici, il lettore comune farebbe bene a tenere le proprie riflessioni per sé. Se invece il saggio in questione è di carattere divulgativo, vale a dire diretto al lettore comune, allora sì, è lecito che egli commenti ciò che era indirizzato espressamente a lui. Soddisfatto per aver escogitato questa giustificazione, eccomi qua con la penna in mano. Un'unica avvertenza: la mia competenza in fatto di scienze umane è prossima a zero. Le opinioni che qui riporto sono quindi il frutto più della mia ignoranza che non della mia competenza e del fatto che l'occhio con cui osservo le cose è quello di chi guarda più ai fatti reali che alle costruzioni verbali e a quelle teoretiche.
Due parole essenziali sugli autori. Alain Touraine (1925) è un sociologo francese. No-vantadue anni compiuti, si occupa di sociologia dei movimenti sociali e politici, in modo particolare in relazione a quella che egli ha chiamato la "società post-industriale" (che è quella che altri chiamano società post-moderna). Zygmunt Bauman (1925-2017), è stato un sociologo dai vasti interessi: ha studiato la società moderna e post moderna (cui ha attribuito l'aggettivo "liquida") alle prese con il consumismo e la globalizzazione, occupandosi in modo particolare delle ragioni morali dell'agire sociale.
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Politiche 2018: scomparsa della sinistra
di Michele Nobile
Innanzitutto, i numeri giusti per la giusta finalità
Cosa ci interessa sapere dei risultati delle elezioni politiche? Ovviamente, la distribuzione dei seggi delle Camere fra i diversi partiti, fatto determinante - si presume - della composizione del governo. Il «si presume» consegue dalla possibilità che infine, constatata l’impossibilità o inopportunità di un governo politico, si formi una maggioranza favorevole a un governo «tecnico» o, meglio, tecnocratico, o qualche genere di pasticcio trasformistico. Eventualità da non scartare, visti i risultati di queste elezioni politiche.
Quindi, per il fine istituzionale della composizione delle Camere, della maggioranza e del governo, i numeri da considerare sono quelli forniti dal Ministero dell’Interno e dai mass media, di pronta disponibilità per chiunque. Le percentuali dei partiti sono calcolate sui voti validi.
Se, invece, si considerano le elezioni come una sorta di gigantesco sondaggio sulle opinioni politiche dei cittadini, allora quel che non si deve fare è ragionare a partire dalle percentuali calcolate sui voti validi. Occorre avere la pazienza di ricalcolare le percentuali in rapporto all’elettorato totale, di tutti i cittadini che hanno diritto di voto, astenuti compresi, qui indicati come adv: solo in questo modo ci si potrà fare un’idea corretta della «presa» dei diversi partiti sull’elettorato. Se si compie questa operazione, i risultati possono essere sorprendenti e importanti le implicazioni politiche.
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Il governo dispone illimitatamente di denaro?
di Tom Streithorst
Tutti sanno che i governi devono tassare, prima di poter spendere. Quello che presuppone la Teoria Monetaria Moderna è che forse non è così
Alto, barbuto, con gentili occhi nocciola, il veterano di Occupy Wall Street, Jesse Myerson passa le sue giornate a bussare alle porte delle case dei quartieri degradati del sud dell'Indiana per ricordare agli elettori l'enorme ricchezza del loro paese. Il suo messaggio, come organizzatore del gruppo di base, Hoosier Action [N.d.T.: Hoosier = Abitante dell'Indiana], è che gli Stati Uniti sono una nazione spettacolarmente ricca e che un po' di questa ricchezza potrebbe, e dovrebbe, essere distribuita fra i poveri del sud Indiana.
«Qui, le persone hanno sofferto terribilmente a livello economico, e questo ha portato alla morte spirituale delle comunità,» mi ha detto Myerson a proposito dei posti che frequenta. La dipendenza da oppiacei è molto diffusa, così come lo è il suicidio. «Per le persone non esiste alcun canale ben organizzato in grado di dare un senso alla loro sofferenza, tranne quelli che si legano ad iniziative xenofobe di destra.»
