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Un reset al servizio delle persone
di Ellen Brown
Invece di accettare il distopico “Great Reset” del World Economic Forum, possiamo costruire un sistema alternativo con il mandato di servire le persone
Questa è la seconda parte del articolo del 17 giugno 2022 intitolato ” Un ripristino monetario in cui i ricchi non possiedono tutto “, il cui succo era che i livelli di debito nazionale e globale sono insostenibili. Abbiamo bisogno di un “reset”, ma di che tipo? Il “Great Reset” del World Economic Forum (WEF) lascerebbe le persone come inquilini non proprietari in una tecnocrazia feudale. Il ripristino dell’Unione economica eurasiatica consentirebbe alle nazioni partecipanti di rinunciare del tutto al sistema capitalista occidentale, ma che dire dei paesi occidentali rimasti? Questa è la domanda qui affrontata.
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I nostri antenati avevano alcune soluzioni innovative
Fortunatamente per gli Stati Uniti, il nostro debito nazionale è in dollari USA. Come ha osservato una volta l'ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan , "Gli Stati Uniti possono pagare qualsiasi debito che hanno perché possiamo sempre stampare denaro per farlo. Quindi non c'è nessuna probabilità di default". Pagare il debito pubblico semplicemente stampando il denaro era la soluzione innovativa dei governi coloniali americani a corto di liquidità. Il problema era che tendeva ad essere inflazionistico. Il tagliando di carta che emettevano era considerato un anticipo contro le tasse future, ma era più facile emettere il denaro che tassarlo dopo e un'emissione eccessiva svalutava la moneta. La colonia della Pennsylvania ha risolto il problema formando una " banca fondiaria " di proprietà del governo . Il denaro è stato emesso come credito agricolo che è stato rimborsato. La nuova moneta è uscita dal governo locale e vi è tornata, stimolando l'economia e il commercio senza svalutare la moneta.
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La parabola dell’economia politica
Parte V: Marx, la crisi e le leggi di movimento del capitalismo
di Ascanio Bernardeschi
L’ultimo articolo su Marx riguarda la spiegazione della crisi economica e le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico: concentrazione e centralizzazione dei capitali, finanziarizzazione, polarizzazione della ricchezza e impoverimento relativo dei lavoratori. Qui la parte I, qui la parte II, qui la parte III, qui la parte quarta
Le cause delle crisi
Ai tempi di Marx, gli economisti borghesi ortodossi erano convinti che la crisi non potesse esistere. Ciò vale non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi, grandi economisti classici. Secondo Adam Smith, per esempio, i meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale l’istruzione, la difesa ecc., astenendosi dall’interferire nell’economia.
David Ricardo, da parte sua, aderisce alla cosiddetta legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta.
Nei precedenti articoli abbiamo avuto occasione di esporre la confutazione marxiana della legge di Say e quindi la possibilità della crisi.
Tuttavia essa, per Marx, non è solo possibile, ma necessaria, un dato fisiologico del modo di produzione capitalistico, è anche il modo violento con cui tale sistema economico risolve le sue contraddizioni. Quindi occorre esporre gli argomenti di Marx che spiegano come questa possibilità sia anche effettualità. L’argomento fondamentale è che il profitto, la valorizzazione del capitale, l’accumulazione di ricchezza astratta, è l’unico scopo perseguito dai capitalisti e che essi interrompono la loro attività, tolgono il denaro dalla circolazione, non lo reinvestono in attività produttive, lo tesaurizzano o lo investono in attività puramente finanziarie e speculative, quando non ci sono le condizioni per una sua sufficiente remunerazione, innescando effetti a catena per cui le disgrazie di qualche capitalista si ripercuotono con un effetto domino su altri capitalisti che vedono restringere la loro fetta di mercato.
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Chakrabarty, “Clima, storia e capitale”
Invito alla lettura
di Massimo Canella
Dipesh Chakrabarty: Clima, Storia e Capitale, Nottetempo, 2021
“Finora la maggior parte delle nostre libertà sono state ad alto consumo energetico. Il periodo della storia umana solitamente associato a ciò che noi oggi riteniamo essere le istituzioni della civiltà – l’avvio dell’agricoltura, la fondazione delle città, l’emergere delle religioni conosciute, l’invenzione della scrittura – ha avuto inizio circa diecimila anni fa, proprio quando il pianeta stava passando da un periodo geologico, l’ultima era glaciale o Pleistocene, al più recente e caldo Olocene. Noi dovremmo essere nell’Olocene: ma la possibilità del cambiamento climatico antropogenico ha sollevato la questione della sua fine. Ora che gli umani – grazie al nostro numero, all’utilizzo di combustibili fossili e ad altre attività collegate – sono diventati un agente geologico sul pianeta, alcuni scienziati hanno proposto che dovremmo riconoscere l’inizio di una nuova era geologica: un’era in cui gli umani agiscono come i principali fattori determinanti dell’ambiente del pianeta. Il nome che hanno inventato per questa nuova epoca geologica è Antropocene” (Dipesh Chakrabarty, “Clima Storia e Capitale”, Milano 2021, p. 69-70).
Nei densi articoli pubblicati nel 2009 e nel 2014 su Critical Inquiry a proposito del riscaldamento globale, pubblicati da Nottetempo di Milano nel 2021 col titolo “Clima Storia e Capitale”, oltre che in numerosi interventi successivi compreso il volume collettaneo su “La sfida del cambiamenti climatico. Globalizzazione e Antropocene” pubblicato in traduzione nel 2021 da Ombrecorte di Verona, Denis Chakrabarty svolge argomentazioni che sostengono:
1) l’impossibilità di continuare a trattare separatamente storia naturale e storia umana, che induce a una critica radicale delle correnti filosofie della storia e dello statuto che gli storici ritengono conveniente al proprio ambito disciplinare;
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Dugin o non Dugin
di Michele Castaldo
Scrivo queste note prendendo spunto dalle polemiche di alcuni interventi su sinistrainrete.info circa l’utilità di leggere o meno Dugin. Dico subito che molte domande ed altrettante risposte sono mal poste. Chi mi conosce sa che non vado per il sottile e sono solito affrontare le cose di petto, come dovrebbe fare chiunque ama richiamarsi alle ragioni del comunismo.
