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alternative

Quel che resta del giorno

di Alfonso Gianni

copertina 3La debacle elettorale della sinistra richiede un’analisi di fondo delle sue cause. Queste non risiedono solo negli ultimi mesi, ma hanno radici lontane. Affondano nella incapacità di fronteggiare in tutti i suoi aspetti l’offensiva neoliberista che ha cambiato il mondo. E ha cambiato l’antropologia e il modo di pensare. L’individualismo competitivo è penetrato nel profondo. La risposta non può essere solo sulla difensiva o puntiforme, ma deve avanzare un’idea di società e di modelli di vita alternativi. La sinistra radicale non ha saputo contrastare la sfida populista. E’ passata da una elezione all’altra non solo perdendo voti, ma cambiando ogni volta la loro composizione. Dimostrando una incapacità a trasformarli in partecipazione attiva e costante. Nello stesso tempo gli insediamenti sociali, quand’anche ci sono, non garantiscono nei tempi brevi i ritorni di voto attesi. Del resto il voto stesso cambia di senso nella postdemocrazia del maggioritario. Eppure le nuove figure del precariato creato dal capitalismo delle piattaforme indicano un campo di iniziativa da cui ripartire.

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Le elezioni del nostro scontento si sono inevitabilmente trasformate in quelle del nostro sconforto. Tale è lo stato d’animo generale – salvo qualche euforia di facciata del tutto fuor di luogo – che affligge la sinistra nel nostro paese. Ciò che ne resta, se resta. Una sinistra che non ha saputo acchiappare al volo una occasione probabilmente storica, certamente non da poco, rappresentata dalla sconfitta verticale del Pd. Una perdita di consensi e di credibilità, che la stessa sinistra - in questo caso anche quella interna al Pd che avrebbe poi dato vita alla scissione di Articolo1- Movimento Democratico e Progressista (Mdp) - aveva contribuito in maniera assolutamente determinante a fare maturare con l’esito del voto referendario del 4 dicembre del 2016.

Ovviamente quel risultato non poteva certo essere capitalizzato esclusivamente né in modo diretto dalla sinistra che si era battuta contro la deforma costituzionale Renzi – Boschi. In primo luogo perché tutti sapevano fin dall’inizio che in quel voto avrebbe pesato la forza elettorale delle destre, momentaneamente costrette dalla logica della contrapposizione politica a votare un merito che le vede non solo estranee, ma ad esso contrapposte. Per un attimo il testo costituzionale, il suo significato, le sue implicazioni avevano fatto egemonia anche nei confronti dei suoi più accaniti avversari. La scelta delle destre fu quindi puramente strumentale, su questo nessun dubbio, ma vale la pena di ricordare ancora una volta l’abissale divergenza fra questa e l’oggetto del voto.

In secondo luogo, anche qui in ragione della materia, non era possibile, anche se da qualche parte l’ipotesi è stata avanzata, pensare di costruire uno schieramento elettorale tenuto insieme dal voto referendario in favore del mantenimento del testo costituzionale. La Carta fondamentale dello Stato non poteva e non doveva in alcun modo diventare programma politico di uno schieramento, per quanto composito, pur sempre di parte e così trasformata in bandiera di campagna elettorale proprio “per la contraddizion che nol consente”. Chi aveva difeso la Costituzione con maggiore determinazione e coerenza al massimo avrebbe potuto aspettarsi un vantaggio indiretto consistente in una credibilità conquistata sul campo, una volta tanto in modo nettamente vincente, ma che richiedeva ben altri passaggi politici e pratici per potere divenire una sorta di tesoretto elettorale su cui fare conto. Del resto, e lo vedremo più oltre, le lotte, sia che si muovano su argomenti democratico-istituzionali, sia che si sviluppino su tematiche economico-sociali, presumibilmente molto più vicine delle prime alla vita quotidiana delle persone e quindi più facilmente valutabili, di per sé non creano consensi politico-elettorali. Più spesso illusioni, di cui sarebbe bene liberarsi una volta per tutte.

 

Il disastroso esito elettorale di LeU e Pap

Da quel giorno al 4 marzo di quest’anno corrono esattamente 15 mesi. Un tempo non breve per la politica anche se insignificante per la storia. Ed è in questa parentesi temporale che è andato in scena il dramma di una sinistra non solo incapace di unirsi a fronte di una scadenza ben nota e fisiologica, ma di raccogliere, tra le sue parti pur divise, consensi elettorali attesi e che persino fino all’ultimo le venivano attribuiti in misura nettamente superiore a quella poi realizzatasi. Il risultato di Liberi e Uguali è stato il più sorprendente in negativo, dal momento che più elevate erano le attese e le pretese. Lasciamo pure da parte le esagerazioni di alcuni, che non mancano mai, che vagheggiavano risultati a doppia cifra. Ma certamente quasi tutti facevano i conti con un esito oscillante attorno al 6%, già di per sé non travolgente, ma in qualche modo al di sopra di un risultato di pura testimonianza. Invece si è rischiato di non raggiungere neppure il quorum. LeU ha raccolto 1.113.969 voti, solo 24mila in più rispetto a quelli di Sinistra e Libertà del 2013, solo 10mila in più di quelli che L’Altra Europa con Tsipras raccolse alle elezioni europee del 2014. Persino meno dei voti ottenuti (alla Camera) dalla lista Arcobaleno nelle elezioni del 2008, che non bastarono a scavallare la soglia di sbarramento allora fissata al 4%.

