Fai una donazione
Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________
- Details
- Hits: 2199

L’ossimoro dei “mercati autoregolatori”
di Alberto Rabilotta*
Ossimoro, nel Dizionario della Lingua Spagnola, significa “combinazione nella stessa struttura sintattica di due parole o espressioni di significato opposto, che da vita ad un nuovo significato: ad es.. rumoroso silenzio”. Un altro esempio (che non figura nel dizionario) è l’espressione “mercati autoregolati”, cioè il sistema neoliberista che per sopravvivere “esige regolarmente l’intervento e la azione coercitiva dello Stato”.
Il Consenso di Bruxelles, come prima il Consenso di Washington
Dal Vertice dell’Unione Europea (UE) che ha avuto luogo a Bruxelles lo scorso 30 gennaio, è uscito un Trattato sulla Stabilità, la Coordinazione e la Governance nell’Unione Economica e Monetaria che, su insistenza della Germania – come segnala il giornale britannico The Guardian – trasforma la Commissione Europea (CE) in un organismo “scrutatore” dei bilanci statali che d’ora in poi verranno redatti dai paesi membri della UE, e la Corte di Giustizia Europea (CGE) nell’istituzione che applicherà il “rigore fiscale” nella zona euro (ZE).
Per dirla più chiara: questo Trattato (che non fa parte dei Trattati della ZE per evitare il processo di ratifica e permette che esso entri in vigore con l’appoggio soltanto di 12 dei 27 paesi della UE) trasforma la CE nell’istanza sovranazionale che deciderà – al posto dei parlamenti – la politica di spesa statale, e la CGE nella “polizia fiscale sovranazionale” che – tornando all’articolo del quotidiano britannico – “può applicare in modo quasi automatico” multe agli Stati che in modo continuo non si attengano alle nuove regole che rendono illegale il deficit fiscale. E il Trattato rende obbligatorio per il 17 paesi della UE – e per quelli che saranno accettati in futuro – l’adozione di legislazioni di emendamenti costituzionali obbligatori per “abolire il diritto dei governi a ricorrere ad eccessivi livelli di debito nazionale”.
- Details
- Hits: 2692

Per un nuovo materialismo
di Roberto Finelli e Francesco Toto
Idealismi e materialismi
Nella tradizione marxista materialismo e idealismo valevano come nozioni descrittive, ma vivevano ancora nella forma della rivendicazione e dell’accusa, come strumenti di una lotta.
Dopo la crisi dei marxismi tali concetti conservano una residua pertinenza nel discorso erudito e nella ricostruzione delle singolari polemiche che hanno solcato la cultura europea, soprattutto nel XX° sec., ma sembrano divenuti incapaci di far presa sull’attualità, di rendere conto della moltitudine di posizioni che si contendono la scena intellettuale contemporanea.
Chi, oggi, oserebbe assumere l’identità dell’essere con l’essere-percepito, pensare la natura come Spirito fattosi estraneo a sé stesso, lo Spirito come autoctisi, atto puro che pone unitariamente sé stesso e il proprio proprio oggetto, o interpretare la storia come svolgimento di un unico principio, realizzazione di un concetto? Chi, d’altra parte, difenderebbe oggi un’interpretazione della vita storica e sociale basata sulla distinzione geologico-edilizia di struttura e sovrastruttura, secondo la quale tutto ciò che è idea e pensiero è luogo di inautenticità perchè lontano dalla prassi materiale del lavoro? Chi potrebbe sostenere l’ingenuità di un materialismo storico, che pure è stato anche di Marx, che vede in tutto ciò che ha a che fare con la cultura, i valori, i simboli intellettuali e linguistici, solo la coscienza falsa e deformata di una prassi che sarebbe l’unico luogo di verità? “Idealismo”, innegabilmente, non è più la bandiera di una posizione filosofica plausibile. “Materialismo”, conseguentemente, non può più essere il nome di una resistenza, di uno scandalo. Il tempo al quale tali nozioni si riferiscono, come mere categorie storiografiche, è un passato che non ci tocca più, che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle, verso il quale è lecito nutrire curiosità, ma non interesse.
- Details
- Hits: 2408

L'apocalisse della democrazia*
Dal debito sovrano allo stato d'emergenza
di Domenico Moro**
La nomina del governo Monti e, più in generale, il modo in cui l’Europa sta affrontando la crisi del debito rappresenta un passo avanti nella conclusione del tipo di governo affermatosi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Più correttamente, si potrebbe dire che la crisi del debito solleva il velo sulla natura reale della democrazia borghese, attiva le potenzialità negative insite nel nostro sistema istituzionale, e conduce agli estremi quelle tendenze autoritarie che sono presenti da molto tempo in Italia, nel resto d’Europa e nel cosiddetto Occidente.
1. Capitalismo finanziario, di stato e multinazionale
Lo stato non è mai neutrale, è sempre lo stato della classe economicamente dominante. Questo principio è solo un punto di partenza, non potendo prescindere dall’individuazione del modo in cui lo Stato esercita la sua funzione né dalla forma che assume in un certo periodo e in un certo luogo. Forma e modo di funzionamento sono strettamente collegati al tipo di rapporti - di scambio e di forza (a tutti i livelli) tra le classi. Non potremmo, però, capire molto né di questi né dell’evoluzione dello Stato se non capissimo l’evoluzione del modo di produzione capitalistico. Sebbene ci sia abbondanza di analisi ed interpretazioni della crisi in atto e soprattutto sulla crisi dell’euro, più rare sono le riflessioni sul collegamento tra questa crisi e le modificazioni di lungo periodo attraversate dal capitale. Di conseguenza, spesso le misure proposte – dall’acquisto diretto da parte della Bce di titoli statali europei, alla modifica del ruolo di quest’ultima in prestatore diretto di ultima istanza (sul modello Usa), alla definizione di bilanci e fiscalità veramente comuni fino al ripudio del debito – al di là della validità o meno di questa o quella per tamponare la crisi e stante la giustezza di far pagare il debito ai ricchi e al grande capitale, rimangono legate ad una prospettiva, seppure necessaria, però ancora limitata, difensivista. Soprattutto, sia rispetto all’imperialismo che allo Stato, a me sembra che, in linea di massima, continuiamo a ragionare e a comportarci sul piano politico come se fossimo sostanzialmente in fasi storiche precedenti a quella attuale.
- Details
- Hits: 2140