Dice che l'organizzazione maggiormente in competizione con il suo gruppo, per il cuore e la mente degli abitanti poveri dell'Indiana, è un gruppo di suprematisti bianchi chiamato "Traditionalist Workers’ Party". «Si stanno organizzando in una maniera simile alla nostra - questi oligarchi sono tirannici e ci sfruttano, mentre noi abbiamo bisogno di pace e di prosperità - tranne per il fatto che si organizzano a partire da un modello di scarsità,» ci spiega. «Loro dicono che non c'è abbastanza, per andare avanti, perciò i bianchi devono restare uniti e occuparsi di tutto quanto.»
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L’importante è finire. Su un libro recente di Giordano Sivini
di Riccardo Bellofiore
Giordano Sivini, La fine del capitalismo. Dieci scenari, Asterios, Trieste 2016, 128 pp.
La fine del capitalismo. Dieci scenari di Giordano Sivini è un volume di piccole dimensioni ma di grande utilità. Il libro è, nella sua gran parte, una rassegna del discorso sociologico-economico sul capitalismo, soprattutto recente, al vaglio della questione dell’approssimarsi di una sua ‘fine’, se non di un suo già sperimentato collasso. In capitoli che accoppiano sinteticità a chiarezza espositiva l’autore riesce a dar conto dei caratteri principali della riflessione di alcuni dei pensatori al centro del dibattito odierno sul nodo di una ‘fase terminale’ del capitalismo. Si inizia nel capitolo primo (La fine della storia del capitalismo) con Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein, della scuola del ‘sistema-mondo’. Si prosegue nel capitolo secondo (L’agonia del capitalismo) con l’elaborazione più recente di Wolfgang Streeck, messa in parallelo con la geografia materialistica di David Harvey in un confronto attorno alla questione del ‘soggetto’. Il passaggio ulteriore, nel capitolo terzo (Il suicidio del capitale), prende di petto sintonie e divergenze nell’arcipelago del marxismo per molti versi eterodosso tra, da un lato, la scuola della ‘critica del valore’, guardando in particolare alla riflessione di Robert Kurz, e, dall’altro lato, alla riflessione di Moishe Postone, l’uno e l’altro propositori di un’uscita dal lavoro. Nel capitolo quarto (Verso la nuova società) viene più decisamente avanti la questione del profilo di un possibile futuro ‘oltre’ il capitalismo, con la considerazione del lungo e differenziato percorso di André Gorz, del discorso sul ‘postcapitalismo’ di Paul Mason, e delle pubblicazioni di Jeremy Rifkin.
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Il ritorno del voto di classe, ma al contrario
Ovvero: se il PD è il partito delle élites
di Lorenzo De Sio
All’indomani del voto, alcuni primi elementi suggeriscono che uno dei motivi del fragoroso esito elettorale del 4 marzo sta nella scarsa capacità dei partiti tradizionali di rispondere in modo efficace alle inquietudini degli italiani. Inquietudini generate dalle profonde trasformazioni socio-economiche che stanno investendo il nostro paese. Abbiamo suggerito questa interpretazione in una prima analisi su dati a livello provinciale, in cui mostravamo che – a parità di varie condizioni socio-economiche – le province con livelli più alti di disoccupazione presentavano maggiore crescita del M5S, mentre le province con maggior aumento della presenza di immigrati presentavano un voto più alto alla Lega.
Questo risultato è interessante e significativo, perché è in linea con una teoria ormai consolidata, proposta per la prima volta dal gruppo di ricerca di Hanspeter Kriesi nel 2006 (Kriesi et al. 2006), per cui nei paesi dell’Europa Occidentale i cambiamenti nei comportamenti di voto e il successo di nuovi partiti sarebbero legati agli effetti di processi di trasformazione come la globalizzazione (sia in senso economico che in senso culturale) che – nel loro produrre vincenti e perdenti (ad esempio i lavoratori i cui posti di lavoro vengono delocalizzati, vedi il recente caso Embraco) – generano conflitti che possono essere cavalcati e politicizzati con successo dai partiti.