Anche un uomo di destra può dire cose interessanti? Posta in astratto la domanda chiunque può dire delle cose interessanti, anzi Pirandello dice che per conoscere certe verità di un villaggio bisogna ascoltare il personaggio ritenuto « lo scemo del villaggio », ma Dugin non è « lo scemo del villaggio » e se si apre un dibattito sulle sue tesi vuol dire che le questioni che stanno a monte sono molto più complicate di come le vogliamo rappresentare. Non meniamo il can per l’aia e veniamo perciò alla questione teorica a monte. Prometto di non fare sconti e parto con un esempio.
Molti compagni della mia generazione (i canuti nei paraggi degli ottanta ormai) hanno letto La città del sole di Tommaso Campanella, il filosofo calabrese vissuto tra il ‘500 e il ‘600. Un filosofo apprezzato e stimato. Bene. Ne La città del sole quando parla della procreazione – cito a memoria – indica un criterio di selezione della specie umana, ovvero che i figli devono essere generati da coppie sane preventivamente accertate. Un criterio molto prossimo a Campanella lo esprimeva Hitler, o i filosofi di regime del nazionalsocialismo tedesco. Il nazionalismo tedesco è stato eletto a « male assoluto », mentre Tommaso Campanella continua a essere stimato nella sinistra come un grande filosofo idealista.
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Le scelte paradossali e ipocrite dei paesi imperialisti
di Alessandra Ciattini
Nonostante tutti i tentativi l’Unione Europea non riesce a rendersi indipendente dalle risorse energetiche russe e tutte le conseguenze negative delle sue scelte nefaste ricadono su noi lavoratori
Se disinformare oggi vuol dire affermare qualcosa che i media dominanti non rendono noto, stiamo facendo disinformazione, ne siamo perfettamente consapevoli e ce ne assumiamo tutte le responsabilità. Arriviamo addirittura a citare, tra le altre, fonti russe, anche se questo non significa automaticamente che apprezziamo la Russia attuale, così come si è strutturata con la dissoluzione dell’Urss, le cui straordinarie risorse hanno sollecitato gli appetiti degli imperialisti, che pensavano di potersene approfittare senza colpo ferire. E Infatti hanno guidato la mano dei cosiddetti oligarchi a far man bassa delle proprietà collettive, appropriandosene di una parte consistente, frazionata in pacchetti azionari, e controllando direttamente il rilevante apparato militare ex sovietico. Purtroppo per loro questo processo distruttivo ha avuto termine, la Russia ha ripreso nelle proprie mani il suo destino e si è riaffacciata sullo scenario internazionale facendo presenti i suoi interessi, come fanno tutte le grandi potenze, anche se li nascondono dietro la retorica dei valori e degli ideali, la cui consistenza è più fragile della neve al sole.
Naturalmente non ci richiameremo solo a fonti russe, ma faremo dei parallelismi per verificarne l’attendibilità. Invitiamo “i guardiani della verità” a rispondere con degli argomenti ai nostri argomenti, anche per evitare di fare la figura pietosa della Sarzanini, che non è stata capace di rispondere alle semplici domande postele da Giorgio Bianchi e Manlio Dinucci sulla loro “attività disinformativa”. Sappiamo bene che l’invito è inutile, ma la buona creanza e la logica ci ispirano; sappiamo anche che i suddetti guardiani hanno ragione solo perché hanno dalla loro parte la forza, ossia lo straordinario apparato mediatico, che però comincia a convincere sempre meno persone.
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Figli di Eichmann?
di Finimondo
«L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è la velocità del progresso, quanto più grandi sono gli effetti della nostra produzione e quanto più è intricata la struttura dei nostri apparati, tanto più rapidamente la nostra immaginazione e la nostra percezione non riescono a stargli dietro, tanto più rapidamente cala la nostra “chiarezza” e tanto più diventiamo ciechi»
Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)
La nostra concezione della storia è rimasta fondamentalmente lineare. A dispetto di mostruose smentite quali Auschwitz o Hiroshima, rapidamente rimosse grazie all'incoscienza macchinica, il mito del progresso ha retto bene negli ultimi decenni. Si è mostrato in grado di incassare colpi, di accettare di includere qualche sfumatura e ancora oggi sembra perfettamente attrezzato per resistere al disincanto ispirato dalla catastrofe climatica che sta accelerando sotto i nostri occhi. «Sotto i nostri occhi» forse non è una bella espressione, essendosi creato da molto tempo un «dislivello» tra le azioni che svolgiamo all'interno dell'apparato produttivo e le conseguenze di tali azioni. Non perché siano impercettibili, troppo insignificanti per essere individuate dai nostri sensi e dalla nostra mente, ma al contrario, perché sono diventate troppo enormi.
L'ondata di caldo — un eufemismo che traduce bene la limitatezza del linguaggio, e quindi della nostra capacità di rappresentare le cose nell’ambito del sensibile e del razionale — che si sta oggi abbattendo su vaste aree del globo è tristemente indicativa a tale proposito.
