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Uscire dall’euro? C’è modo e modo
Emiliano Brancaccio con Chiose1[in rosso] di Antiper
Il tentativo di salvare la moneta unica a colpi di deflazione salariale nei paesi periferici dell’Unione potrebbe esser destinato al fallimento.
Brancaccio sembra attribuire la “deflazione salariale” (cioè la diminuzione dei salari che sta avvenendo nei “paesi periferici”) al tentativo di “salvare la moneta unica”. Ma qui sorge subito una prima questione: la politica della riduzione dei salari è davvero una novità dovuta alla “moneta unica” (ed al tentativo del suo salvataggio)? Nei paesi in cui non vige questa questa “moneta unica” (leggi Gran Bretagna o USA) la deflazione salariale non si è realizzata?
Ovviamente le cose non stanno in questo modo. La riduzione del salario è infatti un obbiettivo permanente di ogni capitalista visto che minore è la quota salari pagata e maggiore è la quota profitti incassata; e del resto, in Italia, la “politica dei redditi” – come fu eufemisticamente battezzata - ha avuto anche l'imprimatur della sinistra istituzionale e del sindacato di regime fin dalla lontana “svolta dell'EUR” del 1978: da lì in poi, imprese, sindacati e governi si sono coordinati neo-corporativisticamente per impedire l'aumento del salario dei lavoratori italiani che infatti è, oggi, lo stesso di 24 anni fa (nonostante la maggiore ricchezza prodotta in questi anni). La stessa “scala mobile” ovvero il meccanismo di adeguamento automatico del salario al costo della vita (e che oggi sarebbe tanto di aiuto per i lavoratori) venne introdotta soprattutto per impedire che l'aumento dei salari superasse quello dei prezzi e quindi che vi fosse una crescita della “quota salari”.
L’eventualità di una deflagrazione dell’eurozona è dunque tutt’altro che scongiurata.
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Il turbocapitalismo all’assalto dell’essenza della vita e dell’umanità
Riccardo Achilli
Introduzione
E’ una opinione che si sta consolidando, e che trova riscontro anche nei dati di mercato, che il capitalismo finanziario, in uscita dalla crisi, cerchi nuovi sbocchi di mercato ancora intonsi, sui quali ritagliarsi nuovi spazi. Ora, il mercato immobiliare, quello delle carte di credito e quello della spesa pubblica, sui quali questa sovrastruttura parassitaria ha fatto crescere, rispettivamente, la bolla del mattone, quella del debito privato e quella del debito pubblico, appaiono oramai non più sfruttabili. La speculazione borsistica, con la sua appendice riferita alla borsa tecnologica del Nasdaq, è oramai rischiosa, e largamente limitata dalle varie Autorità nazionali di Vigilanza. Così come quella sui tassi di cambio.
Quali spazi nuovi trovare, quali terre vergini aggredire per piazzare un cronico eccesso di offerta di capitali, che nel solo comparto degli investimenti di portafoglio, al netto delle riserve, raggiunge 1.174 miliardi di dollari nel solo anno 2007 [1], e che non può trovare sfogo soltanto sui mercati Otc dei derivati? Un campo ancora libero, dopo aver sfruttato merci e servizi? Quello dell’uomo in sé stesso, del suo corpo, della sua personalità, della sua umanità.
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Il Governatore Visco alle imprese: avete i soldi, cacciateli!
di Pasquale Cicalese
Ottimista, meno cupo dello scorso anno, anche se afferma che il 2013 è stato un altro anno duro. Keynesiano, non monetarista, fautore delle riforme strutturali (anche se non cita quelle del lavoro, ma della P.A.), ma non deflazionista. Invita ad una politica europea e nazionale espansiva, basata sugli investimenti nelle infrastrutture, di cui il nostro Paese risente della scarsità e che incide sulla produttività dei fattori produttivi, sulla ricerca e sull’istruzione. Ma in due passaggi sottolinea anche che è l’ora di implementare politiche di sostegno al reddito a lavoratori e famiglie, è la prima volta che da Banca d’Italia escono queste frasi. Sarà la crisi, sarà che vi è una disoccupazione spaventosa, sarà che abbiamo perso il 15% della capacità produttiva. Ma non è pessimista il napoletano: stanno affluendo molti capitali esteri, gli ordinativi nel settore manifatturiero sono buoni, l’export è ritornato ai livelli pre-crisi. Resta il crollo della domanda interna, da qui la sua svolta keynesiana, del resto lo stesso Draghi due mesi fa invitava gli europei a non fare la gara a chi più deflazionava i salari, ma a basare la strategia sugli investimenti.
Evidentemente Palazzo Koch avrà sussurrato qualcosa a Francoforte nell’ultimo anno. Già, ma dove trova il governo i soldini per sostegni al reddito e per investimenti? Da corruzione, criminalità ed evasione fiscale, il sistema trasversale fattosi governo negli ultimi vent’anni. Tradotto: rastrellamento di fondi dal capitale commerciale a favore del capitale industriale… E poi fondi europei, magari centralizzati, visto che il napoletano è per la semplificazione amministrativa che, tradotto, significa una cosa: il federalismo è stato una totale idiozia.
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Dialoghi con Georges Corm
Intervista di Lorenzo Carrieri*
Riportiamo qui di seguito un'intervista a Beirut con Georges Corm, economista, storico ed intellettuale libanese, professore presso la Saint Joseph University. Profondo conoscitore della realtà mediorientale e delle sue dinamiche, lo intervistiamo spaziando dalle primavere arabe al balance-of-power in medio-oriente, analizzando quella che è la questione sociale ed economica del mondo arabo, e per una critica delle categorie epistemologiche occidentali sul medio oriente.
D: Tempo fa abbiamo visto l'esplodere delle primavere arabe: di quelle esperienze cosa sopravvive oggi? Ha ancora senso, oggi, parlare di primavere arabe dopo il colpo di stato militare in Egitto (e in questi giorni la vittoria di Al-Sisi alle elezioni, segnate da un fortissimo astensionismo), la vittoria degli islamisti di Ennhada in Tunisia e il sempre crescente potere delle milizie islamiste in Libia?
