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L'orientamento della sinistra davanti al problema del lavoro

di Sergio Farris

Relazione presentata al convegno organizzato dal Coordinamento della Sinistra di ValleTrompia il 15/02/2020

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Che il lavoro in Italia non possa essere considerato in situazione ottimale e che i lavoratori dipendenti non attraversino un periodo florido, quasi tutti sono disposti ad ammetterlo. I più avveduti riconoscono anche la tendenza in corso all'aggravamento della disuguaglianza e all'approfondimento della povertà assoluta e relativa.

Tutti i maggiori partiti si dichiarano favorevoli ad affrontare il tema del lavoro. Solitamente essi pongono l'incremento e la tutela dell'occupazione al primo posto nelle rispettive agende politiche. Specialmente quando le pagine dei giornali rendono conto delle ricorrenti crisi aziendali.

Vi sono tuttavia rimarchevoli differenze riguardo alle analisi e ai metodi con i quali l'argomento può essere focalizzato. Altrettanto vale per i mezzi politici da attivare al fine di raggiungere un elevato livello di occupazione e posti di lavoro di qualità.

Attualmente il tasso di disoccupazione ufficiale è di circa il 10%. Gli occupati assommano a circa 23 milioni. Il tasso di disoccupazione giovanile si avvicina al 30%. Va meglio a Brescia e in altre zone del Nord, territori in cui la disoccupazione è storicamente inferiore rispetto alla media nazionale. Comunque, quando si tratta del tasso di disoccupazione, va anche tenuto conto di fenomeni quali il part-time involontario, il diffusissimo precariato, il lavoro autonomo sotto forma di false partite Iva, eccetera. (Ufficialmente, gli autonomi regolari sarebbero 5 milioni 363 mila). E soprattutto, anche quando ci si riferisce agli occupati, andrebbe tenuto conto delle retribuzioni e della qualità delle prestazioni lavorative. (Si ha spesso a che fare con lavoro povero, soprattutto nel composito settore dei servizi).

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Come si lavora, oggi? In quali settori l'occupazione è prevalente?

Come si può valutare l'effetto dei mutamenti tecnologici e della globalizzazione?

Come si può pensare a politiche di crescita dell'occupazione? Si può pensare all'intervento pubblico?

Le politiche governative – ad es. incentivi come lo sgravio sul cuneo fiscale – sono la soluzione appropriata?

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L'economia è una questione troppo seria per essere lasciata – come spesso avviene – a dibattiti troppo superficiali. Eppure è l'economia a costruire l'assetto sociale e istituzionale in cui ci si trova a vivere e a operare. Ed è la condizione economica delle persone a determinare – più o meno consapevolmete – gli esiti politico-elettorali. Eppure, essa è spesso rappresentata in termini asettici, come se si trattasse di un fenomeno naturale e poco controllabile. I margini di politica economica si limiterebbero a pochi e ricorrenti interventi. (Ad es., tutti dichiarano che verrà alleggerito il carico fiscale). E se qualcosa non va, la colpa non è mai del capitale.

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Imperano vari luoghi comuni: ad esempio, ricorre sovente la pubblicazione di editoriali ove il motivo conduttore risulta il 'mismatch' – la frizione – fra la domanda di lavoro da parte delle imprese e l'offerta di lavoro da parte di potenziali candidati. Ne emerge un contesto in cui sarebbe vigente un regime di tendenziale pieno impiego e in cui, in particolare, le imprese – rappresentate sempre all'avanguardia nell'aggiornamento tecnologico – sarebbero costantemente pronte ad assumere ma non troverebbero nel mercato figure professionali adeguate. (In tal caso, il primo imputato sarebbe il sistema pubblico dell'istruzione). Non è proprio così.

A parte il fatto che tale assunto ricorda molto da vicino il mercato del lavoro delineato a suo tempo da Milton Friedman (contraddistinto dalla disoccupazione frizionale), l'aspetto qui rilevante è che esso rappresenta solo una parte della realtà. Si tratta di un fenomeno che tocca relativamente poche realtà produttive e soltanto una fascia molto ristretta di imprese. Soprattutto, non si spiega come mai moltissimi giovani qualificati emigrino all'estero. Imputare la disoccupazione al 'gap' fra livello tecnologico messo in campo dalle imprese e livello di istruzione della forza lavoro risulta però funzionale al mantenimento della 'presa' che le prime esercitano sulle politiche governative. (Il 'leitmotiv' è agevolare le imprese in quanto esse investirebbero costantemente le risorse datele dal favore politico e i benefici si rifletterebbero sull'intero corpo sociale).

