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Mario Draghi: breve biografia di un incappucciato della finanza
di Thomas Fazi
E alla fine, come da copione, l’“operazione Draghi”, a cui il sistema, nonché Draghi stesso, lavorano alacremente da anni – i servizi fotografici su Draghi che fa la spesa al supermercato, accarezza i cagnolini e vola in economica, ma anche lo stesso, ormai celebre, articolo sul Financial Times in cui Draghi, novello keynesiano, ha riabilitato il debito pubblico (quello “buono”, ça va sans dire) – è stata portata in porto. Ed è subito gara tra i politici e commentatori nostrani ad annunciare la seconda venuta di Cristo.
In questa sede non mi soffermerò sulle manovre di palazzo che ci hanno portato a questo punto. Mi limiterò a evidenziare come le principali responsabilità, a mio avviso, siano da imputarsi non a Renzi, come vuole la vulgata, ma allo stesso Conte, agli occhi di tutti la principale vittima di questa operazione. Se oggi, infatti, Draghi – letteralmente l’incarnazione vivente del vincolo esterno – può presentarsi come il salvatore della patria che può garantire l’arrivo e il “buon uso” dei fantastiliardi dell’Europa, è precisamente perché Conte in primis ha avallato fin dall’inizio la logica del vincolo esterno, presentando il Recovery Fund come un generoso regalo di mamma Europa che lo scolaretto Italia avrebbe dovuto fare di tutto per meritarsi e “spendere bene”, e anzi senza i quali saremmo stati perduti. Insomma, Conte – sospinto da MoVimento Cinque Stelle e PD – non ha fatto che alimentare l’idea dell’Italia come nazione minus habens incapace di gestire se stessa e perennemente bisognosa dell’aiuto (e a volte della “rieducazione”) di qualche “provvidenziale” attore esterno, per definizione più civilizzato e capace di noi.
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La «seconda vita politica» di Amadeo Bordiga
Capitalismo e crisi ambientali
di Yurii Colombo
Per la storiografia il Bordiga «che conta» è quello «politico», è la traiettoria che lo porta dalla milizia nella gioventù socialista napoletana a diventare il pivot della scissione comunista nel 1921 a Livorno, a dirigere il Partito comunista d’Italia negli anni dell’ascesa del fascismo e infine a entrare in contrasto con la nuova direzione gramsciano-togliattiana della «bolscevizzazione» fino all’epico scontro con Stalin al VI Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista a Mosca nel 1926. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso questo percorso – che non può essere ovviamente slegato dalla storia della sinistra socialista intransigente prima e della sinistra comunista poi – destò un certo interesse della storiografia italiana «ufficiale» (Cortesi, De Clementi, Livorsi, De Felice[1]) prima di tornare ad appannaggio sostanzialmente degli storici simpatetici al comunista napoletano (Peregalli, Saggioro, Gerosa[2]), al defluire dei movimenti che avevano accesso per qualche tempo l’interesse per ogni tipo di eresia del movimento operaio. Tuttavia se si esclude il pioneristico In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale (1952-1982) del già citato Sandro Saggioro, pubblicato qualche anno fa per i tipi di Colibrì e la meritoria opera di ripubblicazione sistematica dei suoi scritti da parte delle organizzazioni bordighiste, l’elaborazione del Bordiga sconfitto e isolato dall’Italia della ricostruzione e del boom rimane ancora ampiamente un territorio inesplorato. Recuperarla sarebbe invece importante perché probabilmente rappresenta il periodo più fecondo dal punto di vista teorico del comunista napoletano.
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La battaglia attorno al PCI
di Lamberto Lombardi*
Riceviamo da Lamberto Lombardi
Trent'anni fa, poco prima del suo settantesimo compleanno, finiva il PCI, per scelta quasi unanime dei suoi dirigenti e con plauso unanime e spesso ironico dei suoi avversari. Fu seguito, in pochi anni, dalla scomparsa di tutti gli altri Partiti della Prima Repubblica.
Trent'anni è un lasso di tempo ampio che ha consentito di sistemare, magari immeritatamente, i La Malfa, gli Zanone, i De Martino, Nenni, e perfino Andreotti, nell'indisturbato album dei ricordi, quello da riaprire solo nelle ricorrenze comandate. Non così è per il PCI.
Sorprendentemente gli sforzi imponenti di collocarlo su di un binario morto della Storia sembrano fallire ripetutamente e lo riscontriamo nell'opinionistica borghese, e non solo in quella espressasi intorno al centenario della sua nascita, lo ritroviamo in quel suo atteggiamento di attenzione non placata, tra il livoroso e lo sprezzante, ma anche in una sua curiosità mai attenuata, volta ad indagare una storia che in nessun modo si è riusciti a ridurre a inerte stereotipo.
Sarà per l'insostenibile leggerezza della politica italiana di oggi, sarà per la dimenticabile teoria dei suoi personaggi e delle sue vicende dimenticate in poche settimane, sarà per l'inveterata abitudine e necessità degli opinionisti nostrani a fare settimanalmente professione di anticomunismo, sarà per un oscuro e non confessabile rimorso, sarà che di quella storia siano in pochi ad averci davvero capito qualcosa, sarà, infine, che quel vuoto non è mai più stato davvero politicamente riempito, ma ci pare che attorno al PCI sia ancora in atto un'aspra battaglia nonostante nulla sembra esistere che la imponga all'ordine del giorno.