Uno, nel breve termine, è tentato di essere pessimista guardando a cosa è successo. Ma non dobbiamo dimenticare che le primavere del 2011 sono un evento storico che può ancora produrre molte ondate di riflusso, una serie di tentativi rivoluzionari da parte delle classi sociali arabe: le rivolte del 2011 rappresentano un'impronta, un' inizio, all'interno del mondo arabo. Se guardiamo ad ogni rivoluzione, la russa, la francese, anche la cinese, ognuna di queste ha avuto le sue tappe, lo stesso sta accadendo nel mondo arabo: la rivoluzione non può darsi in 3 giorni, è un processo di lunga durata!
Credo comunque che gli eventi del 2011 siano importantissimi: essi hanno contribuito a ricostituire ciò che io chiamo “la coscienza collettiva araba”, che è qualcosa di totalmente differente e antagonista rispetto al modo in cui i paesi arabi sono stati governati.
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Vogliono tutto!
Un appunto su Confindustria, Bankitalia, Renzi e la fase post-elettorale
Clash City Workers
Queste giornate post-elettorali ci consegnano uno scenario politico quanto mai in fermento. E non ci riferiamo tanto al dibattito interno ai partiti, costretti a riconfigurare il loro intervento alla luce dei risultati delle Europee – pensiamo alle polemiche che stanno attraversando il Movimento 5 Stelle (su cui fanno pressione i media mainstream nella speranza che il giocattolo di Grillo finalmente si rompa), alle spinte “centriste” di SEL che vuole entrare nel PD, allo spostamento di Forza Italia verso la Lega etc…
Ci riferiamo piuttosto a una certa fibrillazione di tutti gli attori del mondo padronale che, preso atto del grosso score del PD di Renzi, su cui pure hanno investito un bel po’ in questi mesi, ora vogliono passare velocemente all’“incasso”. Consapevoli che elezioni europee hanno dato un consistente (per quanto a nostro avviso momentaneo) sostegno alle politiche dell'ex-sindaco di Firenze e al suo giovane governo del fare, ora vogliono tutto!
Ecco quindi che Confindustria e Bankitalia fra tutti vanno giù di analisi e prescrizioni che puntano a dare la linea al Governo, a spingerlo a intervenire sui campi più diversi, ed ecco che prontamente Renzi “traduce” alla direzione del PD di stamattina le loro volontà.
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Riflettendo su "Capital" di Piketty
di David Harvey
Pubblichiamo la traduzione del commento di David Harvey al tanto discusso “Capitale nel Secolo XXI” di Thomas Piketty. Harvey, con spirito critico e un'impostazione di ragionamento marxiana, ha il merito di evidenziare l'erronea concezione di capitale secondo Piketty – il capitale non viene inteso come processualità relazionale – e le contraddizioni che ne scaturiscono. In sintesi, l'amplio e ben documentato lavoro dell'economista francese offre una preziosa descrizione della diseguaglianza economica in chiave storica, ma non ne spiega né le ragioni immanenti né propone soluzioni politicamente viabili. Di sicuro, il fatto che il discorso sulla spropositata diseguaglianza strutturale abbia perforato il velo della comunicazione mainstream – libro best seller su Amazon, Piketty-mania tra giornalisti e commentatori, un terremoto dentro l'accademia egemonizzata dal pensiero neoliberista – è sintomatico di una nuova sensibilità diffusa e potenzialmente antagonista. Il merito non va tanto alla crisi finanziaria globale del 2008 quanto a Occupy e ai movimenti che dal 2011 in avanti hanno alterato la percezione collettiva, imponendo con forza il discorso “we are the 99%!”, rinnovando il concetto di lotta di classe in un tempo in cui la concentrazione della ricchezza non è storicamente mai stata così polarizzata.
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Di classe, quindi nazionale
Per una politica all’altezza dei tempi
di Mimmo Porcaro
In un paese abitato da gente meno disposta a farsi ingannare dalle evidenti bischerate dei propri governanti, le elezioni di fine maggio avrebbero visto non il 60, ma il 100% di affluenza e avrebbero premiato non col 40, ma col 50% e più un partito capace di dire l’opposto di quanto strombazzato dal trionfale, ma precario, vincitore di oggi.
Capace di dire, cioè, che l’Italia, se vuole interrompere la sua costante discesa, deve mutare la propria collocazione internazionale e trasformare decisamente i propri rapporti sociali. Deve uscire dall’Unione europea e dall’euro trovando nuovi partner e cercando anche (se possibile) di ricostruire l’europeismo su basi paritarie. Data la tirchieria del capitalismo nostrano e l’inaffidabilità dei capitali esteri, deve sostituire l’iniziativa pubblica all’inerzia privata, riappropriandosi del sistema bancario e nazionalizzando le più grandi imprese. Deve tornare alla repressione finanziaria e ad un ragionevole controllo del flusso dei prodotti, ma soprattutto dei capitali. Deve creare le condizioni occupazionali, salariali e giuridiche perché i lavoratori cessino di essere umiliati e divengano invece protagonisti attivi del processo produttivo, e quindi fonte di innovazione. Deve centralizzare molte delle competenze attualmente attribuite alle Regioni (che sono origine, come disse a suo tempo l’inascoltato Ugo la Malfa, di innumeri sprechi) e con i conseguenti risparmi finanziare un ammodernamento dell’apparato di stato fatto sia di occupazione giovanile sia di moduli organizzativi basati sull’interazione cittadini/amministrazione.
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La fabbrica della disperazione
di Alexik
Ci sono tradizioni Fiat (pardon, FCA) che sfidano lo scorrere del tempo, uniscono memoria e innovazione, fondano il “nuovo che avanza” su solide radici piantate nella storia. Sono la tradizione dei reparti confino, quella dei licenziamenti politici, della persecuzione degli operai più combattivi, delle espulsioni di massa.
E’ su questo know how, tutto orgogliosamente made in Italy, che la “fabbrica del futuro” di Marchionne produce ancor oggi uno dei suoi risultati di eccellenza: il progressivo annientamento fisico e psicologico sia di chi rimane nel ciclo produttivo, sia di chi ne è espulso.
