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Cronicizzazione della crisi e trasformazioni della governance europea*
Christian Marazzi
Ho come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e, per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello, ecco l’indizio.
Il flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso gli US negli anni Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha permesso agli Stati Uniti di sviluppare forme di post-industrializzazione attraverso la finanziarizzazione e, allo stesso tempo, ha reso possibile a questi paesi di concentrarsi sulla crescita economica e una produzione orientata all’esportazione.
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L’astrazione
Maurizio Donato
Che cosa vuol dire procedere per astrazione? Che cosa dobbiamo intendere con il termine astratto?
“L’astrazione è uno strumento indispensabile all’interno del processo conoscitivo e di indagine scientifica” ma (o forse proprio per questo) sul significato e dunque sull’uso di questo concetto prevalgono idee confuse, spesso fuorvianti. Per chi non abbia familiarità con i concetti, astratto potrebbe sembrare sinonimo di irreale, per cui concreto sarebbe – per contrasto – il reale: non è così. Qualcuno potrebbe pensare che astratto significhi vago, e di conseguenza concreto starebbe a intendere preciso: non è così.
In prima approssimazione possiamo definire astratto come generale e concreto come particolare, per cui la nostra analisi dell’economia, lo studio dell’economia politica procederà dall’astratto al concreto: partiremo da alcune condizioni e dunque da alcune categorie molto generali per poi procedere verso l’analisi di situazioni più particolari che richiedono l’utilizzo di categorie diverse da quelle utilizzate nella I parte del corso.
Che una categoria come merce o capitale sia astratta non vuol dire perciò che “la merce non esista”, che sia qualcosa di “irreale” o di “vago”, come se ciò che esiste debba presentarsi necessariamente sotto le forme di un qualche oggetto materiale; l’amicizia e l’amore esistono, così come la competizione e lo sfruttamento: è che si tratta di concetti, ma – per l’appunto – anche i concetti esistono e sono importanti perché ci consentono di “dare un ordine” alla confusione del mondo che, senza concetti, non sarebbe conoscibile, almeno non in senso scientifico.
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Verso una nuova etica del lavoro culturale
Da Bianciardi alla bohème e ritorno
di Nicolas Martino e Ilaria Bussoni
Quello che vorrei mettere in luce in questa parte del nostro intervento è la centralità della figura di Luciano Bianciardi come intellettuale, centralità rispetto alla questione strategica dell’«aura» nel lavoro contemporaneo, e sulla quale il nostro deraciné grossetano finì per inciampare, non riuscendo a trovare una via di fuga percorribile rispetto al «ruolo» che gli era stato cucito addosso dall’industria culturale e nel quale a tratti lui stesso finì per trovarsi anche a proprio agio.
Un’ambivalenza di Bianciardi quindi delle sue intuizioni rispetto al ruolo dell’intellettuale e alle trasformazioni del lavoro culturale nella metropoli contemporanea, ma anche dei suoi limiti che gli impedirono di capire fino in fondo tutte le conseguenze di quella grande trasformazione che lui stesso si trovava a vivere nell’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Bianciardi è autore, come è noto, di una cosiddetta trilogia della rabbia che comprende Il Lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e La vita agra (1962), il suo libro di maggior successo. Di questi il primo è dedicato al lavoro culturale in provincia nell’Italia del secondo dopoguerra, gli altri due al lavoro nell’industria culturale in un’Italia metropolitana attraversata dal boom economico e sociale. Molti tratti dell’ambivalenza di Bianciardi emergono da queste due opere di ambientazione milanese, ma anche dalla corrispondenza privata e da scritti e interventi di varia natura che Bianciardi disseminò nella sua frenetica attività di collaboratore su testate diverse; una piccola parte di questo materiale proveremo qui a prenderlo brevemente in esame.
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Nostra patria è il mondo intero
di Lanfranco Binni
«Nostra patria è il mondo intero / nostra legge è la libertà / ed un pensiero / ribelle in cor ci sta». Era il 1898 quando Pietro Gori pubblicò l’inno dell’internazionalismo libertario che aveva scritto nel 1895. Il 1898 è anche l’anno della dura repressione dei moti di Milano contro il prezzo del pane, stroncati dalle cannonate del generale Bava Beccaris («il feroce monarchico Bava», canterà un’altra canzone di quegli anni: un centinaio di morti e più di quattrocento feriti), premiato da Umberto I con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia e un seggio in Senato. Due anni dopo, nel 1900, Gaetano Bresci giustiziò il re per vendicare i morti di Milano. «Internazionalismo», «libertà»: due parole, storicamente nate in Europa, che avranno una storia gloriosa e travagliata nel Novecento, terreno di conflitti, equivoci stalinisti, tradimenti riformisti, imposture liberali, fino ai disastri dell’internazionalismo finanziario del mercato globale e alla “libertà dei servi”, liberi di servire, promossa a colpi di guerra economica dall’affarismo neoliberista.