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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale
Stagione 2, episodio 2: il falò delle vanità
di Sandro Moiso
Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)
“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]
Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) scienza. Successivamente i ritardi nelle consegne, gli ingarbugliati (a dir poco) contratti firmati dall’Unione Europea con le ditte produttrici, il malfunzionamento degli apparati sanitari preposti e l’incompetenza delle amministrazioni locali, basata su anni di tagli della spesa per la salute dei cittadini e di prevaricazioni politiche in nome dell’interesse privato sbandierati come “eccellenza sanitaria”, hanno finito col fare più danni di qualsiasi protesta No Vax1.
Come se ciò non bastasse anche il nazionalismo economico si è ritagliato il suo spazio vitale nella corsa ai vaccini così che, nonostante la contrarietà manifestata da numerosi virologi ed esperti (o almeno presunti tali)2, anche il governo italiano, insieme al suo commissario straordinario Arcuri, ha deciso di investire in patria per sostenere quello della Reithera, di cui non si conosce assolutamente il grado di efficacia e la cui prima consegna è stimata per l’autunno di quest’anno. Ma si sa…piatto ricco mi ci ficco!
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Vaccini Covid e il paradosso del calabrone
di Leopoldo Salmaso*
Secondo alcuni ingegneri aeronautici il bombo non può volare, però il bombo non legge le loro pubblicazioni e vola lo stesso.
Secondo Pfizer & C. il ‘vaccino’ a RNA messaggero non può modificare il genoma, però il ‘vaccino’ non legge i comunicati di Pfizer e…
Anzitutto alcune precisazioni:
P1. Il proverbiale calabrone non è un calabrone ma un bombo (Bombus terrestris) su cui un secolo fa Antoine Magnan e altri (1) scrissero che non poteva volare in base ai loro studi di aerodinamica.
P2. Il paradosso non è un paradosso, tanto che Magnan dovette correggere i propri studi invece che ‘correggere’ i bombi.
P3. il cosiddetto ‘paradosso del calabrone’ è diventato proverbiale per indicare la presunzione di tanti ‘apprendisti stregoni’ che pretendono piegare la Natura alla loro visione ultra semplificata della realtà.
Con tali premesse, mi propongo di illustrare perché e come un vaccino a mRNA si può comportare come i bombi, ignorando i comunicati Pfizer.
Per sviluppare il contraddittorio, propongo al lettore di proseguire con una fiction processuale:
A (Avvocato accusatore): Chiamo a deporre il dottor Leopoldo Salmaso… Dottore, dica brevemente le sue qualifiche, in particolare per farci capire la sua posizione riguardo ai vaccini.
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Mario Draghi: la politica dei padroni
di Redazione
La crisi istituzionale aperta da Matteo Renzi ha avuto come conseguenza il conferimento a Mario Draghi dell’incarico di formare un governo “istituzionale” da parte del presidente della Repubblica. Dopo un giro di consultazioni, in corso proprio da questa mattina a Montecitorio, con partiti e parti sociali Draghi stesso salirà di nuovo al Colle e per decidere se sciogliere o meno la riserva ed iniziare dunque un nuovo esecutivo che subentri al Conte II.
Quella del governo “istituzionale” è una strada che è stata spesso percorsa nel passato recente. Ciò che mostra la storia recente è che in momenti cruciali e in vista di scelte di importanza strategica la ritualità della politica cessa e si decide di fare affidamento sul tecnocrate a disposizione in quel preciso momento storico: governo Ciampi (ex-presidente della Banca d’Italia) in seguito a Tangentopoli, governo Dini (anch’egli ex-governatore della Banca d’Italia) e conseguente riforma del sistema pensionistico ed infine il governo Monti (presidente della Bocconi e già commissario Europeo per l’Italia), nato su l’incapacità politica del governo Berlusconi IV di attuare le riforme volute dall’UE (si pensi a quella che poi sarebbe diventata la legge Fornero).
In questo senso il filo conduttore dei governi tecnici, o sedicenti tali, è quello di avere a capo una personalità di garanzia del sistema capitalista italiano, una personalità riconosciuta solitamente anche a livello internazionale (come nel caso di Monti).
Per questo motivo, l’incarico conferito a Mario Draghi non è assolutamente una novità. Lo è invece la situazione economica in cui versa il Paese. La pandemia da Covid-19 ha riportato il paese a livelli di crescita paragonabili a quelli del 19951, e con lo sblocco dei licenziamenti prossimo venturo l’Italia si appresta a vivere una stagione di tensioni sociali potenzialmente esplosive.