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La nocività del lavoro all’epoca della produzione digitalizzata
Un libro di Dario Fontana. Intervista all’autore
Negli anni più recenti sono state pubblicate alcune ricerche, nel campo delle scienze sociali (nella fattispecie, la sociologia del lavoro), che pure focalizzate su realtà in divenire o ancora in parte da indagare (e dunque quanto mai «attuali»), comunicano una sensazione di proficua inattualità, laterali come sono (per categorie utilizzate e postura di ricerca) dal senso comune che orienta gli interessi più diffusi dei ricercatori. Digitalizzazione Industriale. Un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e salute (Franco Angeli, 2021) di Dario Fontana è una di queste. Il bersaglio dell’indagine è condensato nel titolo del volume, che restituisce i risultati di una ricerca pluriennale, realizzata con un impianto metodologico solido, un lavoro in profondità sulle dimensioni analitiche e sull’operazionalizzazione delle variabili, tecniche di analisi multivariate, a supporto di risultati che potrebbero risultare intuitivi, ma apparirebbero paradossali per quanti si avvicinassero ai materiali trattati con il filtro delle idee dominanti sul rapporto tra cambiamento tecnologico e lavoro. Superfluo consigliarne la lettura agli addetti ai lavori e ai praticanti di studi organizzativi e del lavoro, ma anche a sindacalisti, militanti, attivisti, medici, se non fosse per la barriera del costo (l’editoria scientifica ha le sue regole, che non possono essere imputate ai ricercatori!).
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Il rapporto tra scienza, tecnologia, organizzazione e contenuto del lavoro, ma potremmo altrimenti parlare di nessi tra conoscenza, potere e sfruttamento, ha occupato uno spazio centrale nell’esperienza del movimento operaio e fino a qualche decennio addietro (retaggio del lungo ’68 italiano e del residuo egemonico che ancora esercitava sul mondo intellettuale) anche all’interno delle scienze sociali.
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Fine del lavoro come la fine della storia?
di Sergio Bologna
Parte I
Era il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, quando Francis Fukuyama abbozzava su una rivista la sua teoria della fine della storia, quella che avrebbe poi esplicitato nel libro, dallo stesso titolo, che lo ha reso famoso, pubblicato nel 1992. Tre anni dopo Jeremy Rifkin pubblicava il suo “La fine del lavoro”.
Sollecitato da un vecchio compagno, ho letto alcuni pezzi di un dibattito riguardante il lavoro che ha percorso le pagine de “Il Manifesto” all’inizio dell’estate 2019. Vi ho trovato molte somiglianze con discorsi che sono circolati largamente altrove, più o meno nello stesso periodo, per esempio nelle iniziative della Fondazione Feltrinelli con il ciclo di conferenze-dibattito dal titolo Jobless Society. L’idea che il lavoro sia destinato a sparire con l’automazione o che sia già scomparso per lasciare il posto a non so quali altre cervellotiche forme di rapporti sociali mi ha riportato alla memoria le teorie di Fukuyama o, meglio, l’interpretazione volgare e banale che di quelle teorie è stata data, perché Fukuyama era molto meno stupido dei suoi fans e intendeva per fine della storia il processo di modernizzazione concluso.
Ora, se noi interpretiamo il salto tecnologico in atto (digitalizzazione, IoT, blockchain ecc.) come un processo di modernizzazione, può andar bene, anzi è persino banale, ma se pretendiamo di qualificarlo come un processo concluso o come una frontiera oltre la quale non c’è più nulla, cadiamo nel ridicolo.
Innanzitutto dobbiamo esigere da coloro che parlano di lavoro di essere espliciti su un punto: si sta parlando del lavoro come generica attività umana o di lavoro per conto di terzi in cambio di mezzi di sussistenza? Si parla di lavoro come espressione di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri talenti, o si parla di lavoro salariato, cioé retribuito da un soggetto terzo?
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Il diritto al dissenso in tempo di emergenza
di Giulio Di Donato
Negli ultimi due anni, sull’onda della crisi pandemica prima e della guerra in Ucraina poi, abbiamo assistito a una crescente compressione del dibattito pubblico, con forme sempre più estreme di delegittimazione e marginalizzazione del dissenso. L’elemento più paradossale è che in questo caso le opinioni divergenti non sono quelle di una avanguardia avventurista che promuove istanze potenzialmente eversive, ma quelle di chi si schiera in difesa dei principi costituzionali e quindi, come avviene nel nostro paese, reclama una maggiore fedeltà ai valori fondativi della Repubblica. Giocando con le parole, potremmo dire che assistiamo all’insorgenza di un dissenso diffuso dal basso contro i protagonisti del dissenso antisistema dall’alto (i fautori della cosiddetta “ribellione delle élite” verso il nucleo profondo delle democrazie costituzionali, che non può essere oggetto di dissenso). Contro questo ricorrente “sovversivismo delle classi dirigenti”, ovvero contro il polo della subalternità al vincolo esterno e del neoliberismo nelle sue diverse varianti, va fatto appunto valere un dissenso radicale dal basso, il quale, se vuole essere efficace, non può limitarsi a denunciare il baratro nel quale stiamo precipitando ma deve puntare a rigenerare un nuovo consenso attorno all’indirizzo politico fondamentale contenuto nella nostra Costituzione, che ha subito nel tempo una progressiva disattivazione. Rilanciando il senso dei principi basilari della sovranità democratica, della piena occupazione e della libertà incarnata, in relazione.
La democrazia, scriveva Bobbio ne Il futuro della democrazia, non è caratterizzata soltanto dal consenso, ovvero se essa può contare sul consenso dei consociati, ma anche dal dissenso. Del resto, che valore ha il consenso dove il dissenso è ostracizzato, censurato, intimidito? Dove dunque non c’è scelta fra consenso e dissenso?
