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Sommarie riflessioni sulla crisi
di Gianfranco La Grassa
I. La prospettiva più tradizionale (economicistica)
1. Si tratta di un argomento talmente complesso e denso di dibattiti teorici da richiedere pure un notevole approfondimento storico. Insomma, sarebbe necessario tenerci sopra un intero corso di lezioni e non soltanto una breve introduzione e per spunti assai sommari. Tanto più che non sono d’accordo sull’impostazione prevalentemente economicistica con cui viene solitamente discusso tale problema. Sia chiaro che nelle due parti in cui verrà diviso questo scritto non affronterò il tema della crisi iniziata nel 2008; nemmeno mi fisserò su come essa viene interpretata dagli economisti odierni o anche dal Governo con le sue misure che stanno ottenendo risultati esattamente contrari alle intenzioni dichiarate (credo assai diverse da quelle perseguite politicamente, con la sola maschera della necessità economica). Un simile argomento va trattato in altra sede e dopo aver preso visione delle pur sommarie indicazioni relative alla problematica generale della crisi. Altrimenti s’instaura una semplice “discussione da bar”. Comunque il lettore attento potrà più volte istituire un parallelo tra quanto qui scritto e le pappardelle fornite in questi ultimi quattro anni.
Mi rifarò ancora una volta ad un esempio da me utilizzato più volte per analogia perché particolarmente congruo nella sua applicazione al tema della crisi, sempre pensata come semplicemente economica. Il terremoto, magari con annesso tsunami, è evento catastrofico che colpisce a fondo la vita degli uomini; ed è ancora imprevedibile, checché se ne dica a volte con somma insipienza.
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Smontare il Sud
Iain Chambers
C’è una nota affermazione di Michel Foucault dove il pensatore francese sosteneva che la vera scienza consistesse non nella ricerca della verità ma nell’operare un taglio. Possiamo considerare il volume curato da Orizzonti meridiani per ombre corte come un ottimo esempio di questo tipo di ricerca. In una serie di brevi ma taglienti saggi, gli autori e le autrici riescono a proporre una cartografia della cosiddetta ‘questione meridionale’ tracciata in una maniera radicalmente diversa da quelle a cui siamo abituati per spiegare la storia e la cultura del meridione.
Qui il sud dell’Italia (ma l’argomento trattato ha inevitabilmente una risonanza con la costruzione di altri sud del mondo) perde quella passività per cui risulta sempre oggetto e vittima di logiche elaborate altrove. Di solito considerato come una riserva di risorse umane e naturali, che nello loro combinazione servono a nutrire le esigenze del nord del paese come se fosse solamente il luogo dell’accumulazione capitalistica iniziale descritta da Marx, il Mezzogiorno è qui proposto nei termini di un laboratorio politico dove diventa possibile elaborare un’altra storia. Qui si apre uno squarcio e si elabora una visione critica in rotta di collisione con l’ordine vecchio, rifiutando di giocare una partita persa in partenza.
Attraverso le analisi sviluppate in queste pagine, il sud diventa protagonista di un ripensamento profondo di quei poteri che l’hanno costantemente relegato ai margini della narrazione della nazione, subordinando le sue specificità storiche, culturali ed economiche a un’inferiorità politicamente costruita e da gestire in modo paternalistico e coloniale.
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La guerra senza sacrifici
di Marco Bascetta
In uno studio di qualche anno fa Grégoire Chamayou aveva ricostruito una storia e una fenomenologia del potere a partire dalla sua natura «cinegetica», ossia prendendo le mosse dal ruolo decisivo che la caccia riveste nella conquista e nella conservazione del dominio sugli uomini. Una caccia, però, del tutto particolare: la caccia all’uomo (Le cacce all’uomo, manifestolibri). Non sorprende dunque che questa sua linea di ricerca lo abbia condotto a prendere in esame il congegno che, sostituendosi progressivamente ai più tradizionali strumenti tecnologici e organizzativi, rappresenta la frontiera più avanzata della caccia all’uomo: il drone, nel gergo militare Unmanned combat air vehicle (Ucav), ossia aeroveicolo da combattimento senza equipaggio (Teoria del drone, Deriveapprodi, pp 215, euro 17.00). Un occhio che indaga e uccide, senza limiti di spazio e di tempo. Insonne, attento, dotato di una memoria prodigiosa, raccoglie paziente gli indizi che fanno di un essere umano un nemico e dunque una preda. La insegue dal cielo in ogni luogo e in ogni suo gesto, ne traccia il profilo biografico e, infine, la abbatte. Ma a differenza del cacciatore, esposto al confronto con la preda, e sempre a rischio di vedere invertirsi le parti, di passare dall’inseguimento alla fuga, il pilota del drone siede al riparo da ogni minaccia in una cabina di comando, a migliaia di miglia dal suo bersaglio e dall’ambiente ostile che lo circonda, in un Olimpo dal quale partono i fulmini scagliati in un’unica direzione. Sorveglia e distrugge il mondo di ombre che popola il suo schermo e, all’altro capo della terra, una vita reale che piuttosto approssimativamente vi si riflette. Alla vittima non è dato combattere, nessun nemico è alla sua portata, né odio, né compassione, né paura filtrano attraverso il corpo metallico della macchina che esploderà il colpo fatale.