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Dopo Conte, l'avvento dei Draghi. La marionetta Renzi, gli USA e la Cina
di Fosco Giannini*
Nel rapporto di collaborazione che si è costituito tra il nostro giornale e “Cumpanis” pubblichiamo, come anticipazione, il prosssimo editoriale di Fosco Giannini per “Cumpanis”
Crisi e caduta del governo Conte, incarico a Draghi e ruolo di Renzi. Nel provincialismo dilagante della “cultura” politica italiana, in pochissimi alzano gli occhi per vedere da che parte è venuta la spinta reale e determinante affinchè un nuovo scenario politico si determinasse nel nostro Paese. Renzi - nella “distrazione” generale, nella cecità di chi crede che un’Italia dominata politicamente dall’imperialismo USA, occupata militarmente dalla NATO e genuflessa ai voleri neoimperialisti dell’Ue sia un Paese libero e autonomo - è eletto a deus ex machina, a grande giocatore di poker, al nuovo principe machiavellico in grado di determinare sia il caos che il suo conseguente e nuovo ordine politico in Italia. E’ vero che i dirigenti di Italia Viva avevano già chiaramente anticipato, ben prima che Mattarella desse l’incarico esplorativo a Fico per un nuovo governo dopo il Conte 2, l’avvento di Draghi. Ma ciò sta solo a dimostrare quanto Draghi fosse già, e da tempo, l’uomo del vecchio ordine imperialista e capitalista, nordamericano ed europeo, quanto quest’ ordine abbia lavorato contro il governo Conte 2 e a favore di Draghi, e non sta certo a dimostrare quanto Renzi sia l’architetto del nuovo quadro politico italiano. La stessa demonizzazione, da parte di quella vasta area politica liberista della quale il PD è sicuramente il massimo rappresentante, di un Renzi quale cinico distruttore del governo Conte, è funzionale a sorreggere l’idea di un’Italia “autonoma”, priva di padroni, libera dagli USA, dalla NATO e dall’Ue, un Paese nel quale, purtroppo, possono però spadroneggiare dei corsari politici come Renzi.
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Cina. Il nodo del socialismo, dalla conquista del potere alla costruzione della società
di Francesco Piccioni
Un pianeta poco conosciuto, molto favoleggiato. Siamo stati tutti maoisti, almeno per giorno, ma non è che sapessimo molto di più di quanto scritto da Mao nei suoi libri (o anche solo nel “libretto rosso”). Qualcuno ha approfondito, certo, ma “la massa” dei militanti si fermava alle parole d’ordine generali.
Il movimento comunista in Occidente d’allora, e soprattutto il movimento del ‘68, si accontentava di trovare un’alternativa appassionante, stante l’insofferenza per il “socialismo reale” brezneviano.
Ovvero, le “guardie rosse”, “bombardare il quartier generale”, “potere alle masse” e non alla burocrazia.
Una ricezione molto ideologica, per forza di cose. Non del tutto sbagliata, ma indubbiamente parziale.
Poi la rottura dell’incanto: la morte di Mao, il ritorno di Deng, “arricchitevi”. La delusione che produce disinteresse. Di lì uno sguardo sempre più distratto su quel pianeta, considerato ad un certo punto “acquisito al capitalismo”.
Il lento ritorno all’analisi è parallelo alla crescita di rilevanza economica e tecnologica.
La pandemia e la crescita dei consumi hanno costretto tutti a riflettere nuovamente. A porsi domande, prima di sparare risposte piene di nulla.
La prima cosa su cui bisognerebbe riflettere seriamente è la differenza essenziale tra la lotta per la conquista del potere politico e la successiva costruzione della società. Quanto a tipo di partito, tipologia dei quadri, competenze utilizzabili, pianificazione dell’azione, priorità nel rapporto avanguardia-masse. Fare i guastatori del sistema dominante e gestirne/costruirne un altro, anche intuitivamente, sono mestieri differenti.
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Per una politica economica critica: il capitalismo contemporaneo secondo Emiliano Brancaccio
di Vincenzo Bello
La questione dei vaccini, dalla loro produzione esigua ai ritardi nella distribuzione da parte delle multinazionali e, prima ancora, la pandemia del Covid-19 con la sua gestione, politica ed economica, hanno messo in evidenza le contraddizioni del mondo capitalistico, in particolare quella tra profitto e diritto alla salute, ovvero tra interessi del capitale e democrazia. D’altronde non ci si può aspettare nulla di diverso da un sistema basato sulla pura logica di mercato in cui la determinazione delle quote di vaccini e il loro prezzo viene regolato sulla base della concorrenza e delle forze di mercato. In questo solco si inserisce anche l’affermazione di Letizia Moratti, che vorrebbe distribuire il vaccino in proporzione al PIL. È la ricchezza il criterio che stabilisce la distribuzione dei vaccini.
Non sarebbe possibile e necessaria una produzione pubblica del vaccino? Il diritto alla salute è o non è più importante del profitto privato? Esiste davvero un trade off tra salute e produzione, il cosiddetto trade off pandemico? E se sì, come può essere superato[1]?
Sono domande tutt’altro che retoriche, perché ci costringono a prendere atto della fase attuale del capitalismo storico e ci pongono dinanzi alla necessità di uscirne.