Lo scenario attuale delle migrazioni (soprattutto da sud a sud, in piccola parte da sud a nord e da est a ovest),provocate da guerre senza confini e dalla devastazione occidentale (climatica, geopolitica) del pianeta, rimette al centro della dinamica storica le tensioni conflittuali tra “chiusura” e “apertura”, in una fase in cui le tradizionali sovranità nazionali sono travolte da determinazioni superiori (di capitalismo globale) e i popoli sono consegnati a oligarchie fiduciarie sempre più ristrette.
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Alcune riflessioni sull’Ecuador e una recensione a “Magia bianca, magia nera” di Carlo Formenti
di Militant
Durante le scorse settimane, sono state frequenti le notizie delle proteste, in Ecuador, contro il governo di Correa promosse da alcune organizzazioni indigene – in primis la Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador) – e da alcuni settori consistenti della borghesia e delle destre, che fin da giugno si sono opposte alla proposta governativa, poi ritirata, di tassare le grandi eredità (leggi e leggi): come ha scritto la sempre acuta Geraldina Colotti sul Manifesto, «le destre sono insorte, subito raggiunte da quelle organizzazioni che, apparentemente, sembrano contestare la gestione Correa da sinistra, ma che non si fanno scrupolo di aprire la strada a quei settori ansiosi di riprendere i propri privilegi». Si è trattato di proteste – in realtà ben poco consistenti dal punto di vista numerico, visto il consenso maggioritario di cui gode Correa nel paese e, in particolare, negli strati popolari e proletari – che hanno fatto ipotizzare al governo ecuadoriano (leggi) e a quello venezuelano (leggi) un nuovo tentativo di colpo di stato, dopo quello di cui Correa è stato vittima nel 2010. Le parole di Juan Meriguet, dirigente della governativa Alianza PAIS (Ap), sono state chiare:
Nell’arco di forze che appoggia la coalizione Alianza Pais vi sono molte componenti marxiste-leniniste e di estrema sinistra, ma è una dialettica tutta interna al cambiamento che si è messo in moto con la revolucion ciudadana. Esiste poi una piccola componente dogmatica che avanza rivendicazioni corporative e che scende in piazza con l’oligarchia, senza tener conto che la rivoluzione è un processo, si costruisce ogni giorno e con una rappresentanza vera.
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"Si può uscire dall'Europolo su basi internazionaliste e di classe"
A. Lollo intervista Luciano Vasapollo
La rivista brasiliana Correio da Cidadania ha intervistato Luciano Vasapollo, economista marxista, direttore del Cestes e docente dell'Università La Sapienza di Roma. La crisi sistemica ha determinato nei paesi dell’Unione Europea situazioni economicamente anacreontiche e politicamente paradossali, nel senso che molti dei partiti della cosiddetta sinistra europea, legati all’Internazionale Socialista, dopo essere entrati nelle sale del Potere si comportano alla stessa maniera dei partiti di destra o di centro-destra. Le riforme strutturali sbandierate nelle campagne elettorali dei partiti di destra come quelli di sinistra per favorire la crescita, in realtà diventano l’alibi per nuove privatizzazioni, tagli ai servizi pubblici, programmi di austerità, attacchi al mondo del lavoro per legittimare le “risoluzioni oggettive” delle eccellenze della borghesia transnazionale europea attraverso le politiche antisociali della Troika (BCE, FMI, Commissione Europea). Una situazione che giorno dopo giorno approfondisce nei paesi dell’Unione Europea il fosso tra i partiti della cosiddetta sinistra e i movimenti sociali e sindacali conflittuali anticapitalisti.
Correio da Cidadania — Perché, in Europa, le nuove forme di organizzazione e gli stessi comportamenti politici dei movimenti sociali, giovanili, territoriali, ambientali sono sempre più distanti dai tradizionali partiti della sinistra?
Luciano Vasapollo:”... Oggi siamo alla chiusura definitiva di un ciclo politico che è stato dominato dai partiti della sinistra riformista e che in questo periodo hanno operato una lunga e complessa revisione teorica e politica, al punto di abbandonare qualsiasi prospettiva di classe, per poi diventare partiti, che non solo difendono il potere ma che lo cogestiscono.
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Non chiamiamoli migranti
Gli uccelli migrano a primavera e in autunno. Migrano anche le balene, gli gnu, le antilopi, le zebre, e i salmoni per riprodursi. Lo fanno da sempre, è la loro natura. Le migliaia di donne e uomini, con figli al seguito, che quest’estate stanno scappando dai loro paesi, imbarcandosi su navi di fortuna o percorrendo chilometri a piedi lungo le frontiere del nostro continente non lo fanno per natura. Scappano da una condizione di miseria, di fame, di guerra, che ha precise responsabilità nel modo di produzione capitalistico, nel potere indiscusso dei monopoli transnazionali, nell’attività dei paesi imperialisti che impongono regimi politici favorevoli al potere economico dei grandi monopoli, anche attraverso la guerra e il terrorismo. Solo perbenisti e benpensanti possono pensare che assegnando a questa condizione drammatica un nome mite e romantico possano rendere un servigio alla condizione reale di chi è costretto ad emigrare.