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Su Benicomunismo di Piero Bernocchi
di Michele Nobile
In Benicomunismo di Piero Bernocchi possiamo vedere tre grandi campi aperti alla discussione: la riflessione teorica sulle ragioni interne del fallimento del comunismo novecentesco; la discussione intorno al capitalismo contemporaneo; l’emergere di una nuova prospettiva politica e ideale di democrazia radicale, indicata nel titolo.
Il mio accordo con le tesi del libro è molto ampio, specialmente su quelle che meno sono digeribili per la sinistra italiana. Si vedrà che esistono alcune divergenze d’analisi, anche importanti; ma molto più del computo delle concordanze e delle divergenze quel che conta, ai miei occhi, è la prospettiva d’insieme, la tensione ideale, la direzione verso cui si muove questo lavoro. Nel modo più sintetico, in Benicomunismo è viva e forte l’aspirazione a liberare l’anticapitalismo dal professionismo politico e dallo statalismo, in uno spirito che può dirsi libertario. L’asse unificante le diverse tematiche del libro ritengo sia quello del rapporto tra etica e politica. Che è poi la condensazione di tutti i problemi e il nodo cruciale veramente fondamentale per il futuro dell’umanità.
La coerenza tra mezzi e fine e la politica come professione
Il primo e fondamentale accordo con Bernocchi è di natura etico-politica: in nessun caso il fine può giustificare l’uso di mezzi non coerenti con esso perché «cattivi mezzi producono cattivi fini, e viceversa» (p. 268).
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Riforme: si scrive Renzi si legge JpMorgan
di Franco Fracassi
Due cene organizzate per convincere Renzi a seguire i consigli di Blair, oggi consulente della JpMorgan. Obiettivo: disfarsi della Costituzione antifascista
Una cena per decidere, una per confermare le decisioni. Primo giugno 2012, primo aprile 2014. Due protagonisti sempre presenti: il presidente del consiglio Matteo Renzi, l'ex premier britannico Tony Blair. Un terzo (presente con suoi rappresentanti) è l'organizzatore, il vero beneficiario dei frutti degli incontri: la banca d'affari JpMorgan. Scrive il quotidiano britannico "Daily Mirror":
«Renzi è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La JpMorgan».
Riforma delle Provincie, riforma del Senato, riforma del lavoro, riforma della pubblica amministrazione, riforma della Giustizia, riforma del consiglio dei ministri, riforma elettorale. La Costituzione italiana, quella votata dopo la vittoria sul fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, quella pensata per impedire una futura svolta autoritaria nel Paese sta per essere stravolta. Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi. Così ha suggerito la JpMorgan.
I fatti. Il primo giugno 2012 la banca d'affari statunitense organizza una cena a palazzo Corsini a Firenze. Il padrone di casa Jamie Dimon (amministratore delegato della JpMorgan) invita l'allora sindaco della città Renzi e il già ex primo ministro, e da quattro anni consulente speciale della banca, Blair. Il primo aprile 2014 la scena di sposta Oltremanica.
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Cos’è il Quantitative Easing e che effetti può avere
Giancarlo Bergamini*, Sergio Cesaratto**
La settimana scorsa, alcune dichiarazioni possibiliste di Jens Weidmann, governatore della Bundesbank e membro del consiglio direttivo della Banca Centrale Europea (BCE) con fama di falco, hanno alimentato fra gli operatori dei mercati finanziari l’aspettativa di imminenti misure di stimolo volte a scongiurare i rischi di cali generalizzati dei prezzi e dei redditi (la temuta deflazione). E anche il governatore Draghi manifesta la sua disponibilità a intervenire con misure non convenzionali. Ci si attende quindi che la BCE ponga in essere operazioni note come Quantitative Easing (QE per brevità) consistenti nell’acquisto massiccio di titoli con denaro di nuova emissione.
La BCE sarebbe solo l’ultimo istituto d’emissione a praticare il QE, dopo che da anni ne fanno uso, con diverse modalità, le banche centrali di Usa, GB, Giappone e Svizzera. Tali acquisti, realizzati iniettando nel sistema moneta addizionale, vengono variamente giustificati a seconda dei rispettivi mandati. La Federal Reserve americana può esplicitamente dichiarare che l’aumento di domanda ottenuto in virtù del QE consentirà di abbassare la disoccupazione; la Bank of England si è limitata ad indicare che l’aumento di circolante serve ad evitare che l’inflazione scenda troppo al di sotto del 2% annuo; la BCE lo presenterà probabilmente come strumento di “trasmissione della politica monetaria”, cioè volto a determinare tassi di interesse e provvista di credito sufficientemente uniformi in tutta l’Eurozona e per i diversi operatori economici, ma anche come strumento per evitare che il tasso di inflazione si allontani troppo dall’obiettivo del 2%.
