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“Algoritmi di libertà” di Michele Mezza
di Luca Picotti
Recensione a: Michele Mezza, Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto, Donzelli Editore, Roma 2018, pp. XVIII-278, 18 euro (scheda libro)
Il filosofo Emanuele Severino, nelle sue numerose pubblicazioni, ha sempre portato avanti la tesi secondo cui la Tecnica, intesa come la capacità di organizzare i mezzi per raggiungere una serie indefinita di scopi, diventerà il fine ultimo dell’uomo. In altri termini – meno criptici-, l’uomo sarà destinato ad essere subalterno all’apparato tecnologico da lui stesso costruito, apparato che acquisirà sempre più potere e autonomia.
La rivoluzione digitale e tecnologica degli ultimi anni ha concentrato nelle mani di poche persone la possibilità di controllare una sterminata quantità di informazioni generate dalla rete e ordinate dalla potenza di calcolo degli algoritmi. Questa deriva «panottica», resa possibile dai nuovi strumenti tecnologici, dall’inerzia della politica e dalla poca consapevolezza di coloro che la subiscono, solleva quesiti di estrema importanza: come possiamo conciliare l’onnipotenza dell’algoritmo con la libertà? Quale deve essere l’equilibrio tra pubblico e privato? Come dobbiamo porci davanti alla Tecnica e ad un futuro sempre più incerto?
L’ultimo libro di Michele Mezza, giornalista e docente universitario, affronta con taglio critico i meccanismi attraverso cui la potenza dell’algoritmo sta svuotando le nostre libertà. Il volume è contenutisticamente densissimo: spazia dal rapporto tra social media ed elezioni politiche al movimento del ’68, dalla crisi della rappresentanza ai monopoli digitali. Il comune denominatore è rappresentato dalla posta in gioco: il futuro della nostra democrazia, minacciata dalla potenza dell’algoritmo e della Tecnica.
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Il Popolo “en Marx”
di Alba Vastano
Potere al Popolo riuscirà a ricostituire l’unità dei comunisti, se il progetto riuscirà ad assumere una connotazione prettamente e prevalentemente marxista
Potere al Popolo compie sei mesi, un tempo minimo per la costruzione di un soggetto politico nato in una notte e lanciato con un video dai giovani del collettivo Je so Pazzo. Solo sei mesi, ma vissuti intensamente con centinaia di assemblee in tutto il territorio nazionale. Un tempo frequentatissimo da molti orfani della sinistra radicale che hanno visto in Palp una chance da non perdere per tentare di ricostruire un movimento politico che viva di democrazia partecipata e diretta, che faccia finalmente ripartire un’opposizione di classe e popolare e che abbia le potenzialità per crescere e contrastare specularmente le altre forze politiche che ancora dominano il Paese, smantellando lo stato sociale.
A 200 anni dalla nascita del Moro di Treviri, nasce Potere al Popolo sotto la stella guida del grande filosofo della classe operaia, di colui che segnò lo spartiacque fra il capitalismo (i poteri dominanti) e il popolo sfruttato (il proletariato), a cui indicò la via per liberarsi dal potere che lo sfruttava. Indicò alle masse che si riconoscevano come poveri e sfruttati che il loro non era un destino cinico e baro e che la strada per uscirne c’era. Occorreva unirsi e capire chi era il nemico da combattere: il capitalismo.
“Uno spettro si aggira per l’Europa, è lo spettro del comunismo… Tremino pure le classi dominanti davanti ad una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa, fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi unitevi” (apertura e chiusura del Manifest der Kommunistischen Partei - Karl Marx e Friedrich Engels).
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Le nuove plebi globali dentro la crisi sistemica
di Giovanni Iozzoli
Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00
Il nuovo libro di Carlo Formenti è essenzialmente una raccolta di articoli, dispiegati come anelli di un ragionamento continuo e coerente sulla crisi e suoi suoi attori sociali, maturato lungo il corso degli ultimi sette anni. Al centro della riflessione troviamo i due campi in cui si spaccano le società occidentali dentro questa stagione di trasformazioni accelerate: quello delle nuove oligarchie che stanno usando la crisi per concentrare ulteriormente poteri e ricchezza; e quello delle nuove masse proletarizzate, che stanno manifestando una confusa e sempre più diffusa repulsione verso ideologie e prassi delle élite, senza che questa ripulsa maturi in direzione di un qualche progetto di alternativa di società.
La prima parte del libro raccoglie spunti di analisi – quasi una narrazione in diretta – che partono dal 2011 e si allungano fino al 2017. Le pratiche di un neoliberismo feroce e pervasivo, sono al centro di ogni riflessione: il loro incunearsi “microfisicamente” nel tessuto sociale, nella vita, nel bios, fino ai grandi scenari macro – la guerra, il ciclo economico, il rapporto finanza/produzione. Una cronaca in tempo reale del disastro della modernità capitalistica, che può essere letta e declinata a vari livelli.
Si può partire da un tema attuale – l’essenza delle ideologie workfare – a proposito della scelta inglese del 2012, di affidare ad agenzie private la gestione dei sussidi e la ricollocazione degli iscritti alle liste di collocamento:
Il principio del workfare (il sussidio di disoccupazione bisogna guadagnarselo, altrimenti si è passibili di sospensioni o decurtazioni dell’assegno) non è certo una novità, ma qui siamo in presenza di pratiche ancora più penalizzanti. Soprattutto perché il compito di gestire questo avvio al lavoro coatto non è affidato alla pubblica amministrazione bensì a contractor privati che funzionano di fatto come agenzie interinali e hanno il potere di decidere come e quando i soggetti “renitenti” siano passibili di sanzione.