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La NATO cambia pelle?
di Michela Arricale
Un anno fa, nel Giugno 2021, la NATO ci informava che la guerra era cambiata e che questa non si combatteva più solo con le armi convenzionali, ma anche attraverso strumenti cosiddetti ibridi, ideati cioè per scopi altri rispetto alla guerra ma comunque funzionali ad obiettivi strategici. Ad esempio, l’informazione viene identificata come uno di questi strumenti ibridi, ed è pertanto - ci dicono - da considerare come una vera e propria minaccia alla sicurezza qualsiasi campagna di disinformazione attraverso le cd fakenews, se e quando questa sia in grado di incidere sulle dinamiche democratiche di un Paese alleato mettendone a rischio la stabilità.
Pertanto, le analisi sulle minacce alla sicurezza avrebbero dovuto – da allora in poi - comprendere non solo scenari militari convenzionali, ma anche questi scenari ibridi. Poiché le analisi sulle minacce comprendono anche la predisposizione delle risposte a queste minacce, è diventato altresì necessario allargare le competenze strategiche della NATO per permetterle di adattarsi a tali mutamenti di prospettiva.
E è per questi motivi che i capi di Stato e di Governo hanno deciso di aggiornare lo Strategic Concept della NATO, il documento politico che guida e concerta l’azione dell’Alleanza Atlantica e che sarà formalizzato nel prossimo summit di Madrid, il 28,29 e 30 Giugno.
Non solo l’informazione – ci raccontano gli esperti della NATO - ma anche l’ambiente web, l’economia, lo Spazio e persino il cambiamento climatico dovranno entrare a far parte degli scenari di sicurezza da analizzare in chiave bellica per assicurarsi i propri obiettivi strategici.
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Il mondo rovesciato
di Alessandro Visalli
Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce commercio’[1] avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'occidente e garantito quindi il relativo dominio di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere sull’interconnessione. L’idea era anche di considerare la “modernizzazione”[2] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[3], storicamente necessaria, dei “progressi”[4] della “Ragione”[5] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è possibile, né civile e morale, né produttivo autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[6], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata dalla direzione che stanno prendendo i fatti.
Le ultime tre presidenze statunitensi hanno progressivamente invertito di fatto le prescrizioni di questa visione, accorgendosi crescentemente che non accadeva quanto previsto dagli scheletrici modelli ideologici settecenteschi (per certi versi cinque-seicenteschi) inconsapevolmente attardati nella mente collettiva delle élite. Ed allora hanno virato sul confronto diretto, ideologico (la lotta “democrazia/autocrazia”[7]) ed economico (sanzioni e reshoring delle produzioni critiche[8]), ora anche militare[9] (che nella tradizione occidentale è sempre stata la prima istanza).
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Non c'è alcuna soluzione alla crisi energetica
di Sandrine Aumercier
Questo testo costituisce la versione scritta della presentazione del libro "Le mur énergétique du capital" (edizioni Crise & Critique), che si è tenuta presso Mille bâbords (61, rue Consolat, 13001 Marsiglia) il 5 giugno 2022
Inizio dalla fine e arrivo subito alla conclusione dicendo che non c'è soluzione alla crisi energetica, neppure una «soluzione minima». Nel caso dovesse emergere una società post-capitalista emancipata, essa allora smetterebbe di preoccuparsi del problema energetico, semplicemente; non lo risolverebbe diventando «più razionale» e «più efficiente» in materia di energia. Una società che mette alla sua base la penuria - come fa il modo di produzione capitalista - si auto-impone di razionare sempre più il consumo di energia, a partire dal fatto che essa si sta avvicinando sempre più a un limite assoluto. Così facendo, si condanna a sprofondare in una gestione totalitaria delle risorse, scatenando delle guerre di stabilità, e a piombare in delle crisi socio-economiche che hanno un impatto sempre più crescente... Ma questo è un limite che fa parte di quelli che sono i principi fondanti di questa società, e non si riferiscono alla natura.
La categoria «energia», è astratta così come lo è quella di «lavoro», e una volta che viene posta a fondamento delle attività umane, non può fare altro che procedere in direzione di un abisso, per effetto della sua stessa logica. Mi ci è voluto molto tempo per capirlo, a causa del fatto che il discorso sui «limiti del pianeta» si impone nella sua falsa evidenza, come se si trattasse di un problema geofisico. Ma il vero problema riguarda le premesse del capitalismo, da cui anche i cosiddetti Paesi socialisti reali non si sono mai staccati. Se mettiamo in fila, uno dietro l'altro, i diversi scenari di «transizione energetica» che si stanno contendendo la palma di vincitore, diventa chiaro come sia proprio il discorso di fondo a combinare due tendenze contraddittorie, in quanto presuppone che: 1) L'impossibile è possibile e che, allo stesso tempo, 2) Se l'impossibile nonostante tutto è impossibile comunque, allora si deve trattare di un fatto di natura (di natura umana, di natura geofisica o di entropia universale). Così facendo, ecco che smette di essere necessario dover esaminare le specificità del modo di produzione capitalistico.