Il capitalismo costituisce l’oggetto di studio dell’economista Emiliano Brancaccio, marxista, quindi eretico secondo l'orizzonte del pensiero dominante. I suoi scritti rispondono all’urgente bisogno di analizzare le contraddizioni delle teorie mainstream dell’economia e, a partire dalla critica a queste ultime, elaborare visioni alternative.
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Adorno, la destra radicale e la democrazia totalitaria
di Thomas Meyer
L'ascesa del populismo di destra in questi ultimi anni, richiede una spiegazione. Più volte, in diversi momenti, è stato sottolineato che i movimenti di destra degli ultimi anni non cadono semplicemente dal cielo, ma devono essere visti nel contesto del neoliberismo e delle sue convulsioni sociali di questi ultimi decenni. Secondo Wilhelm Heitmeyer [*1], l'autoritarismo, così come viene espresso e rivendicato dai populisti o dai radicali di destra, si trova già racchiuso e contenuto nel neoliberismo, il quale si presenta sempre come senza alternativa. L'erosione dei processi democratici, la liquidazione della rete sociale, il potenziamento dello Stato di polizia, la fondamentale insicurezza sociale e la resa immediata dell'individuo agli imperativi della valorizzazione del capitale rendono evidente l'autoritarismo del regime neoliberista [*2]. Infine, ma non meno importante, la quota percentuale verificata della popolazione che ha una visione razzista del mondo, è aumentata costantemente nel corso degli anni. Di conseguenza, oggi abbiamo un alto potenziale di «misantropia centrata sul gruppo» che non è affatto una novità degli ultimi anni. [*3]
Le strategie di destra puntano a «spostare i confini di ciò che può essere detto». Indubbiamente, anche la «borghesia volgare» (Heitmeyer) ha contribuito a questo, come appare chiaramente nelle opere di Sloterdijk [*4] e di Sarrazin [*5]. Come scrive Heitmeyer, è «un fatto che, sotto un sottile strato di maniere civili e gentili ("borghesi") si nascondono atteggiamenti autoritari che diventano sempre più visibili, generalmente nella forma di una retorica sempre più rabbiosa» [*6].
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Le ragioni della forza della frazione di Bordiga
di Eros Barone
Come si desume dalla lettura del Manifesto ai lavoratori d’Italia, pubblicato dal Comitato Centrale del Partito comunista d’Italia il 30 gennaio del 1921, quindi pochi giorni dopo la scissione dal Partito socialista italiano e la conseguente costituzione del PCd’I, la forza della frazione bordighiana e la ragione del primato che conquistò nel Partito comunista appena costituito derivano da una ideologia rigorosa, coerente ed intransigente, tale da conseguire il successo nel momento in cui occorreva tagliare i nodi. Tutto il pensiero di Bordiga si condensa in un concetto-cardine del marxismo: lo Stato è l’organo della dittatura di una classe, occorre dunque abbattere lo Stato borghese con la forza e sostituirgli la dittatura del proletariato. La dottrina della rivoluzione è dunque racchiusa in questo sillogismo: non esiste un altro modo di fare la rivoluzione né di avvicinarsi ad essa.
Il movimento sindacale, che tende a soluzioni parziali dei problemi che nascono tra la borghesia e il proletariato, ha solo un valore limitato di organizzazione e di propaganda, e solo a questo titolo il partito se ne interessa e vi interviene. La partecipazione al parlamento è dannosa, perché sottrae energie alla rivoluzione proletaria e le impiega invece a valorizzare un organo che deve essere distrutto come organo principale del potere borghese. Strumento della rivoluzione è, dunque, solo il partito politico del proletariato e al suo rafforzamento deve essere dedicata tutta l’attività dei comunisti fino alla presa del potere. La individuazione della pura essenza della rivoluzione proletaria nella lotta frontale tra borghesia e proletariato è ciò che rende attuale la lezione di Bordiga nella situazione odierna, in antitesi alle deformazioni, alle mistificazioni e alle falsificazioni della teoria marxista-leninista perpetrate dal riformismo, teorizzate dal revisionismo e favorite dall’opportunismo, con tutti i gravi cedimenti rispetto al potere borghese che da esse sono inevitabilmente derivati nel pensiero e nell’azione del movimento operaio.
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Next degeneration EU
di Sergio Cesaratto
Il cosiddetto Recovery Fund è il Convitato di pietra della crisi di governo, come scusa di litigio o oggetto di appetito politico. La sua importanza è solo relativa, date le sue ridotte dimensioni finanziarie, la sua tempistica inadeguata, l’impronta europea sui contenuti ben lontana da una organica politica industriale per il continente, i contenuti sociali sospesi fra ipocrisia, demagogia e velleità. Il Recovery Fund appare così inadeguato sia come sostegno alla domanda aggregata che alla capacità industriale italiana (ed europea). Avanzeremo qui alcune osservazioni sul documento del governo italiano (Piano di Ripresa e Resilienza dell’Italia, PNRR – 12 gennaio 2021) [1] ricordando che Il Piano dovrà essere presentato in via ufficiale entro il 30 aprile 2021.