Abbiamo bisogno di altra precarietà?
di Guglielmo Forges Davanzati
Stando alle ultime rilevazioni Eurostat, l’Italia è il primo fra i Paesi europei per numerosità di lavoratori scoraggiati, ovvero di individui che hanno smesso di cercare occupazione: circa il 3.5% della forza-lavoro si trova in questa condizione e, nella gran parte dei casi, si tratta di individui nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 30 anni. Il fenomeno è imputabile a due circostanze: in primo luogo, alla bassa probabilità di trovare impiego (o un impiego coerente con le qualifiche acquisite), così che al crescere del tasso di disoccupazione aumenta la platea di lavoratori scoraggiati; in secondo luogo, è imputabile alla possibilità di garantirsi un reddito di sussistenza senza lavorare, possibilità che si determina nel caso in cui i consumi sono garantiti dai risparmi delle famiglie d’origine, o da redditi derivanti da occupazioni irregolari. Si tratta di un fenomeno preoccupante per due ordini di ragioni.
1) L’esistenza di un’ampia platea di lavoratori scoraggiati può segnalare il fatto che è ampia l’occupazione nell’economia sommersa, ovvero che chi smette di cercare lavoro nell’economia regolare lo fa perché ottiene reddito da attività illecite. Si può ritenere che si tratta, in questo caso, di individui con basso reddito e con basso livello di istruzione.
2) I lavoratori scoraggiati traggono risorse per i propri consumi prevalentemente dai risparmi delle loro famiglie. Il che genera progressiva compressione dei risparmi e, nella misura in cui, l’accumulazione di risparmi è una precondizione per il finanziamento degli investimenti, ciò determina riduzione degli investimenti, della domanda aggregata e dell’occupazione. In più, poiché ad alta disoccupazione è associata bassa propensione a cercare occupazione, da ciò segue un ulteriore aumento della quota di lavoratori scoraggiati sul totale della forza-lavoro.
- Details
- Hits: 2685

Adversus paedagogistas
di Gabriele Miniagio
Qualcosa di profondo è accaduto nella scuola italiana. A partire dalla riforma Berlinguer, attraverso una serie di politiche protrattesi per un quindicennio, essa è mutata non solo nella sua veste esteriore, ma anche e soprattutto nel suo principio ispiratore , dunque nel suo rapporto con la società e la cultura. L’ideale della paideia, prima gentiliano e crociano, poi marxista, ha ceduto lentamente ma inesorabilmente il passo ad un pedagogismo scientista, che chiama in causa come proprio referente una mente naturalizzata, totalmente spossessata di un senso dell’agireche non sia l’operare macchinico: il compito del percorso didattico diviene quello di implementare in essa competenze e abilità operative per risolvere problemi dati, al di là di ogni definizione della realtà umana in termini esistenziali o storico-politici1.
Ci sforzeremo di mostrare come questa pedagogia tecnico-operazionale abbia origine nella concezione di una soggettività naturalizzata, teorizzata dagli indirizzi più radicali della filosofia della mente, e come entrambe chiamino in causa un processo di produzione di vita soggettiva che, nella società di massa tardo capitalistica, le sottrae il senso di sé e del mondo; il prodotto di tale processo è qualcosa che potremmo chiamare indifferentemente un quasi bios o un quasi soggetto.
Emergerà infatti, nell’ultima parte di questo lavoro, che il dispositivo “pedagogia delle competenze – naturalizzazione del soggetto” non è affatto neutrale: il carattere tecnico-operazionale, l’ossessione quantitativa della docimologia, l’esigenza di un portfolio di competenze certificato, la ricerca di una valutazione oggettiva dei risultati dell’apprendimento sono elementi a cui le forme di reclutamento e le procedure dei nuovi lavori cognitivi danno l’origine e il fine, l’alpha e l’omega.
- Details
- Hits: 3045

La rivolta della borghesia salariata
Slavoj Žižek
Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la produzione di un buon software Microsoft a prezzi inferiori rispetto ai suoi concorrenti, o con lo ’sfruttare’ i suoi lavoratori con più successo (Microsoft paga i lavoratori intellettuali uno stipendio relativamente alto). Milioni di persone ancora acquistano il software Microsoft, perché Microsoft si è imposto come uno standard quasi universale, praticamente monopolizzando il campo, come una incarnazione di ciò che Marx chiamava il ‘General Intellect’, con la quale egli intendeva la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza al know-how pratico. Gates effettivamente ha privatizzato parte del general intellect ed è diventato ricco appropriandosi della rendita che ne seguì.
La possibilità della privatizzazione del General Intellect era qualcosa che Marx non ha mai previsto nei suoi scritti sul capitalismo (in gran parte perché ha trascurato la sua dimensione sociale). Eppure questo è al centro delle lotte di oggi sulla proprietà intellettuale: come il ruolo del General Intellect – basato sulla conoscenza collettiva e la cooperazione sociale – cresce nel capitalismo post-industriale, così la ricchezza si accumula al di fuori di ogni proporzione con il lavoro speso nella sua produzione. Il risultato non è, come Marx sembra avere previsto, l’auto-dissoluzione del capitalismo, ma la graduale trasformazione del profitto generato dallo sfruttamento del lavoro in rendita appropriata attraverso la privatizzazione della conoscenza.
- Details
- Hits: 2351

