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Dai “contenitori dell’ira” ai “contenitori di potere”
di Alessandro Visalli
All’avvio del secondo decennio del nuovo secolo il mondo si trova in una fase di caos sistemico a fatica tenuto a freno dalle potenze politico-militari declinanti e dai sistemi di ordine monetari del mondo liberale. Ne sono segno la sempre maggiore fragilità della fase finanziaria del capitalismo, costantemente sull’orlo di una crisi sistemica, che viene rinviata utilizzando tecniche per loro natura insufficienti, mentre la dittatura del pensiero di economisti morti da tempo e degli interessi che questi servivano, e servono, impedisce azioni necessarie per allontanare l’amaro calice.
Mentre tutti gli spazi residui, con i tassi da tempo sotto zero e i bilanci delle Banche Centrali carichi di titoli “spazzatura” e malgrado ciò i principali istituti di credito zavorrati da portafogli a dir poco dubbi (quello della Deutsche Bank è valutato dai mercati ad un terzo del valore di libro), sembrano esauriti, arriva puntuale il ‘cigno nero’ di un’epidemia che rischia di fermare i luoghi più dinamici dell’economia mondiale, sovraccaricare i sistemi pubblici di sicurezza sanitaria e imporre spese fiscali ingenti per evitare fallimenti a catena, individuali ed aziendali. L’intera Europa, Germania in primis ma Italia immediatamente dietro, entra in questa congiuntura nelle peggiori condizioni possibili, resa fragile dall’ossessione per la crescita a mezzo di esportazioni, ottenuta comprimendo selvaggiamente il mercato interno e per esso la capacità di resilienza del sistema pubblico di sicurezza sociale (sanità, istruzione, sistemi territoriali ed a rete, etc..). In un sistema economico mondiale che ha scelto di sacrificare la stabilità sociale, e quindi politica, sull’altare del profitto (ovvero della protezione dell’appropriazione privata del surplus), e per ottenere questo risultato ha spinto sull’interconnessione guidata dalle grandi aziende monopoliste e oligopoliste, il rallentamento del commercio internazionale suona come una campana a morte.
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La Pandemia prossima ventura
di Angelo Baracca
Si stanno accavallando le considerazioni più svariate sull’attuale epidemia da coronavirus, pareri discordanti di specialisti, valutazioni politiche diverse: non solo il cittadino comune riceve una gran confusione, ma anche una persona con qualche base scientifica stenta molto ad orientarsi. Io sono un fisico di formazione e nonostante i miei interessi generali non sono in alcun modo un esperto in questo campo, ma sono debitore al Dott. Ernesto Burgio di informazioni e commenti basilari per questo articolo (dei cui contenuti peraltro egli non ha alcuna responsabilità).
In primo luogo mi sembrano fondamentali alcune precisazioni che da molti resoconti e interviste, anche di specialisti, non emergono, o non emergono chiaramente.
I virus non sono microrganismi in senso stretto, ma “acidi nuclei impacchettati”, virus è un termine generico che comprende un grandissimo numero di famiglie e specie con caratteristiche molto diverse, come struttura, tipo di replicazione, cellula ospite (animali, funghi, piante o batteri), tropismo di tessuto od organo, tipo di trasmissione, ecc. (per farsi un’idea si può ricorrere alla solita Wikipedia. Non mi stupisce che anche fra gli esperti vi siano opinioni diverse perché ogni specialista è legato al suo campo, altrimenti oggi non sarebbe uno “specialista”: lo so bene dalle lotte contro il nucleare degli anni ‘80 dove tutti (o quasi) i fisici e gli ingeneri erano a favore di questa tecnologia.
Il coronavirus attuale (SARS-Cov-2, che causa la malattia Covid-19), come quello della SARS del 2003 (SARS-Cov), differiscono dai comuni virus influenzali per essere virus ricombinanti, emergenti da pochi mesi o anni da serbatoi animali naturali o artificiali come quelli degli allarmi aviari degli ultimi vent’anni (1997/2005) e i coronavirus 2002/2003 e 2019/2020.
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La rivoluzione culturale e la depoliticizzazione
di Wang Hui
I commentatori cinesi sono stati curiosamente assenti dalle discussioni internazionali sugli anni Sessanta, nonostante il fatto che la Rivoluzione Culturale fosse così centrale in quel tumultuoso decennio. Questo silenzio, direi, rappresenta non solo un rifiuto del pensiero e della pratica radicali della Rivoluzione Culturale, ma una negazione dell'intero "secolo rivoluzionario" della Cina - l'era che si estende dalla Rivoluzione Xinhai nel 1911, che pose fine al dominio monarchico, a intorno al 1976. Il prologo del secolo fu il periodo che va dal fallimento del wuxu o della Riforma dei cento giorni nel 1898, avviato dall'imperatore Guangxu e dai suoi sostenitori, all'insurrezione di Wuchang del 1911, l'evento scatenante della Rivoluzione repubblicana; il suo epilogo fu il decennio tra la fine degli anni '70 e il 1989. Durante tutta questa epoca le rivoluzioni francese e russa furono modelli centrali per la Cina e gli orientamenti verso di loro definirono le divisioni politiche dell'epoca.
Il movimento per la Nuova Cultura del quarto periodo di maggio (circa 1915-1921), che respinse i valori confuciani a favore di una nuova cultura cinese basata sui principi democratici e scientifici dell'Occidente, sostenne la rivoluzione francese e i suoi valori di libertà, uguaglianza e fraternità ; i membri del Partito Comunista della prima generazione presero come modello la Rivoluzione Russa, criticando il carattere borghese del 1789. Dopo la crisi del socialismo e l'ascesa delle riforme negli anni '80, l'aura della Rivoluzione Russa diminuì e riapparvero gli ideali della Rivoluzione Francese. Ma con l'ultima caduta del sipario sul secolo rivoluzionario della Cina, il radicalismo delle esperienze sia francesi che russe era diventato oggetto di critiche. Il rifiuto cinese degli anni Sessanta non è quindi un episodio storico isolato, ma una componente organica di un processo de-rivoluzionario continuo e totalizzante.