1. Assenza di analisi a monte e a valle
I mali dell’economia italiana vengono da lontano.[2] Il miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta non risolse le problematiche storiche del Paese: in senso spaziale essendo stato concentrato nel nord-ovest, con successive estensioni nel nord est e, temporaneamente, nella fascia nord adriatica; in senso occupazionale in quanto la limitata industrializzazione non ha assalito le sacche di disoccupazione meridionale, femminile, giovanile, e la sottoccupazione nel terziario parassitario; in senso tecnologico mancando negli anni settanta-ottanta il salto dalle produzioni meccaniche a quelle più elettroniche; sul piano sociale facendo mancare un moderno riformismo verso le classi lavoratrici, a favore dell’inclusione clientelare. Dalla fine degli anni sessanta, il mancato riformismo e lo iato fra le aspettative di consumo e l’insufficienza della torta da spartire ha esacerbato il conflitto sociale fra capitale, lavoro e i topi nel formaggio, con una ricaduta su un uso inefficiente della spesa pubblica e la tolleranza dell’evasione fiscale.
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Passi avanti nel controllo delle imprese digitali
di Vincenzo Comito
Improvvisamente ai due lati dell’Atlantico e anche in Cina le autorità hanno dato vita a iniziative, o almeno dichiarazioni, per regolamentare lo strapotere dei giganti del web: Google, Facebook, Apple e Amazon. Ma i Gafa preparano la controffensiva con azioni di lobbying
Sono molti anni che si discute ai due lati dell’Atlantico della necessità di introdurre adeguate forme di controllo sulle imprese digitali, che intanto crescono in dimensioni e potere. Le più grandi tra di esse, tutte statunitensi o cinesi, hanno raggiunto ormai valutazioni in Borsa di dimensioni enormi: la Apple, solo per fare un caso, vale ormai quasi 2.000 miliardi di dollari. Esse sono fonte di problemi crescenti su moltissimi fronti: su quelli della tutela della concorrenza, della gestione dei dati, del controllo dei contenuti, delle questioni fiscali, della dimensione etica delle scelte, del lavoro, infine di quello politico più generale. Per molti in Occidente appare essere in gioco la stessa democrazia.
Negli ultimi mesi, per la verità, è partita all’improvviso e con grande clamore una campagna per interventi decisi, sia in Occidente che in Cina. Ma i giganti del settore hanno tanto denaro e tanti dati a disposizione che, forse, è molto difficile che siano seriamente infastiditi, almeno in Occidente (Livni, 2020). Comunque il quadro appare differente tra un’area e l’altra.
Le autorità cinesi, quali che siano le loro motivazioni, stanno facendo sul serio nel tentativo di porre sotto controllo i grandi gruppi digitali e si stanno muovendo con grande rapidità e decisione nell’esecuzione, forse fin troppo.
Le situazione per quanto riguarda gli Stati Uniti e l’UE appare differente e un recente articolo apparso su The Economist, aveva a questo proposito il significativo titolo di “credibility gap” (The Economist, 2020).
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Per un nuovo protagonismo dei comunisti in Italia
di Ascanio Bernardeschi
Lo scopo di questo contributo non è una ricostruzione storiografica delle vicissitudini attraversate dal Pci nel corso della sua esistenza ma quello di partire da alcuni snodi di questa storia per trarne alcune lezioni utili per il presente. Tuttavia, ai fini di questa riflessione mi pare utile un sommario richiamo a tali snodi, consapevole del rischio di tediare i tantissimi compagni per i quali un tale sunto appare superfluo.
A seguito del grande evento della rivoluzione di Ottobre, ma anche della sconfitta dell’occupazione delle fabbriche, favorita sia dalla linea opportunista dei riformisti che dall’incapacità di direzione politica dei massimalisti, Antonio Gramsci e il gruppo dirigente che lo circondò intesero a costruire un partito in cui la solida impostazione teorica e l’internazionalismo proletario si sposassero con la presenza attiva all’interno delle classi lavoratrici, con un’organizzazione ferrea e con l’iniziativa politica. La pratica del centralismo democratico, l’idea della costruzione del partito prioritariamente nei luoghi di lavoro all’interno dei quali introdurre forme di democrazia consiliare, l’approntamento di strumenti di comunicazione e propaganda idonei – considerate l’epoca e la situazione – erano funzionali a questo molteplice compito.
Perfino negli anni bui della clandestinità sotto il regime fascista, in quelle durissime condizioni, non venne meno tale impegno e il Partito riuscì ad aderire, nei limiti consentiti dalla situazione, alle pieghe della società e a costruire un reticolo di cellule in cui l’iniziativa politica, quale per esempio la diffusione della stampa clandestina, si abbinava alla formazione dei quadri. Lo stesso carcere fu per molti l’“università” che permise di far crescere quadri dirigenti di grande valore.