Politiche europee, patto di stabilità, democrazia e cittadinanza*
di Francesco Garibaldo
Per capire la situazione europea in cui siamo si può partire dal Piano Delors, purtroppo osannato anche da tanta parte della sinistra come un piano brillante. Il piano Delors prevedeva uno schema molto semplice: bisognava in buona sostanza avere un andamento dei salari che fosse grosso modo di 2 punti percentuali più bassi della crescita della produttività, come programmazione, perché creando questo spazio del 2% si creavano i soldi e le risorse perché l’industria si rinnovasse, investisse. Si aggiungeva un piano infrastrutturale per le stesse ragioni, partendo dall’idea che l’ammodernamento delle infrastrutture aiutava la costruzione di un mercato unico europeo e di un’industria integrata. Quindi un’idea molto precisa di come costruire questa situazione, convinti che il fatto stesso di creare questo spazio per i capitali privati e quindi un margine di possibilità di avere in mano delle leve finanziarie avrebbe di per sé provocato un rinnovamento; l’idea che allora correva per la maggiore era che quando l’industria si rafforza e si rinnova all’inizio ci sono un po’ di licenziamenti e ristrutturazione, poi la situazione di stabilizza e si creano nuovi settori industriali ed economici e quindi si riparte con l’occupazione e si crea ricchezza.
Questa era l’idea corrente nel 1992. Quindi l’Europa nasce con questo programma e con questa struttura istituzionale. Non è un caso che noi in Italia, proprio sulla base di questa impostazione abbiamo avuto tutta l’ondata, che poi ha coinvolto tutta l’Europa a partire dalla fine degli anni Ottanta, della costruzione di patti neo-corporativi: i famosi patti triangolari quelli che in Italia possono esser fatti risalire al 1992-1993 con tutta la vicenda della prima firma di Trentin e poi delle sue dimissioni. Questi patti triangolari erano figli di questa impostazione, pretendevano di regolare l’andamento complessivo e la dinamica salariale in cambio della garanzia di livelli occupazionali medi e dello stato sociale, nell’idea che la dinamica salariale era in crescita, una crescita rallentata rispetto alla produttività ma in crescita.
- Details
- Hits: 3150

“Lavori” in corso
Questo è un primo bilancio teorico delle attività svolte insieme fino ad ora. È il tentativo di rendere sommariamente conto delle questioni con le quali ci siamo misurati, del modo in cui le abbiamo affrontate, delle risposte – più o meno provvisorie – che siamo stati in grado di apportarvi. Non partendo da una lettura preesistente, dall'adesione a una dottrina particolare, ci siamo trovati giocoforza gettati sul cammino di una (ri)elaborazione che deve costantemente ritornare su se stessa per misurare la propria solidità. Questo percorso non può essere lineare: come in un labirinto, possiamo ad un tratto ritrovarci in un vicolo cieco, e allora dobbiamo tornare indietro, tentare vie differenti. Siamo costantemente esposti al rischio dell'impasse. Tale debolezza non è di carattere soggettivo; è una difficoltà che la critica di segno anticapitalista (e coloro che se ne fanno portatori), porta oggi con sé, per così dire “costitutivamente”, lacerata com'è tra la tentazione di un ritorno ad un marxismo “duro e puro” e le varie erranze teoriche post-anni '70. Il margine che si apre tra questi due scivolamenti – che equivale, nella teoria in senso stretto, allo scarto reale tra la necessità, per il proletariato, di dover agire come una classe, e il suo diniego di questa stessa appartenenza di classe – è il luogo in un cui si fa la teoria comunista oggi. Ci torneremo sopra.
La cesura
La “crisi” è ormai sulla bocca di tutti. Agli albori del nostro dibattito, si è trattato immediatamente di inquadrare il fenomeno. Si è posta la necessità di una chiave interpretativa di riferimento, come degli occhiali per mettere meglio a fuoco.
- Details
- Hits: 2605

Lezioni dalla crisi
Elementi di una politica comunista
Mimmo Porcaro
Ci diciamo spesso che la crisi ha confermato le nostre idee. Ma ciò è vero solo in parte. Ha confermato che il capitalismo, oltre ad essere iniquo, “non funziona”. Ma ci costringe a cambiare o aggiornare molte delle nostre più radicate convinzioni sul blocco sociale anticapitalista, e sullo spazio e gli obiettivi della sua azione. In sintesi, si può dire che il modello maturato a Porto Alegre e Genova agli inizi del nuovo secolo è ormai superato dai fatti: se ne vogliamo custodire e tramandare le acquisizioni fondamentali, soprattutto quelle relative alla democrazia ed alla molteplicità dei soggetti dell’emancipazione, dobbiamo inscriverle in un quadro concettuale del tutto nuovo.
L’inefficacia di quel modello è evidente in primo luogo riguardo al populismo. La mobilitazione democratica delle associazioni altruistiche non è in grado di intercettare problemi, umori e linguaggi della parte più deprivata delle classi subalterne. Questa parte, fatta di lavoratori dipendenti a bassa qualificazione, di autonomi che sono in realtà più dipendenti dei primi (si pensi al lavoro dell’autotrasportatore, strettamente legato – a rischio della vita – ai tempi dell’impresa) e di ceto medio fortemente impoverito dalla crisi generale, si allea ad alcune frazioni, meno forti, della borghesia anche perché l’altra parte del popolo, quella composta di dipendenti ed autonomi ad alta qualificazione, si allea di fatto alla frazione forte, globalista ed europeista del nostro capitalismo. Rompere queste alleanze, e costruirne una, nuova, tra le diverse frazioni popolari, è decisivo per la lotta egemonica: lo si può fare solo se, tra l’altro, non ci si ritrae di fronte al linguaggio populista dei nuovi conflitti. E se si trovano figure unificanti che, pur radicate in una analisi di classe, sappiano rivolgersi ai diversi soggetti sociali ed alle diverse forme di vita degli stessi “proletari”. In questo quadro diviene opportuno parlare di sovranità popolare e nazionale, come collante di un nuovo blocco sociale e base di una nuova politica.
- Details
- Hits: 2394