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La Wuhan "de noantri"
Ovvero: fa più disastri il coronavirus o il virus del panico indotto?
Per un paio di giorni sono stato incerto se scrivere quanto qui leggerete. Ne ero vieppiù convinto, via via che studiavo la stampa nazionale e internazionale, le dichiarazioni degli scienziati e degli esperti e tutto il materiale disponibile in materia. Al punto che se fossi stato un qualsiasi cittadino/a senza ruoli specifici o quello che in politica si chiama “un cane sciolto” non avrei avuto dubbi. Ma farlo in qualità di portavoce Cobas, in un clima isterico e paranoico - ove gli opinion makers, come succede quasi sempre in Italia, sono esperti di camaleontismo, trasformismo e dunque assecondano la corrente dominante - rende l’andare controcorrente, pur sempre faticoso in Italia, particolarmente improbo quando si rischia di passare per “untori” o per “complici” dell’espansione dell’epidemia. Però ieri mi ha convinto definitivamente Attilio Fontana, governatore della Lombardia e leghista doc (quello della difesa della "razza bianca", che dopo la dichiarazione ha dovuto mettersi in autoisolamento poichè una sua collaboratrice è risultata positiva al tampone) che così ha parlato al Consiglio regionale lombardo: “Cerchiamo di sdrammatizzare: questa è una situazione senza dubbio difficile ma non così pericolosa. Il virus è aggressivo e rapido nella diffusione ma molto meno nelle conseguenze: è poco più di una normale influenza, e questo lo dicono i tecnici”. Diavolo, ma se Fontana, che rischia ben di più di me per dichiarazioni del genere, ha deciso di parlare in tal modo, perché mai io dovrei autocensurarmi?
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Un virus scaccia l'altro. Trojan e dintorni
di Sebastiano Isaia
Tutti occupati e preoccupati dal famigerato Covid-19, probabilmente abbiamo sottovalutato l’importanza del regalo virale che lo Stato, bontà sua, si appresta a somministrarci per irrobustire il sistema immunitario della società civile, troppo spesso incline a certe affezioni eticamente e legalmente riprovevoli. Naturalmente sto parlando del “virus informatico” chiamato Trojan (1). Per Marco Travaglio, forse il “teorico” più significativo dell’italico giustizialismo, il Trojan è un «raro caso di virus benefico», e già questa semplice affermazione la dice lunga sul concetto di “bene” che hanno in testa gli ultrareazionari – di “destra” e di “sinistra”. Personalmente temo più il Trojan inoculato dallo Stato nel corpo sociale, che il Coronavirus che sta mettendo a dura prova il sistema immunitario di alcune persone – e l’intelligenza di molte altre.
Una campana di “destra”: «Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione (2), che è un regalo all’ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan, una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un’arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato. […] La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere» (V. Feltri, Libero).
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Il salario sociale di classe
di Carla Filosa
Il governo del capitale, qualunque sia la sua denominazione (democratico, fascista, liberale, ecc) può mantenersi solo attraverso menzogne, sviamenti, dilazioni, svuotamento di contenuti
Nei nostri tempi di continua precarizzazione del lavoro, delle finte “autonomie lavorative”, dei lavori senza contratto, dei “lavoretti”, della mancanza di sicurezza sul lavoro, ecc., sembra prioritario fare chiarezza sulle cause delle modalità remunerative che tendono a cancellare il significato di salario, erroneamente identificato nella sola busta paga. Le ultime generazioni non conoscono a volte neppure l’uso di questo termine, al massimo si parla di stipendio, quando devono ricevere un pagamento per prestazioni effettuate.
Anche la comunicazione mediatica favorisce l’obliterazione concettuale del lavoro salariato usando prevalentemente le parole come “occupazione” o “disoccupazione” legate ad una ineluttabile fase di crisi economica, di cui non si menziona né l’origine né le dinamiche di una sua possibile risoluzione.
Riaffrontare i temi legati al salario ripropone quindi una necessaria riflessione critica sui temi sociali legati all’attualità sì dei processi inflattivi, dei fenomeni ambientali e migratori, delle innovazioni tecnologiche, ecc., ma soprattutto delle relazioni sociali che fanno capo alle “diseguaglianze” e alle “povertà assolute e relative”, su cui ormai si organizzano analisi e dibattiti diventati di moda.
Per orientarsi pubblichiamo la presentazione del libro di Gianfranco Pala “Propriamente salario sociale di classe. Critica delle mistificazioni del valore della forza-lavoro” edito da La Città del Sole che sarà presentato venerdì 6 marzo 2020 alle ore 18.30 presso la Libreria Fahrenheit 451 Piazza Campo de’ Fiori 44 - Roma da Carla Filosa, Presidente dell’Università popolare A. Gramsci, che ne ha scritto l’introduzione che proponiamo ai nostri lettori.
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Contro l’urbanicidio: la lezione di Marshall Berman
di Vittorio Giacopini
L’esperienza della modernità è un’impresa fondamentalmente, frontalmente, abissalmente urbana e, mentre i reazionari (di sinistra) si dilettano con stucchevoli esercizi di ‘paesologia’, sarebbe il caso di accettare la sfida del presente alla radice. L’ultima frontiera di quella che una volta si sarebbe chiamata lotta di classe, oggi, riguarda la vita e la morte delle grandi città, per citare Jane Jacobs: la privatizzazione, senza margini, degli spazi comuni, la trasformazione delle città in parchi a tema e la turifisticazione, la gentrification, dei centri urbani. Provare a contrastare questa deriva apparentemente ovvia, inarrestabile, è una battaglia di resistenza che non bisognerebbe lasciare in mano agli esperti, ingenuamente, illudendosi che sia un problema tecnico, o economico. Scrittori, intellettuali, cittadini devono porsi il problema, come tutti. Per farlo bisogna mutare percezioni e abitudini mentali o compiaciute o molto fiacche e pigre, indifferenti. Chi si bamboleggia col flaneur di Baudelaire, col Walter Benjamin tascabile delle citazioni abusate, pret à porter, chi legge Sebald come se fosse una versione midcult della Lonely Planet farebbe bene a riconoscere che quell’era è finita, e senza scampo. Il flaneur – lo scrive uno dei maggiori esperti italiani di studi urbani, Mario Maffi – ormai ha lasciato campo al ‘rabdomante’. Vivere le città, attraversare l’esperienza urbana oggi è un lavoro quasi-politico o un dovere che poco ha a che fare con lo smarrimento svagato alla Benjamin (e persino con la ‘teoria della deriva’ di Guy Debord).