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‘68 / La protesta degli studenti
di Matteo Moca
Nel numero 33 dei Quaderni piacentini del 1968, apparve un testo di Guido Viale, Contro l'università (lo si trova oggi anche in diverse raccolte di saggi: si segnalano qui Quel che gli studenti non sanno e non fanno, Edizioni dell'asino e Il '68 senza Lenin ovvero la politica ridefinita, Edizioni e/o), destinato a diventare un documento unico degli anni delle contestazioni studentesche. Scritto durante le proteste presso l'Università di Torino, Contro l'università è un testo che sta alla pari con altri importanti documenti di quegli anni, europei ed extra-europei, come l'importante Manifesto di Port Huron (che prevedeva «la nonviolenza, la disobbedienza civile e il diritto per ogni giovane di praticare la democrazia partecipativa»), quello di Jerry Rubin Non fidarti di nessuno che abbia più di trentaquattro anni o il documento, anch'esso da rileggere e meditare, Della miseria nell'ambiente studentesco di alcuni membri dell'Internazionale Situazionista e studenti dell'Università di Strasburgo. Fu lo stesso Piergiorgio Bellocchio, fondatore della rivista assieme a Grazia Cherchi, a definire con enfasi il testo di Viale come quello che aveva «praticamente inventato il movimento studentesco», pensiero che lo spinse ad aumentare addirittura la tiratura di quel numero per diffonderlo in tutte le università italiane. Come nota anche Balestrini in L'orda d'oro, è indubbio che in quel documento si identificarono in molti, avendo questo «lo stesso effetto che aveva ottenuto precedentemente Lettere a una professoressa». Se il testo di Don Milani, a cui giustamente Balestrini affianca quello di Viale, ha continuato e prosegue tuttora ad essere un importante luogo di confronto e di studio, lo stesso non si può dire per Contro l'università, documento che certo sembra respirare troppo l'aria di quegli anni e finisce quindi per apparire debole e sfocato nelle riletture odierne. Rintracciare le motivazioni di un tale differente andamento non potrà certo essere fatto in questo luogo, ma evidenziare l'assoluta contemporaneità di questo testo rientra invece nelle nostre possibilità.
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Il ricatto dell’IVA
di coniarerivolta
Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito, in materia fiscale, ad una tendenza univoca molto chiara: lo spostamento del carico fiscale dai più ricchi ai più poveri e dai redditi di capitale ai redditi da lavoro. Questa tendenza è stata accompagnata da una sempre più sofisticata capacità di evasione ed elusione fiscale da parte dei redditi da capitale, in particolare i grandi capitali che possono essere esportati, legalmente o illegalmente, all’estero. In estrema sintesi: i lavoratori e i soggetti meno abbienti pagano sempre più imposte, i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno. Un dibattito politico ed economico fortemente impoverito, tuttavia, colpevolmente ignora questi aspetti: ad essere oppressi dal carico fiscale sarebbero esclusivamente solerti imprenditori, scoraggiati dal “fare impresa” e generare ricchezza per tutti da uno Stato oppressore e sanguisuga.
Proviamo a fare chiarezza ed un po’ di pulizia. Tra i temi più evocati nel dibattito politico e giornalistico di questi giorni un posto d’onore spetta senza dubbio all’IVA, l’imposta sul valore aggiunto. Se ne paventa un aumento a decorrere dal 2019 e i partiti politici si affannano a capire come poter scongiurare questo evento, previsto dalla clausola di salvaguardia presente nella legge di bilancio dall’ormai lontano luglio 2011. Secondo tale clausola, l’aumento dell’IVA scatta automaticamente nel momento in cui non si sono raggiunti gli obiettivi di contenimento del deficit previsti dalla Commissione europea. Ma procediamo per gradi.
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Il lungo riflusso
di Damiano Palano
A quarant'anni dalla morte di Aldo Moro, "Maelstrom" ripropone la lettura di un libro di Fausto Colombo
I posteri risponderanno forse alla domanda se Nanni Moretti sia davvero un grande regista, o – come voleva Mario Monicelli – soltanto un epigono, neppure troppo originale, della commedia all’italiana. Al di là di ogni rilievo stilistico, anche i suoi più spietati critici non possono però negare al cineasta romano un fiuto formidabile nel saper cogliere le tendenze della società, le trasformazioni culturali, il mutamento nei costumi, proprio come i migliori esponenti della commedia all’italiana degli anni Sessanta. Se il cinema di Monicelli e Risi prendeva di mira in prevalenza i ‘tic’, le ambizioni e i complessi di una piccola borghesia investita dal boom, il bersaglio privilegiato del regista romano è invece costituito, fin dai suoi primi film, dalla media borghesia intellettuale della capitale: un gruppo sociale piuttosto ristretto, autoreferenziale, a suo modo estremamente provinciale, ma ciò nondimeno straordinario punto di osservazione, proprio perché all’interno di questo gruppo possono essere osservate – come in una sorta di incubatrice – tutte quelle deformità che negli anni seguenti si ritroveranno, amplificate fino all’oscenità, nell’intera società italiana. Alcune memorabili sequenze di Io sono un autarchico o di Ecce bombo rimangono da questo di vista quasi inarrivabili, e diventano una sorta di documentario anche perché vi si possono talvolta persino scorgere i reali protagonisti di quello zoo intellettuale. Alcuni momenti di Palombella rossa, Caro Diario e Aprile non perdono nel tempo le loro efficacia, nell’esibire i tormenti – ormai non più giovanili – di quel medesimo teatrino, ma sono probabilmente alcune delle scene di Bianca a mostrare la sensibilità con cui il regista romano riesce ad afferrare lo Zeitgeist, forse prima ancora che si sia compiutamente dispiegato.