Il diciottismo di Monti
di Claudio Gnesutta
Nella nuova strategia del premier e del suo governo c'è una visione del mondo e un obiettivo tutto politico. Non è una scelta tecnica, ma risponde a un'idea precisa della crescita alla quale si vuole candidare l'Italia
Monti ha preso in mano la situazione e si sta spendendo per convincerci che l’art. 18 è la causa della nostra arretratezza economica; una “campagna” ampiamente sostenuta come attesta il forte supporto di Scalfari e di tutta l’arco del (centro-)destra.
Con l’alibi di essere un tecnico Monti asserisce che l’eliminazione dell’art. 18 è tecnicamente essenziale per rilanciare gli investimenti in Italia, specie quelli esteri, ma è proprio questa giustificazione che dimostra invece quanto “politica” sia la sua scelta nello scegliere questa questione come bandiera della sua politica di rilancio della crescita. E non solo per l’aspetto, politicamente piuttosto grossolano, di chiedere il sacrificio dell’art. 18 in cambio di una pseudo-patrimoniale mettendo sullo stesso piano la richiesta di rispettare un dovere (fiscale) con la rinuncia a un diritto.
In questa scelta vi è tutta la visione politica di questo governo che, al di là del piglio serio (rispetto alla destra cui eravamo abituati), esprime in pieno – e nella sua collegialità, si vedano gli interventi reiterati di Fornero, ma anche di Cancellieri e altri - la sua visione neoliberale (libdem) della società. Sotto l’egida di un “keynesismo” che ha larghi tratti di consonanza con il monetarismo, manifesta le sue radici nella convinzione che è l’impresa il motore del nostro progresso civile, visione che rinsalda l’opinione comune che l’economista è strutturalmente un pensatore di destra per il considerare la società, con i suoi valori e suoi diritti, solo un’appendice del mondo della produzione; il divulgatore del mantra che è l’economia a determinare la forma reale della società (sempreché non neghi l’esistenza stessa della società).
- Details
- Hits: 2412

Il caso Fiat
di Tiziano Rinaldini
Da che mondo è mondo, da che capitalismo è capitalismo, le fasi di crisi economica sono utilizzate per peggiorare le condizioni di lavoro e di non lavoro, e per imporre la rimessa in discussione di conquiste che si erano transitoriamente realizzate.
In particolare si tende a ripristinare il più possibile un quadro di comando unilaterale dell’impresa sul lavoro e a liberarla da responsabilità a cui essere vincolata nel rapporto con i lavoratori e le lavoratrici. In ogni specifica situazione lavorativa si tende ad affermare come unico vincolo ciò che il capitale considera necessario per il successo di quell’impresa. Ciò, a sua volta, non è ovviamente compatibile con la permanenza di una iniziativa solidale dei lavoratori fra di loro e di uno stato sociale universalistico per cui i problemi sociali vengono ridefiniti su basi corporative e aziendalistiche o assistenzialistico/minimali per chi ne resta fuori.
È quello che sta avvenendo in questa fase.
Le forme e i contenuti sono però particolarmente radicali ed esplicite, proprie di un contesto caratterizzato dal modello che si è imposto di cosiddetta “finanziarizzazione/globalizzazione” dell’economia e della sua riconferma all’interno di una profonda crisi del modello stesso, e segnato dagli effetti di storiche sconfitte delle ipotesi prevalenti su cui si era espresso il movimento operaio nel secolo scorso.
Non mancano reazioni a queste dinamiche, sia sul piano di analisi e proposte per un approccio alternativo alla crisi attuale (come testimoniamo tra gli altri gli stessi contributi pubblicati in questi mesi dal Manifesto sulla rotta dell’Europa), sia sul piano della persistenza di movimenti, iniziative sindacali e anche politiche di opposizione.
- Details
- Hits: 2885

Trattato Ue: il Mostro Giuridico
di Marcello De Cecco
Nella crisi, ma anche prima, le peculiari caratteristiche della Bce rispetto ad una vera banca centrale nazionale, di non essere per statuto abilitata a finanziare i deficit degli stati membri e di non poter espletare le funzioni di prestatore di ultima istanza, sono state evocate con frequenza. Perché le cose stiano così è facile capirlo: l’Unione monetaria europea fu costituita da stati legati da un’unione economica ma non politica, e nemmeno facenti parte di una federazione. Visto che l’Unione monetaria era stata una creatura politica imposta dai francesi ai tedeschi per tenerli aggregati all’Occidente dopo la fine dell’Urss, bisognava inventare per lei una banca centrale con regole diverse da quelle delle banche centrali degli Stati nazionali e delle federazioni. Regole che creassero una moneta unica al posto di quelle degli Stati della Unione, ma che non abolissero le banche centrali nazionali (restate a esercitare la supervisione sulle proprie banche commerciali) e che non dessero alla banca europea la sovranità monetaria.
Ne venne fuori un esemplare unico nella storia monetaria: una banca centrale priva di sovranità monetaria che quindi abdicava a due delle funzioni caratterizzanti una banca centrale, la possibilità di creare moneta per finanziare i bilanci pubblici degli stati membri e di fungere da prestatore di ultima istanza per le banche dell’area della moneta unica. In tal modo si distruggeva anche la sovranità monetaria dei singoli stati membri. D’altronde, senza una vera unione politica o almeno fiscale, sarebbe stato veramente peculiare fare altrimenti. Negli anni 80 e 90 il mondo aveva visto crisi finanziarie imponenti ma mai una che colpisse il centro dell’economia mondiale con la potenza della crisi attuale. Evidentemente i fondatori dell’Ume sperarono che ciò continuasse nel futuro, e che la funzione di banca centrale mondiale continuasse nelle emergenze a essere svolta da chi l’aveva fatto per cinquant’anni, la Federal Reserve.
- Details
- Hits: 2281

Partito e movimento
di Valerio Bertello
Proletariato e organizzazione
Un discorso sull’organizzazione deve iniziare da un dato di fatto: il movimento rivoluzionario sta attraversando una fase di ricostruzione, fase che segue la chiusura di un ciclo, quello delle lotte degli anni 70, che si è concluso, come è necessario, quando le forze in campo hanno raggiunto i propri limiti storici. Ciò non significa che il ciclo sia terminato con una sconfitta. E’ vero piuttosto che tali lotte hanno mutato i rapporti tra proletariato e borghesia, creando così un nuovo contesto con il quale le classi dovranno misurarsi. Quale sia il contesto è un discorso che va oltre i limiti della presente nota. Qui si vuole solo rimarcare che se si vuole affrontare la nuova fase senza un inutile fardello di falsi problemi è necessario liberarsi della sindrome della sconfitta.
Quindi, anche limitando il discorso alla questione dell’organizzazione, occorre innanzitutto fare un minimo di chiarezza sul piano storico. Nell’ultimo grande movimento di massa che nel capitalismo avanzato sia andato vicino ad un rovesciamento rivoluzionario dello stato borghese, il maggio francese del 1968, i due modelli di organizzazione del proletariato, partito e movimento, che si erano fino a quel momento contrapposti, hanno mostrato entrambi definitivamente la loro inadeguatezza. Gli operai hanno occupato le fabbriche, ma non sono passati all’autogestione, anzi, non sapendo bene cosa farsene finirono per abbandonarle lasciandole deserte. I partiti e le organizzazioni sindacali, ufficiali o meno, invece di guidare l’insurrezione verso la presa del potere, o tacquero o boicottarono il movimento delle occupazioni convogliandolo verso la firma di un accordo contrattale, quello di rue Grenelle, come una qualsiasi lotta rivendicativa. Questo è stato il De profundis per entrambe le concezioni dell’organizzazione di classe, quindi delle loro materializzazioni: il partito leninista, forma di organizzazione che in realtà va fatto risalire al modello della socialdemocrazia, e quello autogestionario dei consigli operai.
- Details
- Hits: 1800