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The Great Reset: una nuova rivoluzione passiva
di Geminello Preterossi
Da un po’ di tempo si sente parlare di Great Reset. Che non si tratti di un’invenzione di complottisti, da liquidare con autocompiacimento, lo testimonia il fatto che al tema è stato dedicato di recente un libro, di cui è autore, insieme a Thierry Malleret, Klaus Schwab, non proprio l’ultimo scappato di casa, visto che ha fondato il World Economic Forum di Davos (di cui è attualmente direttore esecutivo), cioè il “club” che raccoglie i più ricchi e potenti del mondo. “Great Reset” è, non a caso, il tema del convegno annuale di Davos appena concluso (svoltosi quest’anno rigorosamente da remoto). Al progetto, il Time ha dedicato qualche mese fa la sua copertina. Ma cosa si intende, precisamente, con questa parola d’ordine? Se leggiamo il libro di Schwab e Malleret, nonché i contributi da tempo presenti sul tema, sul sito del Forum e altrove, possiamo farcene qualche idea, non proprio rassicurante.
L’impressione è che si tratti di una grande operazione di controffensiva egemonica, rispetto ai movimenti di protesta anti-establishment cresciuti nell’ultimo decennio, per effetto del crollo finanziario del 2008, e alla crisi di consenso che ha investito il finanzcapitalismo e la globalizzazione, producendo un disallineamento tra masse e rappresentanza politica. Per certi aspetti, è un’operazione ideologica preventiva, volta cioè a evitare che dalla pandemia sorgano ricette e sensibilità che recuperino sul serio la centralità dello Stato e della politica nella loro autonomia, rimettendo in campo il conflitto sociale e politiche di programmazione in grado non solo di redistribuire, limando i profitti, ma anche di orientare a fini pubblici, collettivi, l’economia, all’insegna ad esempio dei principi del costituzionalismo sociale e democratico.
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L’annichilimento dell’essere sociale e l’ontologia fantasma
di Pier Paolo Dal Monte
Scrisse l’imperatore Artaserse nel suo testamento al figliolo Shapur:
La popolazione deve sempre essere occupata. Quando non ha lavoro, quando langue nell’inazione, inizia a criticare l’operato dell’autorità. Questo porta alla formazione di gruppi e conventicole che, con agende diverse, si oppongono al Re […] Pertanto il Re deve vigilare sulle conventicole¹.
Questo è ancora oggi uno degli arcana imperii cruciali: è necessario scongiurare il pericolo che si formino le conventicole per impedire che si possa affermare un sensus communis diverso da quello che scaturisce dai mezzi di manipolazione di massa e dagli onnipresenti dispositivi elettronici che fabbricano la realtà fantasma. Perché non deve poter esistere altra realtà all’infuori della verità auto-veritativa che impone chi controlla il mondo fantasma.
È indispensabile evitare che le persone interagiscano tra loro, scongiurare il pericolo ch’esse possano confidarsi reciprocamente, magari esprimendo dubbi sulla realtà fantasma, della quale vengono continuamente nutrite, che possano coltivare lo scetticismo nei confronti della fiaba dei nostri tempi. E, per fugare questo pericolo, occorre cancellare il mondo reale, perché, si sa, la gente mormora e potrebbe farsi sfuggire non solo che “i fatti hanno la testa dura” ma, soprattutto, che “pancia vuota non vuole consigli”.
Questo mormorio incontrollato potrebbe scoperchiare il vaso di Pandora e far trapelare ciò che gli arcana imperii tengono gelosamente celato: se non è possibile riempire le pance vuote², o ammorbidire la testa dei fatti, allora occorre abolire i fatti. Se la realtà contraddice il racconto, allora è necessario cancellare la realtà e tessere un velo di fattoidi che ricopra interamente il reale, sostituendone l’immagine.
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Niente sarà più come prima
Scenari ambivalenti del post-Covid
di Marco Valisano
1. Introduzione
Il fenomeno Covid-19 ha dato vita, negli ultimi mesi, a una letteratura fiorente e piuttosto variegata. Se ne può capire bene il perché. Oltre all’impatto sociale, economico e politico che il virus ha avuto a livello globale, l’occasione è stata ed è ghiotta per affrontare temi di antica data o per mettere alla prova le teorie più svariate, come quella relativa allo stato di eccezione permanente in cui vivremmo (Agamben 2020) fino a più vaste tematiche di biopolitica (De Carolis 2020), di politica ambientale, di politica economica (Dalla Vigna 2020; Di Cesare 2020; Marchetti-Romeo 2020; Chomsky 2020); c’è chi ha insistito sulle conseguenze di rottura della pandemia (Harari 2020), chi invece ha sottolineato i tratti di continuità (Houllebecq 2020).
Gli individui isolati l’uno dall’altro e costretti in cattività durante il famigerato lockdown hanno poi fornito ulteriore materiale per le analisi e i consigli dei life coaches, categoria professionale che spopola ormai da diversi anni. Si possono trovare libri e opuscoli che distribuiscono ricette costellate di rituali quotidiani per cavarsela meglio nella situazione di isolamento o per riuscire, finita questa emergenza di cui in realtà non si vede la fine, a ritrovare un equilibrio e tornare a una vita normale (cfr. Ter Kuile 2020; Wilson Guttas 2020).