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Pensare la scuola con Gramsci
di Salvatore Bravo
Pensare la scuola significa pensare il proprio tempo. Gramsci è stato critico verso la scuola del suo tempo, la critica necessita di domande profonde. La domanda che guida le osservazioni di Gramsci e pervade i suoi scritti non è un monologo celebrativo come accade normalmente nell’attuale assetto istituzionale e culturale, ma si confronta con un modello teorico di scuola e di pedagogia fondato a livello veritativo. L’essere umano è comunitario, da tale verità sorgono domande sulla scuola del suo tempo e sulla necessita di un’alternativa rispettosa della natura umana. L’istituzione scolastica non è separabile dalla realtà storica ed istituzionale, ne è parte viva, e specialmente mediante ed attraverso di essa si esplica l’egemonia culturale delle classi dirigenti. La scuola è il luogo per eccellenza nel quale la struttura economica si riproduce, l’educazione è il campo di battaglia dove l’egemonia culturale incontra resistenze e consolida il dominio economico e culturale. L’integralismo del plusvalore deve necessariamente abbattere ogni attività intellettuale disinteressata per modellare l’intellettuale organico alla finanza. L’utile è il valore del capitalismo, non esistono fini, ma solo mezzi, al punto che mezzi e fini si confondono fino a fondersi. L’intellettuale organico è specializzato, in modo da essere utilizzabile dalla struttura. Il pensiero specializzato mutila l’essere umano della sua natura generica rendendolo utilizzabile dal potere. L’egemonia culturale dev’essere assediata ed erosa con proposte che preparino la nuova coscienza collettiva e la nuova egemonia di classe. Alla scuola orientata alla specializzazione, oggi più di allora, Gramsci contrappone la scuola unitaria di base, con la scuola unitaria l’essere umano “ritrova” la sua natura generica e comunitaria:
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Hic sunt leones
di Piero Pagliani
1. Un buon modo per smettere di sognare e cercare di vedere la realtà così com'è, è analizzare il ragionamento dell'avversario. Posto quindi che per decreto ministeriale è nostro avversario tutto ciò che non è “Occidente”, qualsiasi cosa ciò voglia dire, o non si assoggetta all'Occidente, riporto brevi estratti di due analisi, una dal campo russo e l'altra da quello cinese [1].
Il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, al Forum Economico di San Pietroburgo, il 17 giungo u. s.:
Gli Stati Uniti, dopo aver dichiarato la vittoria nella Guerra Fredda, si sono anche dichiarati messaggeri di Dio sulla terra, privi di obblighi, ma solo portatori di interessi che hanno dichiarato sacri. Non sembrano aver notato che sul pianeta si sono formati nuovi potenti e sempre più assertivi centri. Ognuno di essi sviluppa il proprio sistema politico e le istituzioni pubbliche secondo il proprio modello di crescita economica e, naturalmente, ha il diritto di proteggerli e di assicurare la sovranità nazionale… . I cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo sono basilari, cruciali e inesorabili. Ed è un errore credere che in un momento di cambiamenti così turbolenti si possa semplicemente tener duro o aspettare che passi finché tutto si rimette in riga e ritorna come prima. Perché non sarà così!
E ora la “Strategia dei tre cerchi” nelle parole di Cheng Yawen, dell'Istituto per le Relazioni Internazionali e Affari Pubblici dell'Università di Studi Internazionali di Shanghai:
Cento anni fa, i vertici del Partito Comunista Cinese proponevano la via rivoluzionaria “accerchiare le città partendo dalle campagne”. In questo momento di “cambiamenti senza precedenti”, la Cina e i paesi in via di sviluppo hanno bisogno di interrompere l'ordine centro-periferia della contemporaneità e l'azione dei Paesi occidentali di prevenzione e repressione dei Paesi non occidentali, nonché di migliorare la solidarietà e la cooperazione nelle aree “rurali” globali.
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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente
di Fabio Ciabatti
I. Il nemico esterno
E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere considerata come il lato oscuro della postdemocrazia occidentale (quest’ultima intesa, sulla scia di Colin Crouch,1 come un sistema che è svuotato progressivamente da ogni reale possibilità di partecipazione collettiva alle decisioni politiche, lasciando in vita le sole procedure formali della democrazia). Per questo il rapporto con il nemico oggi dà luogo ad una dinamica differente per quanto riguarda la costituzione della soggettività occidentale. Se in passato il confronto con nemico venuto dall’Est aveva avuto degli esiti per certi versi positivi nei paesi a capitalismo avanzato, oggi assistiamo ad una dinamica sostanzialmente regressiva. Partendo da questo punto di vista, la riflessione che segue non ha come obiettivo quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione nell’attuale guerra o come andrà a finire il conflitto. Vuole essere soprattutto un ragionamento sugli effetti della guerra sull’immaginario occidentale.
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Danni collaterali
di Linda Maggiori
La guerra al virus ha moltiplicato le depressioni e i disturbi d’ansia, è stata fonte di enormi discriminazioni, ha ricordato che in emergenza e in guerra non si dibatte, si obbedisce. Con l’invasione russa all’Ucraina il clima di isteria e la caccia alla streghe si sono sovrapposti e trasferiti dalla pandemia alla guerra. Malgrado tutto c’è chi si ostina a cercare di rendere le crisi un terreno fertile di trasformazione sociale. L’introduzione al libro Semi di pace! La nonviolenza per curare un mondo minacciato da crisi ecologica, pandemia e guerra (Quaderni Satyagraha Centro Gandhi Edizioni)
“Lo scopo della shockterapia è aprire una finestra.
per enormi profitti in brevissimo tempo”
(N. Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli)Da una crisi all’altra.
Dalla crisi ecologica e climatica, che continua a pendere come una spada di Damocle sulle nostre teste (e su quelle delle future generazioni), alla crisi sanitaria, sociale e democratica di questi anni pandemici, fino alla crisi bellica ed energetica scatenata dall’invasione russa in Ucraina, che rischia di innescare un devastante conflitto mondiale nucleare. Non fa in tempo a concludersi lo stato di emergenza per pandemia che già viene proclamato lo stato di emergenza per guerra. Un’emergenza permanente in quello che ormai è a tutti gli effetti il “capitalismo dei disastri” come lo definì Naomi Klein.
Un capitalismo dei disastri che avvantaggia i grandi gruppi industriali e finanziari, facendo al contempo aumentare la forbice del divario sociale: secondo un report di Oxfam, in questi due anni di pandemia in Italia (così come nel resto del mondo) è cresciuta la quota di ricchezza nelle mani di pochi super-ricchi mentre oltre un milione di individui e 400mila famiglie sono precipitati nella povertà.