Se guardiamo a Potere al Popolo il quadro non migliora. I suoi promotori, dopo una campagna elettorale difficile e certamente generosa, hanno cercato di nascondere o addirittura capovolgere di senso una evidente sconfitta puntando sulla novità del soggetto e sul fatto che il suo obiettivo fosse quello di dare vita a un processo aggregativo di forze di più lungo periodo, al di là della scadenza elettorale. Entrambe le argomentazioni sono assai fragili e assai poco convincenti. Da un lato Potere al Popolo nasceva sì sulla spinta di un centro sociale, cosa indubbiamente anomala nel quadro elettorale italiano, capace anche di attirare simpatie sincere, ma comunque si poggiava su forze, per quanto piccole, da diverso tempo sulla scena politica, come Il Partito della Rifondazione comunista. Dall’altro lato pensare di fondare un processo costituente di un nuovo soggetto politico prima in campagna elettorale, poi sulla base di un esito così negativo è quantomeno stravagante, per dirla in modo gentile. Infatti il suo risultato, misurato in termini di voti reali e non in percentuale, come in realtà sarebbe più corretto fare sempre con tutte le liste, è stato pari a meno della metà di quanto prese la cd lista Ingroia – non è un caso che è persino difficile ricordarne il nome esatto con cui si presentò agli elettori – da tutti considerata, tranne che dal suo leader, forse l’esperienza più infelice e tristanzuola delle prove elettorali della sinistra alla sinistra del Pd. Quest’ultima nel 2013 aveva raccolto 765.189 voti, mentre quelli di Pap sono stati pari a 372.022. Se si sommano le cifre elettorali di LeU e di Pap, con una operazione puramente aritmetica e senza controprova politica, si ottiene ugualmente un risultato sconfortante: 1.485.991 voti che mettono soprattutto in luce quanto modesto sia stato l’apporto elettorale della scissione operata dal Mdp. Infatti se si scorporano i voti de L’altra Europa con Tsipras, la più recente esperienza di una sinistra unita che si è presentata alle elezioni, in quel caso europee, si ottiene un risultato pari a circa 382mila voti, pari solo al 4,4% dei voti raccolti dal Pd bersaniano nel 2013. La scissione è stato un fatto politicamente significativo più per sottolineare la crisi profonda del Pd che non per costituire un punto alternativo di aggregazione e neppure garantire una apprezzabile affermazione elettorale. Il “popolo della sinistra” non ha seguito i suoi vecchi dirigenti. Ha preferito gettarsi in braccio al M5stelle o rivolgersi verso l’astensione, che pur risultando meno dilagante di quello che veniva previsto – drenata dalla capacità attrattiva del M5Stelle – è pur sempre aumentata rispetto alle precedenti analoghe prove elettorali. Impossibile, per quanto impietoso, non confrontare questi voti con quelli ottenuti dal Partito della rifondazione comunista nel 2006 (2.229.464) che sommati a quelli del Pdci di Armando Cossutta raggiungevano la cifra di 3.113.591. In poco più di dieci anni oltre 1milione e seicentomila elettori ha abbandonato le forze della sinistra di alternativa proprio mentre veniva a compimento la crisi profonda, corredata di diaspore e scissioni, di chi pretendeva addirittura di presentarsi come partito della nazione, e comunque come un partito avente l’ambizione di occupare il mitico centro con marcata vocazione a guardare verso la propria destra.

 

La necessità di un’analisi severa della sconfitta

Vale la pena, quindi, di interrogarsi seriamente e duramente sulle cause di un risultato così negativo. E’ precisamente quello che non si sta facendo nei gruppi dirigenti dei due tronconi maggiori con i quali la sinistra si è presentata divisa il 4 marzo. O almeno in modo assolutamente non sufficiente. Ed è questa la cosa più grave. Carlo Galli, filosofo politico ed ex deputato Pd, ha scritto nel suo blog Ragioni politiche parole di fuoco che non possono non essere condivise. Casomai appaiono tardive, dal momento che lo stato di crisi della sinistra che Galli rileva in tutta la sua profondità e probabile irrimediabilità non è certo frutto dell’ultimo momento: “La crisi della sinistra è reale – egli scrive – E’ probabilmente terminale … L’Italia ha detto di no a tutte le sinistre possibili. A quella irriconoscibile, il Pd, centrista, ambigua, forte solo della propria arroganza … A quella di LeU, fin troppo riconoscibile, la vecchia Ditta di chi non ha visto, se non post festum, le contraddizioni ed i problemi del modello sociale ed economico che sponsorizzava e implementava, di chi ha dato l’allarme … quando le mucche erano già nel corridoio. A quella sconosciuta di Pap, carica di un passato dogmatico che non si sa bene come conviva con il presente mutualistico.”

Mario Dogliani, dal canto suo, parla di un passaggio dalla sconfitta all’afasia e rispolvera una citazione di Lenin ( Estremismo malattia infantile del comunismo, pag. 10, vol. VI Editori Riuniti, Roma e Edizioni Progress, Mosca, 1975), che merita di essere a nostra volta riportata in modo più ampio. Il massimo dirigente bolscevico così descriveva il clima e lo stato dei partiti rivoluzionari dopo il 1905, durante gli anni tra il 1907 e il 1910 caratterizzati dalla feroce reazione zarista: “Tutti i partiti rivoluzionari e di opposizione sono battuti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissioni, decomposizione, tradimento, pornografia invece di politica … Ma al tempo stesso proprio la grande sconfitta è per i partiti rivoluzionari … una lezione che fa loro capire e apprendere l’arte di condurre la lotta politica. Gli amici si conoscono nella sventura”. (Mario Dogliani “Dalla sconfitta all’afasia, il tempo di Leu sta per scadere”, il manifesto, 12 aprile 2018). Al di là delle note asperità del polemico linguaggio leniniano, che peraltro si riferiva a situazioni e momenti ben più tragici, si intravedono tratti comuni con la situazione che abbiamo davanti agli occhi, tranne, purtroppo, per la parte sul carattere maieutico della disfatta. Ma per evitare almeno la “metafisica della sconfitta”, come dicono Michele Prospero (“La maschera populista non salverà la sinistra” il manifesto, 1 aprile 2018) e lo stesso Dogliani, bisogna in prima istanza tentare un’analisi di quanto è avvenuto sia prima che in quei 15 mesi tra il trionfo del No referendario e il tonfo elettorale della sinistra.