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Retroscena di un paese “commissariato”, da dieci anni
di Sergio Cararo
L’incarico a Mario Draghi di formare il governo non è stata una sorpresa. Era esattamente il coniglio che le classi dominanti italiane ed europee da mesi volevano tirare fuori dal cilindro facendo fuori il governo Conte, sia nella prima che nella seconda versione.
Esattamente dieci anni dopo, Mario Draghi è tornato così a commissariare dall’alto il nostro paese. Lo aveva fatto nel 2011, firmando il 5 agosto una lettera come presidente entrante della Bce che costrinse Berlusconi alle dimissioni, portò Monti al governo e introdusse misure odiose e antipopolari come la Legge Fornero sulle pensioni e i licenziamenti, l’art.81 in Costituzione, i tagli feroci alla sanità.
Dieci anni dopo è tornato sul luogo del golpe e viene presentato come l’uomo della salvezza per gestire il Recovery Fund, evitare di lasciare il paese senza un governo in un momento d’emergenza e mettere insieme un po’ di classe politica meno cialtrona di quella vista dal 1992 a oggi ( e qui ha poco o niente da scegliere).
Ma perché, quando e come hanno cominciato a fare le scarpe a Conte e preparato il terreno al Commissario Draghi?
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Pilastro Draghi
di Matteo Bortolon
Da anni si parla di Draghi come candidato alla presidenza del Consigli dei ministri, con appoggi abbastanza trasversali.
Negli anni Draghi ha collezionato anche una discreta schiera di oppositori, che lo vedono come il braccio dei poteri forti, ancella del neoliberismo e dei poteri privatistici.
I fatti in relazione ai quali viene più criticato sono : il processo di smantellamento delle aziende di Stato dei primi anni Novanta, la sua aderenza a Goldman Sachs al volgere del secolo, e la famosa lettara scritta ad agosto 2011 assieme all’allora governatore della BCE Trichet.
Il novero di tali eventi, che riesce ad attirarsi le critiche tanto dell’area di sinistra anticapitalista che di populismo identitario, presenterebbe già da sé un bilancio impietoso, ma posti così sembrano un mosaico incompleto, come l’identità di qualche figura del mondo antico di cui ci sono rimasti alcuni provvedimenti e documenti, ma il cui volto resta nascosto e solo con la perizia della ricostruzione storica si tenta di colmare i vuoti.
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Draghi, il pilota automatico dei mercati
di Marco Bersani
"L’Italia è in guerra. Ha un comando e degli alleati. L’attende, non si sa quando, un dopoguerra molto difficile, dato che era entrata in guerra già in condizioni di debolezza cronica. (..) oggi vi sono ragioni eccezionali per non curarsi troppo dell’aumento del debito, ma presto verrà reintrodotta una disciplina di disavanzi e debiti pubblici, e noi più di altri arriveremo a quell’appuntamento dopo l’impennata di questi anni; inoltre, la «revisione strategica» della politica della Bce, che Christine Lagarde ha avviato, difficilmente permetterà di fare affidamento a lungo sulla possibilità di finanziare a costo zero il disavanzo italiano”.
Sono le parole con le quali, non più tardi di due settimane fa, il senatore Monti, fratello gemello per via paterna -Goldman Sachs- del neo incaricato Mario Draghi, esprimeva una stiracchiata fiducia all’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.
Più che una dichiarazione di fiducia, le parole di Monti sono sembrate un viatico all’avvicendamento, che da ieri è divenuto realtà con l’incarico a Mario Draghi a formare un governo, e la conferma di come ad ogni crisi corrisponda un commissariamento della politica e della democrazia (così fu con Ciampi dopo tangentopoli e con lo stesso Monti dopo la crisi finanziaria del decennio scorso).
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Il “partito di Draghi”: chi lo sponsorizza tra Usa, Europa e Vaticano
di Andrea Muratore
Mario Draghi ha accettato l’offerta di Sergio Mattarella per formare un esecutivo di alto profilo capace di dare al Paese le risposte alle crisi lasciate aperte dal governo Conte II sul fronte politico, economico, sanitario. Una mossa, quella del presidente della Repubblica, che può essere letta sotto diverse prospettive. In primo luogo come l’iniziativa personale che ai sensi della Costituzione gli è garantita una volta esauritasi la fase di consultazione tra le forze politiche che ha mostrato l’incapacità di M5S, Pd, LeU e Italia Viva di confermare la loro alleanza. In secondo luogo, come una presa di posizione discrezionale rispetto alla possibilità di elezioni anticipate, che il Quirinale intende riservarsi come extrema ratio. In terzo luogo, poi, come la speranza che Draghi, prendendo il posto di Conte, possa garantire la leadership necessaria a federare un programma comune.
C’è però un aspetto fondamentale del processo di nomina di Draghi che è legato a dinamiche non completamente connesse al contesto italiano, ma che richiamano importanti scenari internazionali.