A differenza degli uccelli, delle balene e delle antilopi gli uomini non sono fatti per migrare. È vero che la storia dell’umanità è piena di fenomeni di questo tipo, anzi si può dire che i popoli, per come oggi li conosciamo, sono il prodotto di queste storie, che ciascuno di noi nel suo dna porta impressa questa caratteristica millenaria. Ma dietro ogni migrazione di massa c’è sempre stata una catastrofe, una carestia, una guerra. Dietro la decisione di lasciare la propria terra e i propri affetti non c’è mai una scelta naturale, scontata, ma un dramma personale, storico e sociale che spinge centinaia di migliaia di persone ad un gesto così drammatico e innaturale.
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Della fabbrica del comune, o delle “città invisibili”
Note a margine del “laboratorio Napoli”
di Francesco Festa
La città in quanto tale, e a maggior ragione quella contemporanea, emerge oltre il mero accumulo del costruito. L’urbanistica, la sociologia urbana, la statistica ne riflettono la natura demografica. La studiano, la sorvegliano, ne vigilano i processi complessivi. Costituiscono la rappresentazione sintomatica su cui s’installano i discorsi che producono l’immagine in cui la città si riconosce. Vi è però un resto, un’eccedenza che si salva da questo meccanismo di potere: lo spazio dell’abitare, ossia quello spazio all’interno della città dove si possa vivere.
In un volumetto Eterotopia, composto di due scritti, Michel Foucault affronta la questione dello spazio con un approccio relativamente trasversale. Ne isola le parti costitutive del problema, per lo meno entro i discorsi architettonici e urbanistici, per porre la questione dell’intelligibilità dello spazio, ossia lo spazio dove si è soliti abitare o trattenersi con il corpo e con il pensiero. Tra le faglie del potere, Foucault registra l’esistenza di veri e propri «stati topologici d’eccezione»: «le utopie e le eterotopie». Queste ultime sono «spazi differenti […], luoghi altri, una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo»1. Le eterotopie sono dunque «luoghi altri» in cui trovano spazio territori ontologicamente ibridi sospesi tra reale e immaginario, faglie fra i discorsi assoggettanti in cui esercitare contro-condotte, spazi dell’alterità, della libertà e dell’uguaglianza. In altro modo, sono quegli spazi che Italo Calvino inserisce tra le confidenze di Marco Polo all’imperatore dei Tartari Kublai Khan. Tra Le città invisibili, «nell’inferno che abitiamo tutti i giorni», vi sono due modi per non soffrire le città infernali: «il primo riesce facile a molti, accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più […] il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio»2.
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Tsipras e la democrazia Formula Uno
di Pino Cabras
Il grande frullatore delle immagini gioca con il Caso, con risultati sorprendenti: oggi mescola le bandiere rosse della Ferrari che festeggiano la vittoria di Sebastian Vettel assieme alle bandiere rosse che ondeggiano per celebrare la vittoria di Alexis Tsipras alle elezioni greche.
Mondi lontanissimi, la Formula Uno e la politica europea del 2015, ma non privi di analogie.
Ho seguito distrattamente il Gran Premio, ma l'amico Emilio, che l'ha guardato con più attenzione, pronuncia una requisitoria durissima:
«Che senso ha guardare la Formula Uno oggi? Nessuna sfida epica tra piloti in pista, solo una patetica finzione, un baraccone circense di bolidi rombanti esibiti pateticamente in giro per il mondo come animali feroci che non mordono, che verrebbe voglia di liberare nella savana delle celesti piste del cielo. È la negazione dello sport. Vale la pena annoiarsi per due ore guardando una sfilata di macchine potentissime che non si sorpassano in pista ma nelle soste obbligatorie ai box, quindi fuori dal terreno della contesa, in cui la prestazione del pilota conta meno della velocità dei meccanici a fare il pieno di carburante e cambiare le gomme? Che corsa automobilistica è quella in cui un vantaggio di molti secondi viene vanificato dalla Safety Car che entra e azzera tutto?
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La vittoria zoppa di Syriza
Marco Santopadre
Apparentemente le ennesime elezioni che si sono tenute in Grecia ieri – le quinte in soli sei anni – hanno riportato il paese esattamente al punto di partenza del 25 gennaio. Syriza ha ottenuto il 35.47% dei voti, solo un punto in meno rispetto alle elezioni di inizio anno, e anche i nazionalisti di destra di Anel, che i sondaggi avevano già cancellato dalla mappa parlamentare, riescono invece a superare l’asticella del 3% e ad ottenere 10 seggi con il 3.69% dei voti.
Volendo, Alexis Tsipras - che nel discorso tenuto ieri sera ad Atene davanti ai suoi sostenitori ha accuratamente evitato di citare il Memorandum da lui firmato a luglio – potrà formare in pochissimi giorni un esecutivo fotocopia rispetto a quello che era andato in pezzi solo poche settimane fa, anche se ricorrendo solo a Panos Kammenos avrebbe a disposizione solamente pochi deputati in più di quelli richiesti per governare: 155.