Un pasdaran sfigato
di Augusto Illuminati
Qualcuno si era creduto che Monti il “modernizzatore” rappresentasse una svolta, almeno sul piano dello stile? In realtà è un povero sfigato, disavvezzo alla comunicazione mediatica, che fa battute peggio di Brunetta, Gelmini e Sacconi, perfino con un lieve cigolio isterico: davvero un poco carismatico emissario del finanzcapitalismo. Però lo rappresenta, anzi è verosimile (lo sostiene il «Financial Times») che sia il commissario europeo di Obama in funzione anti-Merkel. Se risulta imbranato è per due ordini di motivi. Il primo, s’intende, è la micidiale intensità della crisi che vanifica i piani meglio congegnati e induce i partiti, per quel che ancora contano, a lesinargli la fiducia, visto che non si sa come le cose andranno a finire. Secondo, che avrebbe dovuto scandire il ritorno alla normalità dopo la sbornia populista berlusconiana, ma si inserisce in una situazione ancora zeppa di aspettative decisioniste e di demagogica personalizzazione, in cui continuano a incappare comicamente i suoi ministri, oscillando fra lacrime e ukàz, profferte negoziali e mefas tut mi, decretazione d’urgenza su cose non urgenti e precipitose marce indietro nel giro di una settimana. Tutto questo, però, mette in luce la rovina dell’influenza dei tre poli e delle illusioni redentrici alimentate dal coro irresponsabile dalla stampa di regime. La fiducia in Monti è destinata a un rapido declino e le scoregge sulla monotonia del posto fisso e sui laureati tardivi sono segni di nervosismo e arrogante sgomento.
Il vero problema è: perché all’improvviso si è passati dalle lusinghe concertative e dal rinvio dei provvedimenti scabrosi alle provocazioni (tecnicamente non necessarie) sull’art. 18 e sul valore legale del titolo di studio, mentre comincia il sordo logorio parlamentare sulle liberalizzazioni e il blitz sulla giustizia incrina l’inciucio fuori e dentro i partiti?
- Details
- Hits: 2137

Informazioni di Parte
Carlo Formenti
Dopo aver pubblicato il contributo di SIlvano Cacciari, continuiamo la trascrizione del ciclo di incontri "Informazioni di Parte. Per un nuovo mediattivismo tra disordine globale e narrazioni insorgenti", tenutisi lo scorso maggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna. È questa volta il turno dell'intervento di Carlo Formenti, docente di Scienza della comunicazione all'università di Lecce ed autore di testi importantissimi per una lettura critica dei mutamenti economici, sociologici e politici avvenuti a partire dall’emersione di internet come terreno di produzione immateriale e conflitto, quali "Mercanti di Futuro"," Cybersoviet", "Se Questa è Democrazia" ed il suo ultimo “Felici e sfruttati”.
Un intervento, il cui portato è di un'attualità scottante, all'interno del quale vengono presi in esame ed esplorati i terreni di scontro su cui oggi si stanno giocando i processi di costruzione dell'egemonia nelle loro diverse sfaccettature (mediale, finanziaria, politica e culturale). Dalle rivolte arabe alle lotte degli operai cinesi, dalla Silicon Valley fino alle fabbriche della Foxconn, Formenti con la consueta lucidità getta uno sguardo d'insieme sulle insorgenze verificatesi nell'ultimo anno, offrendo sponde di riflessione ed affrontando nodi teorici che spetta all'informazione di parte sciogliere nella pratica quotidiana.
Nelle prossime settimane pubblicheremo l'intervento di Federico Montanari, l'ultimo dei tre relatori del ciclo di incontri.
Infofreeflow (@infofreeflow) per Infoaut
*Avvertenza. Il testo che vi presentiamo è stato preso in esame e riletto ma non corretto dall'autore.
Ringrazio Silvano per questa stimolante chiacchierata che mi permette di aggiungere una dimensione di riflessione al mio intervento rispetto a quella che avevo pensato di affrontare. Vorrei però fare alcuni incisi che mi vengono spontaneamente dopo averlo ascoltato.
Primo. Pur potendo sembrare paradossale, la componente operaista degli anni '70 era più togliattiana che vittoriniana.
- Details
- Hits: 2129