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SuperMario, e il porto sicuro in cui approdò il Titanic
di Simone Luciani
Abbiamo un vincitore, ed è «La Stampa». Nel rito pagano dei Baccanali in onore del tecnico che arriva e salverà (indubbiamente…) il Paese, nella zuccherosa, colesterolemica orgia di ritratti e bozzetti in lode del deus ex machina della tragedia (amara, invece, amarissima) di un’Italia lacerata a livello sanitario, economico, sociale e psicologico, per distacco è il quotidiano torinese, già della famiglia Agnelli, già di De Benedetti, di nuovo della famiglia Agnelli, a sbaragliare la concorrenza e stendere gli avversari con una combinazione montante-jab-montante cui nessun organo di stampa potrebbe resistere.
E sì che i giornaloni ce l’hanno messa tutta, nella gara a portare l’omaggio più gradito. Non uno che manchi all’appello, in biografie a tutta pagina che somigliano a un elenco di trofei degno delle teche in vetro del Barcellona. Una laurea con Caffè di qua (chissà che direbbe, a proposito…), un dottorato di là, una medaglia su, un civil servant di giù, il whatever it takes che troviamo a pagine unificate praticamente ovunque.
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Il giorno della marmotta: il ritorno dei tecnici
di Lorenzo Zamponi
Dieci anni dopo Monti, con Mario Draghi torna il «governo tecnico», una specialità italiana che segna l'ennesima morte della politica. L’élite economica prova così ad apparecchiare la tavola per gestire in modo diretto i soldi in arrivo dall’Ue
Il due febbraio è il giorno della Candelora, quando per tradizione si dovrebbe poter prevedere la fine dell’inverno. È il «giorno della marmotta» in cui è ambientato Ricomincio da capo, film del 1993 in cui il personaggio interpretato da Bill Murray è condannato a rivivere all’infinito la stessa giornata. Ed è parso a molti di rivivere le giornate dell’autunno 2011 quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, prendendo atto del fallimento del tentativo di ricomporre l’alleanza di governo tra Pd, M5S, Leu e IV, ha annunciato il varo di «un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica», e dato l’incarico di formare il nuovo governo a Mario Draghi, ex governatore della Banca d’Italia ed ex presidente della Banca centrale europea.
Si prospetta all’orizzonte un nuovo governo tecnico, a dieci anni dall’esecutivo guidato da Mario Monti. Il clima mediatico è sorprendentemente simile: a due ore dall’annuncio di Mattarella, già si leggevano e si sentivano lodi sperticate all’«uomo che ha salvato l’Europa e ora salverà l’Italia» e si agitavano scenari apocalittici in caso di fallimento dell’operazione, dal ritiro dei 209 miliardi di Next Generation Eu al ritorno del rischio di default. Con ogni probabilità nelle prossime ore la pressione dei mercati e delle cancellerie europee si farà sentire con forza, magari attraverso il solito meccanismo dello spread, in modo da convincere anche i renitenti, nell’opinione pubblica e in parlamento, ad appoggiare Draghi.
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Perché bisogna dire no a Draghi
di Alessandro Di Battista - TPI
Ognuno avrà la sua opinione su Mario Draghi e sulla crisi politica italiana. Ma oltre alle opinioni esistono i fatti. Elenchiamoli. La lenta costruzione di un governo caro alle élite nasce nell’estate del 2019 quando Renzi aprì al Movimento 5 Stelle solo per prendere tempo. Incassò un paio di ministri e subito dopo creò IV, preoccupandosi, ovviamente, di lasciare svariati “pali” renziani all’interno del PD. Se non ci fosse stata la pandemia la demolizione del Conte II sarebbe avvenuta mesi fa. Questa fu la ragione per la quale mi opposi ad un governo con il PD. Semplicemente non mi fidavo di Renzi e, soprattutto dei suoi ventriloqui. La Storia parla da sé.
Altro fatto incontrovertibile: tutto l’establishment italiano ha lavorato incessantemente per evitare che il Movimento 5 Stelle governasse liberamente. Ricordo lo spread ballerino all’inizio del Conte I, ricordo gli attacchi dei giornali, ricordo le fantasmagoriche inchieste sull’occultamento di frigorifero da parte del padre di Di Maio.
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Il drago che verrà
di Mauro Poggi
Ci aveva già provato nel 2018 con l’esiguo Cottarelli, ora pare che il presidente Mattarella ci voglia riprovare con il ben più sontuoso Draghi in odore di quirinalato.
Al di là della pretestuosità della motivazione ufficiale (la crisi economico-sanitaria), a impedire la naturale soluzione elettorale è la consapevolezza che l’esito segnerebbe un tracollo per i partiti che hanno sostenuto il Governo Conte 2 e “consegnerebbe il Paese alla destra”. Ne seguirebbe un governo inviso all’Europa, con prevedibili ritorsioni su Recovery Fund e spread.
Un concetto espresso in tutte le salse da vari autorevoli commentatori, ognuno incurante del fatto che questo modo di ragionare sancisce l’impressionante declino della ragione democratica, iniziato da quando il Paese si consegnò anima e corpo alle ragioni europeiste.
È probabile che l’ipotesi di un governo tecnico presieduto da Draghi goda già di ampio consenso in Parlamento: sarebbe strano che il Presidente della Repubblica commettesse lo stesso errore del 2018, quando cercò di imporre un nome che alla prova dei fatti nessuno voleva.
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