Ma solo apparentemente il risultato di ieri ricalca quello del 25 gennaio, e solo un analista disattento o interessato può non notare le enormi differenze. Intanto la scarsa affluenza alle urne: ieri ha votato solo il 56.5% degli aventi diritto, mentre a gennaio alle urne si erano recati il 64% dei greci. Le elezioni di ieri hanno fatto registrare uno dei tassi di partecipazione tra i più bassi della storia della Grecia del secondo dopoguerra, e non si tratta di un bel segnale. Fisiologico, hanno messo le mani avanti in molti commentando il dato, visto il frequente ricorso alle urne che ha ‘stancato’ gli elettori. Peccato che solo pochi mesi fa, a inizio estate, il referendum sull’accettazione o meno del terzo memorandum a base di austerity, privatizzazioni e tagli abbia invece mobilitato assai di più l’opinione pubblica.
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Elezioni in Grecia
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La resa di Syriza non chiude la “questione greca”
Il Pungolo rosso
La Grecia è scomparsa, o quasi, dalle prime pagine. È prevedibile ci tornerà dopo le elezioni del 20 settembre. Ma non saranno certo le imminenti elezioni, quale che sia il loro esito, a risolvere la “questione greca”. Le sue coordinate, infatti, sono extra-parlamentari. Attengono alla crisi del capitalismo e ai rapporti di forza tra le classi. E sono già chiare da anni. Le vicende del referendum e del dopo-referendum, con la resa di Tsipras e di Syriza ai diktat della Troika e dei capitalisti greci, le hanno ulteriormente confermate. Perché dicono che nonostante la catena di lotte degli scorsi anni, e nonostante il rifiuto dei memorandum sia stato ribadito dalla vittoria del No al referendum del 5 luglio, per i lavoratori e i giovani deprivilegiati della Grecia la strada è ancora tutta in salita. Come lo è, del resto, per i proletari dell’intera Europa (e del mondo).
Qui in Italia diversi esponenti della extra-sinistra hanno tratto spunto dalle grandi difficoltà attuali del movimento di massa anti-memorandum, per spargere a piene mani disfattismo nei confronti della lotta dei lavoratori, in Grecia e ovunque, e per rilanciare un nazionalismo ‘sociale’, un social-nazionalismo, funesto per le sorti del proletariato. Abbiamo scritto queste note in polemica con loro, ma non certo per convincere loro. Il nostro intento è, invece, quello di promuovere il confronto, finora deficitario, tra quanti ricercano una via d’uscita dalla profonda crisi ideologica, politica e organizzativa in cui versa il movimento proletario su scala europea e internazionale senza nulla concedere al riformismo e al nazionalismo.
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La generazione scomparsa
di Gigi Roggero
0. Se non lo affrontiamo da un punto di vista esclusivamente sociologico o meramente anagrafico, sappiamo bene che quello di generazione è un concetto materialistico. È cioè uno degli elementi centrali che rende peculiare la collocazione sociale dei singoli dentro i rapporti di produzione e di classe. Nell’ultimo ventennio, per esempio, la precarietà e poi la crisi hanno progressivamente dilatato la categoria di giovani, fino a farla esplodere. Se nell’epoca definita “fordista” il giovane medio era colui che studiava e/o era in attesa di entrare nel mercato del lavoro, di passare dalla famiglia di provenienza a una propria famiglia, oggi che ne è di quella categoria a fronte della scomparsa del tradizionale rapporto tra formazione e lavoro, della rottura della supposta linearità delle successioni temporali di vita, della precarietà e disoccupazione che diventano elementi strutturali e permanenti? La precarietà e la crisi ci rendono giovani in modo duraturo, nel segno dell’impoverimento e dell’assenza di tutele.
Fondandosi su una struttura materiale e storicamente determinata, il concetto di generazione è importante per analizzare anche le forme della militanza. È indispensabile, cioè, per comprendere la costituzione della soggettività militante, al di fuori delle mitologie o dei fallaci racconti basati sull’eroismo individuale.
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Il rifiuto del lavoro
Teoria e pratiche nell'Autonomia Operaia
di Ottone Ovidi
Il rifiuto del lavoro è stato patrimonio dell’autonomia operaia degli anni settanta, intesa sia con la A maiuscola di organizzazione politica sia con la a minuscola di egemonia di pratiche nel movimento di quegli anni[1].
La prima considerazione da fare riguarda la mancanza di ricerca storiografica sul tema, dal punto di vista della teoria e della prassi messe in campo dagli autonomi. Finora, infatti, l’interesse della gran parte degli storici si è concentrato su altri aspetti quali la violenza e l’illegalità teorizzate e/o praticate dagli stessi[2].
L’attenzione accordata a questi temi ha messo in ombra quello che invece è stato un nodo centrale attorno a cui si è sviluppata l’autonomia e larghi strati del movimento di quegli anni fornendogli forza e, soprattutto, originalità. La teoria e la pratica, appunto, del rifiuto del lavoro.