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Emergenza sanitaria ed economica: il governo può emettere titoli fiscali “quasi-moneta” per uscire subito dalla crisi
di Enrico Grazzini
Dove trovare i soldi per riparare tutti i danni provocati dal coronavirus alle famiglie e alle imprese? E per uscire finalmente dalla crisi economica? L'influenza asiatica sembra diffondersi insieme alla crisi economica. Il futuro si annuncia tempestoso, pieno di ombre scure non solo in Italia ma in Europa e nel mondo. Le mezze misure e le solite ricette non servono più. Occorrono strumenti innovativi immediati e concreti, occorrono soldi subito. Il governo giallorosa italiano – se fosse abbastanza coraggioso, e se osasse percorrere strade nuove che possano produrre finalmente una svolta positiva – per rilanciare immediatamente investimenti e consumi potrebbe emettere titoli di riduzione fiscale convertibili in euro. Potrebbe dare subito gratis questi titoli fiscali molto liquidi (in gergo: titoli quasi-moneta) alle famiglie, alle imprese e agli enti pubblici per ridurre i danni del coronavirus e ridare ossigeno all'economia. Come vedremo, questo si può fare senza aumentare il deficit pubblico e nel quadro dell'eurozona.
Di fronte a situazioni eccezionali occorre prendere misure eccezionali non solo sul piano sanitario ma soprattutto sul piano economico. Vedremo se il governo Conte e il ministro dell'economia Roberto Gualtieri avranno il coraggio di prendere davvero delle iniziative risolutive della crisi che ridiano fiducia al Paese. La crisi economica infatti fa, ha fatto e farà più danni dell'influenza che viene dalla Cina.
Come risarcire i cittadini e le imprese che hanno perso centinaia, migliaia, milioni di euro a causa del coronavirus? e soprattutto come uscire da questa crisi che sta dissanguando l'Italia da oltre una dozzina d'anni dopo il crollo globale del 2007-8? Dove trovare il denaro per restituire i soldi persi dai cittadini e dalle imprese a causa del Covid-19?
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L’ascesa della destra e la creazione di un paradigma unico
di Riccardo Leoncini
Un certo numero di anni fa (parecchi per la verità), prima di iniziare il mio programma di PhD, ho seguito un corso di master presso un’università inglese. Il corso prevedeva 8 insegnamenti (4 per semestre), alcuni obbligatori (i classici micro, macro ed econometria) e alcuni facoltativi. Fra quelli facoltativi che decisi di seguire ricordo che scelsi economia ambientale, economia marxiana, economia ricardiana, ed un corso di economia dello sviluppo tenuto presso un altro dipartimento. Dieci anni circa dopo, un caro amico seguì lo stesso corso di master. A quel tempo era partito da qualche anno il Research Assessment Exercise delle Università britanniche, e, presso quella stessa università, era stato assunto come professore una star del firmamento della crescita endogena (tema allora assai di moda). Il mio amico tornò dall’Inghilterra con un bagaglio (magari invidiabile) di insegnamenti focalizzati unicamente su quel tema (scherzando, gli chiedevo se avesse seguito anche un corso su crescita endogena e fish&chips). Proprio in quel periodo mi lamentavo con un altro amico della desertificazione della varietà di insegnamento (tutti i corsi che avevo seguito io non esistevano più ed i vari professori che li tenevano erano quasi tutti emigrati altrove): “vedi, gli dicevo nessuno ha più voglia ed incentivo ad insegnare economia marxiana o ricardiana.” Al che lui, addottorato in USA, mi rispose: “ma guarda che in America non è che non insegnano più economia marxiana, non insegnano più neanche economia keynesiana!”
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Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnik
di Alessandro Visalli
Nel libro che Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, scrivono nel 2017 sull’imperialismo[1] c’è un’ultima parte nella quale è riportato un dialogo a distanza con David Harvey. Il notissimo geografo marxista americano svolge diverse critiche molto serrate ai due economisti indiani e questi replicano in modo altrettanto deciso. Si tratta di un confronto tra discipline e tra culture, ma anche tra posizioni interiorizzate. Sembra di leggere tra le righe il fantasma dell’oggetto stesso della contesa, la dualità centro-periferia e quella occidente-oriente e la memoria del colonialismo. L’uno scrive da britannico e da New York, gli altri da indiani e da Nuova Delhi. Ma soprattutto, pur essendo tutti critici del capitalismo e quasi coetanei, a separarli ci sono le tracce della storia. In fondo, e la lettura del libro lo mostra molto bene, i due marxisti indiani si sentono parte di una storia di oppressione e hanno qualcosa da chiedere come risarcimento.
È vero, l’India è una potenza regionale con grande proiezione di potenza economica, commerciale, tecnologica e persino militare, e Harvey di passaggio lo ricorderà. È un paese di oltre un miliardo e trecento milioni di persone e la dodicesima potenza economica mondiale. Ma è anche un paese nel quale permangono enormi differenze tra i diversi gruppi sociali, le regioni, le aree rurali ed urbane. Un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà, secondo i canoni indiani, mentre secondo quelli internazionali è oltre la metà.