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Le gabbie sociali della globalizzazione
Intervista a Dario Leone
E' uscita l’opera sociologica di Dario Leone “Le gabbie sociali della Globalizzazione” nella collana Multitudo per Susil edizioni. Il testo analizza la completa scomparsa della dimensione collettiva, il distacco del potere dalla politica ed il trionfo del libero mercato che sono solo alcune delle caratteristiche del nuovo e trionfante Capitalismo globalizzato
Il tuo libro affronta un tema complesso, come quello della cosiddetta globalizzazione e delle sue implicazioni sulla sfera sociale. Una tematica già affrontata da diversi studiosi, non ultimo Bauman da cui hai tratto molto per questo tuo lavoro. Da cosa è nata l’esigenza di scrivere questo libro?
Dopo la scomparsa della sinistra dal parlamento italiano e la sua evidente crisi sul piano dell’elaborazione politica e sociale sono stato spinto alla ricerca di una forma di militanza differente da quella classica fino a quel momento intrapresa. Penso che questa crisi sia innanzitutto dovuta alla tendenza ad utilizzare strumenti di analisi tardo ottocenteschi che vanno aggiornati perché siamo in una società che ha superato le dicotomie classiste, ha “nebulizzato” il potere reale staccandolo dalla politica, rendendo il sistema impermeabile al mutamento dal basso (o da sinistra). Se il capitalismo, vestendo i panni della globalizzazione, ha normalizzato la contraddizione capitale/lavoro vestendola di libertà, vuol dire che gli strumenti del cambiamento finora inseguiti devono rimodularsi. In altre parole a questo capitalismo postmoderno va contrapposto un marxismo postmoderno che non può continuare ad essere quello elaborato ai tempi della rivoluzione industriale. Questo libro è il primo di una lunga serie di contributi che vanno in questa direzione e che penso occuperanno gran parte della mia esistenza con la consapevolezza che questa fase storica (leninisticamente intesa), non produrrà significativi cambiamenti sociali (a meno che non siano fisiologici e quindi endogeni), ma potrà produrre pensatori, teorie e progetti che possono costituire i semi sui quali le prossime generazioni potranno fare il raccolto.
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Manca il pensiero sul futuro
Carlo Crosato intervista Umberto Galimberti
Come interpretare una condizione d’essere in cui prevalgono le estasi temporali del passato e del presente e manca il pensiero del futuro? Come concepire il lavoro della consulenza filosofica o il sempre più difficile rapporto fra generazioni? Questi sono solo alcuni dei temi percorsi da Umberto Galimberti in questa intervista, in cui vengono anche toccati i temi più tradizionali della sua riflessione
Nel suo L’ospite inquietante, lei sostiene che i giovani, «anche se non sempre ne sono consci, stanno male»[1] . Leggendo questa sola riga di apertura con uno spirito superficiale, si potrebbe pensare che, se uno non si accorge di star male, è proprio perché non sta male: perché allora convincerlo che sta male?
I miti del nostro tempo[2], dall’altra parte, sembra sostenuto dall’idea che il malessere dell’uomo contemporaneo sia causato da una carenza di riflessione, di pensiero.
Si può dunque dire che il dolore dell’uomo d’oggi è causato proprio dal non accorgersi di star male?
Non direi che non si accorgono di stare male; direi piuttosto che i giovani stanno male, ma non sanno nominare il male di cui soffrono. Questa è una differenza rilevante.
Dico questo, con riferimento a un incontro che ho avuto a Parigi nel 2004, con Miguel Benasayag, l’autore di L’epoca delle passioni tristi[3], il quale aveva aperto con uno psichiatria – Ghérard Schmit – uno sportello per il disagio giovanile. E ciò che l’aveva maggiormente impressionato era che i giovani si recassero allo sportello denunciando un male, ma che, se interrogati sul male di cui soffrivano, non sapevano rispondere: «non lo so», dicevano. Questo “non lo so” sta a significare che i giovani non dispongono dei nomi e tanto meno dei decorsi del dolore; e questo perché non sono arrivati a quel livello che permette di riconoscere un sentimento.
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Laboratorio sulla moneta: dalla scarsità all’abbondanza?
Rapporto sul Money lab
di Tiziana Terranova
La due giorni del ‘laboratorio sulla moneta’ organizzata dall’Institute for Network Culture di Amsterdan nelle giornate del 21 e 22 marzo 2014 è iniziata con un botto. Saskia Sassen, autorevolissima sociologa della globalizzazione e delle trasformazioni urbanistiche, docente alla Columbia University di New York, condensa in venti minuti la ‘breve storia brutale’ degli ultimi quattordici anni (2000-2014). Tanta complessità (la finanza), ci dice, ha prodotto una semplice brutalità: i milioni di sfratti da New York ad Amburgo a Budapest, l’accaparramento delle terre agricole in Africa e l’espulsione forzata di milioni di persone dall’economia. Sassen illustra servendosi di grafici l’ascesa drammatica delle curve del profitto del settore finanziario per cui la crisi del 2008 è stata poco più di un singhiozzo. I numeri straordinari, incredibili che indicano il valore corrente o meglio ‘futuro’ dei titoli finanziari mostrano un enorme tasso di crescita impensabile in qualsiasi altro settore dell’economia. Nel 2001, il mercato dei titoli finanziari valeva 819 miliardi di dollari, nel 2008 62.2 trilioni (ogni trilione vale mille milliardi o un milione di milione) e infine nel 2015 siamo arrivati al quadrilione (cioè mille milioni di milioni o un milione di milioni di milioni di milioni).