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Una teoria che ha funzionato, cioè predittiva
Pensieri del dugentenario
di Stefano Borselli
Parla Marx
Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate — virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. — tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore. (Miseria della filosofia, Cap. I §1, 1847, M. ha 29 anni.)
A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come un’immane raccolta di merci [...]. (Per la Critica dell’Economia Politica, Incipit, 1859, 41 anni.)
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una «immane raccolta di merci» [...]. (Il Capitale, Incipit, 1867, 49 anni.)
Una teoria che ha funzionato, cioè predittiva
• Una definizione e una previsione
Possiamo leggere questi tre brani, nei quali il Marx giovane e quello maturo si tengono perfettamente, come una definizione della società capitalistica: è quella dove la merce dilaga e come una previsione: tutto diventerà merce. Va realisticamente preso atto che la previsione si è avverata e continua a farlo ed è propria di Marx.
• La merce
Cos’è una merce? Nella sua forma compiuta ed esplicita è qualcosa che si può portare liberamente al mercato e liberamente comprare: cose, servizi, animali, uomini ecc. (ilportare al mercato a volte non è fisico, es. gli immobili).
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Sapelli: "La visione economica dell'Europa è a matrice tedesca"
di Quarantotto
1. Inutile ripetere le osservazioni e le analisi di ordine costituzionale che, nel post precedente, e nei relativi commenti, hanno già puntualizzato come ci si trovi di fronte ad una situazione istituzionale "inedita", cioè, nonostante il richiamo a pallidi precedenti storici einaudiani, mai verificatasi prima nella storia della Repubblica.
Il messaggio ampiamente concertato dai media - che registri o meno con esattezza le indicazioni comunque più volte esplicitate dal Quirinale- sarebbe quello che il primato del vincolo esterno, cioè dell'adeguamento ordinamentale italiano all'indirizzo politico derivante dai trattati Ue e dell'adesione alla moneta unica, sarebbe tale da prevalere incondizionatamente sulle indicazioni date dai risultati elettorali; ciò da un lato, renderebbe legittima un'intensa ingerenza del Capo dello Stato sulla scelta dello stesso premier (limitando ulteriormente le già di per se stesse difficili possibilità di accordo tra i partiti interessati) e, addirittura, dei singoli ministri, dall'altro, farebbe emergere un ruolo presidenziale di filtro "a tutto campo" sulla legittimità costituzionale dei futuri provvedimenti legislativi di un governo, evocandosi, come parametro principale, se non sostanzialmente unico, quello del nuovo art.81 Cost.
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Jean-Claude Michéa, “Il nostro comune nemico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Jean-Claude Michéa è del 2017 e come corrisponde alle consuetudini dell’autore si compone di un breve testo in forma di intervista e di alcuni “scoli” che ritornano sui temi affrontati, approfondendoli in percorsi paralleli. Lo scopo del testo è sviluppare una serrata critica della confusione tra la logica del liberalismo, individualizzante e figlia di un universalismo astratto e razionalismo totalitario, e quella del socialismo, resistente alla riduzione dell’uomo a macchina di valorizzazione e desiderio subalterno e della comunità umana alla mera somma delle sue parti. Lo scopo è, in altre parole, aiutarci a “recuperare il tesoro della critica socialista originaria”. Ciò lavorando sia sulla tradizione che ci viene da Marx come da quella che scaturisce dalle altre fonti del pensiero socialista, come Proudhon, per il quale spende alcune belle pagine.
Ancorandosi alla lettura di Lohoff e Trenkle, e la loro “critica del valore”, Michéa sostiene che il problema di questa divergenza è molto profondo, che, cioè, c’è una coerenza radicale tra la società dei consumi, il modello umano che crea, e la spinta interna necessaria di ogni economia che sia liberale di orientarsi alla mera valorizzazione illimitata del capitale. L’estensione all’infinito del processo di valorizzazione del capitale determina necessariamente quello che Michéa chiama “il regno dell’assolutismo individuale” e quindi la perdita continua e progressiva di tutti valori tradizionali. Questi per l’autore sono organizzati da una logica di reciprocità che Mauss ha indentificato con il triplice legame del “dono”; una ‘istituzione totale’ che sta alla radice del legame sociale: un legame in cui l’attesa obbligante di restituire non soggiace ad una metrica astratta, quella del ‘valore’, ma fonda proprio nel legame che crea.
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Avengers: Infinity War
di Vito Plantamura (aka Tom Bombadillo)
Nelle more di nuovi articoli, e in altre faccende scrittorie affaccendato, ricevo e pubblico volentieri il contributo di un amico, lettore e commentatore del blog, Tom Bombadillo. Si tratta della recensione di un film di grande successo proiettato in questi giorni anche in Italia. Nel rilevare un cambio di paradigma nella cinematografia di intrattenimento americana - e quindi globale - l'autore registra l'emersione anche subliminale di temi bioetici e biopolitici che sembrano destinati a occupare sempre più spazio nel mainstream, oltreché nei commenti della cronaca. Nella trama del nuovo cult della Marvel-Disney l'idea di una "igiene del mondo" che lo renda più sostenibile ed equo, di un'umanità di troppo di cui ci siamo già occupati in altro modo sul blog, si insinua nella riflessione degli spettatori giovandosi di una dialettica morale inedita dove il male si contamina con il bene, diventa bene superiore e si veste da ragion di Stato, qui anzi dell'Universo.