Orwell in Italia e il calo dello spread
nique la police
(Shakespeare, La tempesta)
Cominciamo dalle frasi pronunciate a reti unificate, in tono levigatamente mortuario, dal presidente del consiglio Mario Monti. Una differenza tra l'ex consulente di Goldman Sachs e il precedente presidente del consiglio sta sicuramente nell'uso dei processi unidirezionali della comunicazione mediale. Mentre Berlusconi dava spettacolo, eredità di un mondo anni '80-'90 quando il potere era scenografico, Mario Monti alimenta l'utilizzo morale del potere del broadcasting. Quest'uso morale è moneta sonante: si usa la capacità di pressione cognitiva dei media generalisti per tranquillizzare la popolazione con perizia tecnica "lo spread calerà" (caldo potere pastorale di rassicurazione). E per imporre precetti orwelliani come "le tutele [al reddito e alla continuità del posto di lavoro, ndr] possono essere dannose".
Orwell in Italia
Il tratto di continuità tra Monti e Berlusconi sta invece in questa possibilità di condizionare i processi connettivi del tessuto sociale operando a reti unificate. Ma questo pericolo permanente per la democrazia, e per l'ecosistema dell'informazione, resterà tale fino a quando residui di partiti, movimenti, sindacati non entreranno nel XXI secolo imponendo la centralità del problema. Per adesso vanno alla grande le ristrutturazioni del lessico: tutto è declinato, fortunatamente, in "comune" ma senza una una democratizzazione e una pubblicizzazione dei grandi network generalisti il comune è destinato a rimanere sulle carte di diritti, principi e intenti.
- Details
- Hits: 2523
Appropriazione indebita di una lingua e dissimulazione della realtà
di Daniela Ricci*
L’ideologia neoliberista in salsa italiana, nel tentativo di imporsi definitivamente come pensiero unico dominante, sta mettendo in atto una colossale opera di appropriazione indebita della lingua italiana, usando lo strumento linguistico a fini mistificatori.
“All’inizio era il verbo”, potremmo chiamare così questo sfacciato piano di mistificazione sostenuto dai media embedded al servizio delle elites finanziarie, che vuole“ribattezzare” le cose chiamandole non più con il loro nome, ma con vocaboli non pertinenti, proprio al fine di dissimularne la vera sostanza.
Servirsi delle parole per nascondere la realtà significa, di fatto, renderle un semplice involucro, atto a coprire una sostanza che spesso le contraddice. Il tutto per arrivare a propinarci anche l’inverosimile. E’ un vero e proprio sequestro del vocabolario italiano a fini di lucro, dove la posta in gioco è la salvezza di un sistema economico in crisi, quale è quello capitalistico, e degli enormi interessi economici e finanziari ad esso correlati.
Gli albori di questo processo di stravolgimento della nostra lingua furono ai tempi della “guerra umanitaria” in Kossovo , combattuta nel 1999, anche in nome del popolo italiano, nostro malgrado, proprio facendo leva su quell’ossimoro permanente che associa la guerra alla difesa dell’umanità e che consentì al governo D’Alema di aggirare l’articolo 11 della Costituzione, (“L’Italia ripudia la guerra”).
Nel 2001 e nel 2003 e’ stata poi la volta della “guerra preventiva”, dichiarata, anche in nome del popolo italiano, rispettivamente, contro Iraq ed Afghanistan, prima che “il nemico” (Saddam Hussein nel primo caso, Bin Laden, nel secondo) potesse nuocere all’Occidente.
- Details
- Hits: 1839

Non solo spread
di Mario Agostinelli
Ormai, nella nostra esperienza abituale, il “tema del giorno” ci è imposto da una giostra mediatica che rimuove letteralmente la notizia del giorno prima e che fa rimbalzare la nuova, appositamente predisposta nei palazzi del potere, giù giù per l’intera catena dell’informazione. Siamo ormai immersi in un presente disegnato al di fuori di noi e della nostra esperienza sociale, senza memoria e denso di paure per il futuro. Quello che è accaduto oggi e che avverrà domani ce lo dice la prima serata della televisione dai mille canali, spezzettata e ricomposta dal nostro zapping nervoso.
La videocrazia – addirittura resa più cogente negli ultimi mesi - spiega il favore che incontra ancor oggi il pensiero unico e il potere che esso rinnova sull’opinione pubblica, nonostante sia sua la responsabilità di una crisi per cui non sa trovare soluzioni convincenti. Ormai, basta ascoltare la sera l’anticipazione dei titoli dei giornali del giorno successivo per accertarsi che la gerarchia delle nostre preoccupazioni – almeno per quanto indotto dai media – non sarà più necessariamente la stessa che ci tormentava il giorno prima, sostituita da scoop e da incessanti “svolte storiche ed eventi epocali” che spiazzano tutto quanto subito prima veniva considerato tale. Notizie frutto di personalizzazione ostinata e per lo più confezionate all’esterno e al di sopra delle redazioni delle testate giornalistiche, tra di loro ormai intercambiabili e in comune e perenne dipendenza dal potere, alla faccia del pluralismo dell’informazione, sale della democrazia.
Ma tant’è e, se si esclude la strenua alterità del manifesto, rarissimi programmi di “televisione resistente” e la presunta e perversa originalità di alcuni servitori di Berlusconi come Belpietro e Feltri, dal conformismo dilagante possiamo facilmente capire perché ci si rammarichi di più per i languori della Fornero che per l’eroica esposizione alle intemperie dei lavoratori della Wagons Lits.
- Details
- Hits: 4326

Breve storia della crisi
di Andrea Baranes
Questo testo è contenuto in appendice al saggio «Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi» (pubblicato da Sbilanciamoci! e da minimum fax, 2012), un libro importante perché smentisce alcune false certezze sulla crisi economica che stiamo attraversano e fornisce delle misure alternative per fronteggiarla. Questa breve storia della crisi curata da Andrea Baranes ne è un assaggio.
Troppo debito?
Nella prima metà degli anni Novanta il governo Berlusconi annunciava un nuovo miracolo italiano fondato sulla crescita e lo sviluppo, prometteva tagli delle tasse per cittadini e imprese, investimenti pubblici per trasformare il paese. A novembre 2011 il governo si dimette sotto il peso degli interessi da pagare, tra conti pubblici che non quadrano e nubi sempre più minacciose di possibili default. La pressione fiscale aumenta, a partire dall’Iva, assistiamo a tagli generalizzati di tutte le spese pubbliche mentre i soldi per gli investimenti e lo «sviluppo» sono un miraggio sempre più distante. Il nostro paese è uno dei principali problemi dell’Unione Europea.
Cos’è successo allora in questi diciotto anni? Perché nel 1994 l’Italia era sì un paese con un forte debito e diversi problemi, ma, così ci veniva raccontato, con ottime prospettive, mentre ci ritroviamo nel 2011 con l’acqua alla gola e in balia delle tempeste finanziarie? L’argomento che ci viene ripetuto è che l’Italia del 2011 è schiacciata da un rapporto tra debito e prodotto interno lordo che sfiora il 120% e sta strangolando la nostra economia. Bene. Qual era allora la situazione nella prima metà degli anni Novanta? Tra il 1993 e il 1995 il rapporto tra debito e Pil in Italia superava il 120%.
Occorre quindi analizzare meglio le cause politiche, sociali, industriali ed economiche che contribuiscono all’attuale rapido declino del nostro paese.
- Details
- Hits: 3092