Questi numeri improbabili, per Sassen, sono il risultato della transattività frenetica e multidirezionale degli scambi finanziari, in cui il denaro è moltiplicato dalle nuove tecnologie dell’accelerazione. Vendendo qualcosa che non ha, si deve inventare ‘strumenti’ e simultaneamente invade gli altri settori dell’economia usando il debito come ‘ponte’. La finanza, ci dice Sassen, commercia col futuro e quindi si occupa di probabilità e incertezza, la sua matematica non è quella della microeconomia, ma della fisica.
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"Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo"
di David Harvey
Pubblichiamo una nostra traduzione del prologo (qui rinvenibile in lingua originale) all'ultimo libro di David Harvey, “Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo” (per ora uscito solamente negli Usa e in Inghilterra). Nel testo, che si propone anche come manifesto politico, vengono definite tre tipologie di contraddizioni: fondative (tra capitale e lavoro, tra appropriazione privata e common wealth, tra proprietà privata e Stato, tra valore d'uso e valore di scambio ecc...); mobili (rispetto alla divisione del lavoro, tra monopolio e competizione ecc...) e pericolose (la capitalizzazione infinita della crescita, la relazione tra Capitale e natura, tra alienazione e rivolta dell'umano). Attraverso questa disamina Harvey si propone di svelare nuove prospettive di critica ed organizzazione anticapitalista, ponendosi in una dialettica critica rispetto ad altri approcci attualmente in voga. Pur non condividendone appieno alcune tesi, ci sembra importante leggere questo testo entro il dibattito che si sta sviluppando rispetto ad una lettura politica della crisi.
“Ciò di cui sono in cerca è una migliore comprensione delle contraddizioni del capitale, non del capitalismo. Intendo conoscere come funziona il motore economico del capitalismo, e come mai talvolta esso balbetta, va in stallo o appare essere sull'orlo del collasso. Voglio inoltre mostrare come mai questo motore economico deve essere sostituito, e con cosa.”
dall'Introduzione
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Il Vangelo secondo Matteo. Un commento al Dl 34/14
CAU Napoli
Se ne sentiva parlare da mesi, sicuramente da prima che il nuovo Governo si insediasse. Il gioco iniziale consisteva nel decantare di tutto un po' in materia di lavoro, proponendolo come la soluzione a tutti i mali - dalla disoccupazione, alla mancata “crescita” dell’Italia, passando per la morte di Lazzaro (Matteo 9:2-8.) - ma parlandone sempre in maniera evanescente. Eppure, infine, Jobs Act fu .
Il programma di Renzi, enunciato come unico Vangelo da seguire parla, ovviamente, anche di lavoro. Fin dall’incipit il Decreto Legge 34/14 (per ora prima e unica parte stilata del Jobs Act) chiarisce le proprie finalità. La più indicativa è la prima: “semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile”.
Non c’è niente di nuovo, a dispetto del clima di novità ostentato dal nuovo Premier: se non vogliamo risalire alla Legge Biagi, basta guardare la “riforma” Fornero per trovare un filo conduttore e una continuità tra i vari governi. Ma procediamo per piccoli passi.
Cosa mette in campo questo rinomato Jobs Act?
La prima tranche, già approvata tramite il decreto legge 34/14, pone al centro “la flessibilità in entrata” e “l’occupazione giovanile”, modificando il contratto a termine e quello di apprendistato.
Nello specifico, la durata del contratto a termine (Art. 1) viene alzata da 12 a 36 mesi, eliminando la causale, ovvero l’obbligo di spiegare la motivazione della temporalità “anomala” del rapporto di lavoro.
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Commons contro e oltre il capitalismo
Incontro con Silvia Federici e George Caffentzis
Il tema dei commons, tradotti solitamente in italiano come beni comuni, evoca un immaginario potente, un’idea attraente di legame caldo contro l'isolamento ed individualismo sempre più parossistici dell’attualità. Tuttavia essi oggi hanno raggiunto una pericolosa trasversalità, e rappresentano un terreno estremamente scivoloso, all’interno del quale si sono affermate prospettive molto differenti (sino ad arrivare in Italia a far parte delle campagne di Cgil e Pd che hanno parlato del Lavoro e dell'Italia come beni comuni...). Se è evidente come un uso di questo tema da parte dei movimenti anticapitalisti non possa che basarsi su una preliminare sottrazione dei beni comuni dal tema del bene comune (una affinità linguistica prodotta dalla lingua italiana), è interessante ricostruire una genealogia di come il discorso sui commons sia venuto affermandosi su scala planetaria negli ultimi due decenni. Per fare questo proponiamo il report di un incontro tenutosi al 16 Beaver, uno spazio di movimento situato a South Manhattan. Un luogo nato come sede di gruppi artistici nel 1998, e trasformatosi a seguito di Occupy. La vicinanza con Zuccotti Park lo rese infatti uno spazio molto attraversato dagli attivisti del movimento, e oggi ospita un fitto calendario di iniziative e dibattiti.