Non abbiamo mai scritto in queste pagine di sovrappopolazione, pur sapendolo un tema molto caro ai sovrani del nostro tempo: letteralmente e non. Né saremmo in grado di farlo con competenza, salvo osservare in punto di metodo una curiosa convergenza: tra i messaggi apocalittici di una denatalità che renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni - da cui la prescrizione di imbarcare carne umana dal Terzo Mondo, quella che "ci pagherà le pensioni" - e i messaggi apocalittici di un'esplosione demografica che... renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni. E condividere con i lettori la sensazione, netta, che in un regime di riduzione e selezione eugenetica delle vite umane non saremo noi a dettare i tempi, i modi e i numeri dell'austerità biologica, come già oggi di quella fiscale.
Né chi ce li impone, come già oggi, a subirli [il pedante].
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Squilibri macroeconomici in eurozona: cosa non ha funzionato?
di Nicola Acocella
1. Introduzione
Nell’Unione monetaria europea (UME) le istituzioni e le politiche intraprese hanno tollerato o alimentato asimmetrie in parte preesistenti, che hanno generato a loro volta squilibri macroeconomici. Indichiamo prima le istituzioni e le politiche europee e poi le asimmetrie. Segue qualche riflessione sulle possibili vie di uscita.
2. I difetti delle istituzioni dell’Unione Monetaria Europea.
L’UME, entrata in vigore il 1° gennaio 1999, è caratterizzata da una politica monetaria unica, con la quale la Banca Centrale Europea (BCE) stabilisce un unico tasso di interesse nominale valido in tutti i paesi membri. La BCE è un’istituzione indipendente dal potere politico e conservatrice, avente per obiettivo un tasso di inflazione inferiore – ma vicino – al 2%. Soltanto in via subordinata, quando questo obiettivo predominante sia soddisfatto, la Banca può perseguire altri obiettivi come l’occupazione e la stabilità finanziaria, che invece costituiscono obiettivi di pari dignità dell’inflazione per altre banche centrali, come la Federal Reserve statunitense. La BCE agisce da prestatore di ultima istanza per il sistema creditizio che abbia bisogno di rifinanziarsi, ma non può prestare – almeno direttamente – agli stati membri. Gli interventi che finora sono serviti ad attuare la politica monetaria sono in larga misura basati sull’acquisto (o vendita) di titoli pubblici già in essere. In questo senso, si può dire che la BCE può aver indirettamente facilitato il finanziamento pubblico.
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I moti del '98 fra rivolta del proletariato e colpo di stato della borghesia
di Eros Barone
“A questo mondo si rassegna solo chi non ha bisogno di fare altrimenti. La rassegnazione è la filosofia di chi non è obbligato a lavorare sempre col dubbio di perdere il lavoro, a lottare sempre col dubbio di rimanere sconfitto nella lotta, a dormire sempre col dubbio di svegliarsi e di trovarsi affamati. La rassegnazione è la filosofia dei soddisfatti. La ricchezza fra gli altri vantaggi che procura, procura anche quello della rassegnazione. Io credo che se Lei da bambino avesse sofferta la fame e l’avesse sofferta in compagnia dei Suoi fratelli e della Sua mamma, se Lei dovesse vivere sempre nell’incertezza del domani, se Lei dovesse vedere davanti a sé sempre la minaccia di vedere i Suoi figli soffrire la fame, come Lei la soffrì quando era bambino, io credo che la filosofia della rassegnazione non sarebbe fatta per Lei….”.
Lettera di Gaetano Salvemini all’amico Carlo Placci del 15 giugno 1898.
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Le premesse
“Oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Il ’98 rappresenta, non solo a Milano ma in tutta Italia, il culmine di una crisi sociale e politica che per profondità, durata ed estensione ha indotto gli storici a qualificare tale periodo, riferendosi ai conflitti di classe e alle repressioni statuali degli anni ’90, attuate con il continuo ricorso allo “stato di assedio” e quindi all’intervento militare, come ‘decennio di sangue’. Quei conflitti avevano trovato la loro espressione, durante il biennio 1893-1894, nel movimento popolare dei Fasci siciliani, che alla protesta contro il fiscalismo e il dominio del latifondo univa la rivendicazione di terre da coltivare, e nel tentativo insurrezionale anarchico in Lunigiana.
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Uno Stato che non era un moloch
di Roberto Salerno
Qualche giorno fa, Franco Calamida – che proprio nei giorni del sequestro Moro fu tra i fondatori di Democrazia Proletaria – ha ricordato come il terrorismo sia stato “il nostro peggior nemico”. Dopo il massacro dei cinque uomini della scorta, “l’omicidio del leader democristiano, l’atto irreversibile della sua morte trasformava l’oppressore – l’uomo del potere – in vittima e, al contrario, chi si affermava come vendicatore… diventava a sua volta oppressore”, scrisse all’epoca Ninetta Zandegiacomi (su Unità Proletaria, giugno-luglio 1978). A partire dai ragionamenti “alti” di Leonardo Sciascia e Alberto Arbasino, fino all’ultimo improvvisato “dietrologo” fuori tempo massimo, del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro non si è mai smesso di parlare, lungo questi 40 anni che ci separano dal tragico epilogo di via Caetani. In questo intervento Roberto Salerno fa giustizia dei tanti mediocri complottismi, proponendo invece una riflessione sul ruolo transitorio e il fragile potere di chi temporaneamente ha “in mano le redini” delle strutture statali [PalermoGrad].