In india il governo Modi è sfidato dalla mobilitazione dei contadini che impegna a fondo il Partito Comunista Indiano chiedendo la cancellazione dei debiti, la possibilità di accedere alla proprietà delle terre e l’aumento del prezzo dei prodotti agricoli.
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Potenzialità, limiti e tecnoutopie dell’intelligenza artificiale
di Benedetto Vecchi
Un lungo saggio di Benedetto Vecchi pubblicato a novembre del 2019 e rilanciato in vista della giornata di studi, organizzata ESC Atelier, Libera Università Metropolitana ed Euronomade, dedicata all’autore e alla sua ricerca sul lavoro e sulla politica nel capitalismo contemporaneo
Machine learning, predittività
Machine learning, predittività. Sono le due espressioni mutuate dall’intelligenza artificiale per indicare la radicalizzazione in atto del processo di automazione del lavoro umano. Non solo le attività manuali sono oggetto di indagine e di formalizzazione matematica da parte di ingegneri, fisici, matematici e manager per ridurre al minimo l’”interferenza” umana nel processo lavorativo; ormai anche le attività cosiddette cognitive – il lavoro impiegatizio ovviamente, ma processi di sostituzione macchinica di questo tipo di mansione sono già in corso da decenni – vedono programmi informatici, banche dati e macchine in una azione tesa a “rimuovere” la presenza umana in alcune attività, servizi e lavori che hanno avuto sempre come componente imprescindibile la capacità umana di valutare e intervenire in situazioni ritenute sofisticate dal punto di vista cognitivo o complesse. Non si tratta infatti di automatizzare lavori a basso contenuto di abilità, bensì lavori ad alto contenuto di specializzazione, come recitano i manuali aziendali o le brochure dei programmi di intelligenza artificiale ormai venduti come fossero gadget consueti del panorama aziendale.
L’umano è però ancora oggetto di desiderio e ostacolo, limite da rimuovere, come sempre quando si tratta di parlare e affrontare il sistema di macchine nel regime del lavoro salariato. Oggetto di desiderio, perché senza la sua presenza, la sua capacità di sviluppare cooperazione e di agire in accordo con le caratteristiche della specie umana – siamo pur sempre un animale sociale, meglio un essere sociale – è elemento essenziale nella possibilità di immaginare e progettare macchine che sostituiscono abilità umane.
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Virus “cinese” e boomerang di ritorno
di Michele Castaldo
«A lungo gli storici hanno ignorato l’importanza delle malattie infettive come attori della storia».
Laura Spinney
Nel luglio del 1989, subito dopo i fatti di piazza Tien an Men, ebbi l’opportunità di andare in Cina insieme a Paolo Turco, un compagno della mia stessa organizzazione internazionalista, per un viaggio offerto dal governo cinese a varie agenzie di viaggio per dimostrare che in quel paese regnava la tranquillità e che le famose rivolte degli “studenti” erano state sconfitte «con quattro scappellotti» come disse il sindaco di Pechino presente al pranzo ufficiale, offerto in nostro onore, nel più grande albergo di Pechino. Quel viaggio mi si scolpì nella memoria, perché
avevo desiderato per oltre 20 anni di andare nel paese di Mao, del libretto rosso, delle Comuni e del «fuoco sul quartier generale», e dopo solo due giorni avremmo voluto rientrare immediatamente in Italia. In due settimane visitammo, in un pazzesco tour de force (si scendeva da un aereo e si saliva su un treno, poi su un pullman) Hong Kong, Shanghai, Guangzhau, Wuan, Lanzou, Xian, per ultimo Pechino, da cui partimmo per rientrare finalmente in Italia.
Che impressione riportammo? Di un immenso cantiere, di una società entusiasta al punto da apparire nevrotica, di un popolo che non credeva ai propri occhi per i livelli di sviluppo e di benessere che andava costruendo, e – soprattutto – un’aria umida e appiccicaticcia, irrespirabile nel vero senso della parola. D’accordo che eravamo in luglio, ma la peggiore afa estiva delle nostre città era aria d’alta quota rispetto a quella che si respirava nelle metropoli cinesi in quei giorni.
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Basta con le autonomie differenziate e federalismi fiscali
Lo Stato si riappropri del sistema sanitario nazionale
di Pasquale Cicalese
L’arrivo in Italia del nuovo coronavirus ha reso palesi le gravi carenze del sistema sanitario nazionale. Vittima di un’austerità neoliberista imposta da decenni all’Italia che ha comportato quindi tagli draconiani di strutture e personale e un assurdo spezzettamento regionale che risponde a logiche federaliste sorte probabilmente come risposta alle spinte secessioniste di fine anni 90’ inizio 2000, la sanità italiana è entrata già in grossa difficoltà nell’affrontare una sfida come quella del nuovo coronavirus.
Proponiamo quindi ai nostri lettori questo saggio breve di Pasquale Cicalese del 2002 (apprezzatene la straordinaria attualità), pubblicato su "Contraddizione" dove viene preavisto come il combinato di politiche neoliberiste e federalismo avrebbero portato alla sfascio la sanità italiana.
Il testo di Cicalese ha il merito di anticipare tutto quello che sarebbe accaduto, soprattutto in regioni che la propaganda ha descritto come modello solo perché smantellavano il pubblico per regalare al privato come Lombardia e Veneto. Ora basta, lo stato deve garantire sanità, istruzione e lavoro. Solo lo stato può farlo e quindi la battaglia è meno autonomia differenziata e stupri semantici neo-liberisti simili e più stato. Ne va della nostra sopravvivenza come stiamo imparando sulla nostra pelle in questi giorni.
* * * *
A fronte delle modifiche costituzionali intervenute dopo il referendum sul federalismo dell’ottobre scorso e delle innovazioni legislative che danno maggiori e più esclusivi poteri alle regioni a statuto ordinario, contenute nel nuovo Titolo V della Costituzione, si può e si deve arrivare, dopo varie analisi dei dati riguardanti la materia del federalismo fiscale e della probabile e futura devolution, a una bocciatura drastica della riforma costituzionale e di tutto ciò che essa comporterà per il salario sociale di classe, in particolare riguardo ai ceti proletari delle grandi città e del mezzogiorno.