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Jobs Act, Credit crunch, MMT, Exit Strategy
Intervista a Guglielmo Forges Davanzati
Il prof. Guglielmo Forges Davanzati, docente presso l’Università del Salento affronta temi eterogenei ed estremamente attuali: dal jobs act di Renzi, al problema del credit crunch bancario, alla controversa visione della produttività, al nesso tra Circuitismo e Modern Money Theory fino alla delicata questione della moneta unica e di una possibile “exit strategy”.
In un suo recente articolo ha affermato che il Jobs Act di Renzi sia “una proposta sostanzialmente vuota” e che riproporrebbe, in modalità diverse, ulteriori politiche di precarizzazione del lavoro. Alla luce di questa affermazione, secondo lei, quali sarebbero le misure che il Governo dovrebbe invece adottare per rilanciare l’occupazione e ridurre la disoccupazione che ha raggiunto la drammatica soglia del 12,9% e del 42,4% per i giovani?
Il Jobs Act recepisce una proposta di Boeri e Garibaldi, che fa riferimento all’istituzione di un contratto unico di inserimento a tutele crescenti. Avendo realizzato che alle imprese non serve poter disporre di una selva di tipologie contrattuali (come previsto nella c.d. legge Biagi), si propone un intervento di semplificazione, finalizzato ad abolire alcune tipologie contrattuali tuttora vigenti, e non utilizzate, e istituire un contratto unico con un iniziale periodo di prova e con successiva assunzione a tempo indeterminato. Ma il contratto unico a tutele crescenti non sostituisce i contratti a tempo determinato. In questo senso, la proposta è vuota, ovvero non modifica, nella sostanza, nulla.
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Peter Sloterdijk. Critica della ragion cinica
Antonio Lucci
Nella storia della cultura, a volte, ci sono episodi che appaiono come passaggi di consegne, oltre e al di là delle intenzioni dei protagonisti stessi.
Nei primi mesi del 1984 Michel Foucault, pochi mesi prima di perdere la sua battaglia contro l’AIDS, teneva al Collège de France di Parigi un corso dal carattere quasi testamentario, sicuramente folgorante e a tratti commovente, dal titolo Il coraggio della verità (edito in italiano per i tipi Feltrinelli nel 2011).
Qui il grande pensatore francese parlava degli antichi filosofi cinici, della loro particolarissima pratica del dire-il-vero (parresia), e del fatto che nella storia della civiltà occidentale, probabilmente, questi hanno rappresentato un unicum: caso estremo di filosofi che hanno tradotto per intero in pratica di vita il loro pensiero, non lasciando scarto alcuno tra idea e azione, tra la presa di posizione ideale e la sua realizzazione.
Muovendosi tra le pieghe del pensiero cinico, nelle enormi difficoltà poste dal reperimento delle fonti, Foucault dedica alcune riflessioni ad alcuni pensatori che – in anni più o meno coevi al suo corso – si erano dedicati all’analisi del fenomeno del cinismo.
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Quantitative Easing: la soluzione ai problemi dell'Eurozona?
di Thomas Fazi
Sta facendo scalpore un’intervista
rilasciata pochi giorni fa da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei “falchi” all’interno del consiglio della Bce, in cui per la prima volta ha aperto alla possibilità che la Bce ricorra ad operazioni di quantitative easing, ossia all’acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale. Weidmann ha detto:
Le misure non convenzionali considerate sono in gran parte un territorio poco noto. Quindi dobbiamo discutere sulla loro efficacia, sui loro costi e i loro effetti collaterali. Questo non significa tuttavia che le azioni di quantitative easing siano assolutamente da escludere.
In effetti la dichiarazione di Weidmann rappresenta un’inversione di tendenza non da poco, in quanto buona parte dell’establishment (politico, monetario e giudiziario) tedesco aveva finora categoricamente escluso l’ipotesi “americana” di un intervento attivo della banca centrale sui mercati sovrani dell’eurozona. Basti pensare alla recente messa in discussione da parte della Corte costituzionale tedesca del programma Omt di Draghi (finora mai utilizzato) per poter acquistare in emergenza titoli pubblici già sul mercato. È probabile che il “falco” della Bundesbank sia stato spinto ad ammorbidire i toni dai dati sempre più drammatici sul tasso d’inflazione nell’eurozona, ormai in caduta libera. Come ha riferito lunedì la Bce, a marzo l’area euro ha registrato il tasso medio più basso da più di cinque anni a questa parte – 0.5% (ben lontano dall’obiettivo della banca centrale del “poco meno del 2%”) –, mentre molti paesi della periferia registrano ormai un tasso vicino allo zero o addirittura negativo (Spagna, Grecia).
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Le riforme di Renzi? Ecco perché sono una schifezza
di Andrea Scanzi
Tutti vogliono il “cambiamento”, ma non tutti i cambiamenti sono positivi. Gran parte delle riforme di Renzi sono false quando non disastrose. Se gli italiani le conoscessero nel dettaglio, non sarebbero certo così entusiasti come sembrano. La fredda cronaca.