* * * *
La mattina del 9 maggio del 1978 a due passi da Via delle Botteghe Oscure e a qualcuno di più da Piazza del Gesù venne ritrovato il corpo di Aldo Moro. Il presidente (dimissionario) della Democrazia Cristiana era stato rapito 55 giorni prima, il 16 marzo, da un gruppo formato da almeno dieci persone.
Per quanto queste due affermazioni possano sembrare – e siano – asettiche, persino su queste alcuni hanno avanzato dei dubbi e ci sono poche certezze. Per esempio sull’orario del ritrovamento ci sono varie incongruenze.
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Ma esiste veramente un futuro a sinistra?
di Riccardo Achilli
Sono reduce dall’Assemblea annuale del Network per il Socialismo Europeo, il cui titolo, significativo, consisteva in un domanda: “C’è futuro per la sinistra in Italia?” Devo dire che, alle volte, le risposte più significative ai grandi quesiti derivano da impressioni e sensazioni, più che da complessi ragionamenti. E’ nel corpo vivo della militanza della politica che si colgono i segnali di consapevolezza della situazione e della capacità di riscossa, dopo le sconfitte storiche. Da questo punto di vista, la sensazione è quella di un mondo piuttosto cristallizzato su schemi tradizionali e speranze fideistiche. Nel suo intervento, Giovanni Paglia rimanda ad un imprecisato lungo periodo la speranza incrollabile di una rinascita della sinistra, poiché le contraddizioni del neo-capitalismo produrrebbero inevitabilmente, prima o poi, una nuova forza di sinistra. Si tratta evidentemente di un cascame di cultura politica otto-novecentesca, che positivisticamente attribuisce alla dinamica storica un avanzamento in senso progressivo, scaturente dalle contraddizioni intrinseche della struttura.
Quello che è evidente, invece, è che a protrarsi nel tempo, ed a rafforzarsi nelle fasi di ristrutturazione in senso regressivo del sistema, sono le istanze sottostanti le ragioni storiche della sinistra: la giustizia sociale, l’eguaglianza formale e sostanziale, la liberazione dallo sfruttamento e dall’alienazione dal modo di produzione. Ma non è affatto detto che tali istanza saranno, in futuro, rappresentate da una sinistra politica autonoma. Non è una disquisizione teorica.
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Che cos’è il lavoro oggi
di Nicole Siri
Works di Vitaliano Trevisan e Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi, rispettivamente 2016 e 2017) sono due mémoires che, apparentemente, condividono intento e impianto architettonico: raccontare una formazione di scrittore attraverso il resoconto cronologico dei lavori svolti. Addentrandosi in queste due costruzioni, però, ci si accorge subito che l’atmosfera che si respira è profondamente diversa: le due opere a confronto testimoniano, anzitutto, della faglia storica che le separa.
Vitaliano Trevisan è nato nel 1960, Giorgio Falco nel 1967. I due autori condividono, grossomodo, la classe sociale di provenienza, le prime esperienze lavorative (un lavoro estivo in fabbrica durante gli studi superiori), l’altezza cronologica dell’ingresso a tempo pieno nel mondo del lavoro — poco dopo l’esame di maturità, dopo una breve parentesi universitaria che si conclude per entrambi con l’abbandono degli studi.
Gli anni che li separano, però, sono anni cruciali. Trevisan inizia a lavorare a tempo pieno nel dicembre del 1979, Giorgio Falco (cercando di ricostruire la cronologia: i riferimenti temporali espliciti sono meno frequenti nel suo romanzo) all’incirca nel 1988: sono gli anni in cui il lavoro inizia a smaterializzarsi, si compie il passaggio dal capitalismo novecentesco al capitalismo flessibile di impronta sempre più marcatamente neoliberista, inizia a prendere forma il precariato cognitivo.
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Nella situazione, più che mai
di Anselm Jappe
Guy Debord ha detto spesso che, più di ogni altra cosa, egli si considerava come uno «stratega». E, in effetti, l'interesse che continua a suscitare, più di cinquant'anni dopo la pubblicazione della sua opera principale, La Società dello Spettacolo, ha molto a che fare con la sua capacità di ottenere con uno sforzo minimo quello che si proponeva. In questo modo, è riuscito a vincere la sua scommessa contro lo «spettacolo» senza apparire sulla scena, ed in modo che lo giudicassero indispensabile tutti gli altri nemici giurati dell'ordine esistente: Debord non si è mai esibito in pubblico, non ha mai concesso alcuna intervista, non ha mai scritto sulla stampa, ha comunicato unicamente attraverso i mezzi che egli stesso aveva scelto (la rivista Internazionale Situazionista, i suoi libri, i suoi film, promossi da produttori ed editori amici). In breve, era inaccessibile.
Tutto questo ha contribuito al mito che era riuscito a creare intorno a sé stesso. Fino al suo suicidio nel 1994, ha saputo difendere la sua «cattiva reputazione» (il titolo del suo ultimo libro, del 1993) di sovversivo infrequentabile. È stato un caso pressoché unico. Tuttavia, subito dopo la sua morte, ha avuto inizio una diffusione del suo pensiero che ha sfiorato perfino la "panteificazione", e che ha fatto di lui un «grande autore francese», in generale a spese del contenuto sovversivo della sua vita e della sua opera.