 

L’analogia con la lista Arcobaleno è fuorviante

Va evitata in primo luogo una facile scappatoia. Quella di attribuire il flop al richiamo del voto utile per arginare la prevedibile avanzata delle destre da un lato e del M5Stelle dall’altro. Che nelle sue intenzioni la legge elettorale fosse stata costruita contemplando implicitamente anche questo meccanismo, non c’è dubbio. L’introduzione delle coalizioni senza obbligo di omogeneità programmatica lo sta ad indicare. Ma nel nostro caso è fin troppo evidente che non è a un simile ricatto che si possono attribuire determinanti responsabilità, visto il miserrimo risultato del Pd. Nello stesso tempo attribuire al voto utile la capacità di attrattiva del M5Stelle, assolutamente trascinante specialmente in certe larghe zone del paese, significherebbe perderne le ragioni e sottovalutarla. Non siamo quindi di fronte, come accadde per la infelice lista Arcobaleno nelle elezioni politiche anticipate del 2008, a quella suggestione di massa, innestata allora dal “possiamo farcela” (a battere Berlusconi) ribadito ossessivamente da Walter Veltroni fino a pochi istanti prima del voto, che decimò le fila dei potenziali votanti a sinistra per riportarli nell’ambito del neonato Partito democratico, peraltro fallendo l’obiettivo di battere le destre. Vale la pena ricordarlo perché il fantasma della lista Arcobaleno è stato più volte chiamato in causa a sproposito, nei mesi precedenti il 4 marzo, per esorcizzare l’ipotesi di una lista unitaria. In questo modo veniva individuato nel carattere raccogliticcio della lista Arcobaleno la causa assolutamente determinate di un esito così disastroso. Non vi è dubbio che quella coalizione presentò da subito caratteri deboli. Formata dal Partito della Rifondazione comunista, da quello dei comunisti italiani, dalla Federazione dei Verdi e da Sinistra Democratica, frutto quest’ultima della scissione dai Democratici di sinistra che diventavano Partito democratico (perdendo anche il termine di sinistra oltre che la sostanza), la lista Arcobaleno si presentava effettivamente come un accrocchio improvvisato, con un programma fragile per non dire inesistente e con scarsa coesione al suo interno. Malgrado tutto questo avrebbe forse potuto valicare il quorum, se oltre al potente meccanismo del voto utile già ricordato non avesse dovuto portare sulle spalle l’esperienza giudicata prevalentemente negativa della partecipazione al precedente governo Prodi da parte di tutti i componenti la coalizione, e non solo di una parte come nel caso più recente.

 

Le ragioni di fondo della debacle

Le ragioni della debacle del 4 marzo vanno dunque ricercate altrove. Riguardano sia processi di fondo - sarei tentato di dire di lunga durata se la metafora braudeliana non apparisse spropositata - sia scelte rivelatesi troppo fragili e dunque perdenti degli ultimi mesi. Bisognerebbe, cioè, “approfittare” della dura sconfitta per comprenderla veramente in tutti i suoi aspetti. Evitando, nel contempo, di essere risucchiati, per di più costretti in una condizione pateticamente ininfluente, in una diatriba sulla possibilità o meno che si giunga ad un governo, quale e in che tempi, o se invece si sia costretti a ritornare a breve nuovamente al voto. Certamente l’approfondimento più interessante da condurre è quello che riguarda le cause di lungo periodo dell’attuale devastazione della sinistra. Su questo versante qualcosa si sta muovendo. Ad esempio appare di grande interesse la riflessione iniziata in un seminario del Centro Riforma dello Stato, aperto da una relazione di Ida Dominijanni, tenutosi lo scorso 28 marzo a Roma (la cui registrazione integrale è reperibile nel sito del Crs).

Le radici della sconfitta, e purtroppo in questo caso l’aggettivo storica ci sta bene, vanno cercate nella sua incapacità di fornire una risposta a tutto tondo all’offensiva del neoliberismo. Non mi riferisco qui soltanto alla mancata lettura nei tempi dovuti e utili della Grande recessione - nella quale con alti, che non riguardano l’Europa e il nostro paese, e bassi siamo tutt’ora immersi – e che ha segnato anche la crisi di credibilità del neoliberismo. Cioè al fatto, come ebbe a dire con una efficace metafora Rossana Rossanda, che la sinistra venne abbacinata dalla crisi come un gatto dai fari di un camion atteso di cui dunque si sapeva perfettamente il percorso. No, non solo questo, anche se è già moltissimo. Il problema è che la sinistra non ha colto l’elemento di fondo della nuova antropologia fondata sull’individualismo competitivo, che costituisce il nuovo paradigma e la nuova colonna dell’immaginario collettivo su cui si fonda l’egemonia culturale e, se posso così dire, psicologica-emozionale del neoliberismo. Questo individualismo è stato visto, quando lo si è voluto vedere e comunque sempre troppo tardi rispetto alla impetuosità dei processi reali, nella frammentazione del lavoro e del mercato del lavoro, nella distruzione del diritto del lavoro ridotto a branchia del diritto commerciale. Lo si è visto e denunciato nella privatizzazione degli istituti dello stato sociale come nella caduta delle tensioni solidaristiche. E in altri campi ancora. Certamente. Ma sempre come un attacco a questa o a quella conquista, solidificata in norme, regole e istituzioni che venivano abbattute. Di questi colpi di maglio di volta in volta si denunciava la crescente spavalderia e l’aggressività, in un atteggiamento di indignata difensiva. Senza però tirarne compiutamente le fila. Senza però vedere e quindi destrutturare la potenza della “narrazione” dell’avversario. E qui la separazione della politica dalla cultura, con la conseguente miopia della prima e il rifugio nell’accademismo della seconda, ha scavato come la mitica talpa, ma in direzione ostinata e contraria. Senza vedere come mutavano nel profondo modi di essere e di pensare in particolare delle nuove generazioni, comunque socialmente collocate, nate e cresciute sotto quella egemonia. Senza riuscire a fornire una idea, per quanto abbozzata, di società diversa. L’alternativa è stata solo predicata, oppure circoscritta e risolta nelle pur necessarie diverse scelte del momento. Si è confuso così la proposta di alternativa con quella di opposizione. Indispensabile la seconda, ma non sufficiente a reggere uno scontro che coinvolge la stessa concezione della vita individuale e sociale. Nessun tentativo reale è stato fatto su questo terreno.