1) Abolizione delle Province. Falso. Il ddl Delrio ingarbuglia ulteriormente le cose, crea 25mila nuovi consiglieri e 5mila assessori in più. Non abolisce le Province, ma crea casomai nuove Città Metropolitane. Delrio parla di 2 miliardi di risparmio. Falso: la Corte dei Conti ha stimato il risparmio al massimo in 35 milioni di euro.
2) Lotta alla mafia. Renzi si è laureato in Giurisprudenza per tributo a Falcone e Borsellino, ma non sembra. Come ulteriore favore ad Alfano e dunque a Berlusconi, sta operando per annacquare il 416ter del codice penale, quello sul voto di scambio politico/mafia. Renzi intende eliminare la sanzione per il politico che si mette a disposizione delle cosche e lasciando unicamente la sanzione per lo scambio voto/denaro o voto/altra utilità. Renzi si sta così limitando a riproporre una norma che è risultata sinora del tutto inutile al contrasto degli accordi politica/mafia.
3) 80 euro in busta paga a chi prende meno di 25mila euro annui. Falso. Renzi lo aveva promesso nel corso della conferenza stampa con le slide dell’Esselunga, ma quell’aumento mensile da maggio sembra già diventato un bonus una-tantum.
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Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta
Stefano Perri, Riccardo Realfonzo
1. Nella spesa pubblica italiana si annidano sprechi e intollerabili sacche di privilegi. Questa amara considerazione induce molti commentatori a dedurre che la spesa pubblica italiana sia eccessiva e in questo consisterebbe il principale problema della nostra finanza pubblica, secondo alcuni persino la causa originaria della montagna di debito pubblico. Per questa ragione, la spesa pubblica italiana andrebbe complessivamente ridotta. Ma si tratta di una vecchia ricetta che ha già dato pessima prova di sé. Infatti, la spesa pubblica è oggetto di tagli incisivi in Italia da oltre venti anni, senza che sprechi e privilegi siano stati cancellati. Per non parlare degli effetti macroeconomici dei tagli, e in generale delle politiche di austerità, che hanno arrestato la crescita della nostra economia.
A ben vedere, la spesa pubblica italiana non è affatto elevata e gli sprechi non devono essere combattuti tagliando la spesa, bensì riqualificandola. Infatti, come di seguito mostreremo, il volume complessivo della spesa pubblica italiana è in linea con la media dei Paesi europei, nonostante il volume ingombrante degli interessi sul debito. Ciò significa che la spesa pubblica primaria o “di scopo” – cioè la spesa diretta ad erogare servizi pubblici, con esclusione degli interessi sul debito – è largamente inferiore alla media europea.
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"La pensée-marchandise"
A proposito del libro di Alfred Sohn-Rethel
Palim Psao
«Non è solo il contenuto, ma sono le forme stesse del pensiero, a trarre origine dall'organizzazione sociale della produzione materiale. Gli inizi della logica, nel mondo dell'antica Grecia, sono legati alla comparsa delle prime monete. L'apriori di cui parlava Kant era la forma-merce. Sono queste le teorie innovative che Sohn-Rethel propone negli anni 1930, in controcorrente non solo a tutta la tradizione filosofica, ma anche al marxismo tradizionale. Queste teorie hanno influenzato profondamente gli inizi della Scuola di Francoforte, al prezzo però di un'emarginazione dell'autore, durata per molto tempo. Questa prima traduzione francese di tre dei suoi saggi, non solo riempie una grave lacuna nella conoscenza d el pensiero critico tedesco nella sua età d'oro, ma offre anche gli strumenti per elaborare al giorno d'oggi un'epistemologia fondata sulla teoria di Marx, vista nel quadro di una critica radicale dell'astrazione sociale, del mercato e della merce, che ci governano.»
Così, la quarta di copertina del libro di Alfred Sohn-Rethel, "La pensée-marchandise", il quale comprende tre saggi scritti negli anni 1930 dal filosofo della Scuola di Francoforte ("Forme marchandise et forme de pensée? Essai sur l'origine sociale de l'entendement pur"; "Eléments d'une théorie historico-matérialiste de la connaissance"; "Travail intellectuel et travail manuel. Essai d'une théorie matérialiste"), preceduti da una prefazione scritta da Anselm Jappe che lega il dibattito, che ebbe corso nell'ambito della nuova sinistra tedesca degli anni 1970, intorno all'opera di Sohn-Rethel, al dibattito attuale in seno al movimento della Wertkritik (critica del valore).
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La Bank of England ed il Dottor Stranamore che vuole arrivare al Don
di Joseph Halevi*
La recentissima pubblicazione dello studio della Bank of England conferma da fonte insospettabile che le banche creano moneta dal nulla (cioe’ non la scavano da qualche miniera, ne’ la pompano da qualche giacimento) prestandola a coloro che hanno piani di investimento o di acquisto di beni di consumo durevoli. Non ci sono quindi vincoli monetari in quanto tali. Analogamente per la Banca Centrale: puo’ convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro e puo’ in tutta tranquillita’ monetizzare debito e deficit pubblici. Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, universita’ e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio ma solo reali che dipendono dalle capacita’ produttive esistenti e utilizzabili. E’ ovvio che se all’Istituzione che dovrebbe convalidare i flussi nel circuito monetario, cioe’ la Banca Centrale, viene formalmente proibito di assecondare il processo, il circuito, da qualche parte finira’ per troncarsi.