Cominciamo comunque da questo presupposto: secondo il pensiero corrente le aziende private investono, assumono e immettono beni e servizi nel mercato. Le contrattazioni sarebbero simmetriche, fra soggetti liberi. I lavoratori sarebbero liberi di optare per un lavoro invece che per un altro e sarebbero perfino liberi di scegliere se restare disoccupati. Anche i lavori sottopagati e che si tengono in condizioni svantaggiate, sarebbero frutto di scelta volontaria e consapevole. Il mercato, ove si svolgono le interazioni fra soggetti razionali – che, cioè, massimizzano il proprio interesse – funziona come un orologio a meno che qualche perturbazione esterna non ne diminuisca le prestazioni. Infine, i compensi sarebbero distribuiti sulla base del merito individuale, ovvero la produttività di ciascuno. Questa è la teoria maggiormente diffusa e addotta a giustificazione delle scelte politiche più frequenti.

(Tacendo, in verità, che a cagione della politica deflazionistica frutto della controrivoluzione neoclassica e padronale del capitalismo – soprattutto finanziario – nonchè dell'ordoliberalismo tedesco applicato all'Europa, il mondo è soggetto a un declassamento salariale e quindi a un costante spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale).

Un altro luogo comune da sfatare è quello secondo cui i nostri problemi deriverebbero – fra l'altro – dall'indolenza sul lavoro: ebbene, la ricchezza di un paese dipende dalla sua produttività. Sono i capitali, le tecnologie, le infrastrutture, la conoscenza, l'istruzione e le istituzioni, i fattori che determinano la produttività. E questi non dipendono dai lavoratori, ma da coloro che controllano tali fattori, cioè le imprese e lo stato. Se la produttività è insoddisfacente è perchè questi attori non impiegano e ripartiscono i fattori produttivi in modo equo e consono, sia in termini di quantità che di qualità.

Infine, vi è la questione del costo del lavoro. Oggi sussistono ben 10 misure governative che incentivano le assunzioni, ponendo quale presupposto giustificativo il presunto eccesso del costo del lavoro. Occorre domandarsi se è sempre la politica appropriata.

Ma vediamo prima qualche ulteriore fattore che influisce sul lavoro e sull'occupazione. Si tratta di fattori che vengono solitamente presentati come esogeni, da accogliere e accettare come 'dati'.

 

1) Globalizzazione

E' sentire comune che l'apertura dei mercati agli scambi internazionali – ponendo cioè, ad essi, meno vincoli possibili – rechi benefici generalizzati. Il riferimento va, in particolare, alla fase della globalizzazione culminata con l'istituzione dell'Omc, l'Organizzazione mondiale del commercio. (Quella fase, cioè, che a seguito della rivoluzione informatica degli anni '80 e '90 del '900 nonchè a seguito del ritorno di un'aggressivo liberismo, è stata caratterizzata dall'intensificazione dei rapporti commerciali internazionali). Vi sono tuttavia limiti e controindicazioni ascrivibili alla teoria dei benefici generalizzati, soprattutto riguardo agli effetti sul lavoro e sul benessere delle comunità nazionali e locali. (Evidentemente non è per caso se si assiste ora a un arretramento della globalizzazione). E' risaputo che il modo con cui è stato concepito e realizzato l'ordine globale internazionale ha preparato la via alla tremenda crisi finanziaria del 2008. Inoltre, il modello di globalizzazione malsano che conosciamo ha avuto gravose conseguenze distributive. Tali conseguenze ci costringono a sottoporre gli accordi commerciali che quell'ordine caratterizzano a una revisione critica. (Un'urgenza impellente è, allora, quella di farla finita con modelli teorico-comportamentali che descrivono mercati efficienti e in grado di autoregolarsi; inoltre, gli accordi sono sempre stati condizionati dagli interessi delle multinazionali, soprattutto americane). Stante il fatto che la globalizzazione favorisce alcuni gruppi sociali e ne danneggia altri, una posizione più appropriata nei confronti del commercio internazionale dovrebbe contemplare la possibilità di poter tassare i beneficiari e pensare di risarcire i perdenti. (Quanto al tasso di crescita, l'evidenza dice che l'effetto dell'apertura commerciale è poco chiaro e dipendente da diversi elementi). Inoltre, vari beni – forse la maggior parte dei servizi che vanno tendenzialmente a influenzare il modo in cui si lavora e a incidere sulla creazione di lavoro – non sono esportabili. Se è vero che, per quanto riguarda la manifattura, esistono le cosiddette catene internazionali del valore (per cui i processi produttivi sono scomposti e dislocati) le quali richiedono altresì reti infrastrutturali transnazionali, gran parte del futuro lavoro potrà essere 'locale'. (Abitazioni sociali, servizi alla persona, ecc.). Infine, si potrebbe assistere nei prossimi decenni a fenomeni di rilocalizzazione delle produzioni nei paesi di prima industrializzazione (Usa e Europa). Se l'automazione, la robotica e l'intelligenza artificiale dovessero conoscere un definitivo impulso, si potrà verificare una ricomposizione dei processi lavorativi ora parcellizzati. Saranno sempre più i 'dati' – il digitale – a muoversi.

