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Intervista al prof. Patnaik: capitalismo e sottosviluppo

di Alessandro Visalli

Atilio Boron Jacobin ItaliaAncora su “Bollettino CulturaleFrancesco Barbommel intervista il prof Prabhat Patnaik (vedi anche qui, ndr), un noto economista marxista indiano che ha insegnato al Centro degli studi economici e della pianificazione della Università Jawaharial Nehru di Nuova Delhi dal 1970 al 2010, per ben quaranta anni. Ha anche fatto un’esperienza di amministrazione nel Consiglio di Pianificazione del Kerala e si è laureato e dottorato anche in filosofia ad Oxford. Nel 1969 fu attivo anche all’Università di Cambridge (Clare College) prima di rientrare in india nel 1970. Convinto critico delle politiche neoliberali, dopo la crisi del 2008 ha fatto parte di una commissione dell’Onu per raccomandare misure di riforma del sistema finanziario (con Joseph Stiglitz, Francois Houtart e Pedro Paez). Tra i suoi libri, “A theory of imperialism[1] e “Lenin and imperialism[2] o “The value of money[3], o diversi interventi su decine di riviste[4], o sul suo blog[5].

L’avvio dell’intervista si concentra sulla pianificazione nell’epoca di Nehru. Questi, con l’aiuto di Bettelheim, prese come riferimento il modello sovietico sforzandosi di costruire un forte settore pubblico da elevare come baluardo contro l’influenza delle multinazionali (come ovvio, in uscita dalla dominazione coloniale inglese) e di rendere il paese quanto più possibile autosufficiente. La spinta fu particolarmente diretta all’istruzione tecnica ed alla creazione di industrie di base. Ma fallì nella completa redistribuzione delle terre, e quindi nel rapporto con il grande capitale agrario che rimase dominante, insieme a quello medio “kulako”. Ciò ha finito per limitare il mercato interno e quindi per non creare condizioni per l’autosufficienza industriale.

Inoltre si trattava, come per il modello sovietico, di un sistema fortemente accentrato che quindi inibiva l’iniziativa locale e periferica. Questa caratteristica limitò la possibile mobilitazione al momento in cui le forze del capitale alleate imposero il ritorno al neoliberismo.

Due critiche emergono in proposito nell’intervista di Patnaik: l’accentramento e la questione della democrazia come frontiera di lotta per l’effettività del suffragio universale e la piena espressione delle libertà. Critiche rivolte indietro al modello di Nehru, ma soprattutto, a lato, al modello cinese. Precisamente al modello dei vicini orientali nella versione attuale, essenzialmente a causa della dittatura monopartitica “che finisce inevitabilmente per spoliticizzare gli operai ed i contadini”. Un simile modello per l’economista indiano “non è socialismo”, e, inoltre, contribuisce a far crescere l’ineguaglianza. Rispetto all’epoca di Mao, invece, l’economista indiano valorizza alcune idee-forza, precisamente: “l’enfasi sulla regolazione del cambiamento tecnico per raggiungere la piena occupazione, sull’evitare il consumismo, sull’accettazione volontaria di un modello di consumo nella società tale per cui tutti rimangano occupati, e soprattutto sulla costruzione di solidarietà tra le persone invece che di competitività che le esclude reciprocamente”[6].