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Oltre il mito del debito pubblico: non ci sono i soldi o non ce li fanno toccare?
di coniarerivolta
Il mito delle risorse scarse, il mantra dei soldi che non ci sono, è la più potente retorica in mano alla classe dominante perché spoglia le questioni economiche della loro essenza politica trasformando, come per magia, precise scelte di campo in apparenti vincoli di necessità. Dietro alla chiusura di un ospedale non vi sarebbe la scelta di favorire la sanità privata ma il debito della Regione, che impone sacrifici. Dietro alla mancata manutenzione delle scuole non vi sarebbe lo smantellamento sistematico dello stato sociale ma la disciplina di bilancio. La possibilità stessa di immaginare un’alternativa politica a povertà, disoccupazione e sfruttamento viene negata sulla base di un’apparentemente lucida aritmetica della scarsità, una presunta razionalità economica che non lascia scampo, proiettando l’ombra lunga del debito pubblico su ogni rivendicazione e su ogni aspirazione ad un futuro migliore. Quel debito incombente significa che abbiamo già speso troppo, abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi ed ora non ci resta che pagare, rinunciando progressivamente a lavoro, sanità, istruzione, trasporti, stili di vita, cultura e tutto quello che il Novecento ci aveva, per l’appunto, solo prestato. Un tempo si scontravano visioni del mondo differenti in un conflitto a tratti appassionato, oggi ci viene raccontata una storia diversa e pacificante: saremmo pure d’accordo nel garantire quei diritti a tutti ma, purtroppo, sono finiti i quattrini – che ci possiamo fare?
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Elezioni 2018: tutto ciò che è reale è razionale
di Fabrizio Marchi
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su un risultato elettorale sicuramente complesso che la vulgata mediatica in linea di massima (con alcune eccezioni) tende a derubricare come il trionfo delle forze “antisistema” e populiste contro quelle europeiste. C’è sicuramente del vero anche in questo ma si tratta, ovviamente, di una semplificazione politicamente finalizzata.
Cominciamo subito col dire che forze politiche realmente “antisistema”, cioè portatrici di programmi, idee, valori e anche orizzonti realmente alternativi all’ordine economico, sociale e ideologico dominante – al di là, anche in questo caso, della narrazione mediatica – non esistono. Né il M5S né tanto meno la Lega, infatti, si pongono il problema – neanche come orizzonte ideale – di una possibile trasformazione strutturale della società. Si tratta di due forze “populiste” (scegliamo di prendere per buona questa definizione, al fine di semplificare le cose…) che hanno dimostrato di avere la capacità di ascoltare la gente, di capire il proprio popolo (altra definizione che diamo al momento per buona ma che necessiterebbe di ben altro approfondimento), di entrare in relazione con la sua “pancia”, il suo sentire, le sue paure, i suoi bisogni.
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Terrore, terrorismo, rivoluzione
di Andrea Russo
Recensione a Terrorismo e modernità di Donatella Di Cesare pubblicata nel n.4 di Qui e ora
Rispetto all’ormai sterminata bibliografia sull’argomento, il libro di Donatella Di Cesare merita di essere letto, studiato e discusso, soprattutto da chi nutre velleità rivoluzionarie. La tesi di fondo è la seguente: il terrorismo non è un “mostro”, un flagello che si abbatte dall’esterno sulla nostra società, ma parte integrante della storia del moderno Stato democratico. Il merito di questo libro è mettere allo scoperto il tabù che lo Stato moderno cela dentro di sé.
«Terrorismo» è un termine di cui lo Stato ha il monopolio, così come ha il monopolio della violenza. Scrive Di Cesare, «Solo lo Stato esercita il potere di qualificare, definire, nominare. Solo lo Stato può dire ad altri “terrorista” E, per converso, nessuno può applicare allo Stato questo nome, a meno di non dichiararne apertamente l’illegittimità e comprometterne la sovranità».