Non possiamo più permetterci – alla leggera – di pensare che tutto ciò che occorre fare per incentivare la prosperità sia togliere barriere e ostacoli agli investimenti stranieri.

Quando la globalizzazione crea effetti distributivi indesiderati e problematici a livello nazionale – colpendo i già deboli – non bisogna istintivamente reagire a chi solleva preoccupazioni attaccandolo volgarmente e sbrigativamente come un bieco nazionalista – o sovranista – degli anni '30 del '900. Perchè un problema c'è. Negarlo significa schierarsi ciecamente a favore delle teorie liberiste che assumono l'efficienza del mercato, il vantaggio comparato e la mano invisible come dati, senza distinguo e sfumature. Lo stesso vale per la fideistica adesione all'Unione europea e all'euro.

Un'economia può reagire diversamente rispetto a un mutamento nei volumi commerciali – come le importazioni – che seguono a un accordo liberalizzatore. I settori colpiti dal cambiamento possono soffrire ingenti perdite di posti di lavoro e non è certo che queste perdite vengano riassorbite da altri settori, specie se un'economia ristagna. Lo stesso vale per i salari. Può prodursi una pressione al ribasso. Può darsi che un afflusso di beni a basso prezzo aiuti in parte il potere di acquisto del Paese in questione, ma non è detto che – tirando le somme – tutti, in parallelo, ne guadagnino. (Molti credono che se i mercati sono flessibili, si avrà presto un aggiustamento; ma per coloro privi di reddito e che in tale condizione posson permanere anche molto a lungo, nulla cambia in positivo). A questo punto, potremmo pensare, deve intervenire lo stato. Con un mix di politiche monetarie e fiscali appropriate l'autorità pubblica può ripristinare condizioni di auspicio per un'elevata occupazione e per un avanzamento reddituale. Si consideri la questione dell'immigrazione. Al di là degli aspetti umanitari, che devono sempre farci propendere per l'accoglienza, una volta avvenuto l'ingresso dei nuovi venuti occorre adoperarsi per un'effettiva integrazione. Se gli immigrati vengono marginalizzati, se vengono relegati in periferie urbane – magari a contatto con i 'penultimi' – dove non sussiste una adeguata rete di servizi e di provvidenze, possono ingenerarsi nei residenti autoctoni sentimenti di avversione dati da una presunta concorrenza per l'accaparramento di risorse e lavoro scarso. Non deve stupire più di tanto che ciò avvenga in un paese – come il nostro – declinante e segnato dalla mancanza di politiche pubbliche all'altezza delle necessità sociali.

Vi è poi il potere degli attori protagonisti agenti nel mercato, che ha evidenti ripercussioni sul potere politico degli stati nazionali. E questo potere è andato molto a rafforzarsi durante la controrivoluzione liberista. Si tratta di un tema connesso con numerose crisi aziendali e con le delocalizzazioni che hanno costellato gli anni 'novanta' e 'duemila'. La libertà di azione e di movimento dei capitali è una minaccia costante per il lavoro e le sue tutele.

Quante volte abbiamo sentito ripetere che al fine di attrarre investimenti esteri dobbiamo imporci una disciplina? (O meglio, dobbiamo lasciarci imporre la disciplina dei mercati!). A parte il fatto che non si capisce perchè un paese che detiene un proprio ampio risparmio – o risparmio interno – debba fare affidamento su quello internazionale, il punto è che quando l'apertura indiscriminata al mercato sortisce effetti nefasti sul piano interno, la politica nazionale dovrebbe potere disporre di utili strumenti atti a contrastare o ad alleviare tali effetti.