Questo è uno dei punti qualificanti dell’intervista e del genere di marxismo che Patnaik difende, con dichiarate derivazioni dalla scuola di Kaleki, Baran e Sweezy: il rifiuto di considerare centrale lo “sviluppo delle forze produttive” e, al contrario, la valorizzazione delle piccole produzioni, delle forme collettive di proprietà e della riqualificazione e trasferimento tecnologico (favorito dalla funzione pubblica), insieme all’approfondimento della democrazia. Nella risposta a David Harvey[7] riafferma, per questa ragione, la validità della ‘teoria della dipendenza’ e della ‘causazione circolare cumulativa’ di Myrdal. In particolare, viene richiamato il concetto chiave di “sviluppo del sottosviluppo[8] (Andre Gunder Frank) e la sua relazione interna necessaria con la dinamica di conservazione ed accumulo del capitale, nonché con la persistenza delle dinamiche coloniali e, più in generale, imperialiste. Ne deriva la valorizzazione, come unica via possibile per i paesi del sud sfruttato del mondo, della “disconnessione” proposta da Samir Amin. In effetti, come dice, “in assenza di ‘disconnessione’ è impossibile per un paese periferico essere autonomo nel perseguire le politiche di sua scelta”. Ogni crescita in condizioni di accumulazione capitalista si accompagna di necessità all’estensione di sacche sempre maggiori di sovrasfruttamento. La cosa ci dovrebbe essere familiare, non appena i salari cominciano a salire, ovunque, invariabilmente qualcuno ci ricorda che in queste condizioni non “siamo” più competitivi, che si allargherà la disoccupazione, che bisogna fare sacrifici. Per combattere questa tendenza intrinseca sarebbe necessario l’attivismo statale, ma anche il controllo dei capitali per prevenirne la fuga e quindi il controllo commerciale per non subire alla fine uno squilibrio della bilancia dei pagamenti (per incremento delle importazioni e decremento delle esportazioni, almeno in una fase transitoria). Tutto ciò si può fare solo con una parziale disconnessione.

Di qui, però, si rende necessario cambiare la struttura di classe dello Stato, per: “perseguire una strategia di sviluppo che protegga l’agricoltura contadina; effettuare la ridistribuzione della terra; intraprendere misure di «aumento della terra disponibile»; aumentare la produzione pro capite e la disponibilità di cereali; industrializzare non rimuovendo dalla terra la popolazione dipendente dall’agricoltura, cioè non effettuando l’«accumulazione primitiva di capitale», ma organizzando questa popolazione in cooperative e collettivi volontari e lasciando che tali collettivi (a parte il settore pubblico) diventino essi stessi proprietari dell’industria; e fornire l’istruzione universale gratuita e l’assistenza sanitaria attraverso le istituzioni pubbliche”.

Dopo aver compiuto una divagazione sull’esperienza storica della pianificazione e delle eventuali crisi da sovrapproduzione nella vecchia Unione Sovietica, Patnaik, guidato dall’intervistatore, passa a negare che possano esistere modelli “temperati” di “capitalismo dai valori asiatici” (Singapore e Corea del Sud) nei quali, per una miscela di autoritarismo ed interventismo statale e di economia di mercato (selvaggia) si possa ottenere la quadratura di avere capitalismo senza sottosviluppo. In realtà i due casi (e gli altri) citati, di forte sviluppo durante gli anni dai sessanta ai novanta, non confuta la “teoria della dipendenza” perché si tratta solo di estensione del “centro” ad enclave ex periferiche, ma continuando a coltivare la povertà e l’ineguaglianza estrema. La dipendenza non è, infatti, fissa tra un novero di paesi ed un altro, ma è una caratteristica necessaria della dinamica di accumulazione capitalista e quindi interessa rapporti ‘centro-periferia’ continuamente mobili. Inoltre, si applica anche entro le aree di regolazione statuali, coltivando entro queste sacche di povertà specularmente necessarie all’accumulazione di ricchezza in forma monetaria. Vediamo come la mette:

“Se Mumbai, per esempio, fosse un paese separato che si aprisse per diventare una base per il capitale del centro, e che imponesse un divieto a tutta l’immigrazione dal suo entroterra, allora potrebbe benissimo diventare un «paese» prospero. In realtà, l’imperialismo sta sempre sostenendo tali esempi di «successo» per camuffare la sua tendenza di base a impoverire le masse del Terzo mondo. Ma la mia preoccupazione è con l’«entroterra».

Ciò pone l’importante questione su ciò che dovrebbe costituire l’unità di analisi. L’unità di analisi non può essere un «paese» giuridicamente definito. Poiché l’imperialismo è un fenomeno globale, dobbiamo guardare la totalità di ciò che esso fa ai popoli del Terzo mondo”.