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Da Schaüble a Schulz a Scholz: cosa si sta preparando in Europa?
di Sergio Cesaratto
Traccia dell'intervento all'incontro C'è un futuro per la sinistra?, VI assemblea nazionale del Network per il Socialismo Europeo, Fiuggi, 5-6 marzo 2, (non tutto letto, e con qualche postilla che susciterà qualche reazione isterica)
La risposta al quesito che mi ponete è incoraggiante: per ora non si sta preparando nulla. Visto ciò che si discuteva, questa è una buona cosa. Ma non è che l’attuale assetto istituzionale-economico europeo non sia già abbastanza penoso, per cui non v’è molto da festeggiare.
Non è neppure facile districare i termini delle posizioni e delle questioni.
Intanto quando si parla di riforme dell’eurozona si parla di poca cosa (ma con potenziali devastanti).
L’eurozona nasce male, non si fa una moneta senza uno Stato, e lo Stato federato europeo non è realistico, spero che ormai ne siamo tutti convinti (ma purtroppo non fuori di qui). L’eurozona non è un’area valutaria ottimale, anche questo è common knowledge. Per farla funzionare bene in maniera che assicuri la piena occupazione, a fronte agli squilibri che produce occorrerebbero politiche fortemente espansive nel paese dominante e, probabilmente, anche trasferimenti fiscali perequativi da quest’ultimo. Pensare che questo accada significa essere folli. Il resto, solidarietà europea ecc. sono chiacchiere.
Quindi, punto uno, quando si parla di riforme, si parla di cose marginali che non affrontano i suoi nodi, per così dire, strutturali. Parlando di Europa vale veramente l’abusata battuta di Flaiano che la situazione è tragica, ma non è seria.
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Il grande esperimento Invalsi
di Gianluca Gabrielli*
Non sono prove anonime, stravolgono i programmi scolastici, mettono in discussione l’aiuto reciproco tra bambini e soprattutto la loro serenità, tra deliranti cronometri, insegnanti che diventano sorveglianti e aule trasformate in celle di massima sicurezza, da cui a bambini e bambine di sette anni non è consentito allontanarsi per fare la pipì. Tuttavia quando si ragiona sulle motivazioni del rifiuto delle prove Invalsi, previste da queste settimana, si sottovaluta un aspetto, il più inquietante ma anche motivo di speranza: quei test si reggono prima di tutto sull’obbedienza gratuita dei docenti chiamati a somministrarli seguendo un vergognoso Manuale. Se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore, tutto quell’odioso esperimento crollerebbe
Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare – ad esempio – gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o – chissà – addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
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Quel che resta del giorno
di Alfonso Gianni
La debacle elettorale della sinistra richiede un’analisi di fondo delle sue cause. Queste non risiedono solo negli ultimi mesi, ma hanno radici lontane. Affondano nella incapacità di fronteggiare in tutti i suoi aspetti l’offensiva neoliberista che ha cambiato il mondo. E ha cambiato l’antropologia e il modo di pensare. L’individualismo competitivo è penetrato nel profondo. La risposta non può essere solo sulla difensiva o puntiforme, ma deve avanzare un’idea di società e di modelli di vita alternativi. La sinistra radicale non ha saputo contrastare la sfida populista. E’ passata da una elezione all’altra non solo perdendo voti, ma cambiando ogni volta la loro composizione. Dimostrando una incapacità a trasformarli in partecipazione attiva e costante. Nello stesso tempo gli insediamenti sociali, quand’anche ci sono, non garantiscono nei tempi brevi i ritorni di voto attesi. Del resto il voto stesso cambia di senso nella postdemocrazia del maggioritario. Eppure le nuove figure del precariato creato dal capitalismo delle piattaforme indicano un campo di iniziativa da cui ripartire.
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Le elezioni del nostro scontento si sono inevitabilmente trasformate in quelle del nostro sconforto. Tale è lo stato d’animo generale – salvo qualche euforia di facciata del tutto fuor di luogo – che affligge la sinistra nel nostro paese. Ciò che ne resta, se resta. Una sinistra che non ha saputo acchiappare al volo una occasione probabilmente storica, certamente non da poco, rappresentata dalla sconfitta verticale del Pd. Una perdita di consensi e di credibilità, che la stessa sinistra - in questo caso anche quella interna al Pd che avrebbe poi dato vita alla scissione di Articolo1- Movimento Democratico e Progressista (Mdp) - aveva contribuito in maniera assolutamente determinante a fare maturare con l’esito del voto referendario del 4 dicembre del 2016.
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Intervista vera al vero Karl Marx (anno 1871)
di R. Landor
Landor, corrispondente del World, intervista Marx a Londra il 3 luglio 1871. Soltanto un paio di mesi prima, la Comune di Parigi, cui Marx aveva partecipato, era stata soffocata nel sangue. www.internazionale.it
Londra, 3 luglio 1871. Mi avete chiesto di raccogliere informazioni sull’Associazione Internazionale e io ho cercato di farlo. Attualmente, si tratta di un’ardua impresa. Londra è indiscutibilmente il quartier generale dell’Associazione, ma gli inglesi sono spaventati e sentono odor d’Internazionale dappertutto, come re Giacomo sentiva odor di polvere da sparo dopo la famosa congiura. Naturalmente, il livello di consapevolezza dei membri dell’Associazione è aumentato con la sospettosità del pubblico e se gli uomini che la dirigono hanno un segreto da custodire, il loro stampo è tale da custodirlo bene. Ho fatto visita a due dei suoi esponenti più in vista; con uno di essi ho parlato liberamente e qui di seguito riferisco il succo della nostra conversazione. Mi sono personalmente accertato di una cosa, e cioè che si tratta di un’associazione di veri lavoratori, ma che questi lavoratori sono guidati da teorici politici e sociali appartenenti a un’altra classe. Uno degli uomini che ho visto, fra i massimi dirigenti del Consiglio, si è fatto intervistare seduto al suo banco da lavoro, e a tratti smetteva di parlare con me per ascoltare le lamentele espresse in tono tutt’altro che cortese da uno dei tanti padroncini del quartiere che gli davano da lavorare. Ho sentito quello stesso uomo pronunciare in pubblico discorsi eloquenti, animati in ogni loro passo dalla forza dell’odio verso le classi che si autodefiniscono governanti. Ho capito quei discorsi dopo aver assistito a uno squarcio della vita domestica dell’oratore. Egli deve essere consapevole di possedere abbastanza cervello da organizzare un governo funzionante ma di essere costretto a dedicare la sua vita alla più estenuante routine di un lavoro puramente meccanico. Pur essendo un uomo orgoglioso e sensibile, era continuamente costretto a rispondere a un grugnito con un inchino, e con un sorriso a un ordine che sulla scala dell’urbanità si collocava più o meno allo stesso livello del richiamo che il cacciatore lancia al suo cane.