La caduta del socialismo sovietico che avrebbe dovuto essere un’occasione straordinaria per chi se ne era fatto critico da lungo tempo, anziché diventare occasione per far tesoro delle “dure lezioni della storia” e confrontarsi seppure problematicamente su una nuova idea di società, ha inchiodato il pensiero sul presente. Il 1989, l’anno della reale e ancor più simbolica caduta del muro di Berlino, c’è stato per tutti, in Europa e nel mondo. Ovunque la sinistra, sia quella di ispirazione comunista che socialdemocratica ne ha subito pesanti contraccolpi. Ma da nessuna parte come in Italia. Dove, paradossalmente, esisteva il più grande Partito comunista dell’Occidente. Non è solo una dannazione della legge del contrappasso inverata. Non si tratta solo del fatto che già prima, con maggiore intensità nella terribile seconda parte degli anni ottanta, era cominciata l’assuefazione dei gruppi dirigenti della sinistra maggiore al pensiero mainstream . E’ che dopo l’89 in Italia viene il ’92, ovvero la crisi radicale del sistema politico che aveva fin lì retto il paese. Qualcosa che si ripete in altra forma oggi. La Bolognina avviene dentro questa crisi e quella del suo partito maggiore, la Dc. Simul stabunt ac simul cadent. E a riprova di ciò, i cocci dell’uno si fonderanno con quelli dell’altro, fino al Pd renziano, seppure imperfettamente tanto che vi è chi oggi propone una nuova separazione nell’illusione di salvarsi.

 

La sfida populista

E’ lungo il crinale tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta che il sistema politico viene terremotato da un nuovo protagonista dalle prismatiche caratteristiche. Il populismo, termine di per sé abusato e itinerante, ma che nello specifico si materializza in due soggetti. Completamente nuovo il primo, che non a caso parte dal basso, la Lega, atto di nascita 1989. Caratterizzato ai suoi inizi non dalla contrapposizione alto/basso, ma da quella nord/sud che poi si viene modificando con la gestione Salvini. Composto di materiale riciclato il secondo, che nasce dall’alto, Forza Italia, con un nuovo leader che incarna una borghesia a-democratica che vuole rappresentarsi da se stessa, direttamente occupando le istituzioni, senza più intermediazioni tra sé e il popolo. Tranne quella dei mass-media passivizzanti, come la televisione. La sinistra politica radicale, con la nascita di Rifondazione comunista si ritaglia uno spazio di attiva resistenza, ma non riuscirà a contrastare veramente l’allargarsi del campo populista. Tenterà di farlo, e sono i suoi momenti migliori, puntando sui giovani, innovando idee e linguaggio praticando una originale internità ai movimenti altermondialisti e per la pace. Genova ne rappresenta l’esempio più fulgido e drammatico. Ottenendo così anche un incremento nei consensi elettorali (360mila voti in più tra il 2006 e il 2001). Patendo però anche gli effetti della inevitabile fase di stanca, se non di riflusso dei movimenti stessi. L’occasione si presenta ancora con l’abbandono definitivo di ogni parvenza di sinistra da parte dei Ds e con la costituzione del Partito democratico. Ma a quel punto la strada se non del tutto sbarrata è più difficilmente praticabile. Da un lato pesano l’indecisione, la mancanza di coraggio, l’attaccamento alla propria creatura politica, anche se a volte piccola e asfittica, da parte dei gruppi dirigenti della sinistra alla sinistra del Pd. Ma soprattutto il campo viene progressivamente ma rapidamente occupato da quello che sarà il nuovo campione del populismo italiano, il Movimento 5Stelle, i cui prodromi sono già nel gruppo degli Amici di Grillo, attivi fin dal 2005.

Sono sostanzialmente loro a fruire, lungo il tempo e particolarmente nella più recente tronata elettorale, della emorragia di consensi e voti del Pd. Li aiuta proprio il dichiararsi né di destra né di sinistra, che si riverbera oggi nella impropria riesumazione della andreottiana “teoria dei due forni” applicata alla ricerca di una maggioranza di governo. Sia nel senso che possono attingere da bacini elettorali opposti, come avviene in particolare nel Mezzogiorno e anche più su lungo lo Stivale, come mostrano le cartine colorate di giallo che imperversano su giornali e web. Sia, e soprattutto, nella capacità di farsi percepire come estranei a un sistema politico tradizionalmente suddiviso in una destra, una sinistra e un centro ed anche alle forme classiche del bipolarismo, perfetto o imperfetto che sia. Tanto la Lega, quanto il M5stelle, partiti populisti “dal basso”, usciti vincenti nei confronti dei populisti “dall’alto”, Berlusconi e Renzi, non sono affatto forze antisistemiche come la stampa nostrana e persino internazionale ha teso ad avvalorare, ma al massimo forze anti establishment, che cioè non aggrediscono il sistema economico e sociale, ma gli assetti e le modalità di funzionamento politici e istituzionali dati. Il che comporta anche una riduzione della complessità del loro messaggio politico più facilmente incanalabile verso un senso comune impoverito e individualizzato. Cosa da non sottovalutare per spiegare almeno per una parte le ragioni del loro successo. Il che li rende meno lontani di quanto appaia, quando si arriva al dunque del programma economico.