Nelle banche centrali (certamente negli USA e GB) tutte queste cose erano note da tempo ma non venivano dette. Come durante l’eta’ di Galileo Galilei quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra; mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica bruciando chi la confutava pubblicamente. Il comportamento delle autorita’ burocratiche dell’UE, non tanto di Mario Draghi, e’ simile a quello della Chiesa durante il periodo galileiano.
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Sui giovani
di Piergiorgio Giacchè
Anche Stefano Laffi ha fatto un sogno, anzi un incubo, come confessa nella nota introduttiva del suo libro La congiura contro i giovani. Il suo incubo ci riguarda tutti e coglie il lettore – proprio come avviene allo scrittore – in “perfetta e assurda solitudine”. Si è tutti soli dentro un incubo: un tutti che non è mai maggioranza ne può fare comunella come invece capita nei sogni alla veltroni della prima ora o alla renzi della seconda opportunità. Il fatto è che i sogni dal tempo di Disney non c’entrano più con Freud: non rivelano traumi passati né forniscono presagi futuri ma colorano il presente di un rosa che non può morire all’alba, dove sorge immancabile il sol dell’avvenir. Gli incubi invece sono banditi prima ancora che temuti: se proprio ci scappano – come è successo a Laffi – sarebbe meglio non raccontarli nemmeno a se stessi, ché la loro valutazione nel mercato è zero e la politica li scomunica come “critiche non costruttive”. Meglio non disturbare non tanto il manovratore che non c’è, quanto il consum-attore che è l’unico ad avere cittadinanza sociale e identità culturale nell’attuale “società assurda”… Che è poi sempre la stessa che studiavano gli scienziati sociali di decenni fa, quando il consumo era agli albori e la pubblicità sembrava solo “l’anima del commercio” e non ancora “il fascismo della nostra epoca”. E in fondo anche la contesa fra sogno e incubo è la stessa di una volta, ma oggi non vale più schierarsi tra gli apocalittici o gli integrati come si dovesse prendere partito. L’attuale “società di mercato” che descrive Laffi, ovvero il mercato che sostituisce la società, è diventata ormai una totalitaria “democrazia reale”, con tanto di libertà commerciale, uguaglianza elettorale, fraternità aziendale.
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Denunciamo il Governo tedesco e chiediamo l’annullamento del Fiscal Compact
Ecco come fare per salvare il paese
Francesco Amodeo
In questi mesi si parla tanto del fiscal compact e dei famosi parametri che stanno mettendo o che metteranno in ginocchio il nostro paese condannandolo all’austerity ed a uno stato di crisi permanente. Mi riferisco al vincolo del 3% su rapporto defici/pil, al pareggio di bilancio introdotto in costituzione e alla necessità per i paesi con un rapporto debito/pil superiore al 60% di ridurre entro un ventennio l’eccedenza. Nel caso dell’Italia con un debito pubblico al 130% è stato già calcolato che questo vincolo potrà essere raggiunto nei tempi imposti solo con una media di 40 miliardi di euro di tagli o tasse ogni anno per vent’anni.
Ma c’è un patto strettamente collegato al fiscal compact in quanto mirato proprio a contenere lo stock di debito e di spesa pubblica per rientrare in quei parametri, che è una vera ghigliottina per i comuni ed è la causa principale della crisi delle aziende che lavorano con la pubblica amministrazione, della perdita di servizi erogati alla cittadinanza e del degrado di comuni, strade, scuole, nonché la causa di migliaia di licenziamenti, mancati pagamenti e chiusura di attività . Si chiama il patto di stabilità interno.
Sul sito della Camera leggiamo che: “ le regole del patto di stabilità interno sono funzionali al conseguimento degli obiettivi finanziari fissati per le regioni e gli enti locali quale concorso al raggiungimento dei più generali obiettivi di finanza pubblica assunti dal nostro paese in sede europea con l’adesione al patto europeo di stabilità e crescita (poi divenuto fiscal compact)”
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Considerazioni eretiche sul dialogo tra scienza e religione
Astro Calisi
Il recente scambio di corrispondenza tra Joseph Ratzinger e Piergiorgio Odifreddi, seguito a breve da quello tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, ha riacceso l’interesse sul dibattito tra scienza e pensiero religioso.
La novità di maggior rilievo (almeno così sembrerebbe) è rappresentata da un mutato atteggiamento delle parti in causa nel considerare seriamente le ragioni della parte avversa. Finora, infatti, il confronto era avvenuto, apertamente o in maniera più o meno nascosta, con l’intento di riaffermare orgogliosamente la propria posizione, rimanendo sostanzialmente ciechi e sordi alle argomentazioni altrui. Qualsiasi dibattito ha infatti senso se presuppone la disponibilità di ciascuno a valutare con la dovuta attenzione tesi e problematiche diverse rispetto a quelle che contraddistinguono la propria posizione.