A dimostrazione di questa posizione Patnaik mostra che nel terzo mondo, complessivamente, la povertà è cresciuta rispetto ai vicini anni ottanta, malgrado la crescita del Pil aggregato (che, notoriamente, include grandezze molto eterogenee e mal distribuite).

Sul piano più squisitamente teorico svolge, riprendendo Kaleki e quindi la scuola americana, una critica alla sottovalutazione dell’importanza della domanda aggregata nella tradizione marxiana come fattore scatenante delle crisi capitalistiche. Come anche qui la mette:

“Ora, Kalecki, Baran e Sweezy sono andati in netta controtendenza all’interno del marxismo, motivo per cui prendo molto seriamente il loro lavoro. Fra l’altro, Baran fu tra i primi marxisti a considerare il ruolo dell’imperialismo non solo nel senso leninista, ma anche nel colonialismo, nello sviluppo del capitalismo. Siccome ritengo che il capitalismo non possa essere visto come un sistema autonomo, che purtroppo è il modo in cui Marx lo aveva analizzato nel Volume I de il Capitale, mi trovo nella tradizione di Kalecki, Baran, e Sweezy. È questa tradizione del marxismo che è di grande rilevanza per i marxisti del Terzo mondo”.

Questa tradizione introduce perciò delle zone di resistenza verso l’unilaterale “enfasi data nel marxismo allo ‘sviluppo delle forze produttive’”, che lascia scambiare il socialismo stesso, o la tendenza verso di esso, con una dinamica che può sembrare essere resa disponibile dal capitalismo: la crescita della disponibilità materiale. Di qui si può scivolare nel “produzionismo”, cosa che, a parere dell’autore, è capitato in Cina dopo Mao Tze Tung. Chiaramente:

“La vittoria del produttivismo è avvenuta in parte perché sembra conforme all’asserzione di base secondo cui il socialismo è sinonimo di sviluppo di forze produttive (e non di libertà umana) e in parte perché ha un grande fascino nel Terzo mondo, che ha visto così poco sviluppo in questa direzione. Inoltre, il fatto stesso che la delocalizzazione delle attività avvenisse sotto il capitalismo neoliberista ha dato alla tendenza «produzionista» nel marxismo nel Terzo mondo una credibilità di cui non aveva mai goduto prima”.

Dunque il capitalismo vince, nella forma neoliberale, perché sembra liberare le forze produttive (anche se limita la libertà umana reale).

C’è un secondo fattore cruciale:

“Il secondo fattore è il peso sociale e le aspirazioni della gioventù della classe media, che vuole emulare lo stile vita occidentale. La globalizzazione neoliberista lo fa capire chiaramente: pur avendo giovato alla classe media e avendo goduto di un notevole sostegno all’interno di questa classe, ha al tempo stesso portato grandi difficoltà ai contadini. Infatti il conflitto tra la gioventù (soprattutto urbana) borghese e i contadini (e gli operai che soffrono anche a causa della miseria dei contadini che gonfia l’esercito industriale di riserva), è il nuovo fenomeno più visibile nel Terzo mondo di oggi. Ma ritengo anche che questa situazione stia cambiando. Il neoliberismo ha raggiunto un vicolo cieco. Il fatto stesso che Donald Trump stia introducendo il protezionismo negli Stati Uniti è sintomatico di questo vicolo cieco. Grazie alla prolungata crisi in cui questo vicolo cieco del neoliberismo ha spinto l’umanità, una crisi in cui ci troviamo ancora oggi, i giovani della classe media che fino ad ora avevano sostenuto con entusiasmo la globalizzazione, saranno presto disillusi; e nuove possibilità rivoluzionarie si apriranno per portare avanti le società del Terzo mondo nella direzione del socialismo”.

Si può dire che questo stia accadendo non solo nel “terzo mondo”, ma anche nel “semiprimo”. Ovvero da noi.