L’annientamento degli espulsi, dei cassaintegrati, dei licenziati, è fatto di miseria, paura del futuro, mancanza di prospettive, di suicidio. L’annientamento di chi resta sulle linee è fatto di turni/ritmi/orari, di sudore ed infortuni, degli insulti dei capi, di umiliazioni sopportate in silenzio. Entrambi sono legati in un binomio indissolubile: la disperazione dei primi è garanzia della sottomissione degli altri.
A debita distanza dalla fabbrica vera e propria, come un lazzaretto di appestati, il reparto confino si erge a monito permanente per chi è rimasto in produzione: “puoi finire qui”, sembra dire. Ancor più che a punire i riottosi, esso serve a disciplinare la fabbrica.
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La torsione neoliberale del sindacato tradizionale e l’immaginazione del «sindacalismo sociale»
Appunti per una discussione
di Alberto De Nicola, Biagio Quattrocchi
Introduzione
Lo scopo di questi appunti è quello di stimolare una duplice riflessione. Assistiamo, oramai da lungo tempo, ad una profonda trasformazione della funzione del sindacato tradizionale. Con esso intendiamo le organizzazioni eredi del movimento operaio: come la forma sindacale confederale e le esperienze “cogestionarie” tedesche. Questa trasformazione sembra essere profondamente segnata da una torsione in chiave neoliberale del soggetto sindacale, divenuto “istituzione” attiva nel sistema della governance, al pari degli altri soggetti che in essa vi operano. In quanto tale, questa istituzione, sembra sempre di più introiettare quella razionalità governamentale tipica dell’impresa. Dal sindacato come soggetto autonomo per il conflitto sul salario, si assiste alla formazione di una organizzazione manageriale che svolge una funzione attiva nella segmentazione della forza-lavoro e nel processo di trasformazione del welfare.
Il contesto storico in cui questo processo sembra accelerarsi e giungere a compimento è quello della crisi e delle politiche dell’austerity. Le politiche fiscali restrittive e la ferrea disciplina di bilancio hanno momentaneamente raggiunto i risultati stabiliti: in termini redistributivi tra le classi sociali e nello stabilizzare alcuni rapporti di forza in Europa, tra le aree centrali e quelle periferiche.
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Gli ultimi giorni di Pompei
di Carlo Donolo
Gli ultimi giorni di Pompei sono sempre un grande spettacolo che ha il vantaggio di far coincidere attori e spettatori. Li abbiamo visti spesso al cinema in anni recenti, ma lo schermo è efficace solo nella misura in cui gli spettatori si identifichino con i protagonisti: si tratta di cose che ci riguardano. Pompei si presenta in varie forme: la guerra, il dissidio permanente e violento, la crisi ambientale e climatica, il disordine sociale endemico, la crisi economica, l’incidente puntuale ma sistemico a modo suo (come nel caso delle centrali atomiche). Inoltre e sempre di più la “catastrofe”, che poi è svolta, fatalità, metamorfosi, miscela di fine e inizio, si manifesta come incertezza oltre che come rischio. Questo lo conosciamo e ne stimiamo la probabilità, ce ne difendiamo con protezioni e assicurazioni. L’altra, invece, è un processo indefinito che si coagulerà in un indistinto futuro, in un tempo-spazio inconoscibili. Lo ignoriamo, però sappiamo solo che può avvenire. Questo getta un’ombra su tutta la vita sociale, che resta in attesa dell’evento improbabile, ignoto, ma certamente possibile. E, infine, solo per introdurre il tema “Pompei”, c’è anche tra i rischi percepiti e indefiniti quello del “declino”, letto come blocco del motore economico della crescita, come invecchiamento sociale, come necrosi culturale. Il declino riguarda non un tramonto dell’Occidente, ma un lungo processo che porta al decentramento dell’Europa, alla fine di questo baricentro politico e culturale, a favore dell’emergere di altre nazioni e di altre macroregioni.
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L’insostenibile leggerezza del PD
Fabrizio Marchi
E’ trascorsa una settimana dal voto europeo e mi sembra giusto cominciare a fare qualche riflessione relativamente a “freddo”, a bocce ferme, come si suol, dire, o quasi, sui risultati ottenuti dalle varie formazioni politiche. E’ bene iniziare dal risultato più eclatante e politicamente più rilevante (insieme alla sconfitta del M5S che però merita anch’essa una riflessione a parte) e cioè il trionfo del Partito Democratico in versione renziana
Andiamo per ordine.
Ho sentito in questi giorni molti osservatori ed analisti politici avanzare dei parallelismi tra il PD renziano e la vecchia Democrazia Cristiana. Sono solo parzialmente d’accordo, perché è vero che ci sono degli elementi che li accomunano ma è altrettanto vero, a mio parere, che la natura e in parte anche la “mission” dei due partiti sono profondamente diverse.
La Democrazia Cristiana, come il PD, era un partito interclassista che però, a differenza del secondo, operava una reale mediazione sociale. La conciliazione o il tentativo (in parte riuscito) di conciliazione fra le parti sociali e fra stato e mercato, costituiva il cuore e la natura di quel partito nonché il baricentro della sua azione politica.
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La dignità? che si fotta!
Franco Senia
Uno dei più importanti aspetti della critica, sviluppata dall'Internazionale Situazionista (IS), riguardava il problema della rappresentazione della classe operaia nelle lotte rivoluzionarie. Anche se la consapevolezza di tale problema, esisteva già fin dall'avvio del progetto, l'IS si concentra su di esso dopo il 1961, quando intraprende il suo periodo di attività che avrebbe portato agli eventi del maggio 1968. L'orientamento in tal senso, corrisponde all'arrivo nell'IS di un nuovo membro, Raoul Vaneigem, che più tardi sarà l'autore del "Trattato del saper vivere ad uso delle nuove generazioni" (1967), e col periodo immediatamente successivo allo sciopero generale in Belgio del 1960-61. Il fatto che Vaneigem provenga da un luogo e da un tempo specifico, il Belgio industriale del XX secolo, e che arrivi in questa storia in un momento particolare, è sempre stato trascurato dalla letteratura critica. Ma è attraverso questo contesto - il momento in cui emergono i problemi legati alla rappresentazione della classe operaia e alla rivoluzione - che può essere compreso il nuovo orientamento dell'IS, che porterà il gruppo ad influenzare gli eventi del maggio 1968.