Persino ciò che dovrebbe sembrare, oltre che essere (l’inversione di precedenza dei due termini non è casuale) del tutto opposto, può essere oggetto, e lo è in effetti, di tentativi contorsionistici di composizione, come la flat tax e il reddito di cittadinanza (che peraltro altro non è che un reddito di inclusione seppure allargato a un campo ben più vasto di fruitori). D’altro canto, a guardare bene, non potrebbe essere che così. Perché la mediazione non passa più per un centro che ha smesso di esistere sia dal punto di vista politico che sociale. La prolungata crisi ha sospinto verso il basso buona parte del ceto medio, come ci documenta il Censis nel suo ultimo rapporto, già ricordato nello scorso fascicolo di questa stessa rivista ( 51° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2017 , Franco Angeli editore, Milano 2017). Eppure la percezione piena di questi cambiamenti è avvenuta più recentemente. Il che spiega l’accelerazione dello sfarinamento del sistema politico. Secondo le indagini dell’Osservatorio di Demos-coop, ancora nel 2011 circa la metà della popolazione si sentiva e si collocava in un rassicurante “ceto medio”. Ora è solo il 40% che la pensa così, mentre il 54% degli italiani si sente parte di una classe sociale “bassa o medio-bassa”, ben “12 punti in più rispetto al 2011”. (Ilvo Diamanti “Questo paese spaesato”, la Repubblica , 16 aprile 2018). Il paese di “Centronia”, per dirla con Giuseppe De Rita, non esiste più, da nessun punto di vista geo-socio-politico. Quindi non c’è da stupirsi più di tanto se l’alternativa allo scontro politico non è una paziente e sapiente mediazione, un lavoro di lima su progetti e programmi, ma diventa una sorta di giustapposizione e di rimbalzo dall’una all’altra parte delle proposte. Il cd programma alla tedesca di cui ha parlato Di Maio non è affatto pensato come l’esito di una lunga trattativa tra le parti, ma il compito affidato a un professore di vagliare i programmi esistenti e di inserire ciò che è meno incompatibile in una sorta di collage o patchwork che dir si voglia. Naturalmente lungo questo cammino le promesse di democrazia diretta si perdono per strada. Così può accadere, per facilitare il compito, che le proposte originarie, frutto di una tanto sbandierata consultazione on-line, vengano addolcite o del tutto modificate per renderle più compatibili con l’interlocutore del momento. Al posto del nuovo e dell’innovazione fa capolino, con la modernità delle nuove tecnologie, l’antico trasformismo che inacidisce ulteriormente la crisi della politica.

 

La difficoltà di trasformare il voto in partecipazione politica

Partendo da queste premesse era impossibile risollevare le sorti della sinistra in soli 15 mesi. Tanto più che le cifre sopra riportate sulla diminuzione dei voti della sinistra nelle varie scadenze elettorali degli ultimi anni non ci dicono ancora tutto. Se si scava più a fondo, e qui ci aiutano i primi studi sui flussi elettorali, si vede che non solo Liberi e Uguali - almeno avessero scritto Libere e Uguali, ma neppure questa sensibilità si è fatta strada! – prende solo due decine di migliaia di voti in più rispetto a Sel del 2013, ma che almeno il 75% di questi elettori sono cambiati. Se ne è parlato in un seminario realizzato a Varese da LeU con il contributo dell’Istituto Cattaneo di Bologna, un infrequente esempio positivo che va segnalato (Claudio Mezzanzanica “Il 4 marzo il 75% degli elettori di Liberi e Uguali è cambiato”, il manifesto, 13 aprile 2018). Circa ottocentomila elettori hanno preferito il 4 marzo per un terzo votare Pd, più o meno per la stessa percentuale contrassegnare il simbolo dei 5 Stelle, per la parte restante privilegiare l’astensione, mentre in parte minima si è riversata su Potere al Popolo e qualcuno si è preso lo sfizio di votare Lega. Sel si è mostrata un colabrodo, il consenso che aveva non è stato capitalizzato, al contrario lo si è disperso. Le ragioni di una simile massiccia diaspora, meglio dire, viste le proporzioni, di un esodo che produce un effetto di svuotamento, sono ovviamente molteplici. Ma in sostanza sono riconducibili a due elementi che peraltro connotano la sinistra radicale nel suo complesso, a parte piccolissime condizioni di nicchia, insignificanti dal punto di vista politico e sociale, e ovviamente elettorale. Il reinsediamento sociale non è riuscito, se mai è stato tentato. Si è fermato alla giaculatoria del radicamento, senza dare luogo a veri consolidamenti o penetrazioni in strati e settori sociali sociali formatisi nelle strette e nelle curve della crisi economica. Così si spiega perché l’erosione dell’astensione è nulla: Gli elettori di LeU, ci dice quel seminario, non vengono dall’astensione, fanno parte dei già votanti, parti itineranti di un corpo elettorale già formato, che variano il loro voto da elezione a elezione, o di coloro che votano la prima volta. Non vengono dalle aree di sofferenza sociale e di marginalità, solo l’1,3% proviene dalla classe operaia, solo lo 0,6% da coloro che sono registrati come disoccupati. Non può consolare più di tanto il dato offerto dalla Fondazione Di Vittorio, grazie al lavoro di ricerca dell’istituto Tecné sui 5 milioni di iscritti alla Cgil, che registra un gradimento elettorale per LeU (di Pap non si sa, non essendo stato considerato) pari all’11%, perché è vero che è sensibilmente superiore, di quasi quattro volte, alla cifra percentuale complessiva – mentre nell’insieme degli altri sindacati confederali e di base è inferiore non superando il 2% - , ma allo stesso tempo delude molte attese che addirittura facevano ritenere la Cgil come un volano (non si può più usare il termine cinghia di trasmissione) di un’affermazione ben più consistente di LeU. Al contrario anche tra gli iscritti alla Cgil chi non è rimasto fedele al Pd (con qualche sorpresa il 35%) si è riversato sul M5S con una percentuale che pare la fotocopia di quella uscita dalle urne (33%).