Accade, abbastanza chiaramente, perché la dipendenza non è un gioco tra blocchi omogenei, ma un rapporto dinamico reso dai differenziali di potere (nelle forme in cui questo si manifesta). E quindi si manifesta nelle periferie delle grandi città, nelle aree “dell’osso” delle regioni sviluppate, nella divaricazione macroregionale (ad esempio quella italiana), nella tendenziale stagnazione relativa o perdita di spinta dei sistemi-paese spinti ai margini. Queste dinamiche accadono nel nord inglese, nella regione della ruggine americana, nelle periferie urbane praticamente ovunque, nelle regioni appenniniche (o alpine) italiane, nel sud. Nei sud (in termini relativi). Ovvero nelle “cinture” nelle quali vince il “populismo”.

È sempre avvenuto.

Ma i sistemi sociali e politici, ovvero i sistemi di potenza non economici, hanno sempre messo in campo delle contromosse quando la tensione generata non poteva più essere contenuta.

Il neoliberismo disattiva questi meccanismi.

E nel farlo spinge l’umanità in un vicolo cieco.


Note
[1] - “A Theory of Imperialism Columbia University Press, 2016, con sua moglie Utsa Patnaik. Nel testo viene formulata la proposta di considerare le relazioni commerciali tra nord e sud come intrinsecamente ineguali. Una delle parti più interessanti del testo è il dialogo con David Harvey. Il libro include, infatti, “A commentary on ‘A theory of imperialism’” di David Harvey e la replica degli autori (pp. 154-198). La stessa linea genealogica del concetto di “imperialismo”, proposta nel libro mostra l’area culturale e la corrente alla quale gli autori appartengono: “Burke, Marx, Hobson, Lenin, Luxemburg, Gandhi, Fanon, Guha, and Said”. Imperialismo viene semplicemente, ed in via generale, definito come il dominio di una regione su un’altra, il colonialismo è solo una delle sue forme particolari. L’imperialismo non è “l’ultimo stadio del capitalismo” (Lenin), ma è essenziale dall’inizio della formazione sociale capitalista. È intrinseco, cioè, alla natura dinamica del capitale, che cerca per dare risposta alla sua natura intrinsecamente competitiva, sempre nuovi rapporti di dominazione esterni, nuovi “stimoli esterni”. Ciò che si chiama “imperialismo” è la forma specifica che prende la dominazione necessaria alla riproduzione del capitale spinta dalla competizione a superare le sue “ancore territoriali iniziali” (nelle quali tende alla sovraccumulazione). Essenzialmente il capitalismo è un sistema che utilizza il denaro e detiene la maggior parte della ricchezza sotto forma di esso, dunque perché funzioni è cruciale che il valore del denaro non continui a diminuire rispetto alle materie prime. Se accadesse le persone a lungo andare si allontanerebbero dalla conservazione del denaro che cadrebbe come forma di accumulo di ricchezza e come principale veicolo della circolazione. Per mantenerne il valore si attivano alcuni meccanismi, come la conservazione di un vasto esercito di riserva mondiale, altre forme di deflazione del reddito, sifonando il surplus, e tenendo sotto pressione la possibile concorrenza delle periferie.
[2] - “Lenin and imperialism”, ed. Prabhat Patnaik, 1986
[3] - “The value of money”, Columbia University Press, 2008
[4] - Ad esempio quelli sui Monthly Review, “Il capitalismo neoliberista in un vicolo cieco”, “La rivoluzione di ottobre e la sopravvivenza del capitalismo”, “Capitale monopolistico allora ed ora”, “Il capitalismo e la sua crisi attuale”, o “L’imperialismo nell’era della globalizzazione”,
[5] - Si veda “Ideas”.
[6] - In una parte molto interessante dell’intervista Patnaik dice: “Il ruolo dello Stato è estremamente importante. È importante per «disconnettere» l’economia dalla globalizzazione attraverso controlli dei capitali e commerciali; per investire nel settore pubblico, dal momento che i capitalisti andranno in uno «sciopero degli investimenti»; per realizzare la ridistribuzione della terra e per difendere l’avanzamento verso il socialismo contro i tentativi imperialisti di sabotaggio. Ma non vorrei un modello di sviluppo centralizzato e pesantissimo. Vorrei che lo sviluppo fosse decentralizzato e inquadrato in un obiettivo di approfondimento della democrazia.
La vera sfida della costruzione del socialismo sta però altrove, cioè nel trovare una fonte alternativa di motivazione e di disciplina del lavoro senza le quali nessuna società può esistere. Sotto il feudalesimo, la gente lavora a causa dell’uso e della tradizione, che sta alla base della coercizione, per esempio la frusta del monsignore; sotto il capitalismo la disciplina del lavoro è inculcata attraverso la coercizione implicita dell’esercito industriale di riserva, che significa che se il «capo» non è soddisfatto del vostro lavoro allora siete licenziati; sotto il socialismo la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro devono venire dalla pura volontà dei lavoratori di lavorare.Il socialismo, come è esistito realmente, ha usato la coercizione per introdurre la disciplina di lavoro; ma questo non può essere l’immagine di una società socialista. Come ho detto prima, il socialismo deve avere la «piena occupazione» nel senso che tutti ottengono un salario. Se la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro devono essere volontarie in una situazione del genere, mi sembra necessaria una decentralizzazione del processo decisionale. In un contesto collettivo, ad esempio, l’emulazione, la pressione tra pari e la discussione possono svolgere il ruolo di rendere effettiva la disciplina del lavoro”.[7] - In “A theory of imperialism”,
[8] - Arrighi lo descrive in questo modo, una metafora varata per descrivere spiegare quella vistosa divergenza [tra i paesi sviluppati e quelli in ritardo]. La divergenza sosteneva, altro non era che l’espressione di un processo di espansione capitalistica globale capace di generare allo stesso tempo sviluppo (ricchezza) al centro (Europa occidentale e poi America del Nord e Giappone) e sottosviluppo (povertà) nel resto del pianeta”.