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Palestina: armi proibite, giri della morte (e cronache sportive)
di Fulvio Grimaldi
“il manifesto”: ma che belle cronache!
Qualcuno potrà dirmi che me la prendo sempre con il giornale che si sfregia del vezzeggiativo “quotidiano comunista”. Che tanto è inutile, che è come prendere a cannonate un cagnetto di compagnia (quello di Soros e Hillary), che comunque quei quattro lettori, sopravvissuti al disvelamento ormai scontatissimo della sua missione di megafono delle buone ragioni imperialiste, non li schiodi neanche se gli dimostri che Chiara Cruciati è sposata con un boss curdo di Kobane e passa le ferie tra l’Isis del Sinai, o che Norma Rangeri, Laura Boldrini, Asia Argento, Emma Bonino succhiano sangue di bambini maschi dopo mezzanotte.
Tutto vero, ma tant’è. La smetterò, ma non stavolta. Stavolta, intendo il numero del 5 maggio del “manifesto”, ne ha fatto una più raggelante del solito. Come del sistematico sostegno alle buone ragioni dell’occupazione Usa-Nato dell’Afghanistan, della trasformazione di un regime change amerikano in rivoluzione democratica (ultima quella in Armenia del mercenario Cia Pashinyan), della santificazione di curdi venduti a Usa, Israele e Sauditi, della balla Regeni, della bufala Russiagate, dello sfegatato sostegno alla killer Hillary come ai nani di giardino LeU, dell’avallo a ogni False Flag che passi per la mente a Mossad, Cia, MI6 e altre conventicole della buona morte di massa, della vilificazione in dittatori di chiunque vada col suo popolo in direzione ostinata e contraria all’Uccidente, dello scudo finto buonista e vero malista con cui copre i facilitatori Ong, in mare e in terra, della spoliazione del Sud del mondo…
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Patologie del lavoro
di Rahel Jaeggi
Il saggio[1] si propone di considerare ciò che io definisco «patologie del lavoro» nel contesto di una ricostruzione storico-normativa del significato di lavoro quale cooperazione sociale. Coll’adottare questo approccio analitico, io mi propongo due scopi. Considerare da un lato gli sviluppi sociali aberranti del lavoro, al fine di chiarire, attraverso l’analisi di fenomeni negativi, il contenuto positivo del termine e del senso del lavoro nelle società moderne. Dall’altro riunire, sotto un unico tema, una serie di problemi diversi. Tali problemi comprendono l’esistenza permanente di sfruttamento e alienazione, la precarietà del lavoro, la disoccupazione strutturale a lungo termine, la minaccia posta alle condizioni di lavoro contemporanee da quella che si potrebbe chiamare la sottrazione di dignità (the «de-dignifying») al lavoro (per invertire una espressione usata da Robert Castel).
Il titolo di questo mio saggio, Patologie del lavoro, intende appunto indicare e stabilire una connessione tra questi diversi problemi, concependoli come diverse tipologie di deficit all’interno di una forma (mediata-dal-lavoro) di cooperazione sociale. Prendendo a prestito una frase di Hegel, possiamo dire che il lavoro equivale a condividere, partecipare o prender parte alle risorse generali della società. Il termine risorse è qui usato per indicare ciò che una determinata società ha raggiunto, e che sarà capace ulteriormente di sviluppare, in termini sia di ricchezza che di competenze. Il lavoro consente cioè ad ognuno di condividere le risorse della società, non semplicemente nel senso di essere un mezzo per acquisire ricchezza o entrare nella sfera delle relazioni intersoggettive, ma anche perchè consente di condividere il sapere nel suo evolversi e il know-how di una società.
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Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey
di John Smith
Quando David Harvey afferma “Lo storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli, ad esempio, è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”, i suoi lettori supporranno ragionevolmente che egli si riferisca ad un tratto caratteristico dell’imperialismo, vale a dire il saccheggio del lavoro vivo, nonché delle ricchezze naturali, nelle colonie e semicolonie da parte delle potenze capitaliste in ascesa in Nord America ed Europa. In effetti, egli non lascia dubbi in merito, dato che fa precedere a queste parole il riferimento alle “vecchie categorie dell’imperialismo”. Ma qui incontriamo il primo di tanti offuscamenti. Per oltre due secoli, l’Europa ed il Nord America imperialisti hanno drenato anche ricchezze dall’America Latina e dall’Africa, così come da tutte le parti dell’Asia… eccetto il Giappone, il quale a sua volta è emerso come potenza imperialista durante il XIX secolo. “Oriente-Occidente”, dunque, costituisce un sostituto imperfetto per “Nord-Sud”, ed è per questo che ho osato adeguare i punti della bussola di Harvey, attirandomi una risposta petulante.