Il secondo motivo della mancata fidelizzazione è l’incapacità di costruire, a partire dai gruppi dirigenti, strutture inclusive e accoglienti, in grado di esaltare la voglia di partecipazione, di discussione e di decisione dei militanti, capaci di dare continuità ad una scelta elettorale, spesso maturata sull’onda di un sincero entusiasmo andato poi gravemente deluso. Se si guarda con occhio smaliziato la vita reale della sinistra radicale degli ultimi anni si vede con facilità un ondeggiamento tra strutture chiuse e autoreferenziali e altre improvvisate e indeterminate che paiono più luoghi di incontro occasionali di figure strappate ad un romanzo di Joseph Roth. Nelle une la discussione è impossibile, nelle altre è inutile. La moltiplicazione delle scadenze elettorali nel nostro paese rendono ancora più friabile e occasionale il terreno su cui potere impostare un lavoro di più lungo e largo respiro. Eppure i dati sui voti raccolti da LeU tra gli studenti, l’8,1% e sul voto giovanile nel suo complesso, il 5,1%, pur non essendo affatto trascendentali mostrano una voglia di approccio e partecipazione alla politica attiva da parte delle giovani generazioni che è un delitto non soddisfare.

 

La difficoltà di trasformare in voti le lotte sociali

Ma oltre alla incapacità di tradurre in partecipazione politica costante i consensi elettorali si manifesta anche il processo inverso. Ovvero non vi è uno stringente rapporto causale, specialmente in tempi stretti, fra la capacità di organizzare lotte, suscitare momenti di organizzazione, insediarsi in ambienti popolari e il consenso elettorale che ne deriva. Paradossalmente, come ci dimostra uno studio della Luiss (citato in Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena “La sinistra (che fu), il M5S e il voto di classe”, in MicroMega on line , 14 marzo 2018) l’unico partito per cui si registrano rapporti significativi tra la classe sociale di riferimento e il voto è il Pd, ma nella direzione di un suo prevalente posizionamento tra le classi sociali agiate e con reddito più alto. Davvero non vi è da stupirsi, soprattutto per chi da tempo ha colto la mutazione genetica in atto in questo partito, peraltro portata a vanto e merito dal suo segretario. In un incontro con gli imprenditori, organizzato dalla Confindustria fiorentina, Renzi a dieci giorni dal voto dichiarava con orgoglio: “Nessun governo ha fatto quello che abbiamo fatto noi per rispondere non dico alle esigenze degli imprenditori ma quantomeno a quelle di Confindustria”. ( Ansa, 24 febbraio 2018).

Al contrario Potere al Popolo anche quando gioca in casa, cioè a Napoli, non supera l’1,1% del dato nazionale, mentre il M5S raggiunge il 52,4%. In alcuni punti della città va oltre, ma senza stupire. Nel municipio che ospita il centro sociale Ex Opg principale protagonista della lista, dove sono in atto interessanti pratiche mutualistiche a favore della cittadinanza, che coprono assenze croniche e vuoti lasciati da uno stato sociale in disarmo e bersagliato dai vincoli di bilancio del patto di stabilità interno, nonché dal debito pregresso, giustamente dichiarato ingiusto dal sindaco Luigi De Magistris, quindi in un terreno fertile e già lavorato bene e a fondo, la lista di Pap non va al di là del 3%. Il che dimostra che se non si incide nella realtà sociale non si può pretendere nulla dagli esiti elettorali, ma allo stesso tempo che non basta essere fortemente presenti nelle lotte e sul territorio per avere un risultato elettorale positivo. Quest’ultimo richiede una capacità di attrazione che va al di là dell’insediamento territoriale e implica una capacità di fornire una risposta, o almeno una speranza, sugli assetti complessivi della società e del suo sistema politico.