(L'appartenenza alla Ue ed anche all'eurozona è un caso paradigmatico dell'impotenza di un Paese membro dinanzi al mercato. Ovviamente, poi, i tentativi di garantire un minimo di interesse per le comunità nazionali trovano quale unico tavolo di rivendicazione quello del Consiglio europeo, ovvero il livello politico – e non tecnocratico – dell'Unione; e qui sappiamo benissimo quali sono i Paesi che contano di più, con l’ovvia egemonia dei paesi economicamente e politicamente più forti).

Gli anni della 'New economy', contraddistinti dall'avvento della tecnologia informatica e delle telecomunicazioni sono stati anche gli anni della finanza rampante. I grandi banchieri d'affari hanno saputo imporre la loro ideologia alla politica – da essi spesso catturata e con essi collusa – e la loro disciplina alla società. Una disciplina fondata sul controllo dei conti pubblici e sull'inibizione del controllo pubblico dell'economia, con gravi strascichi sulla tenuta democratica in molti Paesi. (E' utile sottolineare che è questa l'origine della crisi che stiamo attraversando).

La crisi eruttata nel 2008 sarebbe dovuta essere l'occasione perchè la sinistra tornasse a mettere in discussione il mercato, la globalizzazione e il pensiero che la sorregge. Dopo l'estinzione del 'movimento di Seattle', la sinistra non ha saputo riprendere in mano la questione.

Non si sarebbe dovuto lasciare alla destra il primato della critica alla globalizzazione.

Spesso, il vantaggio di certi poteri è quello di poter esercitare la loro influenza in modo larvato, cioè senza che - in apparenza - il cittadino medio possa in maniera tangibile associare la propria condizione all'operato di tali poteri.

Come spiegare in modo semplice che il problema che attanaglia oggi le democrazie nazionali è la presenza di una sorta di 'governance' sovranazionale a guardia della cosiddetta libertà di movimento dei capitali? All'interno di questa cornice, ogni stato nazionale che non possa contare su un surplus interno (o risparmio) per gli investimenti, è portato a cercare di ottenere un afflusso di capitali ed a cercare di evitare che si verifichino deflussi all'estero di capitali. Come si attraggono i capitali? O con una politica di tassi d'interesse elevati (vedasi quello che è stato nell'Italia post – divorzio fra autorità monetaria e autorità fiscale negli anni '80 del secolo scorso) e/o con una politica di riduzione delle prestazioni di welfare e diritti sociali, cioè, in sintesi, con la ricerca della competitività dal lato dei costi e con l'offerta al capitale di condizioni favorevoli alla profittabilità (meno imposte, minore progressività del sistema fiscale, basse retribuzioni). Inoltre, se un paese cerca di espandere la propria domanda interna rischia di vedere molto presto l'emergere di un deficit della bilancia dei pagamenti (o dei conti con l'estero) e il rischio di una crisi valutaria. (Oppure, per i paesi che non emettono valuta propria, una crisi del debito pubblico). Ecco perchè i complici politici dell'establishment, ponendosi in una posizione di deferenza rispetto ai poteri che contano, puntano sulla stabilità e sulla sovraordinazione dell'azione governativa rispetto alla rappresentanza delle assemblee elettive. Governi stabili e senza intralci sono reputati in grado di assicurare una continuità nell'implementazione delle 'riforme' anti-welfare e nella stessa interlocuzione con la suddetta 'governance'.

Oggi, probabilmente, il mondo è giunto a un tale livello di apertura che le tensioni protezionistiche – il bisogno cioè di reflazionare le economie e sostenere le produzioni nazionali – sono quasi inevitabili. Keynes, in un famoso saggio degli anni'30 del '900, davanti al dilemma che si trovava a fronteggiare l'economia mondiale si pronunciò a favore di barriere e controlli sui movimenti dei capitali.

E' fondamentale, per un Paese, poter disporre – ad esempio – della politica monetaria. Di converso, è dannoso demandare la politica monetaria a un'autorità esterna.

 

2) Cambiamento tecnologico

Storicamente il progresso tecnologico ha sortito effetti controversi nei confronti dell'occupazione. In genere, nel breve periodo gli effetti sono distruttivi nei confronti dei posti di lavoro e, in particolare, verso i posti di lavoro meno qualificati.

Tuttavia, occorre anche qui fare in modo che, nel lungo termine, tutti conseguano dei vantaggi. Gli aumenti di produttività non dovrebbero essere prioritariamente appannaggio del profitto, come è successo negli ultimi 30 anni. Anche il salario reale deve poter aumentare. Una disuguaglianza marcata riduce i consumi e gli investimenti.

I guadagni di efficienza dati dall'innovazione alzano la produttività e – in teoria – di ciò beneficia l'intera economia. La chiave di volta sono gli investimenti.