Nell’ottica statuale, il terrorismo verrebbe solo dal basso. Insomma, per lo Stato non ci sono dubbi: il terrorismo è quello di ribelli, anarchici, autonomi, brigatisti, e poi oggi quello di islamisti e jihadisti. D’altra parte, è pur vero che oggi nessun rivoluzionario si definirebbe mai “terrorista”. Non è un caso, quindi, che siano soprattutto gli Stati a usare il termine nella retorica del discorso pubblico, revisionando di continuo la definizione a seconda dei gruppi che intendono squalificare.
L’acribia con cui la razionalità politica statuale si dedica a rappresentare il terrorismo come forma assoluta del Male contemporaneo è, in realtà, indice del tentativo, mai del tutto riuscito, di occultare quel quantum di terrore che resta inscritto nel cuore dello Stato moderno.
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Il nemico interno: l’imperialismo USA in Siria
di Patrick Higgins
“Tutti i complotti sono uniti tra loro;
come le onde che sembrano fuggirsi eppure si mescolano”
– Louis Antoine de Saint-Just
“… là dove non esiste il disordine, gli imperialisti lo creano…”
– C.L.R. James, I giacobini neri
Nel 1971, al culmine della spaventosa e omicida guerra statunitense al Vietnam, un gruppo di cineasti radicali argentini e italiani, conosciuti come Colectivo de Cine del Tercer Mundo, realizzarono un film dal titolo provocatorio: Palestine, Another Vietnam. Un titolo che dice molto in poche parole, una breve dichiarazione gravida di possibili significati. La principale suggestione del titolo – ovvero, che tanto il Vietnam quanto la Palestina fossero obiettivi di un’aggressione imperiale, così come di una resistenza ad essa – non sarebbe stata in alcun modo fuori luogo, o insolita, negli ambienti della sinistra globale del 1971. In effetti, i rivoluzionari palestinesi dell’epoca prestavano non poca attenzione al Vietnam, studiando sia le brutali tattiche militari utilizzate dall’imperialismo USA al fine di schiacciare un movimento rivoluzionario di popolo, sia la storica resistenza del popolo vietnamita. Quale lezione si poteva trarre da tutto ciò?
A questo proposito, nel 1973, allorquando la rivoluzione anti-coloniale vietnamita proclamava la vittoria sulla superiorità militare degli Stati Uniti, un gruppo di rivoluzionari palestinesi e intellettuali arabi convocava una tavola rotonda moderata da Haytham Ayyoubi, capo della Divisione studi militari dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).
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Contro l’ideologia cosmopolita ed europeista
A proposito di un libro di Domenico Moro
di Bruno Steri
La gabbia dell’euro
Nel suo ultimo lavoro (La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra. Imprimatur, 2018) Domenico Moro, economista marxista e militante comunista, si impegna in un’importante opera di pulizia concettuale per sgombrare il terreno da alcuni fraintendimenti e resistenze ideologiche che impediscono la risoluta adesione ad un’opzione che egli ritiene vitale per la prospettiva di vita delle classi subalterne (italiane ed europee) e per le sorti della sinistra (comunista e non): la rottura con l’Unione europea e l’uscita dall’euro. Non abbiamo a che fare in senso stretto con un libro di analisi economica, ma con un insieme di lucide argomentazioni che legano i dati dell’analisi economica alle attuali urgenze della battaglia ideologica.
Il libro prende le mosse da una lapidaria e rivelatrice dichiarazione di Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento”. Come dire che, per far passare determinati orientamenti (antipopolari), occorreva che questi fossero imposti da un’autorità esterna, in grado di porre vincoli indiscutibili bypassando gli organismi decisionali interni e democratici.