I sei pilastri della conversione ecologica dell’economia
di Guido Viale
Misurarsi con il governo Monti sul suo terreno non è saggio. Monti comanda ma non governa. Comanda perché i partiti che lo sostengono (sempre più infelici) glielo lasciano fare e gli elettori che essi pretendono di rappresentare non hanno forze né strumenti per fermarlo. Per tutti il movente è unico: la paura di un disastro che non si sa valutare. Ma a governare non è né Monti né l'Europa, ma la finanza internazionale che decide per entrambi. Le misure adottate - "salvaitalia" e "crescitalia" - non avranno alcun effetto di stabilità, come non lo avrà il nuovo pacchetto ammazza-lavoro cucinato dalla prof. Fornero. Le cifre sparate sui futuri effetti di quei decreti (Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18) ricordano più la tombola che le discipline accademiche di cui la compagine governativa mena vanto. Se oggi la speculazione sul debito italiano sembra placarsi è perché Monti le ha dato un altro po' di succo da spremere, esattamente come era successo in Grecia, fino a nuovo ordine. D'altronde Draghi ha spiegato che lo spread serve proprio a questo: rendere possibile quella spremitura che il lessico economico-politico chiama "riforme" e "modernizzazione". Ma con un debito di 1900 miliardi e un patto di stabilità che pretende di dimezzarlo a nostre spese, gli agguati della finanza continueranno a restare alle porte. E finché la finanza internazionale potrà contare su risorse che valgono 10-15 volte più del prodotto lordo del mondo non c'è governo che ne sia al sicuro; nemmeno erigendo una muraglia cinese contro i suoi assalti.
Il confronto con il governo Monti, con questa Europa e con il potere della finanza internazionale va quindi condotto su un diverso piano, che è quello della vita e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione, dei rapporti che ci legano all'ambiente fisico e sociale in cui viviamo, dei diritti inalienabili di cittadinanza che ne discendono in quanto abitanti di questo pianeta (tutte materie totalmente estranee alla cultura del governo, ma dimenticate anche da molti dei suoi commentatori e dei suoi critici).
- Details
- Hits: 2335

Quanto è monotono il “tecnico” Monti
di Felice Roberto Pizzuti
Dietro le scelte del governo c'è una politica precisa. Ed è un'applicazione radicale della visione liberista, proprio quando la crisi ne certifica il fallimento
Tra le qualità attribuite al governo Monti c'è la sobrietà; potrebbero dunque lasciare perplessi alcune sue posizioni. Ad esempio, è decisamente stravagante affermare che le misure di liberalizzazione presentate faranno aumentare il PIL addirittura del 10%. Una valutazione siffatta, prima ancora che enfatica, non ha basi affidabili di misurazione, ma esime o distoglie l’attenzione da misure di stimolo alla domanda che in una situazione di grave recessione sono sicuramente più appropriate ed efficaci.
La sobrietà di Monti suscita non minori dubbi quando, riferendosi ai tre obiettivi del suo governo – rigore dei conti pubblici, crescita ed equità –, sostiene che il terzo sarà il risultato delle riforme volte a rendere i mercati realmente concorrenziali. Solo i neoliberisti più sfrenatamente ottimistici hanno immaginato che lo sviluppo generato dai mercati implichi un miglioramento anche per i più poveri (la teoria del trickle down, dello sgocciolamento), ma non sono stati confortati da verifiche empiriche. Tuttavia, se questa è l'idea di equità e del modo di raggiungerla, non sorprende la “tosatura” del sistema previdenziale pubblico, che pure ha un saldo attivo tra contributi e prestazioni previdenziali nette pari all'1,8% del Pil e già da anni sostiene il complessivo bilancio pubblico; né sorprende il progetto di depotenziarlo ulteriormente riducendo le aliquote contributive (e quindi le prestazioni) e immaginando un ruolo sostitutivo e non aggiuntivo per la previdenza privata che, però, assorbe risorse pubbliche (e qui sorge qualche contraddizione; come pure nell’accordare proprio in questo periodo l’aumento dei pedaggi delle autostrade a favore di gestori privati operanti in un contesto molto poco concorrenziale).
- Details
- Hits: 2429