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Da Wittgenstein a Marx via Rossi-Landi
di Roberto Fineschi*
Introduzione
Quando sono stato invitato a scrivere un contributo sul rapporto Marx-Wittgenstein sono stato un po’ esitante. In primo luogo non sono certo un esperto di Wittgenstein, anzi, sono un modesto lettore delle sue opere più importanti e non ho molto di significativo da dire in proposito. In secondo luogo, come esperto di Marx, solo tangenzialmente mi sono occupato di temi legati alla filosofia del linguaggio o alla semiotica. Ho però cominciato a leggere un po’ di letteratura ed ho trovato diversi spunti interessanti, soprattutto nel semiologo marxista italiano Ferruccio Rossi-Landi (ROSSI-LANDI 1968, 1977, 1983) e in altri interpreti (ABREU 2008; GAKIS 2015; KITCHING & PLEASANTS 2002; READ 2000; RUBINSTEIN 1981). Alla luce di questi studi ho forse inteso meglio come trattare il tema e deciso di contribuire.
La prima parte di questo saggio è dedicata alla lettura di Wittgenstein proposta da Rossi-Landi, la seconda all’analisi di come Rossi-Landi cerchi di risolvere attraverso Marx quelle che reputa aporie di Wittgenstein, la terza, infine, a una valutazione critica della questione e al senso di un possibile rapporto Marx-Wittgenstein.
1. Il Wittgenstein di Rossi-Landi
La lettura di Wittgenstein da parte di Rossi-Landi è chiaramente influenzata dalla sua intenzione di sviluppare una teoria marxista della linguistica. Il suo scopo non è una ricostruzione critica del suo pensiero, ma fornire un solido fondamento al suo progetto nella stessa tradizione della filosofia del linguaggio (la stessa cosa che cerca di fare nel suo dialogo con Saussure).
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Intervista a Thomas Fazi
di Bollettino Culturale
Thomas Fazi è un giornalista, saggista e traduttore italiano, tra i più importanti divulgatori della MMT nel nostro paese. In questi anni ha pubblicato due importanti libri: “La battaglia contro l’Europa” e “Sovranità o barbarie”.
In rete è possibile trovare numerosi suoi articoli pubblicati per Senso Comune e Sbilanciamoci o raccolti nella famosa piattaforma Sinistra in rete. Possiede un proprio sito web.
1. Lei è uno dei massimi esperti della MMT in Italia. Vorrei sapere che legami ha questa teoria economica con il marxismo e la ritiene la chiave per rilanciare l’economia italiana?
Innanzitutto ci tengo a precisare che io, più che un esperto, mi ritengo un mero divulgatore della MMT che ha avuto la fortuna di conoscere e di lavorare a stretto contatto con uno dei fondatori della teoria in questione, Bill Mitchell – lui sì un vero esperto –, e dunque di abbeverarsi direttamente alla fonte del sapere, per così dire! Fatta questa doverosa premessa possiamo continuare. Ora, a prima vista i legami tra la MMT e la teoria marxista potrebbe apparire piuttosto deboli. Quest’ultima si occupa soprattutto dei rapporti interni al mondo della produzione, mentre la MMT si occupa soprattutto dei rapporti tra la sfera della produzione e quella delle politiche economiche e in particolare delle politiche di bilancio. In questo senso, la MMT ha un rapporto molto più stretto con la teoria keynesiana e soprattutto post-keynesiana, di cui rappresenta per certi versi un’evoluzione. Se analizziamo la questione più a fondo, però, emergono diversi punti di contatto con la teoria marxista. La MMT, infatti, mostra come i rapporti di forza interni al mondo della produzione – quelli, cioè, che intercorrono tra capitale e lavoro – siano una diretta conseguenza delle politiche economiche, nella misura in cui sono queste ultime a determinare, tra le altre cose, il tasso di occupazione e dunque il potere contrattuale delle classi lavoratrici. L’analisi della MMT è dunque implicitamente un’analisi di classe (ma per certi versi lo stesso si potrebbe dire, per gli stessi motivi, anche della teoria (post-)keynesiana, a prescindere dagli usi e abusi che ne sono stati fatti nel corso della storia).
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Sogni e realtà della Cina del 2020
a cura di Giovanni I. Giannoli*
Nell’introdurre il nostro incontro, voglio innanzi tutto ringraziare Silvia Calamandrei, Marina Miranda Romeo Orlandi e Simone Pieranni, che hanno accettato di condividere la loro esperienza e i loro studi, per questo seminario di informazione e di riflessione sulla Cina contemporanea. A nome della «Fondazione Basso» e del suo presidente, ringrazio tutti i convenuti, che con la loro presenza sostengono il nostro interesse per il tema.
Questo incontro avviene in un periodo del tutto particolare: sono certo che ne parleranno diffusamente coloro che mi seguiranno tra poco. La Cina affronta in queste settimane una prova che non ha probabilmente analoghi nella nostra memoria. Più che all’aspetto strettamente sanitario, mi riferisco soprattutto ai riflessi e alle implicazioni che l’attuale epidemia può ben presto avere, sul piano sociale, economico, politico, psicologico e comportamentale, a causa dell’estensione e – soprattutto – della rapidità con la quale queste implicazioni sembrano capaci di diffondersi a livello globale: ben al di là, per altro, dei confini cinesi. Comunque, questa drammatica prova potrebbe investire alcuni nodi cruciali dello sviluppo e dell’attuale congiuntura cinese. Tutti quanti, immagino, condividiamo l’augurio di un rapido e duraturo successo, al grande Paese, nel circoscrivere e superare la crisi attuale.