Raoul Vaneigem, nato il 21 marzo del 1934 al n°9 di Rue des Carrières a Lessines, nella provincia di Hainaut, Belgio, era figlio unico di Marguerite Tilte e di Paul Vaneigem, operai.
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“Le Patriarche”
di Elisabetta Teghil
Non ci si adatta mai a questa società con il suo ordine stabilito fatto di oppressione, di gerarchia, di ingiustizia, di razzismo, di privilegi, tanto intollerabile quanto si constata che è talmente radicato nella nostra cultura che può apparire spesso accettabile e persino naturale.
La società patriarcale nelle modalità in cui viene subita è l’esempio più evidente di questa paradossale sottomissione. Un rapporto sociale particolarmente odioso che ci tocca tutte da vicino, che permea la società, ne è diventato un tratto distintivo conosciuto e riconosciuto da ognuna/o.
Sinora il perpetuarsi di questo rapporto di dominio risiedeva, non esclusivamente, ma per certi versi principalmente, in seno alla famiglia che, giustamente, ha catalizzato l’attenzione del femminismo, così come del resto in altre istanze quali la scuola e le istituzioni. Oggi, nella stagione neoliberista, la nuova frontiera del perpetuarsi della società patriarcale passa anche attraverso la cooptazione di donne che in cambio della loro promozione personale vendono le altre donne e svendono la lotta femminista. Per fare questo spacciano la loro promozione personale per emancipazione.
Non è emancipazione quando si fa il lavoro sporco di licenziare altre donne, quando si reprimono e si condannano, forti di una divisa e di una carica istituzionale, quando si giustificano le guerre umanitarie, non è emancipazione quando si partecipa alla medicalizzazione dell’esistenza delle altre donne, né quando si partecipa da posti di responsabilità negli ospedali, mimetizzate con un camice bianco, alla guerra alla 194. Non sono donne emancipate, sono Patriarche, la versione femminile di quegli odiosi maschi che sono stati e sono il puntello, i protagonisti e i fruitori della società patriarcale e che nel momento che hanno visto la terra tremare sotto i piedi hanno chiamato le loro alter ego al femminile.
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Il caso Grillo-Farage
Ovvero: bastona il cane finché non affoga
di Pino Cabras
Anche ai più smaliziati arriva solo la notizia che Farage sarebbe sessista, omofobo e razzista, un vero fascista albionico. Tutto falso, ecco perché
La Repubblica e il resto del coro del giornalismo in mano agli oligarchi italiani - ringalluzziti dalla recente vittoria elettorale del loro cavallo di razza, Matteo Renzi - continuano la loro campagna contro Beppe Grillo su un nuovo fronte, nato dai recenti colloqui del leader dei cinquestelle con Nigel Farage, capo del partito britannico UKIP. La campagna si concentra ora su questo partito, del quale i giornali non raccontano l'evoluzione né la storia, bensì riportano le frasi orribili pronunciate da suoi ex membri che sono stati espulsi proprio per quelle frasi.
Altre frasi inserite nella galleria degli orrori da esecrare sono invece ascrivibili direttamente a Farage. Il problema è che le sue dichiarazioni sono state tolte brutalmente dal loro contesto (di cui i media non forniscono alcuna chiave) e reinserite in un contesto nuovo che le contamina, una volta che sono associate alle frasi di coloro che Farage aveva espulso. L'effetto è distruttivo e non risparmia nemmeno i più smaliziati lettori, ai quali arriva solo la notizia che Farage sarebbe sessista, omofobo e razzista, mentre l'UKIP sarebbe una specie di partito fascista albionico. Gli stessi giornali, in questi stessi giorni, continuano a ignorare che il governo ucraino e i suoi nuovi apparati di sicurezza hanno forti componenti di partiti fascisti, gente che fa il passo dell'oca. Questi media: dove c'è fascismo, non lo vedono, e dove non c'è, lo vedono.
Sessismo nell'UKIP? Eppure, su 24 europarlamentari UKIP eletti nel 2014, si contano 7 donne, il 30 per cento, in parte candidate come capolista nelle circoscrizioni britanniche, e tutte con funzioni dirigenti di primo piano. È una media superiore a quella di molti partiti italiani di sinistra nella loro storia. La leader del movimento giovanile, Alexandra Swann, è un'oratrice efficace portata in palmo di mano nel partito.
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La resistibile ascesa di Matteo Renzi
di Leonardo Mazzei
Adesso c'è già chi parla di "nuova Dc" e di un "altro ventennio".
Secondo molti gli italiani, come se lo avessero scritto nel loro Dna, avrebbero trovato il moderno "uomo del destino". Si tratta, a mio modesto parere, di solenni sciocchezze. Sciocchezze che non è difficile confutare, senza per questo sottovalutare le gravi conseguenze immediate dell'indiscutibile vittoria del berluschino fiorentino.
Nel breve periodo Renzi potrà affondare con facilità i suoi colpi, accelerando ancor di più sulla legge elettorale, le controriforme costituzionali, le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro. Un bottino non da poco, che spiega l'entusiastico sostegno di tutti i principali centri del potere economico e finanziario.
Era questa la vera posta in gioco delle elezioni del 25 maggio in Italia, ed era principalmente per questa consapevolezza che ci siamo pronunciati per il voto al M5S. Non va dunque sottaciuta la portata della sconfitta subita: sconfitta politica con gravi conseguenze per la democrazia, che verrà pagata sul piano sociale dalle classi popolari.
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Europa, quando perseverare è ideologico
di Lelio Demichelis
Urge che il demos si riprenda il potere, uscendo dall’incubo della biopolitica/tanatopolitica neoliberale. Cercando, fuori dall’ideologia, un’idea virtuosa e umana di Europa
Un po’ di filosofia e di psicanalisi; spunti dalla riflessione di Hannah Arendt sul totalitarismo, ma applicandola al capitalismo; e Michel Foucault. Sono alcuni degli strumenti utili per capire la crisi di questa Europa.