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L’incubazione della guerra/3. Il conflitto nel Donbass del 2014
di Sergio Cararo
Il violento colpo di stato armato, compiuto a Kiev alla fine di febbraio 2014 ha aperto il vaso di Pandora della guerra in Ucraina, sia nelle regioni russofone dell’Est (Donetsk e Lungansk), sia sul fronte interno contro le minoranze russofone, le organizzazioni comuniste e antifasciste.
Il pretesto della violenta rivolta conosciuta come la seconda “Euro Maidan” fu il rifiuto dell’allora presidente ucraino Janukovič di firmare l’Accordo di associazione all’Unione europea, su cui insisteva pesantemente la Ue.
A tale scopo fu organizzata una provocazione contro la polizia, la risposta di questa fu registrata su video e diffusa immediatamente dai media occidentali. Tutto ciò avveniva alle 4 del mattino, sulla piazza centrale della capitale ucraina (la Maidan che significa appunto piazza), dove, “in modo perfettamente casuale”, si trovavano già diverse troupe, che registravano tutto su video e lo trasmettevano.
Fu l’innesco che scatenò la seconda “Majdan” che, sotto la direzione dell’ambasciata USA e con le visite di incoraggiamento in piazza dei leader europei, si trasformò in colpo di stato armato.
Sono state sfacciate le interferenze negli affari interni dell’Ucraina con senatori e diplomatici USA (Biden, McCain, Nuland) e Presidenti ed ex presidenti polacchi (Gribauskajte, Kaczyński, Kwaśniewski, Wałęsa) che arrivavano di persona a Majdan appositamente per incoraggiare le persone nella loro rivolta contro governo. Il primo sangue a Kiev venne versato il 22 gennaio 2014, quando viene uccisa una persona ed accusata la polizia.
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Unità contro la guerra imperialista e contro la Nato
di Coordinamento Nazionale Comunista contro la guerra e contro l'imperialismo
In controtendenza alla continua divisione del movimento comunista italiano si è costituito, sulla base del Documento politico che presentiamo, il "Coordinamento Nazionale Comunista contro la guerra e contro l'imperialismo"
La spinta imperialista alla guerra segna totalmente di sé questa fase storica. Da questa spinta assume verosimiglianza anche la tragica possibilità di una terza guerra mondiale, che addirittura potrebbe essere già iniziata, anche se non si combatte su tutti i fronti.
Tre fattori, tra gli altri, concorrono a determinare quel “combinato disposto” che si offre come base materiale all’estensione, sul piano planetario, del “sistema” di guerra imperialista:
– Primo, dopo l’89 e il crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dei Paesi del socialismo reale la storia non è finita, come al contrario aveva teorizzato il politologo statunitense Francis Fukuyama. Si è rivelata totalmente illusoria e priva di basi storiche concrete l’idea secondo cui il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si sarebbe aperta una fase finale di conclusione della storia in quanto tale.
Fin dagli inizi degli anni ’90 del XX secolo, i fatti si sono incaricati di smentire clamorosamente quella, idealistica, teoria.
In America Latina una potente pulsione assolutamente contraria, avversa alla prepotenza imperialista inizia a segnare di sé l’intero continente: non solo Cuba resiste e rilancia il proprio progetto socialista rivoluzionario, ma in molti Paesi prende forma, a partire dal Brasile di Lula e dall’avanzato progetto socialista della Bolivia, un progetto di liberazione dal dominio nordamericano che giunge sino alla proclamazione di un inizio di percorso volto al socialismo, come nel Venezuela di Hugo Chávez.
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Tecno-scienza e tardo-capitalismo: otto tesi per una discussione inattuale
di Franco Piperno
Nella nostra epoca, quella del tardo-capitalismo, pressoché tutte le forme dei saperi propriamente scientifici sono stravolte: l'originaria «filosofia della natura» coltivata nelle università da piccoli gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via via dislocata all'interno del complesso militare-industriale, divenendo appunto Big Science: una vera e propria fabbrica di innovazioni tecnologiche caratterizzata dai costi immani e da decine e decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un regime di fabbrica di tipo fordista. Si può affermare che il Progetto Manhattan, ovvero la costruzione della bomba atomica americana, costituisca il punto di non ritorno che separa la scienza moderna da quella tardo-moderna, la Big Science appunto. A dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non esiste né può esistere un «capitalismo cognitivo»; semmai v'è, in formazione, un «capitalismo tecnologico», un modo di produzione che promuove una furiosa applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale – applicazione che genera continue innovazioni di processo e di prodotto, ma queste non hanno alcun significativo rapporto con l'accumularsi delle conoscenze. Infatti, per loro natura, le scoperte scientifiche non possono essere né promosse né tanto meno programmate, perché esse sono in verità risposte a domande mai formulate – come accade nei viaggi o nei giochi. Le tesi che seguono presuppongono la constatazione nel senso comune del basso livello culturale e l'alto grado di specializzazione della forza-lavoro nelle società tecnologicamente più sviluppate, e.g. gli USA; e cercano di porre, su un piano non-metafisico, la questione di una «nuova scienza» che recuperi l'autonomia della conoscenza rispetto al complesso militare-industriale.
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I saperi antichi: teoria, tecnica, morale
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Inflazione più recessione
di Ascanio Bernardeschi
La radice dell'inflazione e della nuova grave recessione che si annuncia sta nelle politiche imperialistiche. Occorre intrecciare le lotte contro l'imperialismo con il conflitto sociale. Per questo serve l'unità dei comunisti
La crisi perdurante e la pandemia avevano promosso il passaggio della BCE, e delle politiche economiche europee in genere, da rigide custodi della dinamica dei prezzi a elargitrici di moneta facile – naturalmente solo per alcuni – perché, balbettavano i think tank dell'UE, riluttanti ad ammettere che l'austerità aveva ridotto diversi Paesi europei sul lastrico, l'inflazione troppo al di sotto del famigerato e arbitrario 2% non è desiderabile.