Come David Harvey ben sa, tutte le parti coinvolte nel dibattito su imperialismo, modernizzazione e sviluppo capitalistico riconoscono una divisione primaria tra paesi definiti, variamente, come “sviluppati e in via di sviluppo”, “imperialisti e oppressi”, “del centro e della periferia”, ecc., persino laddove non vi è accordo su come tale divisione si stia evolvendo. Inoltre, i criteri per determinare l’appartenenza a questi gruppi di paesi possono validamente includere politica, economia, storia, cultura e molto altro, ma non la collocazione geografica – “Nord-Sud” non essendo altro che una scorciatoia descrittiva per altri criteri, come indicato dal fatto, generalmente riconosciuto, che il “Nord” comprende Australia e Nuova Zelanda.
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Marx, finalmente
Francesco Raparelli intervista Paolo Virno
Festeggiamo i duecento anni di Marx con uno speciale che raccoglie materiali inediti e stralci della nuova edizione de “Il Manifesto comunista” (per i titoli di Ponte alle Grazie, a cura del collettivo C17). Come ci ha insegnato Machiavelli, d’altronde, nella crisi permanente l’unico modo per rinnovarsi è il “ritorno ai principi”, o, per dirla con Lenin: “ripetere l’origine”. Cominciamo con un’intervista a Paolo Virno che chiarisce l’attualità del rivoluzionario tedesco e del suo pensiero
«È giunta l’ora della piena leggibilità di Marx». Paolo Virno, tra i più originali filosofi materialisti del nostro tempo, usa Walter Benjamin per affermare l’attualità del Moro di Treviri. A duecento anni esatti dalla sua nascita, si torna a parlare di Marx, del Manifesto scritto con Engels per conto della Lega dei comunisti, della sua insuperabile diagnosi del capitalismo. La sua critica dell’economia politica ha costituito, come noto, il riferimento teorico decisivo del movimento operaio e delle sue lotte, inondando il Novecento quasi tutto a partire dalla rivoluzione del 1917. Marx – e questo lo racconta bene anche il film di Raoul Peck (Il giovane Marx) – fu innanzi tutto filosofo. Materialista. Del rapporto tra Marx e la filosofia si sono occupati a più riprese i marxisti eterodossi degli anni Venti, Lukács e Korsch tra tutti. Poi Marcuse e i francofortesi, insistendo sulla scoperta dei Manoscritti del 1844. Quindi, nell’immediato dopo guerra, Sartre e Merleau-Ponty in Francia; Della Volpe in Italia. Negli anni Sessanta, si è imposta la «cesura» strutturalista di Althusser e dei suoi allievi, mentre in Italia Marx è diventato un’arma teorica e politica decisiva per l’operaismo e le lotte autonome dell’operaio «massa» prima, di quello «sociale» a seguire (nei tardi Settanta). E oggi? Cosa ne è di Marx nel mondo dominato dalle multinazionali e dalla finanza? Cosa, quando il capitalismo comanda e sfrutta la forza-lavoro tramite gli algoritmi? «Proprio nella nostra epoca», chiarisce Virno, «Marx è finalmente leggibile oltre il marxismo».
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Sono passati duecento anni dalla sua nascita e il modo di produzione capitalistico non ha smesso di dominare il mondo. Semmai, dopo il Novecento e con la crisi dell’ultimo decennio, il capitalismo ha rafforzato ovunque il suo potere. Ma molte sono state la trasformazioni, imposte dalle lotte come dalle discontinuità tecnologiche. Nella scena della Gig Economy e della finanza, il pensiero di Marx è ancora attuale?
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Il mondo deve cambiare
Storia e rivoluzione in Eric J. Hobsbawm
di Gabriele Vissio
Il lavoro storiografico di Eric J. Hobsbawm rappresenta ancora oggi un punto di riferimento obbligato per lo storico dell’età contemporanea e, più in generale, per chiunque sia interessato a comprendere le grandi trasformazioni della contemporaneità tra Otto e Novecento. Se è vero che le sue opere appaiono ormai datate, la sua periodizzazione dell’età contemporanea, suddivisa in un Lungo Ottocento e in un ‘breve’ Novecento,2 mantiene un indiscutibile fascino e costituisce, nonostante tutto, uno straordinario affresco della storia degli ultimi due secoli.
Proprio a partire da questa periodizzazione possiamo rilevare l’importanza che Hobsbawm attribuisce agli eventi rivoluzionari, che segnano e organizzano l’intero movimento della storia contemporanea. È la duplice rivoluzione industriale e politica che segna l’inizio dell’Ottocento borghese; è la rivoluzione del 1848, con il proprio fallimento, a marcare l’inizio del trionfo della borghesia che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo, e che darà forma a quel sistema-mondo imperiale che condurrà alla Guerra del 1914 e alla rivoluzione del 1917, dando così avvio al nuovo secolo. E in particolare il Novecento sarà il «secolo delle rivoluzioni», non solo perché le donne e gli uomini di quel periodo assistettero al maggior numero di eventi rivoluzionari di quanto non fosse mai accaduto prima, ma anche perché la storia del Secolo breve coincide di fatto con la storia dell’Unione Sovietica, lo stato nato dalla rivoluzione.
Sarebbe riduttivo credere che la rivoluzione costituisca per Hobsbawm l’elemento chiave nella periodizzazione della storia contemporanea solo in ragione di una comodità storiografica o di una fortuita coincidenza di date.
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