Comments

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Paolo Selmi
Saturday, 22 February 2020 19:35
Ciao Alessandro,
per dirti poi come l'interesse, alla fine, proprio per la definizione stessa del termine, di "essere fra" le parti di qualcosa, sia molto soggettivo, a me è interessata molto la parte sulla crisi di sovrapproduzione (primo commento):

https://sinistrainrete.info/teoria/17020-bollettino-culturale-intervista-all-economista-professor-prabhat-patnaik.html#comments

Che non considererei tanto una divagazione, visto che ci ha scritto sopra nel 2018 e ci è tornato quest'anno (articoli incollati). E non lo è nemmeno in riferimento al discorso sullo Stato che fa in seguito e che tu citi, in difesa delle scelte di politica economica - sicuramente scomode - intraprese dopo un'eventuale presa del Palazzo d'Inverno.

Da un punto di vista strettamente marxista-leninista, io lo vedo come stimolo per sviluppare appieno la nozione di CENTRALISMO DEMOCRATICO. I due movimenti non solo devono esistere, ma devono essere mossi dallo stesso ideale. Banalizzo: il bastone (o così o così) e la carota (fai il "bravo" che ti do il premio in busta paga) sono entrambi uno snaturamento dell'idea di centralismo democratico.

Poi, alcune idee VANNO SICURAMENTE APPROFONDITE: "l'economia deve dare a tutti un salario, indipendentemente dal fatto che la persona sia occupata o meno" è un'idea che, data in pasto in un'intervista dove si toccano mille argomenti in maniera abbastanza sequenziale e non organica, può apparire quantomeno discutibile. A me ha fatto rizzare i due capelli che mi son rimasti in testa. Poi, siccome il prof. Patnaik non sembra un tipo da idee balzane, mi sono preso la briga di sfogliare le 15 pagine di pubblicazioni sul suo blog, seguendo le tracce da te indicate.
https://www.networkideas.org/prabhat-patnaiks-blog/
e trovo un lavoro abbastanza recente dove la questione è abbastanza problematizzata
https://www.networkideas.org/news-analysis/2019/02/on-the-proposal-for-a-universal-basic-income/
E che, a mio avviso, è utile confrontare con un lavoro di una decina d'anni fa: Perspective on the Growth Process in India and China
http://www.networkideas.org/working/jun2009/05_2009.pdf