Alcuni ritengono che la deindustrializzazione cui assistiamo sia interamente imputabile al progresso tecnologico. Il settore prevalente diviene gradualmente quello dei servizi, e – come era successo durante la transizione dalla società agricola a quella industriale – nel mondo post-industriale sarà nel terziario avanzato che, sempre più, si concentrerà l'occupazione. Magari molti servizi saranno indirizzati alle imprese. Altri alla cura della persona, all'assistenza, eccetera.

Probabilmente questa transizione è ineluttabile. Tuttavia, non bisognerebbe replicare gli errori del passato.

Molti, negli anni '90 del '900, avevano salutato entusiasticamente l'incedere della 'Nuova economia'. Gli investimenti nel campo delle comunicazioni sembravano aver aperto la via a una nuova era, in cui le oscillazioni dei cicli economici si sarebbero potute riporre nel dimenticatoio. Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie dovevano fornire quella sicurezza che in passato era mancata. Gli economisti scettici nei confronti del libero mercato – quelli secondo i quali l'economia funzionava male in quanto inabile a garantire la piena occupazione –, avevano trovato sempre meno ascolto. La 'Communication&information technology' avrebbe eliminato le imperfezioni e le asimmetrie nelle informazioni su cui si basano i soggetti che prendono le loro decisioni nei mercati. Questo sarebbe dovuto essere valido – a maggior ragione – per quanto attiene al funzionamento dei mercati finanziari. (Ma abbiamo visto, poi, che non è stato così). La delusione è seguita al fatto che è stata prorio l'ideologia liberista a guidare il cambiamento. Sono così risorti i populismi di destra.

E oggi si parla molto di una nuova rivoluzione industriale, detta Industria 4.0. Si tratta di un processo di riassetto organizzativo che prevede un connessione continua – una messa in parallelo digitale – delle varie fasi del ciclo produttivo: progettazione, produzione, commercializzazione.

Gli ottimisti – oggi come allora, negli anni '90 – proclamano che, nonostante tutto, nonostante dei costi iniziali, alla fine tutti otterranno dei benefici. Ma forse non sarà proprio così, a meno che il processo non venga assistito da parte del settore pubblico o dei governi. Un primo aspetto potenzialmente problematico è che se le innovazioni investono i processi produttivi, piuttosto che i prodotti, la quantità di lavoro richiesta potrebbe essere il prezzo che si pagherà. Nel passato, innovazioni di prodotto come l'automobile hanno recato con sè un'elevata domanda di lavoro. Se invece, le innovazioni si appunteranno piuttosto sui processi di produzione di beni già esistenti, è probabile che si tenderà a risparmiare lavoro. Molto dipenderà da elementi quali la situazione della domanda aggregata, il grado di competizione dei mercati (le concentrazioni come monopoli o oligopoli) e – ancora una volta – la forza rivendicativa dei lavoratori. Se vi sarà una crescita della produttività e questa andrà in buona parte ai lavoratori anche i consumi potranno aumentare e potranno crearsi nuove occasioni di lavoro. Perchè sarà magari possibile che i profitti delle imprese si riversino in nuovi investimenti e si recuperino i posti di lavoro prima perduti. Ma ciò non è sicuro. Ancora una volta, sarà fondamentale una guida pubblica che eviti gli effetti più deleteri del processo. (Magari, perchè no? Investimenti pubblici e proprietà pubblica, a cominciare dai beni comuni per definizione, gestendo i relativi settori anche avvalendosi delle applicazioni tecniche più recenti).

 

3) La politica economica

La teoria che ha sorretto l'impalcatura economica durante gli ultimi 40 anni è la 'politica dell'offerta'. Una politica conservatrice, che domina tuttora la scena.

Si tratta di un approccio di politica economica che pone l'accento sulla ricerca dell'efficienza del mercato tramite interventi e misure di liberalizzazione e privatizzazione. Queste misure, unitamente al già citato miglioramento atteso nel settore finanziario, avrebbero dovuto condurre a un modello di crescita equilibrato. (Abbiamo poi dolorosamente constatato che, in realtà, la finanza ha alimentato via 'effetto ricchezza' – nonchè mediante un immane indebitamento privato – la carenza di domanda globale data dalla differenza fra una produttività crescente e una dinamica retributiva stagnante).

Il caposaldo dell'economia del lato dell'offerta è il presunto effetto della riduzione delle imposte sui fattori produttivi. In particolare, i teorici dell'offerta postulano che un taglio della tassazione sui costi e/o sui redditi delle imprese induca queste ad incrementare l'attività produttiva e l'occupazione.