Dal 2008 gli europei vivono un incubo che coniuga ideologia (il neoliberismo), autoritarismo (lo stato d’eccezione, i governi di larghe intese, il non poter votare e decidere), volontà di potenza (il capitalismo totalitario), moralismo religioso (protestante), inquisizione (cattolica), nichilismo (ancora il capitalismo), pulsioni libidiche e aggressive (l’austerità e il pareggio di bilancio). Secondo una colossale menzogna (sempre l’ideologia neoliberista), che ha prodotto (come ogni ideologia) altrettanto colossali meccanismi difalsificazione della verità e della stessa razionalità economica (l’austerità come via virtuosa per la crescita, mentre è una politica pro-ciclica che peggiora la crisi, non correggendone le cause). Il tutto emarginando ogni tentativo di fare parresia. Di dire ilvero contro la menzogna.
L’Europa (gli europei): in questo incubo l’hanno portata le sue classi dirigenti (sic!) e le oligarchie economico-finanziarie.
Non per un incidente della storia, ma perché la loro azione era ieri ed è ancora oggi finalizzata ad una trasformazione politica in senso antidemocratico e totalitario del potere; ed economica in senso definitivamente neoliberista. Suda, soffre, si impoverisce ma l’Europa subisce in silenzio questa ideologia neoliberista e questo collegato sadismo economico del capitalismo.
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Anatomia della scimmia antiberlusconiana
di Marco Bascetta
Tra le sue produzioni culturali più eminenti: la squisita prosa di Marco Travaglio; il narcisismo inquisitorio di Michele Santoro; la profondità filosofica di Michela Marzano; l'abbigliamento di Mario Monti; le lacrime di Elsa Fornero. Nonchè lo stile "smart" di Matteo Renzi
Il termine non è poi così antico. La sua fortuna risale al passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il suo ambiente ideale fu il craxismo in ascesa, la farlocca “modernizzazione” italiana, il patriottismo delle firme e della competitività, la retorica, perlopiù priva di fondamento, dell’efficienza e della razionalizzazione. Stiamo parlando di quella parola magica che da allora non ci ha più lasciato: la “governabilità”. Sono gli anni in cui la nuova ideologia italiana andava formandosi, travolgendo apparentemente ogni ostacolo o resistenza, accompagnata dal farfugliare tanto incomprensibile quanto osannato dello psicanalista milanese Armando Verdiglione e da un linguaggio capace di trasformare un amore in un “investimento affettivo”.
Ma che cosa voleva significare di diverso quella parola dalla pretesa di ordine sociale, di legiferare indisturbati e di rendere esecutive le leggi che è propria di qualunque governo? La governabilità guardava non al futuro ma al passato e cioè a quella lunga stagione di grande insubordinazione sociale, di rifiuto delle gerarchie e dei ruoli consolidati, di disobbedienza, di conflitto e desiderio di libertà che a partire dalla fine degli anni ’60 si era protratta per tutto il decennio successivo mettendo sotto pressione, e non di rado sotto ricatto, grandi e piccoli poteri. La stagione, in breve, dell’ingovernabilità alla quale, con ogni mezzo, si intendeva porre fine. Non che in quel decennio abbondante non vi fossero stati governi che governavano, produttori che producevano, profitti che si accumulavano, e perfino la rappresentanza politica godeva di una salute infinitamente migliore di quella comatosa in cui oggi versa.
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Odio il lunedì
Un racconto del dopo elezioni
Clash City Workers
Chi normalmente visita il nostro sito sa che difficilmente pubblichiamo commenti a caldo. Di solito preferiamo aspettare e analizzare le cose in modo scientifico. Se non si fa così si rischia di andare “a sensazione”, di rappresentarsi in testa tutto un mondo a misura del pezzo di realtà che si conosce… Questa volta però facciamo un’eccezione e abbiamo voglia di buttare giù anche noi qualcosa rispetto all’esito delle elezioni. Perché non ci convincono molte cose che abbiamo letto. Perché sentiamo che forse il pezzo di realtà che conosciamo da vicino ci può permettere di capire cosa è successo domenica…
A questo proposito, iniziamo con l’ammettere una cosa. A differenza di chi afferma che aveva già previsto tutto, noi non abbiamo problemi a dire che non avevamo alcuna certezza su quale sarebbe stato l’esito delle votazioni. Anzi: per noi il risultato è stato francamente sorprendente. Ma non per questo ci sentiamo stupidi: anche la stessa borghesia, che qualche strumento in più ce l’ha, sembrava abbastanza incerta. E se oggi è tanto tronfia è anche perché un exploit del genere non se l’aspettava.
Per noi svegliarci e trovarci difronte al trionfo del PD è stato veramente duro e ha reso questo lunedì di gran lunga peggiore degli altri. C’è da rimanere sconcertati nel vedere più del 40% dei votanti dare la preferenza al partito che ha storicamente iniziato, e in questi mesi sta conducendo, uno degli attacchi più violenti al mondo del lavoro che il proletariato italiano possa ricordare.
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Materialismo “contra” spiritualismo
Sigmund Freud e Jacques Lacan
Roberto Finelli
Lo spirito del tempo, lo Zeitgeist hegeliano, ci esorta con la durezza di una crisi che investe e travolge la materialità dell’esistere, con il riproporsi non più rimovibile delle richieste del realismo, a dare per conclusa l’epoca del postmodernismo, quale insieme di ideologie e di culture che hanno complessivamente teorizzato la cancellazione della realtà a favore dell’artefatto e dell’immateriale. Per circa un trentennio abbiamo assistito al dominio e all’egemonia di un atteggiamento generalizzato pronto a riconoscersi nella tesi che l’Essere si risolva in linguaggio, che l’essenza del filosofico consista nella decostruzione, che la verità sia questione solo di un’ermeneutica infinitamente aperta e che la gnoseologia del frammento e della differenziazione espelle qualsiasi istanza di sistema e di totalità. Ma per quello che mi interessa sottolineare in questa sede, riguardo al tema del mio intervento, la cultura del postmoderno ha significato soprattutto la dilatazione e la estremizzazione della dimensione dell’intersoggettività e dell’esposizione all’altro, maiuscolo o minuscolo che sia, per la rimozione o lo svalorizzazione di ogni nota di sintesi e d’identità nella strutturazione dell’individualità soggettiva[1]. Per questo, dopo l’estenuazione della cultura del postmodernismo, possiamo, io credo, ritornare, con maggiore consapevolezza, ai problemi centrali delle scienze umane, tra cui s’annovera, com’è ovvio, il tema della natura e della funzione dell’inconscio nell’opera di Freud, con specifico riferimento alla questione delle invarianze di contro alle trasformazioni che il pensiero del viennese sopporta durante il percorso della sua vita.