Uno studio storico di quella stagione da questo punto di vista comporta una certa difficoltà. Le piccole e grandi realtà nascono e muoiono velocemente, vi è un continuo scambio e ricambio di militanti e mancando una direzione centrale o centralizzata le stesse regole per venire inclusi e autodefinirsi appartenenti a quest’area non sono rigide[3]. Un ulteriore problema per lo storico consiste nella difficoltà di reperire documenti d’archivio perché il tipo di organizzazione di questi gruppi ha comportato una perdita notevole di materiale.
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La Grecia ci dice che questa Europa non è riformabile: deve essere rivoluzionata
di Andrea Fumagalli
Logica finanziaria versus logica economica
La conclusione della trattativa tra Bruxelles e Atene (la capitolazione greca) è l’esito di una scelta politica che di economico non ha nulla. Anzi irride profondamente qualsiasi razionalità economica, quella razionalità dell’homo oeconomicus che viene ritenuta alla base di qualsiasi scelta economica efficiente e continuamente sbandierata dai manuali di economia politica, dalla stampa e dagli stessi politici di governo per giustificare decisioni che di economico hanno invece ben poco.
L’accordo imposto alla Grecia con il ricatto della stretta di liquidità prevede per 10 anni un avanzo primario del 3,5%, la costituzione di un fondo di garanzia patrimoniale da alienare (leggasi privatizzare) del valore di 50 miliardi di euro (poco meno del 25% del Pil Greco, una cifra che in Italia equivarrebbe a più di 450 miliardi!), misure fiscali che incidono negativamente sulla domanda interna grazie all’aumento dell’Iva (con il duplice effetto di colpire 1. settori –turismo, in primo luogo, da cui “la Grecia –come giustamente rileva Paolo Pini – trae un flusso positivo di risorse estere per compensare almeno in parte il saldo negativo complessivo della bilancia commerciale” e 2. penalizzare i redditi più bassi), nuovi interventi sulla previdenza e sanità pubblica oltre a quelli già adottati negli anni precedenti e via di questo passo.
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Le immagini della scienza e la pretesa di verità
di Riccardo Falcinelli
Viviamo circondati da immagini, in un numero enorme se confrontato con qualsiasi società che ci abbia preceduto. Gran parte di queste sono pensate per intrattenere, per raccontare, per sedurre, come quelle della fiction, dei videogiochi o della pubblicità. Un’altra parte è fatta per testimoniare o per spiegare: si tratta delle foto giornalistiche e delle immagini scientifiche. In entrambi i casi si mostra qualcosa e si afferma che quanto si sta mostrando è “vero”. Sarebbe però più corretto dire che si pretende sia vero, visto che il rapporto delle immagini con la verità non è dato una volta per tutte ma sempre frutto di un accordo, di una negoziazione tra chi mostra e chi guarda. Condizione stringente nel caso delle immagini scientifiche che esibiscono spesso cose non visibili a occhio nudo: l’atomo, un virus o il DNA li conosciamo infatti attraverso raffigurazioni e non tramite esperienza diretta. C’è dunque da chiedersi quali strumenti figurativi vengano impiegati a questo scopo e perché questi e non altri.
Il 25 aprile 1953 Francis Crick e James Watson presentano su “Nature” l’articolo epocale sulla struttura dell’acido deossiribonucleico che li avrebbe portati qualche anno dopo al premio Nobel. Vi compare un’immagine che, in forme diverse, sarebbe stata destinata a un enorme successo: la prima effigie del DNA sotto forma di elica. Per l’occasione il disegno viene realizzato dalla moglie di Crick – che è pittrice – partendo da uno schizzo del marito. Una nota in calce dice che l’immagine è niente più che uno schema: “purely diagrammatic” recita la didascalia.
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Basta un "Piano B" per rompere la gabbia dell'Unione Europea?
Dante Barontini
In calce "Un piano B per l'Europa"
I fatti hanno la testa dura, andiamo ripetendo spesso. E costringono tanti a cambiare idea, visione, progetto politico. Nel panorama disastrato della sinistra radicale europea questo è certamente un bene, vista la miseria mostrata negli ultimi 25 anni.
Ma intorno a cosa si sta cambiando idea? Intorno al problema principale, discriminante, politico per definizione: quale rapporto tra movimenti sociali contro l'austerità e Unione Europea?
Ora ben quattro leader politici della sinistra europea, in alcuni casi ex ministri (o vice) delle finanze dei rispettivi paesi (Lafontaine, Varoufakis, Fassina, Melenchon) hanno firmato e diffuso, da Parigi, un documento-appello intitolato “Un piano B per l'Europa” in cui dichiarano di di “essere determinati a rompere con questa Europa”, con una visione che prevede anche una revisione totale del sistema della moneta unica e il ritorno alle monete nazionali. Vedremo tra poco quelli che secondo noi sono i limiti di questa impostazione, ma non si può negare che si tratti di un notevole passo in avanti rispetto al “riformismo europeista” ancora sbandierato dalla parte meno reattiva della cosiddetta sinistra radicale.