Eravamo facili profeti quando sostenevamo che i colli di bottiglia nei comparti industriale e dei trasporti, dovuti al fermo caotico di una serie di attività a causa della pandemia e accentuati dal modello just-in time e scorte zero, impostosi dopo la chiusura della fase fordista, avrebbero determinato uno shock da offerta il quale, in presenza di questa nuova alluvione di liquidità, avrebbe innescato processi inflattivi.
Così come la pandemia è stato il capro espiatorio di una crisi che covava già prima e che il virus ha solo reso manifesta e accentuato, oggi ogni colpa dell'inflazione viene attribuita alla guerra che, non lo neghiamo, sta pur contribuendo al suo sviluppo.
Gli aumenti dei prezzi, soprattutto dei prodotti energetici e alimentari, i quali poi si riversano nei costi di produzione e quindi nei prezzi della generalità dei prodotti (per esempio il 60% del tasso di inflazione è dovuto ai prodotti energetici), si sta verificando in ogni parte del globo; ma in gran parte delle economie capitaliste, tra cui quella italiana, tale crescita non è affiancata da quella dei salari che quindi perdono in potere d'acquisto. In particolare energia e alimenti costituiscono una fetta rilevantissima della spesa delle famiglie a basso reddito le quali oltretutto, lo certifica anche milanofinanza, “possono contare solo su risparmi limitati e hanno un ridotto margine di azione sui consumi discrezionali”.
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Un reset monetario in cui i ricchi non possiedono tutto
di Ellen Brown
Abbiamo un serio problema di debito, ma soluzioni come il “Great Reset” del World Economic Forum non sono il futuro che vogliamo. È tempo di pensare fuori dagli schemi per alcune nuove soluzioni
Nell’antica Mesopotamia era chiamato Giubileo. Quando i debiti a interesse sono diventati troppo alti per essere rimborsati, la lista è stata cancellata. I debiti furono condonati, le prigioni dei debitori furono aperte e i servi tornarono a lavorare i loro appezzamenti di terra. Ciò poteva essere fatto perché il re era il rappresentante degli dei che si diceva possedessero la terra, e quindi era il creditore a cui erano dovuti i debiti. La stessa politica è stata sostenuta nel Libro del Levitico , anche se non è chiaro fino a che punto sia stato attuato questo Giubileo biblico.
Quel tipo di condono del debito su tutta la linea non può essere fatto oggi perché la maggior parte dei creditori sono istituti di credito privati. Banche, proprietari terrieri e investitori di fondi pensione andrebbero in bancarotta se i loro diritti contrattuali al rimborso venissero semplicemente cancellati. Ma abbiamo un serio problema di debito, ed è in gran parte strutturale. I governi hanno delegato il potere di creare moneta alle banche private, che creano la maggior parte dell’offerta di moneta circolante sotto forma di debito a interesse. Creano il capitale ma non gli interessi, quindi è necessario rimborsare più denaro di quello creato nel prestito originale. Il debito cresce quindi più velocemente dell’offerta di moneta, come si vede nel grafico di WorkableEconomics.com sotto. Il debito cresce fino a non poter essere rimborsato, quando il consiglio di amministrazione viene cancellato da una qualche forma di crollo del mercato come la crisi finanziaria del 2008, che in genere allarga il divario di ricchezza durante la discesa.
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Dugin contro la fine
La Quarta Teoria Politica. I
di Nicola Licciardello
Italia oggi così ubriaca per il crollo d’affluenze ai referendum, e per il crollo di Lega e 5 stelle alle comunali, da quasi dimenticare la guerra della gloriosa Ukraina, la carestia mondiale dovuta al sanguinario Putin, come pure i balletti di Ursula e il Drago. Mentre il quasi premio Nobel per la Pace Zelensky piange per le armi promesse e non mantenute, o per non saperle usare, i russi sparano su chi non è ancora scappato fuori dai velenosi rifugi del Donbas, tanto che qualcuno di “Storia Segreta” (Sinistra in Rete 14 giugno) si spinge a decretare che La guerra è finita e che la Russia ha vinto. Situazione tuttora virtuale, ma certo probabile e conseguenziale.
E se “Storia Segreta” non esita a indicare in due esponenti della lucidità ebraica, Carlo De Benedetti ed Henry Kissinger, gli autori che per primi hanno definito la presente guerra dell’Occidente contro la Russia un “errore strategico” – in primis per l’ovvia conseguenza di favorire un’alleanza Russia-Cina, poi per l’incompetenza valutaria (il rublo, agganciato all’oro, premiato sul dollaro) infine per l’eccessivo squilibrio geopolitico di un’Europa occidentale succube della Nato – c’è chi aveva previsto alla lettera gli attuali eventi bellici, in effetti da Putin assai posticipati rispetto al 2014: si tratta di Aleksandr Dugin, “tradizionalista” moscovita e grande ammiratore della storia d’Italia, di cui parla anche la lingua.
Nella Prefazione all’edizione italiana (2020) de La Quarta Teoria Politica (forse il suo trattato più organico) Dugin infatti mostra una conoscenza anche della filosofia italiana contemporanea. Di Massimo Cacciari, ad esempio, riferisce su quel problematico ma suggestivo Geofilosofia dell’Europa (1994) che ribadiva il destino di un’Europa Arcipelago[1], mentre di Giorgio Agamben elabora una geniale lettura ‘sincretica’, in cui la “vera natura politica della Modernità è la nuda vita del lager”.