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Contro l’Europa delle banche e della finanza, ritorno allo Stato-nazione?
Claudio Valerio Vettraino
Da più parti oggi si evoca il ritorno allo stato nazione, alla sovranità nazionale economico-produttiva, bancaria e fiscale, come antidoto “autarchico” all’apparato sovra-nazionale (ma anch’esso – paradossalmente – nuovo e più allargato stato-nazione a 24) dell’Europa unita e della cosiddetta “troika”.
Come spesso accade, si ragiona sugli effetti e mai concretamente sulle cause delle importanti e decisive trasformazioni in atto.
L’unione europea, nata a Roma nel lontano 1957 con la CECA e che ha accelerato il suo processo di unificazione – primariamente economico e finanziario – dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, non è altro che il tentativo “disperato” delle borghesie e delle cancellerie europee di coalizzarsi – dopo secoli e secoli di guerre intestine e fratricide – nell’ottica strategica di contrastare (o quanto meno depotenziare, influenzare) l’ascesa dei famosi “BRIC” (Brasile, Russia, India, Cina, a cui oggi possiamo aggiungere Messico, Indonesia, Sudafrica, Corea del Sud, ecc.), per ritagliarsi un ruolo da protagonista nella nuova contesa mondiale che oggi, a differenza che nell’Ottocento e nel Novecento in cui sulla scena si muovevano i tradizionali stati-nazione, si gioca tra potenze di stazza continentale.
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Abbasso la democrazia occidentale! (Altro che urne elettorali!)
di Andre Vltchek
Uno spettro si aggira per l’Europa e per il mondo occidentale: questa volta è lo spettro del fascismo. E’ arrivato silenziosamente, senza grandi fanfare e parate, senza braccia levate e urla tonanti. Ma è arrivato, o è tornato, essendo sempre stato presente in questa cultura, una cultura che per secoli è andata schiavizzando il nostro intero pianeta.
Come successe nella Germania nazista, alla resistenza all’impero fascista è nuovamente attribuito in nome disgustoso: terrorismo. Partigiani e patrioti, combattenti della resistenza, tutti loro furono e sono sempre stati definiti terroristi da fanatici fascisti.
Secondo la logica dell’Impero, assassinare milioni di uomini, donne e bambini in ogni angolo del mondo all’estero è considerato legittimo e patriottico, ma difendere la propria madrepatria è stato ed è un segno di estremismo.
Tutto è fatto nel nome della democrazia, nel nome della libertà.
Un mostro non eletto, così come ha fatto per secoli, sta giocando con il mondo, torturando alcuni, saccheggiando altri, o facendo entrambe le cose.
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Chi (e come) ha veramente vinto in Europa?
Quarantotto
Vi propongo una serie di riflessioni "peculiari", cioè non focalizzate sulle vicende convulse che si stanno svolgendo nei singoli paesi dell'UE e che ci rimbalzano le mosse post-elettorali e le contromosse della governance ordoliberista, impegnata nel mantenimento del potere per poter finire il lavoro iniziato, secondo i propri immutabili programmi.
Vale a dire il regolamento di conti finale con il fattore "lavoro" i cui effetti sono tanto disastrosi per l'economica quanto "utili ed efficienti" per consolidare il potere finora esercitato dalle oligarchie.
Insomma, non è realisticamente da attendersi che la questione "teologica" e di riconquista del potere, mostrateci da Galbraith e Kalecky, come più volte illustrate su questo blog, si possa mai arrestare sulle soglie delle prime difficoltà che, probabilmente, ESSI avevano già immaginato di dover affrontare.
Perciò mi focalizzerei su come possano oggi essere giocate le carte "continuiste" delle governance UEM.
Come paradigma di riferimento, non necessariamente solo "teorico", prendiamo l'atteggiamento di Christine Lagarde, "direttrice" del FMI, da sempre il punto di sintesi (almeno tentata) tra il modello neo-liberista e liberoscambista USA e l'ordoliberismo strategico UE.
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Ancora sulle elezioni europee
(...precedente)
L’illusorio successo di Renzi
di Michele Nobile
È incredibile e inaccettabile che, in presenza di un’astensione che raggiunge oramai il 30-40% del corpo elettorale, si continui a ragionare sui risultati elettorali calcolati solo sulla base dei voti validi. Con percentuali tanto elevate di rigetto della casta politica, qualsiasi ragionamento che si basi unicamente sui voti validi non potrà che distorcere gravemente il grado di consenso reale dei cittadini nei confronti dei partiti, con gravi effetti sul discorso politico. La tenacia con cui i commentatori restano abbarbicati a questa metodologia, scientificamente infondata e politicamente mistificante, è tanto più assurda quando praticata da chi pretende di andare contro la casta governante, se non contro il sistema.
In queste elezioni europee, in Italia non hanno votato 20,3 milioni di cittadini, nove milioni in più degli astenuti nelle politiche del 2013, un milione e mezzo di più che nelle europee del 2009.
Europa: le elezioni immaginarie
di Nicolai Caiazza
Le elezioni europee sono state immaginarie. E sono state immaginarie nel senso proprio che la immaginazione è stata la forza portante e conseguente sia tra gli eletti che tra gli elettori. Cioè la scelta degli elettori non è stata dettata da un interesse sociale di miglioramento della propria condizione sia personale che di classe. Né tanto meno la scelta è stata conseguente alla volontà di perseguire un ideale di trasformazione della società in una direzione o in un'altra.