La lettura di questi dati apre in realtà una discussione ben più generale, che qui posso solo accennare. Ovvero il cambiamento di senso del voto in sistemi elettorali curvati al maggioritario. Più in generale ancora, cosa rappresenta il voto nell’epoca del postdemocrazia. Il tema ha ricadute immediate anche su quello che succederà nell’immediato futuro. Per fare solo un esempio, che mi pare però assai significativo, si discute quanto il voto meridionale al M5S sia legato alla promessa di un reddito di cittadinanza, che peraltro gli stessi grillini hanno fortemente ridimensionato nella sua portata, configurandolo come un reddito di inclusione più allargato nel numero di coloro che possono usufruirne, ma condizionato all’accettazione di offerte di lavoro. Vi è chi sostiene che comunque questa è stata la principale motivazione del successo del M5S al sud, così come la flat tax lo è stata per la Lega al nord. Altri invece propendono per considerare secondari, soprattutto nel caso dei 5 Stelle, questi elementi. Mentre assolutamente prevalente sarebbe il desiderio di mandare a casa le attuali elite politiche. Un paper dell’Istituto Cattaneo, comparso a pochi giorni dal voto, fa rilevare curiose somiglianze nella geografia del voto. Una di queste riguarda la “notevole coincidenza tra la distribuzione territoriale del voto ai 5 Stelle e quello alla Dc del 1992” quando quest’ultimo partito si era già fortemente meridionalizzato, avendo di fatto ceduto il nord alla Lega. Se si confrontano le cartine, che indicano la distribuzione territoriale del voto e la sua intensità, la sovrapposizione è impressionante, quasi perfetta. Significa che si può stabilire un parallelismo tra M5S e la vecchia Dc? Assolutamente no, data la diversità di storia e di condizioni. Ma forse una qualche somiglianza nell’attesa da parte dei cittadini implicita nel loro voto andrebbe indagata più a fondo. In sostanza non siamo di fronte al vecchio voto di scambio di lauriana memoria, il che sarebbe contradditorio con l’intenzione di cacciare i vecchi ceti dirigenti, ma probabilmente ad un voto deideologizzato e in un qualche modo strumentale e forse mobile, che comunque reclama una verifica concreta di coerenza di comportamenti dagli eletti in tempi brevi.

 

La nostra traversata del deserto

Pur con tutte queste premesse negative, pur essendo consapevoli almeno in buona parte delle stesse, era giusto o no operare per cercare di arginare la vastità e la profondità della sconfitta? Continuo a credere di sì. E forse, il dubbio è d’obbligo ed è forte, non sarebbe stato impossibile riuscirci seppure in parte. Il tentativo migliore, in verità dovrei dire l’unico, è stato il Brancaccio, con la proposta di una lista unitaria che esprimesse nelle scelte politiche - improponibilità di un centrosinistra già morto nella realtà oggettiva, e non solo nel nostro paese, come si è ben visto nella affollata tornata elettorale europea del 2017 - e nelle candidature una direzione di marcia innovativa e alternativa a tutto il quadro esistente. Come si vede un obiettivo limitato, per quanto già molto ambizioso. Il problema non era infatti dare vita ad un nuovo soggetto politico di sinistra. Al massimo operare scelte elettorali che non contraddicessero quell’obiettivo. Ma aprire un processo costituente dentro una campagna elettorale è cosa non solo ardua in generale, ma nel nostro caso fuori della portata di tutti per le ragioni fin qui dette. Infatti le pretese di spingere le intenzioni fino a quel livello sono diventate, al di là della buona e generosa fede di chi le avanzava, degli ostacoli concreti al raggiungimento di una lista unitaria. Un caso classico in cui il meglio è nemico del bene.

Ma non sarebbe giusto attribuire il fallimento del Brancaccio solo alla non volontà da parte dei vari gruppi dirigenti delle forze implicate nel processo di arrivare a una simile lista, al punto da postularne l’impossibilità. Bisogna anche riconoscere la fragilità intrinseca nel percorso del Brancaccio. Più di cento sono state le assemblee per tutto il paese, in preparazione di un appuntamento nazionale che all’ultimo momento è saltato, lasciando tutti sgomenti e incerti sul da farsi. Pensare che si potesse, sostanzialmente dentro un regime assembleare che si riproduceva sul territorio, giungere alla individuazione di un profilo programmatico e candidature coerenti con lo stesso, con l’innovazione del volto non solo politico, ma anche fisico della lista, si è rivelata un’illusione. Quel tipo di scelta venne fatta, comprensibilmente, ma poco realisticamente, anche sulla scorta del fallimento di un precedente tavolo che aveva visto riunirsi - sulla scia dell’affermazione modesta ma tale da invertire la lunga teoria delle sconfitte de L’altra Europa con Tsipras nelle europee del 2014 - varie forze della sinistra radicale, dalla citata Altra Europa a Rifondazione comunista, Sinistra Italiana, Possibile e singole figure certamente autorevoli che avevano abbandonato il Pd. Il compito di quel tavolo era porre le basi per l’apertura di un vero e proprio processo costituente per giungere alla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra. Le responsabilità di quei fallimenti sono ben distribuite, anche se in modo diseguale. Quello che mi pare chiaro è che nessun processo costituente, se lo si vuole fare, può avvenire senza che le forze che vi partecipano rinuncino in partenza a considerare inviolabile la loro specifica e separata sopravvivenza. Un processo costituente non tollera di essere predeterminato nel suo esito finale, pena la sua negazione. Nello stesso tempo non c’è bisogno di un processo costituente se il massimo obiettivo desiderato e previsto è solo un insieme di forze gelose della propria identità più o meno federate.

Il dibattito post voto non dice nulla di buono al riguardo. Almeno per ora. Addirittura ritornano vagheggiamenti di un ritorno ad un Pd derenzizzato; rinnovate nostalgie di un centrosinistra, cui per pudore si fa precedere l’aggettivo “nuovo”, uno dei termini più abusati quanto deprivati di significato; oppure si spinge per fare al più presto un partito, senza averne le minime basi, ma solo per tranquillizzare i gruppi dirigenti o partecipare alla spartizione del 2x1000 (!); o si pensa che partendo dall’uno per cento si possa fondare un processo rigeneratore. Non solo la sinistra radicale si è presentata divisa il 4 marzo, ma cova ulteriori frammentazioni. Intanto si profilano nuovi appuntamenti elettorali. Quello certo delle elezioni europee di fine maggio 2019, su cui la discussione appare molto arretrata e più incentrata su possibili schieramenti che non su analisi e programmi. Quello tutt’altro che impossibile di nuove anticipatissime elezioni politiche.