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Recensione di “Contro la sinistra neoliberale” di Sahra Wagenknecht
di Leandro Cossu
…Unsere Parolen sind in Unordnung. Einen Teil unserer Wörter
Hat der Feind verdreht bis zur Unkenntlichkeit…
Bertolt Brecht
Baizuo, radical chic, gauche caviar. Ogni lingua ha oramai un’espressione per descrivere l’ideologia dei vincitori della globalizzazione: un guazzabuglio melenso di multiculturalismo, ambientalismo e identity politics che, dietro la maschera di una tolleranza benevola, nasconde la propria natura classista ed essenzialmente neoliberale. Ora, la critica a questo tipo di posizioni rischia di sfociare in un moralismo spicciolo (e nei casi estremi nella reazione) se si accetta di decostruire queste posizioni rimanendo nel campo morale e post-ideologico dell’avversario. Le domande da porsi, in realtà, sono diverse. Qual è la relazione tra questa narrazione e il sostrato economico? Quali sono i suoi meccanismi di propagazione ideologica? C’è un rapporto con lo scivolamento a destra di un elettorato che tradizionalmente si riconosceva nell’altra parte del quadrante politico?
Sahra Wagenknecht, già leaderdel gruppo parlamentare del partito Die Linke di Germania, prova a dare una risposta a queste domande nel suo libro Contro la sinistra neoliberale, uscito nel 2021 in tedesco e tradotto quest’anno in italiano per Fazi Editore (20 €), con una preziosa introduzione di Vladimiro Giacché. Il titolo, oltre a non rendere giustizia all’originale tedesco (cioè Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “gli autocompiacenti”) è fuorviante. Il libro è diviso in due parti: più o meno, una prima pars destruens, il cui oggetto di discussione è la figura, appunto, del liberale di sinistra; e una pars costruens, in cui a partire da alcuni nuclei problematici, l’autrice abbozza un programma per un partito che volesse riportare la parola sinistra, almeno in Germania, al suo significato tradizionale ed economico.
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La BCE all’assalto dei salari
di coniare rivolta
Parte I
La Banca Centrale Europea (BCE) ha annunciato, giovedì 9 giugno, una storica virata nella politica monetaria dell’area euro. Due sono i profili di questa manovra monetaria che invertono la rotta avviata con la crisi dei debiti pubblici degli anni Dieci: l’aumento dei tassi di interesse e la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici da parte della banca centrale.
Dopo undici anni di ribassi continui, la BCE ha annunciato che a luglio tornerà ad aumentare i tassi di interesse. Tra i compiti fondamentali di una banca centrale c’è la definizione del cosiddetto costo del denaro, ossia il tasso di interesse che le banche commerciali pagano alle banche centrali per prendere a prestito il denaro di cui hanno bisogno per il loro regolare funzionamento. La BCE, fissando i tassi di interesse pagati dalle banche commerciali per le loro operazioni di rifinanziamento, riesce ad orientare i tassi di interesse che le banche commerciali faranno poi pagare allo Stato, ai cittadini e alle imprese per l’erogazione di prestiti. In prospettiva, la BCE ha anche annunciato che quello di luglio sarà il primo di una serie di aumenti dei tassi di interesse che, progressivamente, porterà il costo del denaro ben al di sopra degli attuali tassi negativi, e dunque fuori dalla zona di eccezione in cui si è mossa la politica monetaria emergenziale dalla crisi dei debiti pubblici alla pandemia.
Secondo l’ideologia della BCE, la politica monetaria ha il compito fondamentale di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere l’inflazione attorno al 2%.
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Il reale non è razionale ma piuttosto paradossale
di Roberto Paura
Il diario filosofico di Francesco D’Isa investiga e propone nuove soluzioni al paradosso dell’esistenza
Uno dei più influenti passi del pensiero occidentale risale allo pseudo-Dionigi, un autore del V secolo che si spacciava per quel Dionigi l’Areopagita che Paolo di Tarso aveva convertito per primo ad Atene. Nella sua Teologia mistica, lo pseudo-Dionigi aprì la strada alla cosiddetta teologia negativa, secondo cui tutto ciò che possiamo dire della Causa di tutte le cose (cioè di Dio) è ciò che non è:
“[…] non è parola né pensiero, non si può esprimere né pensare; non è numero, né ordine, né grandezza né piccolezza né uguaglianza né disuguaglianza né similitudine né dissimilitudine; non sta fermo, né si muove né riposa; non ha potenza e non è potenza; non è luce, non vive, né è vita; non è sostanza, né eternità né tempo; non è oggetto di contatto intellettuale, non è scienza, non è verità né regalità né sapienza; non è né uno, né unita né divinità né bontà; non è spirito come lo possiamo intendere noi, né filiazione né paternità; non è nulla di ciò che noi o qualche altro degli esseri conosce, e non è nessuna delle cose che non sono e delle cose che sono […]”
(pseudo-Dionigi, 2020).
Circa tre secoli prima, qualcosa del genere fu proposto anche da uno dei principali filosofi buddhisti, Nāgārjuna (ca. 150-200 d.C.), fondatore della scuola dei Mādhyamika, sostenitori della “vacuità” del Tutto. Secondo la loro tesi, non esiste nulla a cui possa essere conferito il concetto di essere come proprietà di per sé, poiché l’esistere è possibile solo in relazione a qualcos’altro. Ne consegue che il pensiero umano deve allenarsi a comprendere la non-sostanzialità attraverso “tanto una determinazione positiva (della negazione) quanto una determinazione negativa (della natura propria), essendo caratteristica propria del pensiero appunto il definire escludendo” (Torella, 2020).
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