Ciò che ha mosso la votazione per l'una o per l'altra formazione é stata l'adesione a una forma, a una immagine mentale, a una illusione di movimento.
Le Pen e Renzi però hanno vinto e convinto persone che avevano deciso di partecipare alla rappresentazione delle elezioni. L'altra metà della popolazione, che non ha partecipato, ha preferito dedicarsi ad altro.
Ma perchè ha vinto Renzi?
di Piemme
Capisco che sotto botta ci si interroghi anzitutto sulle ragioni dell'insuccesso dei cinque stelle. Tuttavia, se sono le dimensioni del successo del Pd renziano il vero fatto eclatante, è sulle ragioni di questa inattesa avanzata che occorre interrogarsi.
Solo in questo quadro segnalo la spiegazione di Gianluigi Paragone della sconfitta dei pentastellati. In piena controtendenza rispetto ai molti che addebitano la causa della sconfitta di M5S all'eccesso di "estremismo protestatario", Paragone sostiene che Grillo avrebbe perso perché ha dato retta a Casaleggio:
<«Il vero responsabile della sconfitta si chiama Gianroberto Casaleggio. Casaleggio era convinto di tenere in cassaforte i voti che prese alle politiche e perciò si dovesse “tranquillizzare” il voto moderato per tentare il sorpasso. Così ha messo la giacca e la cravatta ai suoi golden boy, li ha istruiti affinché parlassero come fighettini. E’ di Casaleggio la scelta di andare da Vespa e poi ai talk comodi, seduti, tranquilli».
It's All About Italy
C. M.
L'ufficio studi della Jp Morgan, di cui abbiamo già potuto apprezzare le analisi, è convinto che la vittoria di Matteo Renzi renda l'Italia più forte a livello europeo, e più stabile l'Unione nel suo complesso. Cerchiamo di capire perché.
Occorre sottolineare che il PD di Renzi è stato il soggetto politico più votato in Europa, in termini assoluti (11 milioni e centomila suffragi contro i 10 milioni e trecentomila della portaerei di Angela Merkel, la CDU-CSU); in termini percentuali è superato solo dal Fidesz di Viktor Orbàn, dominatore incontrastato dell'Ungheria (51%). Ma Fidesz non è certo quel che si definirebbe una forza europeista; invece il PD di Renzi lo è, entusiasticamente. Questo partito, pur sommando due caratteristiche che in questi anni non hanno certo giovato dal punto di vista elettorale, e cioè l'europeismo e il trovarsi al governo, stravince nelle urne, in assoluta controtendenza rispetto allo scenario europeo.
Preme rammentarlo: le forze politiche "sistemiche", in primo luogo quelle riconducibili alle famiglie del PSE e del PPE, sono naufragate in molti importanti contesti nazionali.
Da Atene a Berlino c’è anche Roma
di Roberto Musacchio
La fortuna aiuta gli audaci, diceva il vecchio detto latino. Quelle poche migliaia di voti che rappresentano quello 0,03 che fa superare alla lista Tsipras il quorum dell’assurda, e incostituzionale, legge italiana, possono far pensare che ci sia alla fine un premio per chi ha coraggio. Ma i latini sapevano bene che l’audacia poggiava sulla forza di un progetto, di una idea di società e di mondo. Diciamo allora che l’audacia di provare a vincere la sfida delle europee è stata figlia proprio di questa riscoperta, quella che è possibile avere un progetto e una idea di mondo, e cioè un punto di vista autonomo, proprio, su se stessi, della propria gente e della realtà in cui viviamo.
Alexis Tsipras è stato il simbolo, e la dimostrazione nella dimensione reale e concreta, di questa audacia possibile. Lui l’ha costruita per sé, costruendosela da sé ma fruendo anche dei materiali resi disponibili sul campo come l’esistenza di un partito della sinistra europea, alla cui nascita come italiani avevamo contribuito, l’esperienza delle lotte di resistenza alla austerità e dei movimenti.
I Piddino Boys e la Carosellonomics
Lameduck
A proposito di falconi e operazioni condor, ricordate quel vecchio carosello anni '70 dove i cittadini del Paese Felice erano costantemente minacciati dal perfido Jo Condor ma quando invocavano "Gigante, pensaci tuuuuu!!!" arrivava uno spilungone ex machina che risolveva tutto con saggezza e comminando infine la giusta pena all'odioso pennuto?
Grillo deve “dimettersi”?
di Aldo Giannuli
Si stanno levando molte voci che chiedono le “dimissioni” di Beppe Grillo (ho visto una dichiarazione in questo senso anche di parlamentari del M5s o ex del movimento), anche in questo blog ci sono interventi che vanno in questo senso e qualche autorevole amico me lo ha scritto in una mail privata. Tutti, più o meno, ricordano la frase con cui Grillo diceva che si sarebbe ritirato se non avesse “vinto”. Bene, allora discutiamone.
In primo luogo: dimettersi da cosa? Grillo non ha cariche formali nel M5s, non ne è il segretario. Per cui la richiesta di dimissioni può significare solo che deve smettere di parlare e magari chiudere il suo sito. Mi sembra una richiesta eccessiva, che non si può fare neanche al leader più sconfitto del sistema solare: ma, allora, fatte le dovute proporzioni, uno come Veltroni cosa avrebbe dovuto fare? Per non dire di Paolo Ferrero.
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Different Trains*
di Sandro Moiso
Treni differenti hanno corso per le recenti elezioni europee. Alcuni sono deragliati, mentre altri sono arrivati a destinazione. E’ inutile girarci in tondo: per ora hanno vinto i peggiori. Anche se risultava davvero difficile individuare i migliori.
Analizzare brevemente il significato e i motivi di tutto ciò può, però, contribuire a non sbagliare ancora in futuro e a intravedere le possibilità di superamento del sistema attualmente, ed apparentemente, vincente.
Gli elementi che hanno infatti portato, a livello nazionale, Renzi e il suo partito alla vittoria sono estremamente diversi da quelli che, ad esempio, hanno caratterizzato la vittoria delle destre xenofobe e nazionaliste soprattutto in Francia e Gran Bretagna.