Un lavoro dove si approfondisce il discorso che appare nell'intervista con il termine productivism, tradotto produzionismo. Anche in questo caso, siamo ben oltre la semplice ruota gandhiana del telaio del piccolo artigiano assunta a paradigma sociale. Gran parte del lavoro infatti è dedicata a sviluppare, e approfonditamente, questo tema:

There are two basic relations that we would emphasize: the impact of the rate of growth of surplus upon the rate of growth of productivity, and the impact of the rate of growth of productivity upon the rate of growth of surplus in an economy with labour reserves to start with. (p. 6).

Di chi stiamo parlando? Di India e Cina, entrambe con popolazioni che da sole RAPPRESENTANO QUASI IL QUARANTA PERCENTO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE. Possiamo girare la frittata come vogliamo ma, in un (ancien) regime dove la terra è stata storicamente la risorsa che impiegava maggior quantità di manodopera, lo "sviluppo delle forze produttive" - leggasi essenzialmente l'industria - NON PUO' NON FARE I CONTI CON LA REALTA' DEMOGRAFICA DI UN PAESE. Uno sviluppo troppo impetuoso crea migrazioni interne imponenti e un'esercito di manodopera di riserva laddove la popolazione diviene, di colpo, "sovrappopolazione". L'ex URSS, da questo punto di vista, avendo molto meno popolazione, era molto più "fortunata", in quanto la meccanizzazione agricola, conseguenza di una forte crescita dell'industria pesante, andò in maniera pressoché indolore a coincidere con un movimento di agricoltori alle fabbriche, dalla campagna alla città.

Ma l'URSS nel 1991 contava 293 milioni di persone, distribuite lungo 10 fusi orari. Neanche 210 milioni nel 1960, in pieno boom economico. Qui stiamo parlando di oltre SEI volte tanto, se consideriamo sempre il periodo di boom economico e ricostruzione postbellica come termine di paragone.

A questo si riferisce il prof. Patnaik. Perché in entrambe le economie le INGENTI differenze salariali e di tenore di vita causano movimenti altrettanto INGENTI di persone. Con tutto quello che ne consegue. Da cui lo sviluppo della sua riflessione successiva che, per quanto possa restare discutibile, ha ora tutto il mio rispetto. Per il semplice fatto che alcune problematiche, esistenti in quelle situazioni, da noi non sono considerate tali. E nonostante questo, dal punto di vista dell'elaborazione teorica di un modo socialistico di produzione e della transizione allo stesso, facciamo attualmente acqua da tutte le parti.

Scusa Alessandro se ti ho tediato con queste brevi note, ma davvero ritengo che confrontarsi con compagni di altri Paesi, che la teoria della dipendenza, come noti giustamente, l'hanno vissuta non come un vezzo ma come marchio a fuoco impresso sulla propria pelle, che tentano di elaborare teorie di transizione autentica a un socialismo che non è un modo simpatico di chiamare diversamente un capitalismo a partecipazione statale, che si pongono questioni su cui noi possiamo permetterci il lusso di ignorare e che - forse per questa maggiore "unità di analisi", riescono a cogliere elementi di discontinuità nella passata esperienza sovietica su cui noi, sempre amabilmente, glissiamo, sia davvero molto stimolante per chi come noi si occupa di ricerca ed elaborazione teorica. Ma questo penso che sia un'aggiunta inutile e superflua... visto che non avresti perso tempo altrimenti a lavorarci sopra! Ancora grazie,

Un abbraccio e
buona domenica!

Ciao!
Paolo
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