Non è certo da oggi che la «Fondazione Basso» pone al centro della sua riflessione i nodi più complessi e problematici delle società contemporanee: la natura e l’evoluzione dei rapporti di produzione, le forme dell’esercizio del potere, il terreno dei diritti e quello della democrazia. Proprio in queste settimane, abbiamo avviato un nuovo programma di studi, che riguarda le controverse e precarie relazioni tra capitalismo e democrazia: tra le attuali forme (e tendenze) dei rapporti di produzione e i molteplici sintomi di una crisi profonda della democrazia.
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La metafisica, la civiltà della tecnica, il nichilismo e le radici della violenza
di Francesco Sirleto
Rileggere Téchne di Emanuele Severino, a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione
“Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è piuttosto il movimento fondamentale della storia dell’Occidente. Esso rivela un corso così profondamente sotterraneo, che il suo sviluppo non potrà determinare che catastrofi mondiali. Il nichilismo è il movimento storico universale dei popoli della terra, nella sfera di potenza del Mondo Moderno … Il dominio in cui sono possibili così l’essenza come l’esistenza del nichilismo è la metafisica stessa, purché noi vediamo in essa non una dottrina, o addirittura una particolare disciplina filosofica, ma quell’ordinamento dell’ente nel suo insieme in virtù del quale esso viene suddiviso in mondo sensibile e ultrasensibile, facendo dipendere quello da questo” (M. Heidegger, da La sentenza di Nietzsche: Dio è morto, in Sentieri interrotti).
La lunga citazione tratta da un’opera ben nota di M. Heidegger (Sentieri interrotti, pubblicata nel 1950, come raccolta di vari saggi e conferenze risalenti per lo più agli anni Trenta), assume un particolare significato se ci soffermiamo sull’oggetto di queste brevi considerazioni scaturite dalla “rilettura”, dopo moltissimi anni, di un’opera fondamentale (Téchne, le radici della violenza) di Emanuele Severino, scomparso il 17 gennaio scorso alla venerabile età di più di 90 anni. In questo libro, la cui prima edizione è del 1979, è contenuto l’essenziale di tutto il pensiero elaborato, nella sua lunghissima carriera di filosofo praticante, dall’illustre professore emerito dell’Università veneziana Ca’ Foscari, nella quale fu tra i fondatori della Facoltà di Lettere e di Filosofia. Nella citazione posta in epigrafe appaiono, infatti, alcuni dei concetti che hanno costituto il principale oggetto di riflessione da parte del pensatore bresciano: nichilismo, Occidente, metafisica, ordinamento dell’ente.
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50 anni dopo, anche il liberismo ha finito il suo tempo
di Claudio Conti
Con un intervento in calce di Guido Salerno Aletta
La sensazione insiste da tempo. Lo stallo generale in cui siamo immersi – incrinato parzialmente ora dalla “paura globale” per un virus di limitata pericolosità – dura da anni. Uno scivolamento lento verso una condizione peggiore ma non ancora intollerabile, o forse tollerato solo perché lento e graduale. Una evidente incapacità-impossibilità per le classi dirigenti globali di trovare una “soluzione” alla crisi, per via del suo carattere mondiale e dei limitati strumenti – nazionali, o al più continentali – in mano ai decisori pubblici.
Però ogni stallo è una marcescenza. I problemi si accumulano, per quanto silenziati o rinviati. E le possibili soluzioni diventano sempre meno applicabili, perché si moltiplicano le connessioni tra un problema e l’altro.
Per esempio, chi vede l’immigrazione come un problema gravissimo non vede, in genere, l’emigrazione dei suoi connazionali – specie giovani, istruiti, preparati – verso luoghi in teoria più promettenti. E soprattutto non vede le ragioni strutturali che spingono così tante persone ad affrontare l’ignoto in un altro paese o continente, in diversi contesti culturali e linguistici.
Chi vede le ragioni strutturali (economiche o ambientali) spesso non coglie la complessità delle reazioni in popolazioni sottoposte contemporaneamente a uno stress economico-sociale (perdita di salario, status, sicurezza economica, speranza nel futuro) e a uno “epidermico-culturale” (“lo straniero in casa”).
Dovunque ci si giri non si incontra nulla di stabile, se non l’incrudimento delle reazioni repressive da parte di centri si potere che dappertutto sentono salire il malessere sociale.
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Sulla crisi strutturale della sinistra
di Alessandro Pascale
Il 2 febbraio il compagno Gordan Stosevic mi ha contattato per pormi alcune domande sull’attualità politica italiana ed internazionale, concentrando l’attenzione sulle problematiche riguardanti il movimento comunista. L’intervista sarebbe dovuta uscire sul suo sito Ilgridodelpopolo.com; Stosevic si è visto però impossibilitato a pubblicare il pezzo in questione dato che il suo sito è stato nel frattempo oggetto di un attacco informatico.
Abbiamo convenuto assieme di darne quindi pubblicazione su questo portale [ap].
– Per iniziare l’intervista, la sinistra vive più una crisi ideologica o politica oggi?
– Innanzitutto intendiamoci sul significato del termine “sinistra”, espressione che nel senso comune è ormai associata ad una visione liberista e liberale che nei migliori casi ha leggere sfumature di socialdemocrazia ma che è strutturalmente incapace di mettere in discussione il sistema vigente. Questa “sinistra” così intesa ha ancora un suo seguito di massa ma è palesemente in crisi, anche se continua ad essere considerata un argine contro il “ritorno del fascismo”, presunto o reale che sia. Distinguerei tra persone e gruppi organizzati che si sentono interiormente dalla parte del progresso sociale ma che mancano degli strumenti ideologici per comprendere l’inadeguatezza della propria proposta politica, da persone e gruppi che invece utilizzano strumentalmente l’identità di sinistra per introdurre idee e temi storicamente appartenenti alla destra. Questi ultimi, ossia la destra che si camuffa da sinistra, sta tutto sommato bene, dato che il suo obiettivo principale è quello di impedire il risorgere di una coscienza di classe anticapitalista. Mi sembra di poter dire che la crisi dei primi, ossia della “vera” sinistra, sia figlia di una dialettica figlia di una serie di rigetti ideologici e politici che si sono stratificati nel tempo. Se dovessi identificare il “peccato originale”, direi che la crisi ideologica della sinistra parte dalla destalinizzazione del 1956. Da lì è iniziata l’opera di smantellamento progressivo della teoria di riferimento. In URSS e in Occidente nel giro di poco più di 30 anni si è passati dall’egemonia del marxismo-leninismo al ripudio completo delle teorie di Marx ed Engels, a favore del ritorno in grande stile di un “liberalismo” sempre più restio al compromesso sociale e improntato in senso elitario. La “fuga” dal marxismo è un atto sciagurato che ha fatto regredire culturalmente e politicamente l’intero movimento progressista occidentale.