In realtà non si dispone di evidenze fattuali circa il successo di queste politiche. L'evidenza sembra anzi suggerire il contrario. Per limitarci al nostro ambito nazionale, si può evidenziare che – nonostante la mole di provvedimenti e risorse incentivanti a favore delle imprese a partire dagli anni '90 –, l'effetto è stato deludente. Non si vuole qui sostenere che il lato dell'offerta di un sistema economico non conti. Però, lasciare completamente alle forze spontanee del mercato le decisioni relative agli investimenti e all'impiego delle risorse produttive ha sovente lasciato strascichi indesiderabili.

Tornando per inciso al punto precedente: a proposito di 'Industria 4.0' e i pertinenti incentivi: il capitale non costa già poco? I tassi non sono a livelli storici minimi? Che bisogno c'era, per il governo, di riconfermarli? (La borsa di Milano, nel 2019, ha guadagnato il 30%! C'è abbondante liquidità: non potrebbe, questa, venire impiegata meglio?).

3.a) Una bugia scambiata per verità assoluta: partire dal mercato del lavoro

Sostengono gli economisti 'neoclassici' che l'equilibrio fra domanda e offerta nel mercato del lavoro assicura un impiego a chiunque voglia lavorare al salario corrente. Se vi sono disoccupati è perchè lo stato e i sindacati frappongono ostacoli alla possibilità, per chi non lavora, di accettare salari che riporterebbero in equilibrio il mercato. I sussidi sarebbero una forma di aiuto che induce i disoccupati a restare tali. (Altrimenti essi accetterebbero le paghe standard). I sindacati si oppongono a riduzioni salariali – che farebbero rientrare i disoccupati volontari nel mercato –, e vi sono poi le norme di tutela del lavoro – come quelle che rendono difficili i licenziamenti –, nonchè le imposte e i contributi previdenziali. Tutto questo rende rigido il mercato ed eccessivo il costo del lavoro. Ciò, dicono i neoclassici, riduce l'incentivo ad assumere e causa la disoccupazione. Bisogna allora rendere flessibile il mercato del lavoro, rendendo agevoli i licenziamenti con l'abbattimento delle tutele e abolendo – dove sono istituiti – i livelli di salario minimo; precarizzare il lavoro con contratti a scadenza; ridurre al minimo la contrattazione nazionale. (Da noi, questa genìa di provvedimenti è stata adottata, eppure i risultati continuano a restare magri). A ben guardare, le congiunture maggiormente ricorrenti sono quelle nelle quali la disoccupazione – in realtà involontaria – è generata da un livello di spesa pubblica e privata insufficiente, per cui le politiche dell'offerta sono del tutto inadeguate. Pseudosoluzioni quali l'abbassamento delle tutele normative sul lavoro al fine di far scendere i livelli salariali sono, anzi, in generale, controproducenti. Si riducono i consumi. (Servono piuttosto alle organizzazioni datoriali per mantenere lo scettro del comando nelle relazioni industriali). Quindi, invece di partire dal mercato del lavoro occorre preliminarmente fare riferimento al mercato dei beni e dei servizi. E' un livello di domanda aggregata adeguato a spingere la produzione e l'occupazione. Allora, vediamo quali sono le influenze sulla domanda aggregata e, di riflesso, dell'occupazione.

3.b) Quali sono le determinanti del reddito nazionale e, di conseguenza, dell'occupazione?

E' risaputo che la politica fiscale, la politica monetaria e la politica del tasso di cambio valutario hanno un'influenza cruciale sulla crescita. E' anche importante il grado di competitività dell'apparato produttivo, e dunque la politica industriale. La politica fiscale influisce – ovviamente – sul saldo del bilancio pubblico e quindi sulla domanda aggregata, vale a dire sul tasso di crescita del reddito e sull'inflazione. (Quest'ultima, a sua volta, ha effetto sui tassi di interesse reali). La politica monetaria e il cambio valutario influiscono sui tassi di interesse nominali e reali, e quindi sugli investimenti e la crescita. Il cambio valutario ha poi un'importanza rilevante riguardo alla competitività esterna e, di conseguenza, riguardo ai conti con l'estero.

E' superfluo rimarcare che l'adesione allo Sme prima e l'appartenenza all'euro dopo, ci hanno privato della politica discrezionale impiegabile per favorire la crescita e l'occupazione.