Nel dire questo, e nell'invitare alla discussione i nostri lettori e tutti gli attivisti sociali e politici di questo paese, consigliamo di concentrarsi sull'evoluzione dei processi storici, anziché sui nomi e cognomi dei singoli. Non perché le biografie o la formazione individuale non abbiano la loro importanza, ma per la forza irresistibile dei processi storici, che producono i propri interpreti anziché esserne determinati. In fondo, è l'essere sociale (complessivamente) a produrre la coscienza, non viceversa...
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L’aporia del debito pubblico: Keynesiani vs Classici
di Gaetano Perone
L’intera architettura dell’Unione Europea poggia le sue basi sull’apodittico assunto che il debito pubblico rappresenti un vincolo insostenibile per la crescita di lungo periodo, nonché un grave ostacolo a una corretta e completa integrazione economica fra i Paesi. Si tratta chiaramente di un modello di stampo ortodosso, che dimentica l’essenza stessa del capitalismo, ossia la possibilità/opportunità di prendere denaro a prestito e di contrarre debiti/crediti.
Da qui l’idea che lo Stato sia assimilabile al buon pater familias e che il consolidamento delle finanze pubbliche rappresenti l’unico viatico possibile per rilanciare consumi e investimenti. Un paradigma antitetico a quello proposto da Keynes (1936), che vedeva nella spesa di matrice statale uno strumento di perequazione e di composizione dei fallimenti privati, nonché una leva fondamentale per azionare una crescita sostenibile e bilanciata.
Secondo l’approccio classico mainstream, dato che la crisi sarebbe da ascriversi principalmente a un eccesso sistematico di spesa pubblica, che avrebbe favorito in sequenza, prima l’accumulazione e poi l’implosione dei debiti pubblici, sarebbe necessario – per riattivare il sistema – tagliare drasticamente la spesa di matrice nazionale (Reinhart e Rogoff 2013).
Tuttavia, il rapporto di causazione non sembra reggere alla prova dei fatti, né a quella empirica. Innanzitutto, come dichiarato apertamente dallo stesso vicepresidente della commissione UE, Victor Constâncio (2012), il debito pubblico è semmai l’effetto, non la causa della crisi.
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La Buona Scuola, ovvero il carrarmato della propaganda e del ricatto
Clash City Workers
[SPOILER: Contributo di due paginette, con numeri, dati e spiegoni. Ma questa non è l'osteria delle emozioni, per le analisi in 160 caratteri rivolgetevi a Palazzo Chigi. #ciaogufi]
Oggi a mezzanotte [11 settembre ndr] scade il termine ultimo per l'accettazione delle proposte di assunzione della cosiddetta fase B, cioè distribuite su tutto il territorio nazionale.
Una fase che è stata un mezzo flop per il Governo: 16.210 posti messi a bando, solo 10.780 le domande presentate al 14 Agosto, 8.776 le proposte di assunzione effettive. Insomma, per una serie di motivi, legati anche a leggerezze e opacità procedurali sulle quali è partita anche una interrogazione parlamentare, poco più della metà dei posti messi a bando sarà finalmente occupata da un docente assunto a tempo indeterminato. Virtualmente: molti, infatti, hanno già accettato un incarico annuale nella propria provincia, l'ultimo possibile prima di prendere effettivamente il ruolo, per cui anche quest'anno molte cattedre saranno coperte da supplenti.
Quanti saranno, allora, i docenti assunti a tempo indeterminato da domani? Il conto è presto fatto: 47.476 erano i posti disponibili per le prime due fasi di assunzione, 16.210 quelli “avanzati”, quindi il totale degli assunti al 31 Agosto era 31.266. A questi vanno aggiunti gli 8.760 della fase B che hanno detto SI nel momento in cui scriviamo (al 10/09, 16 hanno rifiutato). Totale: 40026.
Il numero è considerevole se lo si somma ai 55.258 posti messi a bando per la cosiddetta fase C, ma ammesso che tutti i rimanenti posti verranno coperti – cosa non facile né scontata – 95.000 assunti restano ben distanti dai 150.000 circa promessi a Settembre scorso, specialmente se opera di un Governo che ha gridato ai quattro venti di voler mettere fine alla ultraventennale piaga del precariato.
Inoltre, quando da domani il Governo e il suo tweeting staff canteranno vittoria imbrodandosi nelle lodi, ricordate che la pena, per chi rifiutava queste proposte di assunzione, era la cancellazione da ogni graduatoria.