Paradossalmente, infatti, su un solo punto ha avuto ragione Grillo fin dall’inizio della sua carriera “politica”: il Movimento 5 Stelle è riuscito a contenere i possibili estremismi.
La democrazia è nuda e il gioco si fa duro
Dalle elezioni europee: astensione e malessere sociale in crescita
Dino Erba
Questa domenica in Europa più che elezioni hanno avuto luogo delle non elezioni. Gli europei, in maggioranza, hanno deciso di restarsene a casa invece di andare alle urne. Le elezioni, quindi, saranno legali ma non legittime, se teniamo conto del terzo significato della definizione del concetto di: “sicuro, genuino e vero sotto qualsiasi profilo”. Le elezioni non sono state real-mente veritiere perché il demos (il popolo) – ovvero chi dà sostanza ai partiti – ha deciso in maggioranza di non votare: da ciò si deduce che, secondo logica, le elezioni non sono valide anche se sono legali. Chi rappresentano gli eletti? Che appoggio popolare avranno le loro decisioni future?
RAMÓN REIG, Las non eleciónes1.
Quasi ovunque, i governi dell'Unione europea hanno agitato lo spauracchio dell’astensione e del populismo antieuropeo, scatenando una propaganda dai toni ora allarmistici ora suadenti ... senza escludere messaggi trasversali che, a ogni piè sospinto, ci sussurravano i vantaggi dell’Europa unita.
Sòle elettorali
Militant
Nonostante l’affermazione del PD, dell’UKIP di Farage e del Front National di Marine Le Pen, il Partito Popolare europeo ha vinto le elezioni e si ritrova in Parlamento con il maggior numero di deputati. Conseguenza liberale vorrebbe che il candidato presidente espressione di quel partito, Jean Claude Juncker, sia nominato presidente della Commissione Europea. Siccome però il Parlamento europeo nei fatti non conta nulla, il veto posto da Cameron ha subito fatto declinare la possibilità di Junker a presiedere la Commissione. Ci si sta accordando su una scelta che prevede un parterre di nomi di tutto rispetto, fra cui spicca Cristine Lagarde, direttrice del FMI. Le cose stanno peggio di come le descrivevamo qualche settimana fa. In un precedente pezzo, infatti, davamo per sicura l’elezione di Junker qualsiasi fosse stato il risultato elettorale, anche avesse vinto Tsipras. La realtà è addirittura peggio della (facile) previsione. La Commissione Europea, il governo della UE, viene eletta a prescindere da qualsiasi risultato elettorale. Anche se questa dovesse essere vinta dal principale sponsor della UE, ciò che conta è l’accordo fra gli Stati membri e le indicazioni della BCE.
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Il primato della relazione
Giso Amendola
Un percorso di lettura a partire dall’ambizioso volume «Il transindividuale» curato da Vittorio Morfino e Etienne Balibar. Si indaga il rapporto fra individuo e comunità e sul loro «dualismo» che ha inciso sui modi di interpretare e di vivere la sfera pubblica. Esiste un filo rosso nella filosofia in cui ogni singolo è espressione dei rapporti sociali, ma irriducibile al tutto. Nonostante ciò, la possibilità di una politica del comune
Individuo e comunità, singolo e collettivo. Il rapporto tra i due poli può essere declinato in modi molto differenti, dall’ordinata partecipazione della parte al «Tutto», fino al conflitto irriducibile: resta fermo che questo schema ha funzionato come fondamento dell’idea di ordine che il pensiero occidentale si è dato, ha descritto la sua ontologia portante. All’individuo come realtà stabile, autofondata, trasparente a se stessa, dai confini sicuri e ben tracciati, si è contrapposto un soggetto collettivo che, in fondo, ne replica i tratti fondamentali: un Soggetto dai confini più ampi, semmai un macroantropo che ricomprende in sè gli «individui», come nel frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes, ma che dell’individuo riproduce in pieno le fattezze ontologiche, a cominciare dalla pretesa di autofondazione e di autosussistenza.
Questo dualismo di fondo ha inciso evidentemente sui modi di interpretare e di vivere la sfera pubblica: l’ontologia qui è più che mai questione politica. A partire dall’ingenua alternativa tra individuo è collettivo, la sfera pubblica o è stata assorbita all’interno di un soggetto collettivo ipercompatto, destinato a fagocitare ogni singolarità, o, simmetricamente , è impallidita all’interno di una semplice visione «intersoggettiva», frutto di un contratto o comunque parto trascendentale di un supposto e fittizio accordo tra gli individui, confermati come mattoni primi metafisici di qualsiasi costruzione pubblica.
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Scaramouche siamo noi
di Luca Cangianti
"L'Armata dei Sonnambuli" (Einaudi Stile Libero, pp. 792, € 21,00) è il nuovo romanzo storico di Wu Ming ambientato durante la rivoluzione francese. Nel corso di un susseguirsi avvincente di eventi si affrontano le dinamiche che ricorrono in ogni grande episodio di conflittualità sociale.
La testa del tiranno che rotola nel cesto, le gerarchie che implodono, il tempo che perde la sua linearità, il sovrapporsi di possibile e impossibile, la violenza, la festa, l'amore senza freni, il collasso del dominio patriarcale, l'emergenza e l'eroismo, ma anche la viltà, l'opportunismo, la stanchezza, il riflusso, la disillusione e la crudeltà senza limiti del nemico sconfitto che torna a colpire. È la rivoluzione che arde nelle pagine dell'Armata dei Sonnambuli, l'ultimo romanzo storico di Wu Ming, e dunque anche il suo doppio orrifico: la reazione.
La trama è ambientata in Francia nel biennio 1793-95 che va dalla decapitazione di Luigi XVI al dilagare della controrivoluzione termidoriana, e intreccia quattro linee narrative. Nella prima Marie Nozière, magliara e ragazza madre, prende progressivamente coscienza della più profonda e radicata delle oppressioni, quella patriarcale, fino al rifiuto blasfemo della propria prole che inevitabilmente la conferma nel ruolo di donna produttrice di forza lavoro ed erogatrice di cura: "ogni volta che ti guardo", dice al figlio "è come guardare il tempo di prima. Quando ero serva".
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