C’è un modo per cui una volta toccato il fondo, si eviti quantomeno di scavare? Gli appelli all’unità, lo si è visto, non servono a nulla tranne che a sortire l’effetto opposto. Bisogna muoversi in altre direzioni. Non solo approfondendo una discussione che quando c’è procede solo a strattoni, senza sedimentare acquisizioni comuni. Ma cogliendo nella società quanto di nuovo emerge sotto le macerie. Un solo esempio: mentre si tenevano riunioni poco decidenti e poco decisive dei gruppi dirigenti della sinistra radicale, si svolgeva un’assemblea nazionale in risposta alla assurda decisione del tribunale di Torino di considerare i riders , i moderni fattorini, lavoratori del tutto autonomi. Un’assemblea di riders, aperta al precariato, quello creato dal capitalismo delle piattaforme, con significative presenze internazionali dalla Francia e dal Belgio dove simili movimenti sono più sviluppati. Senza dimenticare la consistente presenza nel nostro paese di classe operaia – il che ce la renderebbe ostile - la creazione di un nuovo popolo della sinistra – senza cui non può esistere una sinistra politica - passa attraverso il protagonismo di queste nuove figure giovanili di un mondo del lavoro violentato dalla modernizzazione neoliberista e del movimento delle donne, protagonista dello sciopero globale dell’8 marzo. Ecco con chi attraversare il nostro deserto.

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Mario Galati
Wednesday, 16 May 2018 20:56
Non mi riferivo ad Eros Barone, che leggo sempre, ma ad Alfonso Gianni.
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maurizio enzo lazzer
Monday, 14 May 2018 14:03
Non ho capito Galati dice di non perdere il suo tempo con Eros e poi dedica la più attenta lettura del suo commento all^rticolo a cui si riferisce senza neanche leggerlo.Lapsus freudiano? Un altro elemento che mi frastorna .
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Mario Galati
Sunday, 13 May 2018 14:21
Eros Barone eroicamente legge ancora gli scritti di certi autori. Per quanto mi riguarda, appena vedo la firma non perdo più il mio tempo. È gente che conosco da tempo, dagli anni di rifondazione comunista. Perciò, il mio, più che un pregiudizio, è un giudizio acquisito e consolidato nel tempo. Un giudizio definitivo e tombale. Non serve neppure la polemica nei loro confronti, poiché non hanno un seguito tale da giustificare lo sforzo polemico e argomentativo. Si finirebbe per legittimarli e per farli sentire vivi.
Anche in questo caso, ho letto solo il commento di Barone, non l'articolo. Lo confesso.
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Eros Barone
Sunday, 13 May 2018 09:45
La coazione a ripetere, tipica dei comportamenti maniacali, è il tratto regressivo e involontariamente comico dell’asinistra opportunista e trasformista del nostro paese. In effetti, è difficile spiegare, ricorrendo a criteri razionali, la logica secondo cui si riproduce, tra l’altro in base allo stesso identico schema e con la stessa periodicità (ogni tre o quattro anni), la sedicente “sinistra italiana”. Ribadisco perciò la mia convinzione che, considerato il secco abbassamento dei livelli intellettuali e morali che caratterizza il mondo sempre più isterico, carnevalesco e stralunato dell’Occidente capitalistico, l’unica spiegazione valida sia la sindrome del cretino con alcuni lampi di imbecillità. Accade così che, a fronte della simbiosi tra un malessere sociale crescente e una mobilitazione reazionaria di massa, la necessità di dotarsi di una rappresentanza politica che dia voce ad un a forte opposizione trovi ancora una volta, come risposta falsa ed inconsistente, proposte denominate "costituenti", come quella qui esemplificata, che in realtà si identificano con un’accozzaglia ridicola ed eterogenea di ‘trombati’ e di tromboni, privi di qualsiasi credibilità perfino agli occhi del lavoratore più indulgente e più fidelizzato (se ancora ne esistono, del che è perfino lecito dubitare): un’accozzaglia protesa a garantirsi, ricorrendo agli stratagemmi più improbabili, una qualche forma di presenza istituzionale, come già è accaduto con la lista spettrale avente per emblema il motto “L’altra Europa per Tsipras”.
Come una zattera della Medusa che va alla deriva con una turba di naufraghi urlanti e disperati, la schiera dei rottamati, degli sconfitti e dei dispersi vorrebbe ripresentarsi ora sotto il manto pretenzioso di una qualche “sinistra italiana”: un manto che non si sa se definire più grottesco o più goffo. Attaccati a questa zattera che vaga nel mare tempestoso, si dibatte un’accolta di attivisti, la cui generosità è pari all’ottusità, incapaci, come sono, di im-parare alcunché dalle disastrose esperienze del passato, lontano o recente che sia. Come sempre, l’idea sbagliata è che il consenso sociale derivi dalla presenza nelle istituzioni, anziché l’esatto contrario. Sennonché per questo tipo di conati vi è ben poco spazio nel presente e nessuno spazio nel futuro. Le ciarlatanerie socialdemocratiche e il riformismo liberista sono stati liquidati dalla crisi economica mondiale e dalla gabbia di acciaio dell’Unione Europea (“fiscal compact”, ESM ecc.). La Costituzione è stata deformata e stravolta con l’introduzione del federalismo e dell’obbligo del pareggio di bilancio. Ribadisco infine che, dal canto suo, il potere è oggi in grado di crearsi le opposizioni utili alla propria perpetuazione. Ecco perché l’unica funzione cui può assolvere una rinnovata “sinistra italiana” è quella preventiva e ostruttiva: sbarrare la strada a movimenti di massa realmente radicali e a partiti realmente rivoluzionari in quanto anticapitalisti e antimperialisti.
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