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L’economia secondo Andrea Roventini, il candidato ministro del M5S
di Keynesblog
Al di là di come la si pensi sul Movimento 5 Stelle, occorre riconoscere che l’indicazione di Andrea Roventini, docente presso l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa guidato fino a poco tempo fa da Giovanni Dosi, è una scelta di alto profilo. I suoi principali interessi di ricerca comprendono l’analisi di sistemi complessi, l’economia computazionale basata su agenti eterogenei, la crescita, i cicli economici e lo studio degli effetti delle politiche monetarie, fiscali, tecnologiche e climatiche. I suoi lavori sono stati pubblicati su Journal of Applied Econometrics, Journal of Economic Dynamics and Control, Journal of Economic Behavior and Organization, Macroeconomic Dynamics, Ecological Economics, Journal of Evolutionary Economics, Environmental Modeling e Software, Computational Economics. Inoltre partecipa a vari progetti di ricerca europei come ISIGrowth, Dolfins e Impressions.
Vale la pena quindi soffermarsi sui suoi lavori. Abbiamo perciò selezionato alcuni articoli e working paper che offrono una carrellata crediamo rappresentativa delle idee del candidato ministro.
Da quando è scoppiata la crisi, ma in particolare negli ultimi 2-3 anni, la critica ai modelli standard è diventata sempre più serrata, tant’è che persino diversi economisti mainstream hanno sollevato pacati dubbi (Blanchard), invitato a guardare altrove (Summers), se non addirittura, in qualche caso, mosso aspre critiche (Romer, Krugman e soprattutto Stiglitz).
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Il demone di Tronti
di Damiano Palano
«Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione […] entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile».
Sfogliando le seicentocinquanta pagine del Demone della politica – la corposa antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat, che raccoglie alcuni dei lavori più importanti stesi da Mario Tronti dal 1958 al 2015 (Il Mulino, pp. 656, euro 46.00) – è quasi inevitabile tornare alle parole che Max Weber pronunciò nella sua celebre conferenza del gennaio 1919. Perché non c’è dubbio che il «demone della politica» sia costantemente presente in ogni pagina di Mario Tronti, dai suoi primi scritti apparentemente teorici fino ai lavori più recenti, pur dominati dalla disillusione e persino da una forma di «disperazione teorica». Non c’è infatti nessuna pagina di Tronti in cui la motivazione e gli obiettivi non siano – più o meno scopertamente – politici. Anche se la politica cui pensa Tronti è una «grande politica» che non ha nulla a che fare con il querulo battibecco che – nella quotidianità delle nostre democrazie d’inizio millennio – siamo soliti chiamare (fin troppo generosamente) «politica».
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Principio speranza
di Salvatore Bravo
La meraviglia panica, ci disperde, dinanzi al trionfo del neoliberismo. Si deve passare dallo stupore alla razionalizzazione. Dinanzi alla carcassa che ci offre il neoliberismo, con lo splendore di un corpo in decomposizione logorato dalle sue contraddizioni senza risposte, dalle quali non pare aprirsi alcun campo di ricerca, alcuna prassi. E’ necessario partire dal punto zero del pensiero per ricominciare. L’incipit di un nuovo percorso deve avere la chiarezza della trappola in cui il mondo è caduto, “La notte del mondo”, a voler usare il linguaggio di Heidegger, e non si coglie la fine della notte. Al silenzio del pensiero e della speranza è necessario opporre la domanda. Quest’ultima necessita che si guardi in profondità, che ci si sottragga alla stimolazione perenne, per vivere l’irrilevanza di questi decenni. La categoria con la quale è possibile leggere la contemporaneità è l’irrilevanza, la mercificazione fa molto più che ridurre tutto alla totalità della valorizzazione, trasforma la vita, le nostre vite, da organico ad inorganico, agisce da acido, annichilisce, con il pensiero, la passione di vivere. Se seguissimo i dettami della nostra Costituzione, il carattere feticistico delle merci sarebbe illegale, non costituzionale, poiché la Costituzione fa della dignità e della volontà soggettiva l’architrave della difesa della dignità delle persone, così come recita l’articolo terzo:
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