L'economista Winne Godley, dell’Università di Cambridge, fece notare che il settore privato ha una tendenza alla formazione di saldi finanziari netti positivi rispetto al proprio reddito. (Tende a risparmiare). Questi saldi possono dipendere da disavanzi del settore pubblico o da avanzi esterni, o ancora, da una combinazione dei due saldi. Se il conto con l'estero è in pareggio, i disavanzi pubblici saranno associati a risparmi positivi del settore privato. Il disavanzo del governo sfocerà, cioè, nell'avanzo privato.

Ma se succede che il governo si impunta a voler ridurre il debito pubblico tramite l'austerità, la ricaduta è una recessione economica, a meno che non aumenti il surplus con il settore estero. E' quest'ultima la politica che la Germania applica a sè stessa, inducendo i restanti paesi membri dell'eurozona – fra cui noi – a emularla. Comprimiamo la domanda interna per limitare le importazioni e ottenere un surplus di esportazioni. Ecco perchè i nostri governi si impegnano con la Ue a portare il bilancio pubblico in tendenziale pareggio. Ma la disoccupazione resta attestata in corrispondenza di un livello elevato e i redditi da lavoro restano al palo. Se si vuole mantenere un'economia aperta e basata sull'esportazione, si ha bisogno di una politica industriale per la crescita, in modo da incrementare la competitività. Avremmo bisogno di una massiccia dose di investimenti – soprattutto pubblici – ma sono gli stessi vincoli fiscali europei, in ampia misura, a inibircelo. Per competere, l'Unione europea ci obbliga così a perseguire la cosiddetta 'svalutazione interna'. Si tratta di un'impostazione di politica economica che – è superfluo evidenziarlo – lede il lavoro dipendente salariato. Si suppone che il contenimento salariale si riverberi sui prezzi e – per tale via – migliorino le ragioni di scambio di un paese al fine di migliorarne la bilancia commerciale. (Specie se esso si trova in deficit rispetto all'estero).

La maggiore influenza dell'apertura dei mercati si ha sul grado di efficienza dell'economia. Un paese non può permettersi di mantenere troppo a lungo una posizione debitoria ingente sull'estero. In genere, le bilance dei pagamenti tendono quindi a equilibrarsi. Tuttavia, sussistono fondati motivi di reputare che la svalutazione interna non sia il metodo da implementare allo scopo, avuto riguardo sia al piano dell'efficacia che al piano dell'equità. Intanto, non è detto che vi sia un collegamento diretto fra variazioni del costo del lavoro e competitività di prezzo; inoltre, non è detto che le esportazioni di un paese dipendano esclusivamente dal prezzo dei beni prodotti; infine, non è nemmeno detto che la principale componente della domanda di un paese debba essere costituita dalla richiesta di beni dall'estero. Nell'eventualità di un forte rallentamento del commercio mondiale – se cioè nessun paese di un certo peso è disposto a supportare la domanda interna – si inaridisce l'unica fonte di reddito sulla quale si era fatto assegnamento. (Come sta attualmente accadendo).

La 'svalutazione interna' sortisce piuttosto una precisa distribuzione dei suoi effetti, che sono diversi a seconda del gruppo sociale su cui essi si ripercuotono. Manco a dirlo, a rimetterci in misura maggiore è il lavoro dipendente non legato ai settori maggiormente internazionalizzati.

Torniamo per un momento al punto 1). Storicamente, la politica commerciale verso l'estero ha visto contrapporsi due scuole. Il liberismo e il mercantilismo. Il primo si concentra sull'impresa privata e sui mercati privi di restrizioni; il secondo su una intesa fra impresa privata e stato, per il fine di sostenere la crescita interna. Il liberismo predilige l'interesse del consumatore, il mercantilismo pone al centro dell'attenzione il produttore. Nel primo caso si fa in modo di consentire l'accesso a beni dal minor costo possibile, nel secondo si tende al potenziamento della struttura produttiva. Le implicazioni sono che, da una parte, il commercio è visto come lo strumento per ottenere importazioni a buon mercato; dall'altra il commercio è visto come un mezzo per incentivare le esportazioni. Il surplus commerciale europeo è il risultato della scelta neomercantilistica dell'Unione europea a egemonia tedesca. Con la non trascurabile differenza che, rispetto al mercantilismo classico (adottato ad es. per proteggere l'industria nazionale), il neomercantilismo europeo deprime la domanda interna ed esporta deflazione. L'Europa è la palla al piede dell'economia globale. Per le organizzazioni dei lavoratori e per i partiti che ambiscono a rappresentarli, punto fermo e imprescindibile dovrebbe essere una sfida a 'questa' Unione europea.