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Perchè non possiamo non dirci sovrani
di Carlo Galli*
Trascrizione rivista dall’autore della prolusione alla conferenza Euro, Mercati, Democrazia 2019 – Decommissioning EU, svoltasi a Pescara nei giorni 26 e 27 ottobre 2019
Buon pomeriggio a tutti. Devo parecchi ringraziamenti ad Alberto Bagnai, al presidente Ponti e a tutti coloro che hanno pensato che la mia presenza sarebbe stata utile, oltre che naturalmente a voi che siete qui ad ascoltare.
Io sono qui perché ho pubblicato un libro il cui titolo è Sovranità; libro relativamente facile, divulgativo, che nasce dal fatto che – come studioso, molto più che come politico – non mi sono per nulla sentito a mio agio con l’invenzione lessicale del termine «sovranismo» e con l’uso della parola «sovranista» come un insulto. E quindi ho messo in piedi una riflessione, il cui contenuto in parte adesso vi consegno. Dico «in parte» perché nel libro vi sono molti passaggi storici e filosofici che non è il caso di portare qui; però, alcune questioni è il caso di portarle per un obiettivo – l’obiettivo fondamentale che in questa fase della mia esistenza io mi pongo –: in questo Paese c’è una gravissima questione di egemonia culturale; detto in un altro modo, c’è una gravissima questione di conformismo.
La politica, se vorrà e saprà, potrà fare la sua battaglia, ma sicuramente la intellettualità italiana dovrebbe fare la propria e secondo me non la sta facendo – per una serie di motivi che non voglio neppure enumerare –. La cosa più importante oggi è fare passare l’idea che è possibile un diverso punto di vista sulle cose dell’Italia, dell’Europa e del mondo.
Ideologia
Un «diverso punto di vista», ad esempio, rispetto al fatto che già questa frase mi verrebbe contestata, perché potrebbe essere accusata di nascondere l’intento di far nascere e rinascere, inventare, una ideologia nell’epoca in cui le ideologie sono finite. Ora, questa non è l’epoca in cui tutte le ideologie sono finite.
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Aristotele e Marx
di Leo Essen
I
Agli occhi degli economisti del XVIII secolo gli individui indipendenti della moderna società borghese appaiono come un ideale la cui esistenza appartiene al passato. Non come un risultato storico, dice Marx (Introduzione del 57), ma come il punto di partenza della storia. Il lavoratore indipendente conforme a natura non è infatti, secondo la concezione della natura umana degli economisti, originato storicamente, ma posto dalla natura stessa. Quanto più risaliamo indietro nella storia, dice Marx, tanto più l’individuo – e quindi anche l’individuo che produce – ci appare non autonomo. La produzione ad opera dell’individuo isolato è un non senso. Allo stesso modo è mitologico pensare che l’origine dell’idea di Economico sia spuntata in testa bella e fatta e sia stata poi applicata.
A questo punto, dice Marx, poiché ogni periodo storico è una singolarità diversa da tutte le altre, sarebbe impossibile parlare, in riferimento a periodi diversi, di Economico, di Lavoro, eccetera, perché nel tempo l’attimo scorre e non si fissa in niente.
In ogni caso, continua Marx, tutte le epoche hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale – ad esempio – è un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Allo stesso modo il lavoro in generale.
In quanto generalità, dice Marx, il lavoro è una categoria antichissima. D’altra parte, dice, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui il genere determinato del lavoro è fortuito e quindi indifferente.
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Wuhan e dintorni
Intervista al Prof. Francesco Maglioccola
Intervistiamo oggi il Professor Francesco Maglioccola, architetto e ricercatore presso l’Università Parthenope di Napoli, noto per il suo lavoro di catalogazione dei libri conservati nella biblioteca di Hankou, fondata dai francescani a metà dell’Ottocento e che ha vissuto a Wuhan gli ultimi cinque anni viaggiando in Cina nel corso degli ultimi venti
O.G. Professore, alla luce delle vicende delle ultime settimane, come esperto di Cina, mi piacerebbe intervistarla per restituire ai lettori una più completa visione su cosa sia la città di Wuhan e in generale la cultura cinese, essendo la città peraltro, come lei ci insegna molto legata all’Italia per tutta una serie di vicissitudini storiche.
F.M. Sì, grazie mille per l’invito. Cominciamo con il dire che sono legami molto stretti quelli tra Wuhan e l’Italia; Wuhan ha ospitato il consolato italiano all’inizio del secolo scorso fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando i consolati stranieri in Cina non erano molti, ma noi l’avevamo. Le concessioni invece non vennero mai aperte per motivi economici che non potevamo allora sostenere e aprimmo così a Tianjin. Fummo “sostituiti” a Wuhan dagli inglesi e dai francesi. Questi ultimi sono ancora estremamente attivi nella zona e nella città di Wuhan, la loro influenza interna è abbastanza forte, data la loro pregressa presenza.