La montagna che partorì il topolino
di Riccardo Achilli
L'accordo intergovernativo di ieri ha delineato la, per così dire, “strategia” che l'Europa pensa di mettere in campo per uscire dalla crisi, illudendosi di salvare un euro che oramai anche i principali think tank liberisti internazionali danno per spacciato. La strategia è imperniata sul “fiscal compact” (che anche dal punto di vista comunicativo fa pensare più ad una compilation di musica dance che ad un pacchetto di politiche fiscali, ma tant'è) e su non meglio precisate linee-guida per riattivare la crescita economica ed occupazionale nei Paesi dell'Unione.
Non starò a fare una lunga analisi del “fiscal compact” (ci sono ottimi articoli che girano su Internet, ne segnalo uno ai naviganti: “Per un nuovo fiscal compact”, di Renato Costanzo Gatti). Mi limiterò ad enucleare alcuni aspetti di fondo:
- l'obbligo di rientrare di un ventesimo dell'extra debito (cioè del debito pubblico superiore al 60% del PIL) all'anno comporta di fatto manovre finanziarie pari a 42 Meuro per il primo anno, 40 Meuro per il secondo, 38 Meuro nel terzo, e così via. Tale regola costringe l'economia italiana a rinunciare ad uscire dalla recessione per lustri. Di fronte alla durezza del sacrificio finanziario imposto, le cosiddette “circostanze attenuanti” che Monti sarebbe riuscito a strappare sono ben poca cosa. In realtà, ad essere precisi, non ha strappato niente, poiché ha solo ottenuto che si riportasse nel “fiscal compact” quanto già previsto nel “six pack” varato qualche mese fa: in sostanza, l'ammontare dell'extra-debito pubblico viene corretto per i passivi impliciti legati all'indebitamento del settore privato (significativamente più basso in Italia rispetto alla media Ue), e per una combinazione fra il costo aggiuntivo legato all'invecchiamento della popolazione, corretto per i risparmi conseguibili da riforme previdenziali.
- Details
- Hits: 3189
La Germania problema d'Europa
di Stefano Sylos Labini
La politica egoistica e suicida della Merkel, con il dogma dell'indipendenza della Bce, impedisce di trovare soluzioni alla crisi europea, da cui si può uscire imparando dal passato
I tedeschi hanno il terrore che l’eccesso di debito pubblico spinga la Banca centrale europea a stampare grandi quantità di moneta che farebbe scoppiare l’inflazione. Per questo la Cancelliera Merkel, con la sua intransigenza sul risanamento dei bilanci dei paesi europei più in difficoltà e con la sua posizione contraria verso l’emissione degli Eurobond e verso gli acquisti di titoli del debito pubblico da parte della Bce, sta spingendo l’Europa in una pericolosa recessione e in una crisi di fiducia che potrebbero avere conseguenze devastanti. Ma i tedeschi, che hanno l’economia con la produttività più elevata d’Europa, dovrebbero ricordarsi di ciò che accadde dopo la prima guerra mondiale e di conseguenza dovrebbero essere più lungimiranti per evitare di ripetere gli stessi errori che loro furono costretti a subire.
Lezioni di storia
Il Trattato di Versailles fu imposto alla Germania con la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Il Trattato istituì una commissione che doveva determinare le esatte dimensioni delle riparazioni che dovevano essere pagate dalla Germania. Nel 1921, questa cifra fu ufficialmente stabilita in 33 miliardi di dollari. John Maynard Keynes criticò duramente il trattato: non prevedeva alcun piano di ripresa economica e l’atteggiamento punitivo e le sanzioni contro la Germania avrebbero provocato nuovi conflitti e instabilità, invece di garantire una pace duratura. Keynes espresse questa visione nel suo saggio The Economic Consequences of the Peace. I problemi economici che questi pagamenti comportarono sono spesso citati come la principale causa della fine della Repubblica di Weimar e dell’ascesa di Adolf Hitler, che inevitabilmente portò allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Quando Hitler andò al potere nel 1933 oltre 6 milioni di persone (il 20% della forza lavoro) erano disoccupate ed al limite della soglia della malnutrizione mentre la Germania era gravata da debiti esteri schiaccianti con delle riserve monetarie ridotte quasi a zero. Ma, tra il 1933 e il 1936, si realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, anche più significativo del tanto celebrato “New Deal” di F.D. Roosevelt. E non furono le industrie d'armamento ad assorbire la manodopera; i settori trainanti furono quello dell'edilizia, dell’automobile e della metallurgia.
- Details
- Hits: 2442

Il sonno della ragione che genera mostri
Militant
Ieri è apparso un articolo sul Corriere della sera che supera di molto la follia collettiva quotidiana alla quale dobbiamo sottostare. Per la verità, sono diversi giorni che su Corriere e Repubblica appaiono “strani” articoli, tutti orientati in senso radicalmente neoliberista come non se ne vedevano da anni. Passati di moda agli inizi della crisi, i pensatori neoliberisti sono rispuntati fuori come funghi dalle fogne (miliardarie) dalle quali provenivano. Per la verità, in effetti, non se ne erano mai andati; qualche giornale e qualche trasmissione “liberale” però li aveva messi momentaneamente in minoranza, dato che tutte le ricette da questi proposte avevano portato direttamente alla crisi culturale, economica, finanziaria ed etica che sta attraversando l’occidente. L’inconsistenza però delle alternative (diciamo più evidentemente l’assenza), la fragilità e la mancanza di creatività e di efficacia dei movimenti globali nel proporre un nuovo e diverso sistema di sviluppo, hanno però fatto tornare alla ribalta concetti e idee che credevamo veramente tramontati, quantomeno nella loro versione più intransigente e immediata (nel senso di *non mediata* da discorsi fumosi e apparentemente progressisti).
Ma veniamo a noi e al nostro articolo. Antonio Polito, già ex-comunista (maoista!) e fondatore del giornale “Il Riformista”, ex-margherita, e dunque appartenente di diritto all’area politica del centrosinistra, ha oggi sintetizzato al meglio le idee sue, del giornale per il quale lavora, e dell’area politica che egregiamente rappresenta, con un pezzo intitolato: “Perché proteggiamo (troppo) i nostri figli”.
Bisognerebbe leggerlo tutto, ma riporteremo qui i pezzi significativi (praticamente tutto l’articolo), cercando di non vomitare nel frattempo.
- Details
- Hits: 11030

L'Italia ai tempi di Monti. Una nota sulle proteste delle ultime settimane
La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere;
in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere (Q. 3, paragrafo 34)
Una premessa, banale: i movimenti sociali sono sempre faccende complesse, dalle molte sfaccettature, che non ci consegnano mai una “forma” pura rispetto a cui noi dobbiamo semplicemente schierarci, e che non consentono indebite astrazioni che isolino un aspetto per esaltarlo o demonizzarlo. Questa complessità non ci deve però mai impedire di pronunciarci e agire, soprattutto se pretendiamo di voler cambiare le cose.
In questo documento non si tratterà quindi di giudicare le cose in base a presunte affinità o divergenze, ma di provare a capire cosa sta succedendo intorno a noi per cercare magari di formulare e praticare un’azione alternativa, più strutturata, forse più efficace. Invece tutto quello che si è detto sugli avvenimenti delle ultime settimane, dalla mobilitazione dei tassisti a quella dei “forconi”, ha oscillato fra movimentismo ed esaltazione per qualsiasi cosa faccia casino, e un disinteresse che soltanto la caccia (peraltro esclusivamente telematica) al “fascista infiltrato” è sembrata scuotere…
Nelle prossime righe vorremmo provare a smarcarci un po’ da queste posizioni e recuperare qualche categoria che ci permetta di capire in generale che sta succedendo, per poi tentare di contestualizzare questi movimenti, in modo da non scadere nelle pessime abitudini che ormai contraddistinguono l’azione politica dal basso.
Page 546 of 616