3.c) Il Nawru, uno sconosciuto scomodo

Una delle massime trovate dell'economia neoliberista è la concezione di un tasso di disoccupazione di equilibrio o 'naturale', ovvero un fantasmatico livello di disoccupazione che non bisogna assolutamente cercare di abbassare. (Non accelerating wage rate of unemployment). Se a qualche governo seriamente in apprensione per le condizioni occupazionali del proprio Paese, saltasse in mente di attuare politiche fiscali e monetarie espansive finalizzate al calo della disoccupazione, secondo la vulgata ideologica in argomento immediatamente si creerebbero pressioni salariali e sul paese si abbatterebbe il flagello dell'inflazione. Per l'Italia, secondo i calcoli della Commissione europea, il livello di disoccupazione non inflazionistico è del 10%. Infatti non ci vengono consentite politiche espansive, salvo qualche margine di flessibilità sui conti pubblici, appena sufficiente a tenere a galla – sulla plancia di comando del governo – esecutivi amici nonchè fedeli esecutori dell'ortodossia europea. (Come il Pd, o partito dell'Associazione bancaria italiana e di Confindustria). Si imprigiona la dinamica salariale in modo da conservare il potere del capitale in una botte di ferro. Il fatto curioso è che, nonostante l'inflazione permanga attestata su un tasso inferiore rispetto allo stesso obiettivo – il 2% –, che la Bce deve perseguire quale missione statutaria, il nostro tasso di disoccupazione non può decrementare. (Forse l'inflazione non è un fenomeno monetario, come sostenuto dai liberisti).

Ciò dice molto della missione politica delle istituzioni europee. Soprattutto dice tutto di quali gruppi di interesse è paladina la Ue. Si può parlare di ideologia al servizio della politica e politica al servizio dei potenti. Di nuovo: l'ostinata ipotesi ortodossa è che la disoccupazione sia imputabile a rigidità nel mercato del lavoro e quindi le politiche del deficit siano inutili.

 

Conclusioni

Dalle considerazioni svolte è agevole cogliere la distanza abissale che sussiste fra le conoscenze teoriche ed empiriche di cui disponiamo e i proponimenti di politica economica che caratterizzano l'attuale governo e l'Unione europea. Se non si mette definitivamente nell'angolo il pensiero dominante – frutto avvelenato del grumo degli interessi esclusivi di alcune categorie sociali –, il lavoro dipendente continuerà a languire nella morsa di salari fermi o calanti e – per molti – condizioni di lavoro proibitive.

Senza cadere nella sciocca alternativa secca 'liberismo o sovranismo', serve oggi un modo diverso di organizzare il rapporto fra lo stato e l'economia. Lo stato dovrebbe tornare a potersi occupare attivamente dei redditi da lavoro e dell'occupazione.

Occorre quindi non solo invocare un generico aumento dei salari, ma indurre dei mutamenti sistemici, quali il ripristino delle tutele legali per il lavoro, il rafforzamento dei sindacati, l'introduzione del salario minimo, l'apposizione di controlli ai movimenti dei capitali, la tassazione delle transazioni finanziarie. Bisognerebbe poi invertire la tendenza all'indebolimento dell'imposizione fiscale progressiva, fermare le pressioni costantemente dirette all'innalzamento dell'età pensionabile, ridurre l'orario di lavoro almeno nei settori in cui l'innovazione tecnologica consente miglioramenti della produttività, battersi per un'inversione delle politiche europee. Si tratta in gran parte di una questione di rapporti di forza; si tratta di risalire la china che si è scesa a causa delle sconfitte patite a cominciare dagli anni ottanta – con la contestuale adozione di politiche favorevoli al profitto e alla rendita –, nonchè a causa dell'avvenuta scomposizione della 'classe' che – una volta – si diceva operaia. Il che richiede principalmente di scacciare i dispositivi che alimentano la concorrenza fra i lavoratori. Inoltre, bisogna tornare alla proprietà pubblica dei servizi pubblici e dei settori strategici e promuovere la proprietà cooperativa. Infine, si potrebbe incrementare l'occupazione mediante la produzione diretta dei beni pubblici.

L'alternativa è lasciare tutto come attualmente è, o meglio come le èlites dei privilegiati vogliono che sia.

Come pervenire a realizzare tutti questi propositi nella società post-industriale è tutto da reinventare. A cominciare dai mezzi per suscitare una rinnovata coscienza – nei lavoratori – dei processi che investono la loro condizione. Si tratta, qui, di una questione anche culturale e sociologica.


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