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Gli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica sono in Rete
di Benedetto Vecchi
Va preliminarmente sgomberato il campo da una rappresentazione della produzione dell’opinione pubblica che vede una polarità tra vecchi e nuovi media. Da una parte, viene sostenuto, attingendo e al lessico di Marshall McLuhan, ci sono la carta stampata, la radio e la tv, che sono medium freddi o caldi dove si esprime l’egemonia dello stile enunciativo televisivo, data la rilevanza del visuale – le immagini rivelano una immediatezza comunicativa che manca invece alla parola orale o scritta -; dall’altra c’è la Rete, regno indiscusso del caos comunicativo e dall’assenza di una gerarchia che seleziona i fatti e i punti di vista. Da una parte un ordine del discorso facile da decrittare e mettere a critica; dall’altra una trasparenza radicale della comunicazione che produce un rumore di fondo che distoglie l’attenzione e favorisce una colonizzazione della discussione pubblica da parte dei governi e delle imprese. Speculare a queste, c’è l’altra rappresentazione, dove i “vecchi media” sono una sofistica tecnologia del controllo sociale, mentre il web sarebbe uno spazio comunicativo difficile da manipolare e ribelle a qualsiasi eterodirezione palese o nascosta.
Entrambe le rappresentazioni inducono all’equivoco che la Rete sarebbe, di volta in volta, una tecnologia della liberazione dal potere performativo e autoritario di televisione, carta stampata e radio; o uno strumento di manipolazione dell’opinione pubblica, possibilità preclusa ai vecchi media visti gli elementi di autogoverno che regolano il loro funzionamento, a partire dalle regole deontologiche dei giornalisti che consentono proprio ai giornalisti di vigliare sull’operato degli editori e dei direttori.
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Cyber-Proletariat
G. Mueller intervista Nick Dyer-Witheford
Gavin Mueller: Il tuo libro del 1999 Cyber-Marx è un ottimo sunto dell'approccio marxista autonomo e post-operaista, e rappresenta una riflessione rispetto alla loro rilevanza nella lotta contro un capitalismo sempre più pervaso di tecnologie comunicative e informazionali. Con Cyber-Proletariat appari meno ottimista rispetto all'abbraccio che usualmente il post-operaismo propone rispetto alle tecnologie. Puoi spiegare questo cambio di posizione? Che cosa ha reso le tecnologie comunicative e informazionali sembrare sempre più come una sfida alla classe operaia globale?
Nick Dyer-Witheford: Il mio cambio di posizione riflette il coinvolgimento in due momenti di lotta – quello dell'alter-globalismo da metà anni '90 fino ai primi Duemila; e poi, dal 2008 a oggi, i nuovi antagonismi sociali e le lotte emerse sull'onda del collasso finanziario. Entrambe le lotte hanno rivelato nuove possibilità e nuovi problemi per i movimenti anticapitalisti rispetto all'uso delle tecnologie cibernetiche. Da un lato c'è stato un evidente – e molto dibattuto – uso dei social media e delle reti di telefonia mobile in ciò che possiamo chiamare come le rivolte del 2011 – i riot, gli scioperi, le occupazioni. Al contempo, e d'altra parte, tutti questi eventi hanno mostrato le difficoltà insite nel considerare tali tecnologie come matrici organizzative - ad esempio quello che potremmo definire come sindrome "dalle stelle alle stalle" che ha caratterizzato alcuni movimenti del 2011. Anche durante questo ciclo, e in particolare con le rivelazioni di Snowden in Nord America, è divenuto chiaro lo scopo e l'intensità della sorveglianza alla quale sono sottoposti i militanti grazie a questo milieu cibernetico.
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Davanti al dolore dei rifugiati
L’uso delle immagini e l’«operazione simpatia» della Germania e dell’Unione europea
Militant
Nel 2003, la scrittrice statunitense Susan Sontag si interrogò, nel libro Davanti al dolore degli altri, su come la continua riproposizione di immagini di atrocità sui media influenzasse e condizionasse le nostre opinioni, i nostri valori, il nostro sostegno o la nostra opposizione a guerre e «interventi umanitari». Un libricino scritto quando Facebook ancora non esisteva e i social networks erano pressoché sconosciuti ai più, ma ricco di spunti che ci sembrano molto attuali alla luce degli avvenimenti delle ultime settimane. Qual è stata, infatti, l’influenza della riproposizione dell’immagine del cadavere di Aylan, il bambino curdo siriano affogato durante un disperato tentativo di attraversare il lembo di mare che avrebbe condotto lui e la sua famiglia a Kos (Grecia) e trovato morto sulla spiaggia turca di Bodrum? In quale modo la commozione che ha suscitato nell’intero pianeta ha condizionato i sentimenti e le opinioni rispetto all’immigrazione, la risposta dei governi europei e, in un gioco di rimandi, l’immagine che di se stessi offrono al mondo?
La commozione suscitata dall’immagine di Aylan ha spinto la Germania a sospendere il patto «Dublino III» – che prevede che la richiesta di asilo vada fatta nel primo paese in cui si arriva – e di garantire protezione internazionale e accoglienza ai profughi provenienti dalla Siria e, in misura minore, da Afghanistan e Irak.