È presto per dire se questo mutato clima rappresenti una svolta durevole, capace di avere delle ripercussioni importanti sul rapporto tra scienza e religione, oppure se sia destinato a esaurirsi nel giro di pochi mesi. In ogni caso, credo valga la pena cogliere l’occasione per porsi delle domande circa l’utilità e i possibili sbocchi di un simile confronto.
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I corifei del liberismo
di Carlo Formenti
Con la resistibile (ancorché debolmente contrastata) ascesa di Renzi alla guida del Pd, si è fatto assordante il coro dei media (di destra e sinistra, benché la distinzione sia ormai solo nominale) a sostegno della grande narrazione liberal liberista sulla crisi e sulle ricette per uscirne (Lyotard non poteva immaginare che la sua profezia sulla fine dei “grand récit” di legittimazione sarebbe stata smentita in tempi così rapidi).
Il lettore disincantato ha avuto modo di misurare intensità e potenza del coro leggendo la pagina “Idee& opinioni” (per cogliere la “linea” del giornale conviene partire da lì) del “Corriere della Sera” di sabato 29 marzo. In quella circostanza quattro firme “pesanti” dell’organo storico della borghesia italiana hanno cantato infatti altrettante canzoni che, pur proponendo testi diversi, si sono fuse in un'unica melodia. Mi permetto di rititolarne così i pezzi: “Largo ai giovani”, di Giovanni Belardelli, “Ancora più flessibilità” di Maurizio Ferrera, “Si sciolgano lacci e lacciuoli”, di Dario Di Vico, “Evviva il merito” di Sergio Rizzo. Titolo generale della sinfonia: “Bastonare il cane che affoga”.
Si chiede Belardelli: come è possibile che un Paese governato da una gerontocrazia qual è il nostro (basti vedere l’età media di insegnanti e dipendenti pubblici) abbia plaudito all’ascesa del giovin rottamatore Matteo Renzi?
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La critica dell’economia politica, ieri e oggi*
di Sergio Cesaratto
1. A mo’ di premessa: la parabola dell’economia critica
Nel lontano 1973 due valorosi economisti sraffiani aprivano un (allora) influente articolo su marxismo ed economia con la seguente ottimistica affermazione: «[c]rediamo non si possa mettere in dubbio che la teoria economica, che ha dominato praticamente incontrastata per quasi un secolo, attraversa oggi una crisi profonda»1. Purtroppo questa veniva sostenuto proprio nel mentre nelle università degli Stati Uniti si consolidava la contro-rivoluzione monetarista che avrebbe rapidamente spazzato via quella keynesiana dei primi due decenni del secondo dopoguerra, preparando culturalmente l’avvento alla fine del decennio di Reagan e Thatcher. Naturalmente il clima in Italia era ancora ben diverso. Attraverso la fondazione della Facoltà di economia di Modena e l’esperienza delle 150 ore, la critica dell’economia politica, profondamente influenzata dall’opera di Sraffa, si fondeva, per esempio, con le esperienze operaie e sindacali più avanzate2. Di lì a pochissimo le cose sarebbero evolute in direzioni ben diverse anche in Italia.
Al formidabile impatto che il lavoro di Sraffa ebbe negli anni caldi del movimento operaio (e studentesco) contribuì da un lato, com’è evidente, la domanda intellettuale da parte dello stesso movimento di un’alternativa alla teoria economica dominante, ma anche l’eco dello scossone che il famoso “dibattito fra le due Cambridge” diede alla teoria economica.
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Da Tolstoj a Toy Story
Mauro Portello
Dicono sòcialdemocrazia non sociàldemocrazia, questi non ne hanno la più pallida idea di dove venga quella cosa, per loro è un sòcial, un qualcosa di connesso agli altri. È un dettaglio, per carità, giusto per dare un’immagine iniziale, generica, solo per cominciare a parlare di “che cosa” siano gli studenti delle superiori del giorno d’oggi. (Diciamo comunque che per chi alla loro età sapeva bene persino la distinzione anche tra le posizioni di Kautsky e di Bernstein, è un fatto fastidioso e per certi versi ancora incomprensibile, e che il fastidio si replica uguale a se stesso ad ogni occasione.) Solo con gli anni ci si forma un’assuefazione all’idea di avere a che fare con dei meccanismi veramente sgangherati. Chi comincia oggi a insegnare, invece, non prova questo brivido per una banale questione di prossimità anagrafica e dunque di “sensibilità” nella formazione generale.
Ma il punto è un altro: si tratta di capire chi sono questi ragazzi, come sono fatti. Certi ritratti, pure molto avveduti, che qualcuno propone dei giovani studenti di oggi non aiutano granché, anzi mostrano bene la difficoltà che abbiamo a capire la loro “natura”. Ci provano, ad esempio, in modalità diverse, Marco Lodoli con Vento forte tra i banchi (Erickson 2013) e Michele Serra con Gli sdraiati (Feltrinelli 2013, qui recensito da Marco Belpoliti).
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