O.G. Professore, in questi giorni non si fa altro che parlare del coronavirus, tecnicamente il Covid-19, inutile dirlo. Perché tanto panico? E soprattutto sono molte, forse troppe le voci riguardo l’origine della diffusione di questo. Dai mercati del pesce dove possa essersi sviluppato e poi guizzato all’esterno senza controllo, all’utilizzo dei pipistrelli in cucina, alla fuga dal laboratorio di ricerca, fino all’arma batteriologica. Cosa ne pensa?
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Gioie e dolori dell’autodissociazione
di Valeria Turra
Gli eventi politici delle ultime settimane vorrebbero chiudere per Giuseppe Conte, non ci fossero evidenti sfasature, un cerchio, da molti mesi iniziato a disegnare, per accentrare su di sé il potere a scapito dei partiti eletti dal popolo sovrano; un cerchio di cui l’elettore ha avuto prima contezza in occasione della conferenza stampa tenuta dall’allora primo ministro del governo gialloverde la sera del 3 giugno 2019, ovvero all’indomani dell’exploit leghista alle Europee. Partito con toni accomodanti verso entrambi i suoi vice, il premier palesa nel finale lo scopo vero della convocazione dei giornalisti: entrambi, Di Maio e Salvini, dovranno lasciargli carta bianca nelle trattative europee, altrimenti Conte rimetterà l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica. Già in quei giorni non fu difficile prevedere che, dietro il dichiarato tentativo di scongiurare una (discutibilissima) procedura di infrazione per debito eccessivo, ci fosse il rischio di dovere accettare contropartite rischiose per l’economia italiana, e intuire che dietro l’ultimatum di Conte premesse l’urgenza di un’assunzione di “pieni poteri” per trattare in sede europea questioni delicatissime per il popolo italiano senza l’interferenza dei partiti votati (nella fattispecie, come solo gradualmente si farà palese, il (presunto) “pacchetto Mes”), mettendo in assoluto non cale il fatto che gli elettori considerassero il presidente del Consiglio (autoproclamatosi solo un anno prima «avvocato del popolo») come semplice garante di un programma critico verso l’Ue e non un leader che autonomamente potesse gestire i rapporti europei con tanto di “postura di resa” all’asse franco-tedesco.
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Circa il giusto modo di invecchiare
Dedicato a Nicoletta Dosio 3
di Eros Barone
Tutte le civiltà conosciute si caratterizzano per la contrapposizione tra una classe di sfruttatori e delle classi di sfruttati. La parola vecchiaia esprime due specie di realtà profondamente diverse a seconda che si consideri quella o queste. Ciò che falsa le prospettive, è che le riflessioni, le opere, le testimonianze concernenti l’età avanzata, hanno sempre riflettuto la condizione degli eupatridi: sono soltanto loro a parlare. 1
Affinché la vecchiaia non sia una comica parodia della nostra esistenza precedente, non v’è che una soluzione, e cioè continuare a perseguire dei fini che diano un senso alla nostra vita: dedizione ad altre persone, a una collettività, a una qualche causa, al lavoro sociale, o politico, o intellettuale, o creativo. 2
Simone de Beauvoir, La vieillesse.
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Un archetipo della gerontologia: il De senectute di Cicerone
La vecchiaia non è un argomento allegro, perché evoca il carattere ineluttabile della morte, di cui essa è considerata l’anticamera. Tuttavia, conviene parlarne e rifletterci sopra, perché in tal modo, oltre a neutralizzare l’angoscia che provoca, di primo acchito, il discorrere di entrambe – della vecchiaia e della morte -, è possibile far emergere,, di fronte all’‘unheimlich’ 4 che è il loro carattere fondamentale, da un lato i limiti della riflessione filosofica occidentale e, dall’altro, un approccio alternativo e una diversa prospettiva.
Da questo punto di vista, il trattato di Cicerone, Cato maior, de senectute, è esemplare: in primo luogo, perché, riassumendo l’essenziale delle idee dell’antichità classica sul tema, influenzerà durevolmente il pensiero occidentale posteriore e, in secondo luogo, perché, come suole accadere tanto ad autori antichi quanto ad autori contemporanei (lo vedremo prendendo in esame la riflessione di Norberto Bobbio su tale tema), è evidente lo sforzo, che ne pervade ogni pagina, di esorcizzare lo spettro incombente della morte.
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Distopie del contagio
Epidemie e paura nella letteratura e nel cinema
di Guy Van Stratten
L’allarme scatenato dalla diffusione del coronavirus rischia di trasformare la realtà in un vero e proprio universo distopico, come è stato tratteggiato in numerosi romanzi e film di fantascienza che mostrano una società del futuro devastata da virus sconosciuti. Se è indubbiamente lecito avere paura del coronavirus, è anche lecito temere tutto il sistema di controllo e isolamento messo in atto per cercare di contrastarlo. Sui telegiornali, sui social, sui blog e sui siti delle più svariate testate giornalistiche sentiamo parole come “zona rossa” (la “zona rossa”, impenetrabile per i manifestanti, c’era anche durante il G8 di Genova), “quarantena”, “isolamento”, parole che si ricollegano, nel nostro immaginario, a tutto un sistema di controllo pervasivo e dittatoriale. Ad esempio, a quelli appena citati, può essere benissimo associato il termine “coprifuoco”: quest’ultima, come le altre, è una parola che viene usata per regolamentare e controllare il comportamento sociale degli individui. Siamo perciò nel campo semantico del controllo e della sorveglianza. Si corre il rischio che l’utilizzo di questi mezzi divenga eccessivo e incontrollato, dominato dal caos e dalla paura. Svolgiamo adesso alcune riflessioni su quanto sta accadendo intorno a noi. Il nostro immaginario corre subito alle raffigurazioni della società che abbiamo visto in molti film distopici: interi quartieri e città blindati, controllati dall’esercito in tenuta antisommossa e con maschere di ossigeno, mitra spianati contro chiunque non rispetti il divieto di passaggio, coprifuoco notturno come in tempo di guerra e chi più ne ha più ne metta (e si noti che questi scenari catastrofici sono generati proprio dal prevalere del caos e della paura).
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