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Grecia, la necessità di un Piano B
Meglio un salto nel vuoto che uno nel nulla
di Marco Bertorello
Trascorso del tempo dall'accordo tra Troika e Grecia si può provare a trarre qualche considerazione di più ampio respiro, provando a uscire dalla logica manichea traditore versus eroe popolare, capitolazione versus vittoria. Senza fare/farci sconti per capire cosa comporta quell'accordo e, in particolare, per considerare cosa fare per poter cambiare qui e ora. Questa terribile vicenda, infatti, pone seri problemi per una prospettiva di trasformazione. Dopo anni di marginalità su scala internazionale il cambiamento è parso alla portata nel piccolo paese ellenico, o, perlomeno, si è posta la concreta possibilità di iniziare un processo di controtendenza, rimettendo in discussione debito e austerità, cioè i pilastri della costituzione materiale del neoliberismo sul piano europeo. Le conseguenze di ciò che è accaduto, dunque, ricadono sull'agire politico di molteplici paesi.
Il piano B e le sue banalizzazioni
Con tutte le cautele del caso e la consapevolezza di non poter impartire lezioni ai greci, penso che nell'estenuante trattativa di luglio fosse necessario prevedere un piano B. Prima di spiegare perché fosse necessario preferisco concentrarmi sulle difficoltà di una sua realizzazione. Non mi convince, infatti, come da diverse parti esso sia stato banalizzato.
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Crash tutto cinese?
di Raffaele Sciortino
Difficile ad oggi prevedere se il crollo della borsa cinese, che ha trascinato con sé le correzioni delle borse mondiali, sia l’innesco di una precipitazione della crisi globale dopo la pausa, economica in realtà più che geopolitica, degli ultimi due, tre anni. In ogni caso ne rappresenta un passaggio di fase: non solo la Cina sempre meno può, e vuole, fare da volano per un Occidente in prolungata stagnazione, ma si approssima un secco redde rationem sui circuiti di debito globali. Detto in altro modo: tende ad alzarsi il livello dello scontro sullo scarico dei costi della crisi a partire dagli scricchiolii del disequilibrio bilanciato1 Usa/Cina perno finora della globalizzazione.
Presentiamo di seguito alcune provvisorie ipotesi di lettura e inquadramento degli sviluppi in corso tentando innanzitutto una lettura non scissa tra dimensione “interna” cinese ed “esterna”. Tutto all’opposto della narrazione, di netto segno politico, che va imponendosi in Occidente dove -dopo anni di idiozie giornalistiche sullo scontato “sorpasso” del Dragone ai danni degli Usa- come d’incanto si riscoprono ora i nodi irrisolti dello sviluppo capitalistico cinese (!) per ingiungere a Pechino i compiti da svolgere pena la messa a rischio dell’economia mondiale.
Primo. La svalutazione agostana dello yuan secondo la narrazione corrente sarebbe stata la risposta al rallentamento dell’economia cinese che ha “naturalmente” innescato il crollo di borsa. Risposta “disperata” (addirittura!), comunque “scorretta” (come se gli stati occidentali in questi anni non avessero socializzato le immani perdite dei mercati…).
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La lotteria del lavoro
di Domenico Tambasco
Il lavoro ridotto a vincita di qualche lotteria patronale. Il salario diventato premio di una gara tra aspiranti lavoratori. Cosa si cela dietro la recente “ludizzazione” del lavoro? La lettura dell’illuminante saggio dal titolo “Ego. Gli inganni del capitalismo” di un grande intellettuale tedesco recentemente scomparso, Frank Schirrmacher, può aiutarci a trovare una sorprendente e inquietante risposta
Il lavoro è diventato un gioco. Sembra quasi uno slogan, ma la realtà quotidiana ci fornisce un’immediata e tangibile conferma.
L’ultimo caso balzato agli onori delle cronache risale a questa estate, ed arriva dalla provincia di Piacenza, precisamente da Ponte dell’Olio. In occasione della festa patronale, infatti, un salumificio ha organizzato una tombola[1]. Primo premio, manco a dirlo, un posto di lavoro. E non si tratta di un caso isolato. Altre “lotterie del lavoro”, negli ultimi anni, sono state organizzate in Italia, da Nord a Sud, regalando ai più fortunati dei veri e propri contratti di lavoro, a tempo indeterminato o a termine.
E quando non è oggetto di una lotteria, allora la retribuzione (scopo primario del lavoro) si trasforma nel premio concesso al vincitore della gara organizzata tra una pluralità di aspiranti lavoratori: siamo dinanzi al crowdsourcing, moderna forma di “cottimo digitale” che abbiamo già incontrato sulla nostra strada[2].
Cosa significa questa trasposizione del lavoro nella forma ludica ora della lotteria ora della vera e propria gara? E’ forse espressione dell’homo ludens, per utilizzare una felice espressione utilizzata nell’omonimo e storico saggio di Johan Huizinga? Sembrerebbe escluderlo lo stesso Huizinga che, in merito, ha espresso parole inequivocabili: “Salario è situato completamente fuori dall’ambito del gioco: significa l’equa ricompensa al lavoro prestato o ai servizi prestati. Non si gioca per un salario, si lavora per un salario”[3].
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